di Mariano Tomatis (*)
Tra le pagine de Il regno Emmanuel Carrère rileva che in materia di fede «la neutralità non esiste. È come quando uno dice di essere apolitico: significa soltanto che è di destra.» (1) Il paradosso, già affrontato qui da Wu Ming 1, si ripresenta negli ambiti più insospettabili – perfino nella divulgazione scientifica. Con quale credibilità il giornalismo scientifico può definirsi neutrale? E più in generale, il lavoro del giornalista scientifico è compatibile con l’espressione di una chiara e argomentata posizione politica?
In Italia il dibattito sul punto è stato recentemente sollevato da Andrea Ferrero su Query N. 21 (2015), la rivista del Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze). Il suo articolo «Dai fantasmi agli OGM: affrontare la complessità» prende spunto da una trasformazione: nel 1989, quando il Cicap fu fondato da Piero Angela, l’acronimo si chiudeva con la parola «Paranormale»; nel settembre 2013 il termine venne sostituito con un più ampio riferimento alle «Pseudoscienze». Invitando colleghi e simpatizzanti “scettici” del Comitato a prendere atto delle conseguenze di una scelta del genere, Ferrero segnala la crescente complessità dei temi che ricadono nel nuovo perimetro:
«Quando ci chiedono di prendere posizione su riscaldamento globale, OGM, sperimentazione animale, rispondere diventa molto più difficile. Ci sono sempre affermazioni da controllare […] ma la grossa differenza è che, una volta verificate le affermazioni e smascherate le bufale, il problema non si esaurisce, perché rimangono degli aspetti fondamentali ai quali non può rispondere la comunità scientifica. (2)»
Da anni Andrea esercita, all’interno della “comunità degli scettici”, un’incisiva e sistematica attività di pungolo critico: la rivista Query ospita (tollera?) una sua rubrica fissa – intitolata «L’arrotino di Occam» – che affronta in modo rigoroso e metodico i limiti delle attività di indagine e divulgazione degli scettici, evidenziandone l’evoluzione, portando a galla i conflitti e citando senza ipocrisia gli episodi meno edificanti nella storia del razionalismo. Molti di questi contributi sono disponibili nel libro che Ferrero ha scritto con Stefano Bagnasco I ferri del mistero (Cicap 2014).
Il suo ultimo articolo mette in discussione il mito di un “fact checking” neutrale, introducendo nel dibattito il delicato problema della sua potenziale strumentalizzazione; per illustrare meglio il punto, Andrea propone questo esperimento mentale:
«Supponiamo di vivere in una società autoritaria in cui una popolazione straniera viene tenuta in schiavitù e torturata per compiere esperimenti scientifici. Supponiamo che le associazioni umanitarie si oppongano alla tortura e che cerchino di fermarla con ogni mezzo, anche dicendo che quegli esperimenti non sono attendibili. Se gli scettici di quella società facessero “fact checking” dicendo che quegli esperimenti in realtà sono validi dal punto di vista scientifico, senza dire nient’altro, e le loro dichiarazioni venissero strumentalizzate dal governo per giustificare le torture, quegli scettici non avrebbero nessuna responsabilità?»
La domanda è rimbalzata su Facebook, dando vita a un acceso dibattito. A sostenere la causa del «No, gli scettici non avrebbero alcuna responsabilità» sono in particolare Dario Bressanini e Beatrice Mautino. Divulgatori scientifici e blogger sul sito de L’Espresso, i due sono autori di Contro natura (Rizzoli 2014), un libro che fa debunking di molti miti alimentari, approfondendo in particolare l’infondatezza degli allarmi sollevati intorno agli OGM e a presunte procedure “contro natura”. Come Andrea Ferrero, anche Beatrice Mautino è socia effettiva del Cicap – dunque le due rispettive posizioni sul tema sono particolarmente interessanti da mettere a confronto per evidenziare i diversi presupposti ideologici che convivono nel Comitato.
Quando sostengono – con argomenti peraltro solidi – che alcuni OGM «non fanno male», Bressanini e Mautino si riferiscono esclusivamente agli effetti valutabili dal punto di vista scientifico: essi, infatti, non ritengono sia compito di un divulgatore estendere l’analisi agli aspetti politici e sociali della questione e che – anzi, il divulgatore scientifico che si avventurasse in un compito del genere si corromperebbe automaticamente, trasformandosi (orrore!) in “attivista”. Scrive Bressanini:
«in generale secondo me ci si deve astenere da dare consigli di comportamento. Qualsiasi. In questo senso il fack checking deve essere “solo”. Non sta a me giudicare o dire che [è] “meglio” questo o quel comportamento sociale. (3)»
La netta presa di distanza da qualsiasi responsabilità confligge con la celebre nota affidata da Banksy a un muro di Gaza:
«If we wash our hands of the conflict between the powerful and the powerless, we side with the powerful – we don’t remain neutral.»
Alla provocazione Bressanini risponde che «nel mondo reale non sempre i powerless sono quelli che hanno ragione», e vantandosi di non lasciarsi commuovere da argomenti che non siano rigorosamente scientifici, segnala un suo articolo pubblicato sul blog de L’Espresso. Il pezzo racconta la causa che ha contrapposto la potente multinazionale Monsanto a un contadino canadese, tale Percy Schmeiser: a essere esemplare non è solo la contesa legale ma anche (e soprattutto) la presunta neutralità del punto di vista da cui Bressanini la racconta.
Nel 1997 Schmeiser piantò nei suoi terreni della colza OGM resistente agli erbicidi senza pagare i diritti brevettuali detenuti dalla Monsanto. Quando lo scoprì, la multinazionale statunitense gli fece causa e in tribunale il contadino tentò di difendersi sostenendo che i suoi campi erano stati contaminati a sua insaputa; la linea di difesa non passò e la multinazionale vinse la causa.
La storia di un piccolo contadino portato in tribunale da un’aggressiva azienda americana riscosse una certa simpatia. In gioco c’era soprattutto una discutibile legge sulla brevettabilità dei geni: intorno alla disputa legale si sollevarono dibattiti sul concetto di “legalità” e sull’opportunità — da parte di una grossa corporation — di perseguire un singolo agricoltore per educarne mille (come accade quando una casa discografica si accanisce sul singolo adolescente che ha condiviso una traccia musicale su Torrent).
Se si fosse fermata qui, la vicenda non avrebbe avuto alcuna rilevanza per un giornalista scientifico. Rispecchiando la classica dinamica tra Davide e Golia, però, Schmeiser trovò svariati sostenitori, alcuni dei quali – come Greenpeace e qui in Italia Slow Food – avanzarono a sua difesa discutibili argomentazioni pseudoscientifiche: considerando inquinante la colza OGM, gli ecologisti lo ritennero vittima due volte – la prima di un accanimento giudiziario, la seconda di un avvelenamento. Assurto a simbolo della lotta dei piccoli coltivatori contro le multinazionali, il contadino non andò troppo per il sottile: per opporsi all’attacco della Monsanto e portare il caso all’attenzione dell’opinione pubblica, Schmeiser incluse – tra gli argomenti a difesa della causa anti-OGM – anche considerazioni dalla scientificità molto dubbia.
Agli occhi di Bressanini ciò è imperdonabile. Nel suo articolo definisce «un furbacchione» il contadino, mettendo in secondo piano ogni altro aspetto della questione e concludendo che «il tribunale ha correttamente condannato l’agricoltore perché ha fatto il furbo»: una considerazione chiave, che mette in evidenza la totale mancanza di neutralità del pezzo. Impossibile non scorgere dietro quel «correttamente» e quel «fatto il furbo» presupposti ideologici che nulla hanno a che vedere con la scienza: trattandosi di un caso che ruotava intorno a brevetti non pagati – e che solo in un secondo momento, nell’ambito del dibattito pubblico, ha coinvolto aspetti pseudoscientifici – l’articolo tradisce una precisa concezione legalitario-giustizialista, peraltro coerente con ilfattoquotidiano.it, testata su cui per anni ha tenuto un blog. Infierendo sul protagonista della vicenda, Beatrice Mautino definisce (qui) Schmeiser «un truffatore presentato come martire», usando la durissima espressione per definire la sua (fallimentare) linea di difesa processuale ma alludendo alle panzane da lui sostenute sui media fuori dal tribunale.
Nel raccontare i fatti Dario Bressanini non fa distinzione tra violazioni di natura molto diversa, come se sostenere un’idea pseudoscientifica, non pagare un brevetto e avanzare una timida linea di difesa contro una multinazionale costituissero lo stesso “peccato” da mondare con un fact checking spietato: l’intricato sistema di valori e significati coinvolti nella vicenda collassa sulla sola dimensione scientifica e la verità processuale giustifica l’accanimento contro un individuo “colpevole” di propagandare bufale; ogni altro aspetto pare irrilevante. Di qui l’indifferenza di fronte al rischio che l’articolo venga strumentalizzato da Monsanto, segno di schiena dritta e imperturbabilità amorale. Di qui l’apertura dell’articolo con un aperto sfottò in chiave western, che ha come vittime il contadino e lo storytelling che sfrutta la classica dinamica “Davide contro Golia”, capovolto senza troppi scrupoli.
Non solo i due giornalisti non concepiscono una divulgazione in grado di presentare i dati con rigore senza rimuovere dallo scenario il conflitto sociale o le ricadute politiche ed economiche delle faccende trattate: essi si spingono ad affermare — ed è qui l’aspetto davvero tossico della questione — che ogni considerazione etica e politica conduca automaticamente fuori da una (presunta) “neutralità della scienza”. Nell’ambito del dibattito, è una posizione che fa presa attraverso due retoriche. La prima è un appello populistico all’intelligenza del lettore, che non necessita di approfondimenti per decidere in modo informato; scrive Beatrice Mautino:
«In questi temi qui non ci sono i buoni e i cattivi. Ci sono […] interessi contrapposti. Il lavoro del giornalista scientifico è quello di far emergere questi interessi contrapposti. Poi sta al lettore scegliere da che parte stare. (4)»
La seconda opera attraverso la sistematica demonizzazione del concetto di “attivismo”. Per denunciare il clima di diffidenza sollevato nei confronti degli OGM, Bressanini e Mautino propongono distinzioni molto sottili tra le diverse sostanze chimiche coinvolte, facendo notare quanto sia scorretto fare di tutta l’erba un fascio. Peccato che la stessa capacità di sottilizzare – elemento fondamentale delle loro argomentazioni – non si ritrovi quando i due autori passano a identificare il nemico numero uno della Scienza: il cosiddetto “attivista”, una figura presentata in modo caricaturale e monodimensionale, tale da poterne liquidare gli argomenti con poche battute; una messa in ridicolo oltremodo facile, dato che le argomentazioni pseudoscientifiche fioccano abbondanti un po’ dappertutto ed è un gioco da ragazzi trovare attivisti che fondano la propria lotta su argomenti farlocchi (e rom che delinquono e immigrati ubriachi e slavi che stuprano…). Non distinguere tra diversi OGM o fare di tutti gli attivisti una pappa indistinta evidenzia la stessa inerzia intellettuale, ma la demonizzazione operata da Bressanini e Mautino è quella funzionale ai powerful perché liquida senza appello qualsiasi voce critica, gettando via – senza sottilizzare troppo – il bambino e l’acqua sporca.
Sullo sfondo c’è la classica contrapposizione rassicurante “Noi vs. Loro”, che offre l’illusione che siano in gioco due schieramenti netti: gli onesti giornalisti scientifici da un lato contro i perfidi militanti dall’altro. In realtà la situazione è ben più articolata: il rigore argomentativo e l’impegno politico sono dimensioni tra loro perpendicolari e si possono miscelare in dosi diverse, dando corpo – senza soluzione di continuità – ad autori sommamente illuminati come a personaggi francamente inquietanti.
L’ipersemplificazione proposta è del tutto miope al lungo e travagliato lavoro, anche teorico, sui rapporti tra verità e lotta politica e sulla necessità di un continuo fine tuning delle proprie argomentazioni, volto a risolverne (espellendoli all’occorrenza) i punti deboli – derive pseudoscientifiche in primis. Interrogato (qui) sulla rilevanza di «dire la verità […] al fine di produrre un certo effetto politico», Wu Ming 1 spiegava:
«Interpreto “un certo” come “precisamente l’effetto politico che il parlante vuole produrre”, e allora dico: il fatto in sé di dire la verità non è garanzia di alcuna riuscita. Il mondo è pieno di parresiasti la cui voce non ci arriva. Molti parresiasti sono in cura presso centri di igiene mentale, altri sono in galera, altri sono chiamati “scemi del villaggio”. No, nemmeno in questo mi convince una distinzione netta tra retorica e parresia: senza un saper dire la verità, la parresia si riduce a incoscienza. Il “parlar franco” diventa una scena da film di John Landis, come quando, in The Kentucky Fried Movie, un tizio si infila un casco da paracadutista, raggiunge un capannello di afro-americani, urla a pieni polmoni: “NIGGERS!” e fugge inseguito dagli insultati. Su questo, vorrei parafrasare quel che dice Mario Tronti sul motto “Ribellarsi è giusto”: l’indicazione del “dire la verità” va nutrita di abilità oltre che di forza. Dire la verità, certo, ma: bisogna farlo bene, sapere farlo bene, imparare a saperlo fare bene, e questo è il compito di una vita. (5)
Una delle strategie testuali che consentono di unire al rigore la possibilità di incidere su piani che trascendono la mera divulgazione è l’engagement personale (6) nel discorso; per me sarebbe stato impossibile raccontare il caso di Percy Schmeiser senza includervi il mio disagio di fronte al rischio di essere strumentalizzato da una multinazionale: il rigore che mi impone di denunciare la debolezza delle argomentazioni pseudoscientifiche nulla toglie all’orrore che provo mettendomi nei panni di chi si ritrova ad affrontare un colosso come Monsanto per avergli sottratto qualche semente. L’ingresso di un autore in lavori di non-fiction è più che sdoganato quando si tratta di raccontarsi nell’atto di sorseggiare una birra o raggiungere in taxi i luoghi chiave delle vicende, ma guai a esprimere un dilemma etico che trascenda il proprio ombelico o sottolineare il disagio di fronte a un paradosso; la prospettiva viene così liquidata da Beatrice Mautino:
«Tu sei un attivista. La comunicazione della scienza e il giornalismo scientifico sono un’altra cosa. (7)»
Wu Ming 1 ha ampiamente sperimentato la strategia in Point Lenana (Einaudi 2013), esprimendo un aperto disagio quando le informazioni ricavate dalle interviste alla vedova del protagonista non trovavano riscontro nei documenti storici; ciò lo ha spinto a non censurare nulla, e anzi a offrire al contempo il punto di vista parziale della donna e quello freddamente oggettivo dei dati, dichiarando esplicitamente al lettore l’imbarazzo provato nel momento in cui sono emerse le contraddizioni – e dunque offrendo alla sua analisi un ulteriore elemento di riflessione e complessità.
Il dibattito richiama quello sollevato in Francia da Christian Salmon; attaccando (da sinistra) il concetto di storytelling nell’omonimo libro (Fazi 2008), l’autore gli attribuisce tout court lo stesso potere corruttore che Bressanini e Mautino individuano nell’attivismo: deviare dal discorso logico-razionale puro significherebbe automaticamente ingannare, abbindolare, irretire, manipolare. Recensendo (qui) il lavoro di Salmon, Wu Ming 2 denunciava la pretesa scientista secondo cui
«un giorno qualunque disputa si sarebbe potuta risolvere con un calcolo […] Per fortuna quell’alba non è mai sorta. Il positivismo ha sognato che la scienza potesse emanciparsi una volta per tutte dai suoi trascorsi filosofici e letterari, ma i maestri del sospetto – Marx, Nietzsche e Freud – hanno rinvenuto tre cariche esplosive alle fondamenta dell’oggettività scientifica: gli interessi economici, la volontà di potenza e l’inconscio. Quest’ultimo è molto più vasto di quel che si credesse fino a trent’anni fa: non comprende solo istinti e desideri repressi. La scienza cognitiva ha scoperto che il pensiero lavora per lo più in maniera inconscia e che buona parte di questi meccanismi neurali nascosti richiamano strutture narrative. Scheletri di miti e leggende sono tatuati sui nostri cervelli con un inchiostro elettrico. Le storie ci sono indispensabili per capire la realtà, per dare un senso ai fatti, per raccontarci chi siamo. (8)»
Rifiutando le campane a morto fatte squillare da Salmon, Yves Citton ha sintetizzato nel suo libro Mitocrazia (Alegre 2013) un’ampia riflessione sulla possibilità di arricchire il discorso logico-razionale con elementi che pescano dalla mitologia, dall’epica e dai più ampi universi narrativi – senza per questo scadere nell’irrazionalismo. Non a caso nella postfazione dell’edizione italiana Enrico Manera mette a fuoco una delle principali preoccupazioni che animano le attività del Cicap, senza escludere dall’orizzonte i suoi risvolti politici:
«Come fare a non cadere nel gorgo del mito e nella sua ipnosi incantatoria, visto che gli umani sembrano filogeneticamente predisposti alla credulità e alla mancanza di ragionamento? Il ricorso al mito da parte della propaganda politica è per sua stessa natura “reazionario”, se non “fascista”, anche quando le sue finalità sono progressiste. Una volta che si abbia a che fare con soggetti di forte impatto emotigeno, come sono le immagini mitologiche, la razionalità critica rischia di essere messa fuori gioco. “Com’è possibile indurre gli uomini a comportarsi in un determinato modo – grazie alla forza esercitata da opportune evocazione mitiche –, e successivamente indurli a un atteggiamento critico verso il movente mitico del comportamento?”, si chiedeva Furio Jesi.»
Interrogativi di questo tipo sono all’ordine del giorno nella comunità degli scettici, impegnati da un lato a trovare le migliori strategie per sradicare credenze false e perniciose, restii dall’altro ad adoperare mezzi persuasivi che non siano rigorosamente logici e razionali. L’articolo di Andrea Ferrero citato in apertura costringe il Cicap ad affrontare il fatto ineludibile che ogni produzione discorsiva e testuale sia potenzialmente conflitto, resistenza, politica. Se, come scriveva Wu Ming 1 citando Giobbe, «militia est vita hominis super terram» — e dunque ogni espressione è militante – quale spazio intende occupare la comunità scettica italiana?
Una certa contiguità tra le posizioni legalitarie espresse dal Fatto Quotidiano e il Cicap si è fatta più esplicita nel 2014, quando – insieme a Beatrice Mautino – Peter Gomez ha partecipato come relatore al convegno Il valore dei fatti organizzato a Milano dal Comitato; a fronte di queste affiliazioni c’è da interrogarsi sul rapporto tra una concezione “poliziesca” della prova in politica e una visione dello scetticismo come forza reazionaria, posta a contenimento delle presunte “violazioni” delle leggi di natura da parte dei fenomeni paranormali. Non va dimenticato che il Cicap nasce come emanazione italiana dello Csicop americano (Committee for the Scientific Investigation of Claims of the Paranormal) che incorporava nel nome stesso la sua natura poliziesca: l’acronimo suona come psi cop, «sbirri che perseguono i sensitivi». Abbiamo davvero bisogno di poliziotti sul grigio confine tra Scienza e Mistero?
L’autore ringrazia per la consulenza Wolf Bukowski, Antonio Mosca e Filippo Sottile.
le posizioni espresse [da Beatrice Mautino] avevano […] tutt’altro senso rispetto a quello che Tomatis attribuisce loro.
Se al netto di ogni deriva pseudoscientifica la divulgazione aspira a essere uno strumento di emancipazione, interrogarsi sui presupposti ideologici dietro le sue narrazioni è fondamentale. Come laboratorio permanente su tali pratiche, Giap ha negli anni approfondito i contributi intellettuali di figure (come Jesi, Citton, Lakoff, Theweleit, Rancière…) le cui riflessioni possono offrire importanti spunti a chi si occupa di Scienza.
visto quanto c’è in ballo nello scenario proposto da Andrea Ferrero […] perché credo che l’attenzione posta su Mautino e Bressanini sia fuorviante rispetto ai problematici rapporti del triangolo scienza/narrazione/militanza che Mariano ha […] esibito.
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(1) Emmanuel Carrère, Il regno, Adelphi, Milano 2015, p. 278.
(2) Andrea Ferrero, “Dai fantasmi agli OGM: affrontare la complessità”, Query N. 21 (2015).
(3) Dario Bressanini su Facebook, 20 giugno 2015 h. 17.29
(4) Beatrice Mautino su Facebook, 21 giugno 2015 h. 13.11
(5) La citazione è in Mario Tronti, Politica e destino, Sossella, Roma 2006.
(6) L’espressione è di Foucault: “Ho tentato di fare delle cose che implichino un engagement personale, fisico e reale, e che pongano i problemi in termini concreti, precisi, definiti all’interno di una situazione data.” (Entretien avec Michel Foucault (1978), in Dits et écrits II, Gallimard, Parigi 2004, p. 899.)
(7) Beatrice Mautino su Facebook, 21 giugno 2015 h. 12.51
(8) Wu Ming 2, “Christian Salmon. Storytelling”, L’Unità, 27.9.2008.
N.B. I commenti a questo articolo verranno aperti dopo il 4 settembre 2015, per dare il tempo di leggere con calma e stimolare risposte meditate e, soprattutto, pertinenti.
* Mariano Tomatis è autore di diversi libri sulla matematica, è uno storico dell’illusionismo e ha condotto l’unica vera inchiesta sul presunto “sensitivo” Gustavo Rol (ROL: Realtà o Leggenda?, Avverbi, 2003). Visita il suo Blog of Wonders.
Da membro marginalissimo della comunità accademica, mi trovo anch’io a fare i conti con i problemi di metodo, diciamo di decifrazione dell’ordine del discorso, che il testo di Mariano affronta.
Provo a fare un esempio di conflittualità interna alla comunità scientifica che ho sperimentato direttamente. Assistendo alle udienze del processo ad alcuni dei proprietari dell’ex stabilimento Fibronit di Broni, un processo che riguarda l’esposizione di un numero elevato di persone alle fibre di amianto, ho potuto ascoltare la dialettica tra le posizioni espresse dai periti nominati dal tribunale e quelle sostenute dai consulenti degli imputati e delle parti civili. Ciò su cui si controverte, nella maggior parte dei casi, non è il dato in sé (poniamo: la percentuale di fibre rilevate nella zona circostante lo stabilimento in un certo lasso di tempo), ma il modo in cui quel dato deve essere interpretato, in base all’applicazione di un determinato criterio di calcolo del rischio piuttosto che di un altro. È persino banale dire che periti e consulenti, oltre che di fatti, si servono di svariate strategie argomentative per accreditare la loro posizione come la più fondata. Non scendo nei dettagli, perché non è questo l’argomento del post. Inoltre tra i giapsters c’è Alberto Prunetti,, a cui passo la palla, nel caso abbia voglia di completare quello che io ho detto in modo molto schematico.
Qui è la questione metodologica che vorrei rimarcare. Se uno volesse fare divulgazione sul tema dell’esposizione all’amianto ignorando l’esistenza di un conflitto che attraversa la comunità scientifica, oppure non sottoponendo a vaglio critico le ragioni socioeconomiche (ente che ha effettuato la ricerca, sua natura pubblica o privata, provenienza dei finanziamenti etc) per le quali alcuni studiosi sostengono una posizione ed altri la avversano, imbastirebbe un discorso non veritiero e non farebbe nemmeno un buon servizio alla stessa comunità scientifica.
Ma vorrei anche aggiungere che le questioni metodologiche di cui si parla nel post restano secondo me valide anche intendendo l’espressione “divulgazione scientifica” in senso estensivo, cioè includendo nell’aggettivo “scientifico” anche le scienze sociali (scusate la definizione un po’ tirata via, ma è per capirci). Penso in particolare a tutto un filone di pubblicistica (scritti di giornalisti, blogger ospitati da siti di quotidiani etc) che si occupa di argomenti sociologici avendo come obiettivo primario la doverosa verifica della correttezza dei dati, ma –a mio parere- preoccupandosi meno del posizionamento all’interno del dibattito in corso sul tema di volta in volta trattato.
Provo anche qui a fare un paio di esempi.
Nel 2013, su Lipperatura è stato pubblicato questo post:
http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2013/05/27/il-fact-screwing-dei-negazionisti/
in cui Loredana Lipperini esaminava quelle che riteneva essere le distorsioni di prospettiva che portano alcuni giornalisti e analisti a negare l’esistenza di una vera emergenza femminicidio, o comunque a ridimensionarne la portata. Le reazioni degli autori chiamati in causa da Loredana furono in alcuni casi piccate e si appellarono all’oggettività del dato statistico come puntello inscalfibile della veridicità della posizione sostenuta.
Nello stesso anno anch’io mi sono espresso criticamente verso un modo a mio avviso errato di fare fact checking in uno dei capitoli di Vivere Senza Slot, il libro sulla diffusione di massa del gioco d’azzardo liberalizzato scritto dal collettivo di cui faccio parte. In quel capitolo, che appunto s’intitola “Contro il feticismo del fatto nudo”, prendevo spunto da questo articolo apparso sul blog dell’analista Davide De Luca ospitato dal Post ] http://www.ilpost.it/davidedeluca/2013/06/11/tutta-la-verita-sullemergenza-gioco-dazzardo/%5D per muovere una critica al “fact checking per il fact checking”, con tonalità e argomentazioni simili a quelle utilizzate da Mariano, anche nel mio caso, come in quello di Loredana, non con riferimento alle scienze dure, ma alla lettura di dati statistici.
Nel libro scrivevo – e ovviamente la penso ancora così – che il fact checking deve essere il punto di partenza di un’analisi, mai quello di arrivo. Una volta verificata la correttezza del dato, con quel dato dobbiamo farci qualcosa, utilizzarlo come premessa maggiore di un ragionamento, come base sulla quale costruire delle inferenze. E infatti, nell’articolo che ho criticato, i dati venivano usati per farci qualcosa: li si usava per dire che la diffusione dell’azzardo non è un’emergenza. Solo che la strategia retorica scelta dall’autore mirava a “blindare” questa conclusione, mettendola preventivamente al riparo da critiche perché, riassumo, si basa sui dati e i dati sono oggettivi.
Ma l’oggettività dei dati può portare a inferenze differenti a seconda delle griglie interpretative che uno vi sovrappone. Di più: l’interpretazione, e dunque la posizione dell’interprete, dipende da quali dati uno sceglie di considerare e quali espungere dalla sua analisi, cioè dipende dalla prospettiva che sceglie di adottare, la quale può essere più o meno ampia. E non è detto che ampiezza sia automaticamente sinonimo di completezza, o ristrettezza sinonimo di accuratezza: dipende dal fenomeno che si decide di descrivere. Per questo, perché una esposizione dipende da tutte queste variabili e dalla scelta del punto di vista, nessun discorso è mai pura esposizione di dati: per il fatto stesso di essere un discorso, esso è composto dall’esposizione di fatti (qui per semplicità di ragionamento, diamo per buono che i fatti siano corretti), più l’orientamento, le convinzioni, le posizioni personali di chi lo espone, e il nesso che lega insieme i primi e i secondi.
Ogni volta che parlo di queste cose mi ritrovo a dover citare George Lakoff e i suoi studi sul framing, sulle cornici concettuali che orientano il discorso. Ma penso che non occorra per forza aver letto “Don’t Think of an Elephant” o “The Political Mind” per rendersi conto che non si dà un discorso *veramente* neutrale. Anzi, tutti sappiamo che buona prassi esige che i contenuti di una ricerca vadano presentati insieme al metodo seguito per arrivarci e agli obiettivi perseguiti, così che l’uno e gli altri sono a tutti gli effetti parte del contenuto del discorso. Già questo può bastare, e in effetti credo che basti almeno dal tempo di Galileo, a revocare in dubbio la pretesa di neutralità dell’osservatore.
Possiamo chiamarlo atteggiamento engagé, possiamo anche dire che è in gioco una questione di onestà del locutore e di apertura alle confutazioni e alle critiche provenienti da chi fruisce de (o interagisce con) il suo discorso. Il punto che insisto nel sottolineare resta però questo: l’appello all’oggettività è una strategia retorica precisa, e in tanti casi viene scelta per tenere a distanza le critiche. Il rischio è sempre quello di un uso autoritario del linguaggio: tautologia (“è così perché è così”) o argumentum ex autoritate (“è così perché lo dico io. O perché lo dice Tizio, che ne sa a pacchi”).
Anche subissare di dati il lettore/ascoltatore è una tecnica che può prestarsi ad un uso autoritario, perché ingenera disorientamento, può creare l’impressione di non riuscirsi a muovere all’interno di una mole di fatti o numeri impossibile da padroneggiare, e di riflesso la convinzione che serva sempre l’aiuto del tecnico. Invece il passaggio di saperi può, e secondo me deve, avvenire in una maniera non verticale, senza cioè che il locutore sfrutti e faccia pesare la sua posizione di superiorità.
Questa del funzionamento di un discorso non è un’elucubrazione mentale da postmodernista: è un problema vecchio almeno quanto la “Institutio oratoria” di Quintiliano: si è molto più propensi ad ascoltare un discorso di parte che un discorso falso. Dove noi potremmo sostituire “falso” con “asseritamente oggettivo”.
Chiudo dicendo questo: l’intossicazione da fatti (in certi casi anche intossicazione da fattoidi irrilevanti) che io credo colpisca in certa misura la pubblicistica, ivi compresa la saggistica non divulgativa, è la reazione uguale e contraria alla vulgata pensierodebolista per cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni. Entrambi sono atteggiamenti mentali estremi e destituiti di fondamento, che è necessario riconoscere nel loro manifestarsi e criticare, se si ha a cuore il rigore dell’argomentazione.
Vorrei ringraziare Mariano x aver avuto la sensibilità di cogliere e portare all’attenzione un tema che mi sta molto a cuore, e spero che nessuno pensi “avete scoperto l’acqua calda, la scienza non è neutrale”.
Concordo che un certo atteggiamento apparentemente neutrale e razionale spesso finisce per essere usato in un modo che oggettivamente favorisce il mainstream e di conseguenza il mantenimento dei rapporti di forza in essere. Ma (non dico che emerga dal post, ma qualche Tweet invece mi pare andasse in questo senso) non sono invece intrinsecamente avversari (dei powerless) coloro che tale atteggiamento seguono: s’hanno da portare dalla nostra parte. Come farlo, credo debba essere il prossimo passo da esplorare.
Così come il semplice debunking “aggressivo” non converte i complottisti, qual è il modo per convincere a maggior cautela chi si occupa di divulgazione?
Sono laureato in fisica e quindi per forma mentis condivido la necessità di “denunciare” ragionamenti fallaci o basati su ipotesi opinabili, o quantomeno che gli assunti debbano essere dichiarati. Mi capita però di provare imbarazzo per il modo in cui amici fisici che si occupano di divulgazione, peraltro pur essendo di sinistra (non piddini :) e avvezzi alla critica ragionata, tendono a guardare con sospetto verso “gli attivisti” -devo presumere a seguito di ripetuti contatti con troppi fanatici (o forse solo con una narrazione pregiudizievole indiretta?). La cosa è grave perché secondo me hanno un grande potere nel plasmare opinioni, che rischiano di passare per fatti incontestabili più che per delle opinioni; anche quando -spesso- si basano su degli assunti non esplicitati e affatto scontati.
Spero che né Mariano né l’autore del virgolettato me ne vogliano se riporto la conclusione di una discussione su FB, perché mi offre lo spunto per esemplificare. Scrive Bressanini difendendo la tesi dei divulgatori “puristi/oltranzisti”: “una volta che ti smonto l’idea che il fotovoltaico e’ una alternativa realistica, poi sta a te scegliere in base ai tuoi criteri se preferisci l’eolico, il nucleare o il fracking”.
Posizione che a mio avviso ha un bug: dà per scontato, quasi insinua l’idea che non si possano/debbano discutere i consumi attuali. Il fotovoltaico non è in grado di produrre tutta l’energia attualmente usata, ma che dire a proposito della possibilità di diminuire il fabbisogno? Ecco che un’intera classe di opzioni politiche praticabili viene rimossa dal percepito del lettore a causa di una omissione/poca chiarezza nelle premesse del ragionamento.
Forse il peccato più diffuso tra questo tipo di divulgatori è subire inconsciamente il condizionamento dello status quo; o peggio volerlo consciamente escludere dalla trattazione perché “non è il nostro mestiere”.
Ma non mi sembra che con l’invitarli a contestualizzare si ottenga granché. Si accettano consigli su come intervenire, certamente questo articolo è un primo passo e potrebbe aiutare il dibattito.
Questo crea un problema diverso: un intervento di X, ricercatore in biologia molecolare, sulla sicurezza alimentare degli OGM è necessario e costruttivo. Un intervento di X (lo stesso) sugli effetti economici dell’introduzione di OGM è, a monte di altre considerazioni, meno prezioso. Nel caso specifico: cosa ha da dire Bessanini sulla riduzione del consumo? Quanto tempo ha passato a studiarlo? Non si corre il rischio che si trasferisca l’autorevolezza meritata in un campo in un argomento diverso?
(ora entra la mia opinione) La scelta di limitarsi a parlare di ciò che si conosce è più da stimare che da condannare, anche considerando l’economia di un discorso pubblico.
Aspetta, se uno si limita a “parlare di cio’ che si conosce” si finisce per stare tutti zitti!
Il signor X ha tutto il diritto di dire quello che pensa, pero’ come comune cittadino, non come esperto nell’argomento!
Soprattutto, dovrebbe essere lui il primo a far notare la differenza tra i due piani all’interno del discorso.
L’esperto è chi sa sempre di più su sempre di meno fino a sapere tutto di nulla… dice un aforisma che sicuramente rincorre il paradosso ma in parte ci prende proprio. E allora Bruche non sbaglia a dire che se facessimo tutti proprio il precetto di parlare solo di ciò che si conosce approfonditamente (e chi lo stabilisce poi?) probabile che si finirebbe per star tutti in silenzio. Tutti a pendere dalle labbra di esperti e tecnici…
L’aforisma segnala però un altro elemento: il venir meno della categoria della totalità. Un abitudine cui ci siamo assuefatti in un mondo del lavoro sempre più segmentato e specialistico?
Caffeinated, ti faccio notare che l’esempio del consumo energetico non lo abbiamo fatto noi, lo ha fatto Bressanini. E’ sua la frase: «“Una volta che ti smonto l’idea che il fotovoltaico e’ una alternativa realistica […]».
«Realistico» è un attributo ad alta carica ideologica, che Bressanini non sta certo usando in quanto “ricercatore di biologia molecolare”. Su cosa sia da considerarsi “realistico” rispetto all’accettazione di quale premessa si gioca praticamente tutto l’agire collettivo sotto il cielo.
Se Bressanini «non ha nulla da dire sulla riduzione del consumo», perché parla di produzione energetica in termini di alternative “realistiche” e “non realistiche”?
“Realistiche” rispetto a che?
Si può parlare di realtà del consumo energetico senza parlare dello spreco di energia, dell’inefficienza delle reti, dell’irrazionalità del mercato, dei costi sociali di questo o quel modo di produrre energia?
La concessione che segue («poi sta a te scegliere in base ai tuoi criteri») è finta, perché viene dopo una premessa che ha già chiuso la questione: c’è stato lo “smontaggio” (ipse dixit) di una modalità di produzione energetica in base a un criterio di aderenza a un dato di realtà (questo si intende con “realismo”) che però non è stato problematizzato.
Questo è un modo di comunicare ideologico, che il locutore ne sia o meno consapevole.
N.B. Uso “ideologico” in modo avalutativo, per me non è un concetto negativo come nella chiacchiera giornalistica. Un’ideologia è una visione del mondo; in ogni società ce n’è una dominante e ce ne sono altre minoritarie, più o meno permeate da quella dominante, il cui effetto è ineludibile perché tutti ci viviamo dentro.
Ribadisco che l’esempio non lo abbiamo fatto noi, lo ha fatto lui.
Precisazione chiara, ma non necessaria :) Stavo rispondendo a e.talpa, e francamente non credo che nessuno dei due abbia interpretato quella frase come proveniente da altri.
Il punto che volevo sollevare è indipendente dall’autore della frase: se X dice qualcosa sulla riduzione del bisogno energetico, e X non è competente in materia, perché qualcuno dovrebbe leggerlo, e dargli peso? A meno che non si stia cercando di trasferire la competenza di X in altri settori su quella particolare valutazione, e questo è un problema di per se.
«A meno che non si stia cercando di trasferire la competenza di X in altri settori su quella particolare valutazione»
Sì, è quello che succede quando non si problematizza la premessa del discorso, ovvero la realtà in base alla quale si valuta il realismo di questa o quella scelta.
Succede che il prestigio del ricercatore e/o “esperto” e/o divulgatore scientifico, dovuto alla sua competenza su un tema molto specifico (ad es. “dispacciamento” e fonti rinnovabili), venga “irradiato” sul contesto generale, sull’idea stessa di società.
Se X mi dice che una cosa non è realistica io mi fido, perché X è “un esperto”, sicuramente saprà il fatto suo. Sicuramente saprà meglio di me com’è la realtà.
Sottilmente, si rafforza l’accettazione dello statu quo. E succede tutti i giorni, senza che nessuno si accorga del contenuto ideologico dei discorsi. L’ideologia dominante è un po’ come l’aria, ci siamo dentro, non ci facciamo caso, non stiamo tutto il tempo a pensare che stiamo respirando.
Sicuro che sia un problema di ideologia dominante? Più in basso si parla di V. Shiva, che fa una operazione simile (speculare?) da una posizione ideologica non dominante.
Forse il problema è preesistente, una forma di pigrizia mentale dell’ascoltatore che non gli consente di separare gli ambiti di autorevolezza e valutare distintamente le due affermazioni.
Se parliamo di accettazione preventiva dello status quo, allora sì, stiamo parlando del funzionamento dell’ideologia dominante, con tutti gli automatismi culturali e i bias cognitivi del caso.
Su Vandana Shiva, che non apprezzo e il cui personaggio non trovo affatto incompatibile con l’ideologia dominante, avrei diverse cose da dire, ma poi si apre un OT su di lei, e allora per il momento lascio perdere.
Caffeineted banana il fatto è che il divulgatore nella sua affermazione sul fotovoltaico sta già esprimendo anche la propria opinione. Tra le righe dice “lasciate perdere che non serve a niente”. Puoi criticare il lettore che non è capace a scindere la parte divulgativa da quella “da attivista”, che intanto abbiamo quindi appurato che sono entrambe presenti -ma in realtà sei tu che scrivi che devi porti il problema di cosa stai comunicando perché per quanto ti sforzi starai trasmettendo anche il tuo pensiero “da attivista”.
Poi mi pare di aver notato che se già nel fare “la fotografia” della situazione le lenti del proprio pensiero influiscono, quando si passa alla parte propositiva e alle opzioni possibili (e lo fanno pressoché tutti gli articoli “divulgativi”) la propria ideologia diventa sempre più pesante nell’indirizzare il discorso ma proprio in quel momento viene più nascosto il passaggio da divulgazione ad attivismo attribuendo così indebita autorevolezza alla propria tesi. Sono contento che lo noti anche tu -ora pensa se è mai possibile eliminare questo effetto con una formuletta che dice “mi astengo”.
Come per Luca, questo post tocca degli argomenti che sono per me, da matematico come Mariano, fondamentali nella pratica quotidiana del mio lavoro di ricercatore e docente.
Il cuore del post è evidentemente la narrazione della scienza e il ruolo del narratore più che la scienza stessa, ma vorrei presentare un altro esempio di quanto il problema della neutralità sia profondo e complesso anche restando su un piano strettamente tecnico-scientifico, un problema intrinseco agli approcci scientifici (in particolare, statistici), che quindi precede e contamina il problema della sua divulgazione. Mi piacerebbe che i divulgatori chiamati in causa nel post esprimessero i loro commenti a questa vicenda.
Guarda caso, si tratta una questione legata al mais MON810-NK603. Premessa: il mio scopo non è demonizzare la Monsanto (e vedremo che non sono gli unici ad aver commesso errori) ma mettere in luce dei problemi. Questa vicenda è esemplare ed è anche quella su cui so dove trovare materiale informativo dettagliato. Tra il 2009 e il 2011, una serie di articoli scientifici ha suscitato un vivo dibattito in Francia, dibattito che è approdato sui giornali nazionali e ha coinvolto l’opinione pubblica. Da un lato, test statistici effettuati dalla Monsanto provavano che il MON810 non aveva effetti dannosi per la salute. Dall’altro, test statistici indipendenti (équipe del prof. Séralini) provavano che il MON810 era pericoloso per la salute.
Dimentichiamo per qualche paragrafo la politica, la filosofia e i problemi legati al ruolo dell’autore o dello scienziato. Fingiamoci abitanti di una flatlandia, convinciamoci che non ci siano altre dimensioni al di là della scienza, rinchiudiamoci nel mondo bidimensionale dei modelli statistici e vedremo comunque incrinarsi qualche certezza.
Chi aveva ragione tra Monsanto e Séralini? Nessuno dei due. Farò un breve excursus tecnico, spero non troppo pesante.
Il problema su cui mi vorrei concentrare risiede nella scelta del tipo di test statistico. Per esempio, supponiamo di misurare la distribuzione del peso dei reni in una popolazione campione di topi nutriti con mais normale. Vogliamo sapere se una seconda popolazione di topi, nutriti con il mais OGM, è esposta a rischi renali e quindi misuriamo il peso dei reni di questa seconda popolazione e compariamo le due famiglie di dati. Dobbiamo predisporre un test statistico (sostanzialmente, un algoritmo che dai dati in ingresso fornisce un numero tra 0 e 1, cioè una probabilità) che ci aiuti a capire se il mais OGM sia pericoloso o meno per i reni. Per scegliere il modello, ci sono due possibilità: supporre che non ci sia differenza tra le due popolazioni e verificare che le differenze di peso sono contenute in un certo intervallo di fiducia, oppurre supporre che ci sia una differenza e voler dimostrare che questa differenza è comunque al di sotto di una certa soglia di sicurezza. In soldoni: o pensiamo che le popolazioni reagiscano nello stesso modo e la statistica ci dirà se le differenze rientrano o meno in un intervallo di fiducia, o abbiamo il dubbio che siano diverse e vogliamo vedere se il nostro dubbio è fondato o meno. I test impiegati nei due casi sono diversi ed è il secondo quello più diffuso nell’analisi clinica, mentre Monsanto e Séralini hanno usato il primo (che è molto molto più semplice da mettere in pratica e quindi impiegato in altre pubblicazioni statistiche). Ci sono altri aspetti fondamentali (come il numero di topi nelle due popolazioni, l’ampiezza dell’intervallo di fiducia, la valutazione di margini di errore etc.) che modificheranno il protocollo e il calcolo dei risultati. Si possono quindi utilizzare protocolli diversi e si metteranno in atto test differenti. Questo solo per dare un’idea della difficoltà di stabilire quanto probante sia una ricerca statistica e di quanto lo scopo della ricerca e l’interpretazione del fenomeno siano infulenti sulla scelta del protocollo matematico da seguire. E il protocollo, in quanto procedura logica astratta, è ovviamente corretto.
Entrambi gli studi sono stati pubblicati su riviste scientifiche, cosa che necessita in particolare di un peer reviewing, cioè di un’analisi approfondita da parte di altri matematici.
I test sono poi stati passati al vaglio dell’HCB (Haut Conseil des Biotechnologies http://www.hautconseildesbiotechnologies.fr/).
Il responso è che ciascuno dei due gruppi di ricerca ha forzato la mano intrepretando i dati in maniera troppo ottimista, usando campioni poco significativi, ottenendo conclusioni definitive da dati statistici che, a detta degli esperti dell’HCB, non permettevano conclusioni così nette. L’HCB ha quindi rifiutato entrambi gli studi e il parlamento ha deciso che mantenere il veto sul MON810 per via del principio cautelativo.
Per approfondire l’argomento, che è troppo vasto e tecnico per un semplice commento al post, trovate del materiale sulla pagina di Marc Lavielle, professore di statistica a Parigi XI e membro dell’HCB:
http://www.math.u-psud.fr/~lavielle/ogm_lavielle.html
Per riassumere, tutti e due gli studi hanno peccato di leggerezza scientifica (cioè, in termini esplciti, sono sbagliati). Chi sono i “furbacchioni” in questa storia? E chi i “disonesti”? Non Marc Lavielle e tornerò alla fine su alcuni suoi commenti alla vicenda.
Vorrei sottolineare due punti:
1) La scelta del modello dipende dall’intepretazione del fenomeno. Una volta scelto, il modello è per forza corretto: si tratta di un’astrazione matematica che permette semplicemente di calcolare una probalità con un certo intervallo di fiducia. A partire da questi risultati numerici ci sarà bisogno di un’interpretazione della loro coerenza con il fenomeno studiato, basata sulla scelta del modello, del campione, dell’intervallo di fiducia, dei valori numerici ottenuti etc etc.
2) Il controllo si rivela una questione delicata, tecnicamente molto complessa e ad appannaggio di pochissimi ed espertissimi tecnici (io stesso sono un ricercatore, ma non mi occupo di statistica e non sono in grado di verificare i minimi dettagli). In matematica non è rarissimo che risultati ritenuti corretti dalla comunità e pubblicati anche su riviste presitigiose si rivelino sbagliati anche dopo anni, a causa di una svista in una dimostrazione o di un passaggio in cui si necessitava di ipotesi più restrittive. Questo succede anche in buona fede, anche quando non ci sono in ballo miliardi di dollari o titoli su Le Monde…
Uscendo dalla flatlandia statistica, torniamo al mondo tridimensionale e uniamo gli aspetti tecnici alle consdierazioni del post: non possiamo non consdierare questi due punti come un enorme problema, anche e soprattutto dal punto di vista del divulgatore e dell’atteggiamento che assumerà.
Gli statistici di Monsanto e il gurppo Séralini hanno abusato della statistica come uno strumento da piegare ai propri scopi e potremmo speculare sulle loro motivazioni, ma non è lo scopo del mio commento. E’ chiaro che la politica e il potere, ma anche l’inconscio e la volontà di potenza, giocano qui un ruolo molto influente: cosa sarebbe successo se i membri tecnici dell’HCB avessero lavorato in laboratori in cui il 50% dei fondi di ricerca viene da Monsanto o da una sua concorrente? O se avessero in preparazione pubblicazioni importanti o promesse di posti di prestigio che avrebbero influito sulla loro decisione? O se avessero subito pressioni politiche da parte del governo? E cosa sarebbe successo se gli scienziati della Monsanto o Séralini avessero raffinato i loro protocolli fino a nascondere (volontariamente o no) un errore anche agli occhi dei tecnici?
Riprendendo la citazione da WM2 nel post, davvero le decisioni socio-economiche devono essere ridotte a un semplice conto che torna? E che cosa vuol dire che il conto torna? In un mondo in cui la scienza medica e biologica si affida sempre di più a metodi statistici possiamo, anche una volta provata la loro correttezza, scambiare l’intepretazione di dati per valutazioni di rischi o strumento decisionale?
Questa non è una posizione di un “attivista che non ha niente a che vedere con la comunicazione scientifica o il giornalismo”: dopo aver letto su twitter accuse di “attivismo manipolativo incompatibile con la verità”, mi piacerebbe avere un commento su questa vicenda e sulle parole con cui lo stesso Lavielle conclude la presentazione “Quelques commentaires sur les méthodologies statistiques utilisées dans l’analyse des études de toxicité des OGM”, scaricabile alla pagina linkata sopra:
“La statistica deve essere ovviamente rigorosa, ma è solamente uno strumento e ha dei limiti. Aiuta nella valutazione dei rischi, ma non valuta i rischi. Aiuta a prendere decisioni, ma non è uno strumento di decisione.
La fiducia cieca in un risultato statistico non deve portare a metodi decisionali assurdi: Se p=0.04 [4% di probabilità], allora siamo in pericolo, gli OGM sono tossici e devono essere proibiti e se p=0.06 [6% di probabilità], allora tutto bene, possiamo consumarli senza problema.”
Deduco io: non ci può essere neutralità nel momento in cui si deve dedurre da un modello puramete astratto e rigoroso (neutrale solamente in quanto modello astratto) una conclusione fattuale sulla certezza della tossicità o meno degli OGM o di qualsiasi altra interpretazione biologica. Bisogna dunque evitare il più possibile di trasformare questi risultati numerici in verità assolute e quindi in strumenti politici decisionali. Il passaggio dal conto formale alla conclusione scientifica è sempre un passaggio umano, sociale e politico. Per riprendere una frase del post, non solo ogni produzione discorsiva e testuale, ma anche un’analisi statistica o una produzione scientifica sono potenzialmente conflitto, resistenza, politica. Come dice Andrea Ferrero nella citazione riportata nel post “rimangono degli aspetti fondamentali ai quali non può rispondere la comunità scientifica”. E per fortuna ci sono scienziati che se ne rendono conto.
Mi ha colpito questo passaggio del commento di MarBern:
«In matematica non è rarissimo che risultati ritenuti corretti dalla comunità e pubblicati anche su riviste prestigiose si rivelino sbagliati anche dopo anni»
Sembra una banalità o una sciocchezza di poco conto, ma è un’informazione molto importante. Smonta l’idea che esistano “scienze esatte”, di cui l’esemplare più puro è la matematica, che ci danno appunto risultati esatti, e “scienze applicate”, via via più lontane dalla matematica e più vicine al mondo reale, che si limitano a formulare teorie inevitabilmente approssimative, per arrivare infine alle “scienze umanistiche” che si barcamenano in cazzate senza il minimo rigore.
Questo schema è molto pericoloso perché fomenta da un lato l’illusione che alcune cose possano essere veramente “dimostrate” in senso assoluto e dall’altra la disillusione verso la cultura umanistica considerata da molti scienziati così lontana dal rigore matematico da produrre teorie qualitativamente diverse da quelle che usano numeri. Abbiamo già discusso degli effetti politicamente devastanti dei compartimenti stagni eretti tra le due culture scientifica e umanistica. In taluni casi la spocchia illusoria della scienza esatta finisce per trattare addirittura anche alcune scienze basate sui numeri (tipicamente, l’economia) come se fossero “fuffa umanistica”.
Nella realtà *tutta* la scienza funziona per approssimazioni, ipotesi, astrazioni, falsificazioni di teorie precedenti, cambi di paradigma, inclusa la matematica stessa. Le dimostrazioni danno un maggior senso di esattezza ma sono sottoposte ad errori umani e strumentali proprio come le misurazioni di laboratorio (le dimostrazioni non si fanno solo usando cervelli umani ma anche con software, che però è a sua volta potenzialmente bacato), a dipendenze da incerte dimostrazioni precedenti proprio come le teorie dipendono dal paradigma entro cui sono formulate, ad applicazioni erronee fuori dalle condizioni in ipotesi proprio come le teorie delle scienze applicate quando ci si dimentica dei loro ambiti di validità.
Sono osservazioni apparentemente ovvie ma frequentando un po’ l’ambiente tecnico-scientifico mi ha stupito vedere quanto forme di positivismo ingenuo o addirittura di platonismo matematico, ossia visioni filosofiche terribilmente rudimentali, siano tuttora diffuse anche tra individui che nel loro campo specifico sono assolutamente brillanti.
Provo a dare una parziale risposta alle tue domanda.
Non ho alcuna simpatia per Monsanto, tantomeno per l’ideologia nella quale opera. Come spiego sotto in un mio commento, non credo nella neutralità della divulgazione scientifica (e nemmeno della scienza). Ma non neutralità non significa “tutto passa”. La complessità di Feyerabend non va ridotta al messaggio di un bacioperugina. Non si può, senza sacrificare rigore argomentativo e forza narrativa, dedurre da “Chi aveva ragione tra Monsanto e Séralini? Nessuno dei due.” che mon810 sia (potenzialmente) tumorigeno. Non e’, solo, una questione di statistica: Séralini ha usato, sapendolo, un genotipo di topi già predisposti all’insorgenza di tumori. Seppure indagine rigorose e affermazione di una tesi non siano attività finalmente districabili, Séralini non ha nemmeno provato. E nessuno dei ricercatori indipendenti che hanno provato a replicare i suoi risultati ci sono riusciti. Occorre non ignorare il frame attorno a quei due valori di probabilità.
“Se p=0.04 [4% di probabilità], allora siamo in pericolo, gli OGM sono tossici e devono essere proibiti e se p=0.06 [6% di probabilità], allora tutto bene, possiamo consumarli senza problema” <- Chiaramente no. C'è una differenza di un due percento attorno ad un valore (0.05) arbitrario di probabilità che un certo effetto osservato sia prodotto dalla distribuzione di probabilità del modello nullo. Niente di più. La complessità insita nel tradurre quel risultato in una informazione utilizzabile per compiere una scelta non e' nascosta dagli statistici (1), al punto che l'analisi frequentista (quella del p-value) non e' l'unica filosofia statistica ne' quella più in voga, mi pare che i Bayesiani, che attribuiscono un ruolo esplicito ai priors, siano la maggioranza, senza dimenticare likelihoodists, operationalists, … . E nemmeno fra i frequentisti ci si sofferma dogmaticamente solo sul p-value, occorre quantomeno considerare la grandezza stimata dell'effetto e quanta parta della varianza venga spiegata dal modello. Non mi pare nemmeno ci sia, nella comunità scientifica, la volontà di sostituire una scelta complessa (eticamente e politicamente) con la valutazione di modello statistici.
"Un’analisi statistica" e' uno strumento di "conflitto, resistenza, politica", ma, come con ogni strumento, occorre saperlo maneggiare per non spararsi sui piedi.
Del resto, la mia opposizione ad un modello di sviluppo che prevede, instaura e rende accettabile lo sfruttamente neocolonialista del terzo mondo NON ha bisogno di interpretazioni sottili di quella statistica. Perché dovrei aver bisogno che gli ogm facciano male per criticare una politica economica disumanizzante?
(1) Il primo capitolo del bel libro "Evidence and Evolution: the Logic behind the Science" di E. Sober e' una introduzione rigorosa ma accessibile al problema. I possibili riferimenti specifici alle interpretazioni erronee dei p-value abbondano, da una decina d'anni a questa parte: su Nature: http://www.nature.com/news/scientific-method-statistical-errors-1.14700 ; BMC Research Notes: http://www.biomedcentral.com/1756-0500/8/84 e Nautilus: http://nautil.us/issue/4/the-unlikely/sciences-significant-stats-problem
@gvdr: concordo pienamente con la tua analisi, e hai riassunto perfettamente e meglio di me molte delle domande che mettevo sul piatto. In particolare quando dico che “nessuno dei due ha ragione” voglio solo dire che in entrambi gli studi sono stati commessi errori e non che le due conclusioni fossero sbagliate in se. Sono gli studi a essere sbagliati.
Quando citi l’ultima frase di Lavielle, stai proprio traendo le sue e mie stesse conclusioni. Le parole di Lavielle che la precedono nella citazione dicono esattamente che la statistica non deve portare a metodi decisionali assurdi a livello politico.
“Del resto, la mia opposizione ad un modello di sviluppo che prevede, instaura e rende accettabile lo sfruttamente neocolonialista del terzo mondo NON ha bisogno di interpretazioni sottili di quella statistica. Perché dovrei aver bisogno che gli ogm facciano male per criticare una politica economica disumanizzante?”
Condivido pienamente ed è per questo che intervengo nei commenti a questo post. Ma molti (non su Giap!, altrove), ad esempio il Bressanini citato nel post, lavorano insistendo sulla dicotomia scienza esatta vs militanti accecati dalla politica, quasi si parlasse di Galileo contro i dottori della chiesa, per restare nelle ipersemplificazioni da baciperugina.
Le interpretazioni sottili della statistica si rivelano un’arma potentissima anche grazie alla narrazione che ne viene fatta. Il caso Monsanto-Séralini è per me un ottimo esempio (nelle mie limitate conoscenze). Dobbiamo lasciare che la politica economica disumazzinante usi quest’arma a suo piacere, supportata dalla sua schiera di divulgatori e scienziati?
Credo che tu ed io stiamo dando la stessa risposta a questa domanda e mi fa piacere poter approfondire con il materiale che citi.
Credo che il punto fondamentale dell’articolo di Mariano sia il concetto di “engagement”, che non significa affatto “attivismo”, ma in definitiva farsi fino in fondo, onestamente, dolorosamente portatori del carico di complessità. Guardare l’abisso, e farsi guardare. Ciò che, nel mio piccolo, chiedo alla buona letteratura (scientifica o meno) è di sgombrare il più possibile il campo dai fraintendimenti, e portare in superficie le implicazioni insite nei “fatti”, mettere a fuoco le connessioni nascoste, siano esse confortevoli o perturbanti (meglio l’ultima opzione). Poi, di lasciarmi da solo con queste nuove domande.
Tutto il lavoro di debunking svolto dal CICAP in questi anni vale meno ai miei occhi per la verità “oggettiva” portata a galla sui fatti di quanto non sia interessante per l’immagine che ci restituisce dell’uomo e dei suoi processi o bias cognitivi. La persistente e necessaria attualità del pensiero mitologico, il funzionamento della mente attraverso il simbolo, il bisogno diffuso dell’irruzione del fantastico nel quotidiano, perfino in certi casi l’urgenza estetica che trascende l’ideale di verità (“qu’importe si c’est vrai, puisque c’est si beau”). Dagli archivi può emergere un mondo di truffatori e sempliciotti, da una parte, e di alfieri della logica aristotelica e della verifica oggettiva che vi si contrappone. Ma l’affresco può anche essere letto in altro modo, perché ognuno di noi cerca disperatamente di cartografare la fuggevole realtà in modo da riconoscere i suoi confini e le sue coste, per controllarla e navigarla al meglio – e in questo non vedo differenze, se non metodologiche, nell’una o nell’altra fazione.
L’engagement, di cui parla Mariano, è sentire fin nelle ossa la vertigine della complessità, che il fact-checking in alcuni casi (verrebbe da dire, in tutti) non elimina ma al contrario alimenta. Come anche Luca Casarotti sottolineava, non è tanto o non solo la fase della verifica dei dati il fulcro problematico e fecondo del dibattito, quanto piuttosto la conseguente ermeneutica.
Al di là delle posizioni espresse da Mariano sulle dinamiche Davide/Golia, se una ricerca, per quanto scrupolosa, propone una lettura chiusa dei fatti, significa per l’appunto che una lettura è stata fatta, anche senza avvedersene.
Avanzo dunque un’ipotesi: forse un’analisi che si esaurisce in una “verità oggettiva”, fornendo soltanto risposte, non è per forza né schierata politicamente, né di proposito tralascia le conseguenze politiche della ricerca: forse è soltanto cattiva letteratura.
Con quale credibilità il giornalismo scientifico può definirsi neutrale? E più in generale, il lavoro del giornalista scientifico è compatibile con l’espressione di una chiara e argomentata posizione politica?
La risposta alla seconda domanda è affermativa fintanto che la faziosità non pregiudica il processo di analisi. Per la prima domanda bisogna dire che intanto bisogna evitare di mischiare i piani. Un giornalista scientifico può avere la sua posizione politica, ma questa non deve interferire con le sue analisi. Scopri che qualcosa che ritieni dannoso alla prova dei fatti non lo è; puoi rimanere contrario a quella cosa, ma smetti di dire che è dannosa.
L’esperimento mentale è una cosa poco sensata, ed è pure tendenzioso. Sappiamo tutti cos’è la fallacia naturalistica, per cui non è che se gli esperimenti sono attendibili questo li giustifica, così come sappiamo bene che quando questi sono stati fatti gli scienziati li hanno promossi non solo per la loro presunta attendibilità (alla quale essi credevano), ma perché non avevano alcuna remora a farli su persone da loro considerate prive di dignità. E in ogni caso ognuno è responsabile delle sue azioni, quindi nel caso agli scienziati in questione si potrebbe imputare la mancanza di opposizione, non il fatto che giudicano attendibili i test se questi lo sono, cosa che non fa alcuna differenza.
Poi: entrando nel merito della chiamata in causa di Bressanini e Mautino, che ho letto, ho questa obiezione. Nel dire che gli ogm non fanno male ci si può riferire “solo” a un punto di vista scientifico, perché quello stanno giudicando, in quanto scienziati. In quanto scienziato ti attieni a quello. Poi se si vuole discutere nell’insieme di ogm o di qualsiasi altra cosa si allarga l’obiettivo. Non bisogna mischiare le cose. Come scienziati Bressanini e Mautino possono essere credibili sulla salubrità degli ogm e possono farlo attraverso l’uso del metodo scientifico. Così non potrebbe essere per questioni di altro carattere, che non possono avvalersi del metodo scientifico. Questa non è una presa di distanza dalle responsabilità, questo è precisamente il comportamento responsabile che uno scienziato deve tenere. Prima i fatti, poi le opinioni. E nel caso della contesa legale del contadino contro Monsanto non è che Bressanini abbia affermato le sue opinioni sul contadino da un punto di vista scientifico. Quelle sono le sue opinioni, tenute distinte dalle altre osservazioni di carattere scientifico. Non è che siccome i fatti possono essere strumentalizzati dal potente di turno allora li nascondiamo o cerchiamo di piegarli in modi a noi favorevoli. E vale lo stesso quando si creano simboli per le proprie battaglie. E trovo un po’ strano il finale. Bressanini e Mautino non fanno affatto una pappa indistinta degli attivisti, si sono limitati a smontare le tesi, non certo le opposizioni di carattere politico. Andrebbe fatto un lavoro di autocritica dagli attivisti e dalle organizzazioni militanti, semmai.
Curioso poi che parlando di Contronatura non si sia citata l’introduzione: “nessuno è imparziale. Non lo siete voi che ci state leggendo e non lo siamo nemmeno noi”.
Sul finale: che la verità va detta bene è un impegno personale, se uno vuole oltre a fare il divulgatore fa pure l’attivista e sennò non lo fa. Se poi questo significa che chiunque non sta dalla nostra parte sta dalla parte degli oppressori, be’, questo oltre ad essere a sua volta opprimente, è un altro discorso, e può essere applicato a tutto.
Secondo me ha già risposto (anticipatamente) molto bene, focalizzando il punto della questione tramite un altro esempio, e.talpa nel secondo commento di questa discussione. Cosa viene dato per scontato e naturale da alcuni giornalisti/divulgatori scientifici, e quindi cosa viene rimosso dalla percezione di chi legge. Non basta premettere formalmente il caveat “nessuno è neutrale”, se poi non ci si mette in esame su questo piano, e addirittura ci si incollerisce quando viene sollevata la questione.
Ma può essere che ci si incollerisce perché si viene citati a cacchio? In un post dal titolo “quando la neutralità…” affibbiata a chi fin da subito chiarisce di non essere neutrale?
Il commento di e.talpa solleva un’altra questione, che poteva benissimo sollevare Mariano fin da subito, senza scrivere un articolo del genere, mischiando i piani del discorso. è chiaro che se si discute di fabbisogno energetico le varie tecniche vengono misurate alla luce dei consumi attuali, e nulla impedisce che uno possa allora pensare a consumi minori. Non vedo la rimozione, né tantomeno l’idea di chiudere il dibattito. Bisogna averci dei pregiudizi grossi per insinuare un’idea del genere. Un divulgatore non ha mica la pretesa di esaurire il discorso ed anzi è apprezzabile il fatto che si fermi al suo ambito, che è l’unico in cui ha senso applicare il metodo scientifico per il quale è stato interpellato. Non avrebbe senso infatti chiedere a uno scienziato se ridurre o meno i consumi.
La questione dei “consumi attuali” non è imparziale, ma plasmata dal conflitto che plasma ogni aspetto del nostro vivere in società. La questione dei “consumi attuali” è la questione del modello di sviluppo aka modo di produzione, dunque dello status quo che rimane ambiente incontestato di molti discorsi “mi-limito-ai-dati”. Questo “ambiente” produce cornici di senso di cui spesso il giornalista scientifico non è consapevole, e induce a selezionare preventivamente quali dati commentare e quali no, o meglio: quali storie esemplari scegliere e quali no. Sono in gioco delle retoriche e dei bias, ma si finge (o ci si illude) che il discorso sia 100% factual, scevro da retoriche, bias ed emotività (ogni lettura è emotiva).
È precisamente questo il punto del post di Mariano, come sembrano aver capito diversi commentatori qui sopra. Certo, è sempre possibile che abbiano… “frainteso in positivo”, traendo da un post di merda (come qualcuno continua a qualificarlo) buoni spunti e buone riflessioni corroborate da ulteriori esempi. Esempi che stanno producendo una discussione stimolante e proficua… malgrado il post. Ma mi sembrerebbe strano: sono più portato a pensare che il post abbia sollevato una questione importante e lo abbia fatto in modo incisivo, magari con qualche sbavatura, sì, ma la perfezione non è di questo mondo.
Sono portato a pensare che i commenti interessanti qui sopra siano coerenti con il ben identificabile nocciolo di senso del post di Mariano.
Io non penso di aver sollevato una questione diversa. La questione è -assunta la buona fede- quali ipotesi non dichiarate sta usando inconsciamente il divulgatore e quanto pesantemente possono indirizzare il percepito del discorso. E poi ce n’è un’altra, quasi psicologica: possibile che ci si senta così punti sul vivo, possibile che davvero non si riesca a cogliere quale portata reazionaria può avere un certo metodo di esposizione? Non importa la petitio principi iniziale, se poi si sganciano delle frasi che suonano come delle bombe ideologiche.
Esempio ipotetico: Se esco con un titolo tipo “la Coca cola non fa male” cosa sto dicendo? Che la bevanda non da problemi a livello alimentare, che la multinazionale tratta bene i dipendenti, che ha un buon impatto sulla società? Per me è soltanto una frase completamente priva di significato e dire che si è stati rigorosi (sostituire Coca con olio di palma per comprendere cosa sto cercando di dire) per me vuol dire fare gli gnorri.
Io sono un fanatico della coerenza logica (ove applicabile). Io la penso come Rutherford: le scienze si dividono in due, la fisica e le collezioni di francobolli. Con tutto il rispetto per queste ultime: senza i medici sarei morto. Ma le collezioni di francobolli per quanto di fondamentale importanza non sono il massimo del rigore per potersi permettere affermazioni così tranchant e definitive come vengono generalmente percepite dal lettore, a prescindere dalle intenzioni dello scrivente.
Perciò per me il divulgatore che pensa di mantenersi “puro” limitando il campo della propria analisi rischia in realtà di pigliare delle cantonate clamorose. Il problema non è non voler discutere il modello di sviluppo in quel contesto. Il problema è non dichiarare apertamente che le proprie conclusioni sono valide *esclusivamente* all’interno di quel contesto che non si vuol discutere.
Per Giove, persino una cosa così “consolidata” e attinente alla scienza dura per eccellenza come il teorema di Pitagora è *falso* se non si esplicita l’ipotesi di uno spazio euclideo (Es si sa che non vale su superficie sferica). Figuriamoci quanto può essere ampio l’impatto in “scienze” un po’ meno dure nel non esplicitare quali sono le ipotesi di lavoro. E in campo sociale l’equivalente di dimenticare le geometrie non Euclidee è lasciar passare l’idea che non esiste altro che lo status quo. Cioè in genere dimenticare proprio quelle alternative che “danno fastidio al manovratore”.
Il divulgatore quindi nella sua crociata contro imbecilli e negazionisti a mio avviso dovrebbe mostrarsi più umile. Per riprendere un altro commento, ma chi ha detto che non si può fare una critica forte con argomenti dubbiosi? Vogliamo che il metodo per far prevalere un’idea sia a chi urla di più? La pacatezza e il dubbio imho hanno persino più carte in regola per convincere, persino se si deve instillare un dubbio in un complottista, per dire.
A margine: sono certo che Mariano voleva sollevare un tema generale e non indicare al pubblico ludibrio dei casi specifici. Perciò il fatto che i due divulgatori citati (con cui peraltro m’è parso avesse rapporti cordiali e di stima reciproca) non c’entra nulla. Sono solo esempi ma non si vuole discutere del caso specifico: guardiamo la luna e non il dito.
OT @maurovanetti: il mio fanatismo non mi rende un positivista ingenuo :) sono certamente convinto che l’economia sia fuffa :) ma all’università i compagni mi sentivano dire “è tutto falso” anche se eravamo a fisica. Dovrebbe essere ovvio a tutti che ogni teoria scientifica è falsificabile e contiene in sé elementi potenzialmente ingiustificati, ma in effetti fa bene ripeterlo. Ma non eccediamo in senso opposto: resta vero che esistono certezze più sicure di altre. Che una dimostrazione di un teorema si riveli fallace a distanza di anni nulla toglie al maggior rigore della matematica rispetto a -esempio a caso-la biologia.
Quindi l’EFSA quando pubblica i suoi articoli sull’aspartame deve aggiungere pure articoli sulle aziende che usano l’aspartame? Se scrivi che la coca cola non fa male chiunque capisce che stai parlando di salute. E un qualsiasi articolo che tratti le componenti chimiche della coca cola non rimuove affatto qualsiasi altra opinione sulla dieta, sugli effetti del marketing nei nostri consumi e sul comportamento dell’azienda.
E scusami ma l’emempio geometrico non va bene. Non è che gli ogm fanno bene o male a seconda del modello di sviluppo che abbiamo o di qualsiasi altra condizione. E come puoi leggere nei commenti in questo post http://www.dietcuriosity.it/pizza_o_happy_meal/
si fa anche il passo successivo, a partire dai fatti. Ma quello che tu chiami atteggiamento “purista” è il voler tenere distinti i piani.
È inutile che ci scanniamo tanto non concorderemo :)
Imho invece se scrivi “la Coca cola non fa male” e *davvero* pensi di stare trasmettendo solo un’immagine alimentare o stai ciurlando nel manico o ti manca qualcosa sui principi della comunicazione- minimo sovrastimi il background comune con il lettore sconosciuto e la sua intelligenza- fatto curioso poi in chi vede un mondo pieno di complottisti imbecilli (non mi riferisco a te).
L’esempio geometrico serve solo a evidenziare come dietro l’ovvio ci possano invece essere dei sottintesi che ovvi non lo sono affatto. Eviterei di andare OT sugli OGM, in sintesi essendo per me tutte collezioni di farfalle come esseri umani stiamo facendo quello che facciamo senza avere un’idea affidabile di cosa possa succedere: non solo sugli OGM, ma in generale, perche la palla di vetro per prevedere il futuro ancora non l’abbiamo, e persino per una cosa stupida come un sistema a tre corpi in gravità newtoniana non siamo in grado di proiettare *esattamente* senza calcoli numerici. Figuriamoci se qualcuno riesce a convincermi di *sapere* quali possono essere le conseguenze a lungo termine in alcunché di biologico. Possiamo discutere dei benefici possibili e prendere decisioni politiche ponderate anche con una parvenza di “probabilità” ma da lì a spacciare “certezze” scientifiche per me c’è un abisso.
Disclaimer: lavoro come fisico e sono di sinistra.
Senz’altro bisogna porre attenzione ai contesti descritti negli articoli di giornalismo scientifico, però in generale, il fact-checking e il razionalismo scientifico restano cose di sinistra, perchè la destra fa un uso massiccio di argomenti irrazionali e privi di fondamento.
Poi, non meno importante, c’è il problema che voi sollevate; cosa succede se gli stessi argomenti razionalisti si volgono contro i presupposti della sinistra? Beh, qui è irrelevante se si tratta di giornalismo scientifico o meno. Penso per esempio ai dogmi che hanno avuto i diversi governi comunisti, anche su argomenti scientifici, ma soprattutto nell’ambito economico; anche se sono a favore di un economia controllata dallo stato, bisogna analizzare l’andamento delle economie centralizzate da un punto di vista più oggettivo.
Allo stesso modo oggi giorno ci sono argomenti pseudo-scientifici con rispetto all’alimentazione; sebbene si può criticare l’impostazione dell’articolo citato del Bressanini, ha ragione in un punto generale, almeno come lo leggo io: una critica forte non si può fare con argomenti dubbiosi. L’omeopatia per esempio, si presenta come un’alternativa alla medicina centrata nelle malattie, invece di essere centrata nell’uomo come un’entità; si può fare una critica all’impostazione della medicina occidentale, ma allora bisogna essere precisi, perche si aprono porte pericolose. Pericolose per la salute, ma anche per il discorso politico in generale, perchè le credenze non arrivano da sole.
«c’è il problema che voi sollevate; cosa succede se gli stessi argomenti razionalisti si volgono contro i presupposti della sinistra?»
Scusa, ma non mi sembra che il problema sollevato nel post sia questo. Tant’è che né il post né i commenti qui sopra hanno mai parlato di “sinistra”, tantomeno normativamente, dicendo che il divulgatore/fact-checker debba essere o considerarsi di sinistra, e quindi debba adattare quel che scopre o dimostra al proprio essere di sinistra. That would be utter bullshit.
Il problema sollevato è: di quali frame (= narrazioni di base, cornici di senso, quadri concettuali, meccanismi inconsci, condizionamenti ambientali) il giornalismo scientifico basato sul fact-checking può farsi portatore senza minimamente riconoscerli, perciò senza farne oggetto ulteriore dell’indagine (approccio che Mariano suggerisce), e quindi autorappresentandosi come discorso che “sta solo ai fatti”, fatti visti come sufficienti a dire l’oggettiva verità.
Insomma, spesso i presupposti di un certo fact-checking non vengono sottoposti a fact-checking. E questo è il caso dove diamo per implicita la “buona fede” (concetto scivoloso, intendo dire che chi scrive non è conscio delle strategie discorsive che mette in campo). Perché poi ci sono anche i ciurlatori nel manico, quelli che sanno benissimo di usare certe retoriche per favorire certi interessi. Ma devo dire che mi sembra più interessante l’altro caso. Quello in cui, come ha scritto Mariano, «il fatto ineludibile che ogni produzione discorsiva e testuale sia potenzialmente conflitto, resistenza, politica» viene tenuto fuori perché una certa impostazione porta a non percepirlo, a ignorarne l’esistenza.
Io sono, in primo luogo, un’utente dello spazio virtuale, e sto ancora completando la mia formazione universitaria, studiando come biologa. Cerco di districarmi come posso nel ginepraio delle informazioni che mi arrivano addosso, sforzandomi di non appiattire mai il livello di complessità della trattazione di qualsivoglia argomento. Ammetto che si tratti di un lavoro molto complicato, soprattutto dalla “posizione di provincia” in cui mi trovo a vivere, abbastanza lontano da gruppi di discussione e dalla vivacità intellettuale di un “mondo di carne”, conosciuto di persona.
Trovo doverosa questa premessa per capire il tipo di realtà con cui vengo a contatto: poche persone con cui parlare, e un’informazione costruita per lo più su libri e internet facendo una certa fatica, da sola, a scremare contenuti.
Mi trovo d’accordo con le posizioni espresse nell’articolo di Tomatis, e mi sorgono degli interrogativi, e delle urgenze. Innanzitutto io sento di avere un serio bisogno della voce di divulgatori militanti. Jackie Brown scrive che “non avrebbe senso chiedere a uno scienziato se ridurre o meno i consumi”, ma non vedo chi potrebbe dirmelo con una maggiore forza, ma al contempo con onestà intellettuale e pochi bias.
A tal proposito mi scuserete se torno sul discorso OGM. Quello che a me è giunto, molto molto sinteticamente, è che spesso negli ambienti radicali (chiamiamoli così) sia presente un bias semplicisticamente anti-OGM che mischia elementi ideologici (es. rivedere i meccanismi produttivi) con elementi salutistici, spesso allarmistici e con sfumatura di bufala (fanno male alla salute! E il principio di precauzione? etc.). Se nella discussione porto argomentazioni facilmente smontabili con un lavoro di fact-checking che si avvalga di metodo scientifico, qualsiasi altro elemento di riflessione io apporti al mio ragionamento perde di credibilità. Ecco, io questo mix l’ho notato spesso nelle “discussioni in ambienti radicali”, che credo che abbiano bisogno di fare autocritica. Dove sono gli scienziati “militanti”? E se ci sono, perché la loro voce non è abbastanza forte da non sovrastare la retorica venata di bufala e giungere alle mie orecchie? Il dato scientifico, da solo, non mi basta, ammesso che questo mi possa essere trasmesso da un divulgatore in maniera neutrale, e non credo sia possibile. Ma io ho bisogno anche di interpretazioni, e anche di scienziati, e credo sia loro responsabilità fornirmele, semplicemente per aumentare il ventaglio dei sentieri che io, da sola, possa intraprendere per costruire io, da sola, una nuova interpretazione del fenomeno.
C’è un libro molto curioso di Elizabeth Lloyd, il caso dell’orgasmo femminile, che prende in rassegna diversi lavori scientifici passati per mostrare quanti pregiudizi, su tutti quello maschiocentrico, abbiano reso quelle ricerche sconclusionate. E parliamo di una roba da poco, figuriamoci argomenti che mettono in gioco interessi economici. Gli scienziati non hanno maggiore onestà intellettuale e minori bias cognitivi, hanno un metodo e giocano sulla voglia di prevalere gli uni sugli altri per smontarsi a vicenda. Nel momento in cui chiedi a uno scienziato se fare o non fare una certa cosa la sua risposta non sarà scientifica, perché non può esserci una risposta scientifica a quella domanda; sarà un’opinione. Che non significa che non possano essere interpellati, che non si debbano esprimere o che siano esenti da questioni di carattere politico.
Grazie a Mariano per aver scoperchiato il vaso, a Luca, MarBern & e.talpa per come hanno commentato mantenendo il focus sull’importanza delle cornici concettuali e narrative anche in ambito scientifico.
Anch’io come e.talpa sento la mancanza della voce del Cicap, o di un suo rappresentante, e di Bressanini. Entrambi (Cicap e Bressanini) hanno sminuito il post di Mariano e la cosa è piuttosto triste.
Bressanini si è limitato a un commento su un social network (mi pare su Twitter) e il Cicap ha emesso una nota ufficiale http://www.cicap.org/new/articolo.php?id=276174 che – almeno per me – fa acqua: come può essere che in testa all’articolo scrivano che “la questione è di per se interessante e complessa”, e in chiusura che la posizione di Tomatis è il frutto di una “strada sbagliata che non porta un contributo utile a un possibile dibattito”? Non capisco se è un controsenso dettato dalla fretta di rispondere al post oppure il risultato di uno shock. Come può essere che alla presenza di uno scritto che mette in evidenza una questione interna alla comunità scientifica non prendano atto della cosa e passino a una narrazione difensiva scrivendo prima che “non c’è nessuna spaccatura in seno al Cicap” e poi sminuendo tutto dicendo che è tutto frutto di un abbaglio? Ad esempio mi piacerebbe capire perché “le posizioni espresse [da B. Mautino] avevano peraltro tutt’altro senso rispetto a quello che Tomatis attribuisce loro.” Devo crederci perché è una nota ufficiale di un ente riconosciuto a dirlo oppure, qualcuno può raccontarci un po’ meglio qual è il senso delle posizioni espresse? Spiace un po’ vedere come si possa sembrare così approssimativi nell’esposizione di un punto di vista.
Mi auguro che si apra un vero dibattito interno al Cicap, così come si sta facendo su Giap in pubblico, visto che la questione è interessante, a prescindere dalla posizione espressa da chi ha scritto la nota. Nota che, per altro, è firmata dal Consiglio direttivo nella sua interezza.
Il consiglio direttivo del Cicap, in quell’incoerente e sgraziato comunicato, scrive testualmente:
«non esiste a tutt’oggi un dibattito nel CICAP sulle questioni di cui parla Tomatis».
Ehm, appunto…
Boh. Perché lo scrivono?
Per vantarsene? :-/
E io a questi gli verso il 5 per mille… Cioè, parliamone…:-P
La fretta con cui hanno risposto con tutta una serie di “non” è il segnale che la materia è scottante. Ad esempio: Bressanini “non ha alcun ruolo nel Cicap”, quindi viene citato del tutto impropriamente ed è una cosa che – ne sono certi – “gli ha provocato un legittimo fastidio.”
Perché scrivere ciò?
Tra l’altro Mariano non l’ha mai scritto che Bressanini era nel Cicap. Gli unici descritti come soci Cicap, nel post, sono Ferrero e Mautino.
Chi ne avesse “i numeri” (lol) avrebbe lo spunto per un post dedicato al perché si scatenano delle reazioni così veementi (by the way,solidarietà a mariano per gli strali che si è ingiustamente attirato).
Una volta capito il perché di questa rimozione/incapacita di comprendere si potrebbe passare al che fare:imho bisogna lavorare per demolire il falso neutralismo senza inimicarsi i tre quarti del mondo “scientifico”.
Sinceramente speravo che avendo mariano dei contatti avrebbe avuto un po’ più d’apertura di credito. Sarò stato ingenuo ma non mi aspettavo tanta violenza da un post che francamente m’era parso pure moderato.
Beh, come minimo, con questa bella prova di brutta prosa nel genere letterario dell’anatema burocratico, il mio 5 per mille se lo sono giocato.
Gli davo il 5 per mille per romanticismo, ricordando una sera del 1977 in cui, forse a letto ammalato o dopo aver finto di andare a nanna (non ricordo bene il frangente), accesi il televisorino in bianco e nero che avevo in camera (ché poi la mia camera era il soggiorno, dormivo in un letto che di giorno era un falso armadio). C’era Piero Angela, uno speciale – poi divenuto celebre – di Quark sul paranormale, contro “sensitivi” e “paragnosti”, con James Randi che ridicolizzava Uri Geller… La primitiva computer graphic nella sigla, la musica di Bach (allora non sapevo che era Bach), i filmati, quei misteri abilmente svelati…
Sì, sono un po’ un mona. Ma è anche grazie a questa parte di me che ho conosciuto Mariano :-)))
Stessi ricordi, ma Quark è iniziato nel 1981 :)
Io non ho mai pensato di dare a costoro il mio 5 per mille, soprattutto dopo aver visto negli anni qualche brandello di puntate più recenti di SuperQuark ancora impregnate quel patetico mito del progresso sopravvissuto fino agli anni ’80 (dai ’50-60-70 delle conquiste spaziali) in cui si pensava che nel 2000 avremmo viaggiato su automobili volanti.
Per tornare al tema del post, Quark ed i suoi figli sono proprio un caso eclatante e – non a caso – longevo, di divulgazione scientifica con l’atteggiamento arrogante bianco/nero scienza/attivismo che spaccia per neutrali e oggettive una serie di “verità” accettate da governi e maggiornaza dell’opinione pubblica (e, guarda caso, multinazionali!) che sarebbero come minimo da approfondire. Per citare qualche caso scottante, la sacralità dell’efficacia dei vaccini, o come Quark ha sempre spalleggiato la presunta sicurezza dell’energia nucleare (Fukushima docet, sul principio di cautela anche dei pericoli non accertati al 100%).
P.S. Sono (ero) un fisico anch’io, tuttora spesso tacciato da ex-compagni di studi di eccesso di dubbiosità e “attivismo” antiscientifico.
Allora non era ancora Quark, ma uno speciale di Angela sul paranormale? Probabilmente la sigla con Bach l’ho sovrapposta successivamente, ma l’associazione (archetipica, direi) Angela – TV – debunking di Uri Geller è parecchio Seventies, nella mia memoria.
Poi, sui problemi epistemologici e le retoriche di quel tipo di divulgazione, sono d’accordo. Ma da lì siam partiti, un po’ di affezione è comprensibile :-)
Il tema della parresia è esplicito nel post, dove si parla dell’impossibilità di distinguere nettamente tra retorica e parresia; e attraversa anche i commenti, anche se rimane implicito e un po’ inosservato. Ma c’è, ed è potente.
La parresia, ché non è obbligatorio ricordarselo al volo, viene qui
http://unaparolaalgiorno.it/significato/P/parresia
descritta efficacemente come il “diritto e dovere attribuito al cittadino, e specie all’uomo pubblico, di dire tutto, di non frapporre filtri o deformazioni o censure fra ciò che pensa e ciò che dice: dire tutto, e quindi, dire la verità.”
Bressanini, quindi certamente non il primo che passa, assicura ai propri lettori che:
“Qui, badate bene, non si sta discutendo se gli ogm convengano o meno, se facciano male o meno, se siano adatti all’agricoltura italiana o meno, se sia giusto o no brevettare dei geni. Stiamo parlando di raccontare la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità!” (fonte: http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/02/23/ogm-il-ritorno-di-schmeiser/ )
Non è proprio in questa semplice frase il cuore della questione posta da Mariano – almeno per me, per noi non scienziati né aspiranti tali – e dunque potenziali fruitori ed eventualmente “vittime” della divulgazione scientifica? Non è in questa sorta di mise en abyme in cui all’interno di una strategia discorsiva che nega di aspirare alla completa verità (“non si sta discutendo se… facciano male o meno…”) si finisce per affermarne una che pretende di essere addirittura “tutta la verità”?
Ogni contorcimento epistemologico e deontologico ulteriore (sui conflitti di interessi… sui limiti che si pone il divulgatore…) mi pare scomparire di fronte all’evidenza dell’autoproclamarsi parresiasta. Ma un parresiasta del tipo che nega alla radice quando invece correttamente affermato da WM1 nel passaggio citato da Tomatis: c’è sempre un nesso tra il raccontare una verità e il come la si racconta – quindi tra parresia e retorica. Nesso tanto forte da spingermi a dire che la parresia è sempre la produzione di un discorso che convinca l’ascoltatore di trovarsi di fronte alla verità – ma quella verità resta comunque sempre impastata di parzialità, retorica, narrazione. Niente di male: basterebbe ammetterlo.
Come promemoria per diffidare da chi nomina (o si autonomina) parresiasta, voglio invitarvi a leggere queste due righe:
“Chi parlava senza blandire o mimetizzarsi era chiamato parresiasta. […] Ci vuole coraggio per firmare le proprie parole, parlando-vero. Chi lo possiede non ha la vita facile, deve esser cauto se non vuol ricadere nel parlar-falso. […]In tempi di crisi, la parola del parresiasta si accosta a quella profetica, o del saggio.”
Sapete cosa sono? Un articolo di Barbara Spinelli (del 2012) che nomina Monti statista e parresiasta, perché questi spaccia le sue “verità” sul debito pubblico con l’aria del “tecnico”, e la Spinelli casca in pieno in quella strategia discorsiva costruita su un castello di omissioni, menzogne, mezze verità interessate solo alla privatizzazione integrale di ciò che ancora era ed è in mano pubblica. Verificate qui: http://www.repubblica.it/politica/2012/01/04/news/coraggio_verit-27564844/
Insomma, andarci piano con la verità è il primo consiglio.
scusa, forse ho capito male ciò che scrivi, ma mi pare che siamo al fraintendimento completo. A parte che non mi pare una cosa saggia andare a prendere stralci di discorsi pubblicati in un blog, decontestualizzati, lasciati in pasto ai lettori che non conoscono il blog, l’autore eccetera. Non riesco a pensare che prendi le parole di Bressanini come le parole di un mitomane. Nello stralcio che hai preso stava semplicemente dicendo che lasciando da parte le discussioni sugli ogm, pane quotidiano del suo blog e dei suoi lettori, lì si parlava di come la vicenda dell’agricoltore è stata presentata al pubblico, di quanta disinformazione e disonestà intellettuale si siano spacciate per portare acqua al proprio mulino. Se hai la pazienza di leggerti le sue cose vedrai che non fa altro che mettere in guardia i lettori dalle strategie retoriche e dai bias che si intromettono nel lavoro dello scienziato, di come sia utile per chi volesse diventare divulgatore tenere presenti i vari piani psicologici sociali eccetera.
Se qualcuno premette «sono matto» a una propria affermazione (chiamiamola la strategia del giullare), può darsi che dica una verità. Naturalmente uno può premettere «sono matto» in modo da dare l’idea di essere un giullare e quindi (sfruttando il pregiudizio positivo) dire una menzogna incredibile.
Sono strategie retoriche, tutto qui. Bressanini – in generale la divulgazione scientifica – ne fa uso, ma dice (almeno, lo fa Bressanini) di attenersi solo ai fatti e quindi di dire coi fatti «la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità!», secondo la nota formula.
A proposito di “stralci” e decontestualizzazioni: basta seguire i link, se ho stralciato e decontestualizzato ho fornito le fonti con cui smentirmi, più di così non posso fare, non potendomi astenere dall’avere opinioni. Lo stesso vale per il seguente esempio, che sarebbe questo qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/05/28/suicidi-cotone-trilussa/243218/
Bressanini se la prende con chi «racconta storie»:
«Un ricercatore cerca spiegazioni, fa analisi, controlla dati, fa ipotesi, verifica se sono false. Un giornalista invece, o un documentarista, vuole raccontare una storia. E a volte le regole della narrazione impongono che ci sia un buono e un cattivo, in modo da far identificare il lettore o lo spettatore nel buono e contro il cattivo. E se nella storia da una parte ci sono poveri contadini suicidi e dall’altra una ricca multinazionale hai vinto facile, a mani basse. Non c’è storia. La forza emotiva è enorme.»
Curiosamente questa affermazione è a premessa di un testo in cui:
– racconta una storia: ovvero quella del successo di alcune coltivazione di cotone BT in India
– si richiama all’autorità di cifre e statistiche di cui il lettore non può ovviamente controllare l’esattezza: può solo fidarsi dell’autorevolezza di Bressanini e della sua fonte, e dunque del principio d’autorità (le cifre sono vere perché lo dice il tale ente statistico etc). Questo appellarsi all’autorità produce un effetto di verità narrativo – e quindi un elemento che non è strettamente fattuale ma fiduciario, ideologico.
– il post ha uno stile brillante e un procedere narrativo (una situazione piena di dubbi e inganni, segue l’agnizione dei dati statistici, che viene poi di seguito spiegata passo passo etc) e giunge persino a usare una poesia (il pollo di Trilussa) per supportare la propria tesi.
E tutto questo mentre si dice che:
«In inglese si dice “You are entitled to your own opinion, but not to your own facts”. Che potremmo tradurre con “hai diritto di avere le tue opinioni personali, ma non alla tua versione dei fatti”. I fatti sono fatti. Uguali per tutti.» (stessa fonte linkata sopra)
Non è vero: i fatti sono una parte della verità, sono costruiti lungo linee retoriche, la parresia pura non esiste.
Rinunciare alle pretese di esaustività e di onniscienza, come scrive @giac in un commento qui sotto, renderebbe un servizio migliore a chi legge divulgazione scientifica. E con questo intendo rinuciare all’«effetto di verità» che spinge a dire «questi sono fatti» che percorre tutto un testo, e non semplicemente cavarsela col premettere (talvolta, quando ce ne si ricorda) «io sono di parte, come tutti gli altri d’altronde» ma poi dimenticarsene quando si scrive e si vuole convincere non solo della bontà delle proprie tesi, ma della loro… ineluttabilità…
No, i fatti non sono costruiti lungo linee retoriche. Questa si chiama impostura. I fatti sono raccolti attraverso processi imperfetti, illuminati sotto diverse angolature, raccontati in modi diversi, percepiti in maniera diversa, ma quelli restano. Sono quello strumento che ti consente di affermare o meno la verità, non una parte della verità. Tutta l’approssimazione che vuoi, ma questo fanno gli scienziati. Bressanini, che non ha affatto pretese parresiastiche (la nota formula è usata come battuta in un post che parla di vicende giudiziarie), come ogni scienziato serio, se la prende non con chi racconta storie, ma con coloro che per raccontare storie piegano i fatti a loro uso e consumo, distorcendoli. Non è che siccome usiamo il linguaggio per comunicare allora ogni storia sta sullo stesso piano. Le sue sono storie che si poggiano sui fatti. Tu puoi dire che si sbaglia, mettere in discussione l’intero impianto teorico, le statistiche, gli esperimenti, quello che vuoi, che il cotone bt non ha avuto successo, che lui è di parte, ma rimane il fatto che il cotone ha avuto successo oppure no, non è che la situazione cambia a seconda di chi racconta la storia. Per smentirlo devi usare fatti che dimostrino il contrario, non metterne in discussione le strategie retoriche. Questo serve per un altro scopo, utile, di trasparenza, ma non è sul piano della retorica che si può mettere in discussione il piano della ricerca. Chiaro che si ha un potere, che il lettore si deve fidare delle statistiche che riporta, ma come vuoi fare diversamente? Per questo non è pensabile l’idea che un divulgatore smetta di dire “questi sono i fatti”. Non è una strategia retorica, è precisamente il suo compito: scoprire come stanno le cose per quel che è possibile e dirlo agli altri. Ciò che può essere utile al lettore, come nell’introduzione a contronatura, è dire che più che cercare di convincere viene mostrato il processo attraverso cui si è giunti a delle conclusioni. Spiegare come si fa ricerca, cosa vuol dire fare un esperimento, cos’è la peer review, spiegare come mettere ogni ricerca pubblicata nel contesto della varie ricerche, offrire il quadro storico eccetera.
Nel dire che lo scienziato abbia meno bias e più onesta intellettuale sono caduta in una semplificazione eccessiva. Tuttavia quel che volevo intendere è che egli possiede, nel suo bagaglio culturale, uno strumento in più per interpretare dei fatti (i dati scientifici) e si avvale di un metodo che, lungi dal fornire tutte le risposte, cerca di fare sua colonna portante la possibilità di tornare sui propri passi, di abbattere il muro del luogo comune. Quello scientifico non è un metodo perfetto, ed essendo ogni scienziato figlio del suo tempo, nel luogo comune spesso rimane imbrigliato. E “la scienza” è fatta di uomini, ed è influenzata dai rapporti di forza fra gli uomini.
Appunto per questo quindi io mi auspicherei di leggere di scienziati che la smettano (perdonate il termine un po’ veemente) con questa smania della ricerca del Santo Graal della neutralità scientifica: non ha molto senso. Anzi forse tende ad appiattire il dibattito. Scienziati che pur presentandomi dati, ricerche, considerazioni, accettino di voler trasmettere anche altri contenuti.
Premetto che sono completamente d’accordo con questo articolo nel sottolineare un problema grosso in ambito di divulgazione scientifica: la mancanza di attivismo presente negli ultimi anni.
L’argomento mi sta a cuore quindi mi permetto di scrivere questo contributo, perché credo che questo problema sia solo una faccia di un problema più grosso. E spero di non andare off-topic nel spiegarmi.
Il problema è secondo me un circolo vizioso: da un lato la mancanza di attivismo nella scienza e dall’altro la mancanza di formazione scientifica nell’attivismo.
Naturalmente per attivismo intendo solo quello di sinistra, e la mancanza di attivismo, la neutralità, come anche questo articolo, la considero di destra.
Tuttavia credo non si possa analizzare il primo problema senza il secondo.
Sono anni che mi occupo professionalmente di scienza e posso concordare che la figura dello scienziato militante è rara agli alti livelli (con grosse differenziazioni tra le diverse scienze).
Questo problema a me sembra recente, e successivo al crollo dell’Unione Sovietica; addirittura potrebbe essere dovuto a una sorta di fenomeno di rigetto del “marxismo dialettico di stato”, dell'”elettrone socialista” e altre storture.
E’ tuttavia un dato di fatto che sia così anche per un altro motivo: il graduale abbandono della scienza all’interno dei movimenti e partiti di sinistra.
La “sinistra” ha colpe immense nell’aver relegato la scienza a una forma di cultura di serie B, paradossalmente seguendo esperienze che erano più fasciste che altro. E metto le virgolette a “sinistra” per allargare l’accezione a partiti, movimenti e chiunque si definisca con questa parola, anche quando nei fatti magari si dimostra tutt’altro.
Ancora oggi ci sono tantissimi compagni, sedicenti acculturati, che si vantano di non capire un cazzo di matematica o altre scienze.
Solo alcune minoranze hanno continuato a credere nella scienza come mezzo di liberazione, perché non basta sapere una parola in più del padrone, serve anche saper fare di conto e saper fare misure, meglio del padrone.
La “sinistra” si è invece spesso messa a fomentare paure antiscientifiche, e inventare vere e proprie bufale, a sostegno di lotte altrimenti giuste. E allora quando si lotta contro le multinazionali bisogna inventarsi che gli OGM fanno male, quando si lotta contro i radar anti-migranti bisogna inventarsi che fanno male alla popolazione locale o alle api (sic!). Quando si lotta contro le pratiche repressive tipo TSO bisogna inventarsi che tutta la psichiatria non ha basi scientifiche, etc etc. Lotte giuste, rovinate da cazzate al limite del complottista.
E allora le strade di scienza e sinistra si son allontanate, anche se non è sempre stato così nemmeno in Italia.
Ricordo distintamente che la rivista “Le scienze”, quando diretta da Bellone, era ben lontana dall’essere neutrale o di destra. Era schierata decisamente a sinistra, sia negli editoriali che in vari contributi. Purtroppo la nuova direzione sembra aver cambiato strada, verso una “neutralità” decisamente di destra (almeno dal punto di vista di politica economica).
Non ho una soluzione, non credo che le scuole di partito (ancora esistessero) o l’autoformazione dei movimenti possano sopperire alle carenze scientifiche di alcune generazioni di studenti. Serve legare questo aspetto alla lotta per la scuola che nell’essere laica deve insegnare solide basi scientifiche per contrastare le superstizioni in ogni forma.
I collettivi scientifici di molte università spesso tentano di legare la militanza al razionalismo scientifico (nella tradizione di partigiani-scienziati come Ludovico Geymonat), ma vengono spesso messi a lato dagli equivalenti umanistici.
La lotta alle superstizioni deve essere ripresa in mano dalla militanza di sinistra anche per contrastare fenomeni di tecnocratismo e di giustizialismo che si stanno diffondendo in molti ambienti di “debunking”; come sempre succede quando si lascia ai “liberali” il compito di lottare.
Credo che affrontare i due problemi assieme sia più fecondo insomma, e scusate per il commento prolisso.
Ciao car*, qui la fu EveBlissett. Ricompaio su questi schermi dopo qualche secolo e dopo qualche ora di litigio con wordpress per reimpostare la password perchè l’argomento mi sta particolarmente a cuore: tra un mese dovrei laurearmi in medicina e mi trovo da qualche anno a riflettere (e discutere) su molti dei temi affrontati nel post.
Provo ad andare per punti, altrimenti mi perdo:
1) Il passaggio del post in cui Tomatis mette in evidenza che dietro certe scelte terminologiche di Bressanini (“un furbacchione” e “correttamente condannato l’agricoltore perchè ha fatto il furbo”) in realtà si nasconde – nemmeno troppo bene, aggiungerei – un atteggiamento legalitario-giustizialista, mi ha riportato alla mente una riflessione che facevo qualche tempo fa riguardo ad una pagina Facebook piuttosto famosa, che molti Giapster forse conosceranno, che si chiama Protesi di Complotto e con ben 65.000 fan è uno degli hot spot di ritrovo degli scettici di Zuckerberglandia. La descrizione della pagina, che riporto, è questa: “Scie chimiche, 11 Settembre, HAARP, Atlantide, Rettiliani e altre supercazzole. Per capire un po’ meglio la mentalità complottista” viene messa in atto una continua presa per i fondelli con tanto di screenshot di post di teorici del complotto e fan delle cosiddette pseudoscienze. Ad una lettura superficiale è pure divertente, ci ho riso su spesso anche io, lo ammetto candidamente. Andando più a fondo, però, emergono delle storture non da poco: la prima, che mi ha terrorizzata non poco, è che si leggono fin troppo spesso commenti ai post in cui i cosiddetti scettici fan della pagina condannano senza appello il complottaro di turno con affermazioni tipo “TSO SUBITO!” o “Maledetto Basaglia, è colpa tua”. Insomma, ho avuto la bruttissima impressione che giustizialismo e legalitarismo (e peggio) siano un atteggiamento piuttosto diffuso nella “comunità scettica” italiana e non un problema del solo Bressanini.
Un altro problema grosso di Protesi di Complotto è che non viene fatta alcuna distinzione critica e sensata tra gli argomenti proposti ed esposti al pubblico ludibirio e qualsiasi cosa devii un minimo dalla norma codificata viene bollata come “supercazzola complottara”: in mezzo a post in cui si perculano i fan dell’urinoterapia o quelli spaventati dai rettiliani compaiono spesso anche prese per il culo delle lotte No Muos ed altri argomenti che meriterebbero quantomeno un minimo di problematizzazione ed un’analisi più approfondita rispetto all'”A-ha, stupidi complottari” standard (argomenti su cui tra l’altro anche il dibattito interno alla comunità scientifica è ancora piuttosto controverso e bollare una posizione come incontrovertibilmente vera e il suo opposto come incontrovertibilmente falso è, a mio avviso, un atteggiamento abbastanza ottuso). Protesi di Complotto è il primo esempio che mi è venuto in mente, ma mi sembra che rispecchi abbastanza bene gli atteggiamenti che vanno per la maggiore tra gli scettici, o presunti tali.
2) Informazione scientifica e colonialismo, ovvero la questione a cui accennavo su Twitter. Negli ultimi mesi ho seguito un po’ la sperimentazione di VSV-Ebov, il vaccino per Ebolavirus ideato in Canada ma prodotto e distribuito da una multinazionale americana. La fase III della sperimentazione, che si è conclusa con successo a fine luglio scorso, ha avuto luogo in Guinea Conakry, grazie al lavoro congiunto del governo guineano, dell’OMS, e di strutture governative norvegesi, britanniche e canadesi. Nel comunicato stampa ufficiale dell’OMS vengono riportate dichiarazioni dei responsabili guineani del progetto e Margaret Chan (Direttore Generale dell’OMS, ndr) sottolinea i meriti del governo guineano. Sulla stampa italiana (mi è saltato all’occhio in particolare l’articolo di Repubblica) è successo questo: non solo dopo l’attenzione ipertrofica e politicamente strumentale data all’epidemia di ebolaviru mesi fa, alle sperimentazioni del vaccino sono stati dedicati trafiletti di poche righe tradotti male dal comunicato originale (tipo che l’autrice ha scritto ripetutamente “Guinea Conkry”, piuttosto che “Guinea Conakry”), ma soprattutto, le parti del comunicato originale relative ai meriti del governo guineano sono state sistematicamente tagliate per dare spazio a uno gnegnegne ombelicocentrico sul fatto che il vaccino canadese abbia “battuto”, nella fase di test, quello italiano proposto alla fine del 2014.
Ora, la stampa italiana mainstream fa schifo, niente di nuovo, ma la vicenda mi ha portata ad una riflessione più ampia in merito alla neutralità della divulgazione scientifica in genere (riflessione che tra l’altro è applicabile alla perfezione anche al caso “contadino” vs “Monsanto” citato nel post): la divulgazione scientifica e l’idea di scienza su cui si basa sono prodotti della cultura occidentale e risentono, anche solo ad un livello inconscio, di schemi di pensiero occidentecentrici e colonialisti. Con queste premesse, parlare di neutralità diventa ancora più illogico.
3) Faccio l’avvocato del diavolo. Siamo sicuri che il problema sia lo scetticismo in sè e non piuttosto il modo superficiale e da bar in cui molti degli autonominati scettici si approcciano alle questioni scientifiche, aggrappandosi in maniera ottusa e facendo passare per fatti e verità incontrovertibili determinate posizioni e bocciandone in maniera tranchant altre, senza nemmeno valutare posizioni intermedie o margini di errori?
Quando mi ritrovo a riflettere su queste questoni arrivo sempre alla conclusione paradossale che se questi autonominati strenui difensori della scienza fossero nati nel Cinquecento, avrebbero bollato le teorie eliocentriche come pseudoscienze.
4) In medicina il problema è diventato più complesso, perchè ho l’impressione che le narrazioni tossiche che infettano i discorsi sulla scienza e sulla scientificità di cui sopra stiano pericolosamente iniziando a sconfinare anche nell’approccio pratico. Se da un lato è assolutamente sacrosanto che certe teorie non sfiorino nemmeno lontanamente l’approccio medico, vista la delicatezza e la complessità delle questioni affrontate (e qui mi riferisco in particolare ai vari Di Bella, Stamina e supporter cazzari vari ed eventuali), di contro io trovo pericolosissima anche la recente ed abbastanza diffusa deviazione à la Dr House che confonde pericolosamente scientificità/razionalismo con spersonalizzazione e tende ad una brutta idea di medicina ancora più concettualmente ipercapitalistica rispetto a quella che già c’è.
Concludendo, ringrazio Mariano Tomatis per il bel post e voi per aver deciso di affrontare la questione, perchè secondo me è più rilevante di quello che potrebbe sembrare anche in termini di possibili trasformazioni sociali macroscopiche future.
Chapeau. Condivido tutto. Inclusa la sensazione che potrebbe essere più importante di quanto sembri, e che certi scettici danno l’impressione che sarebbero stati dalla parte dell’inquisizione.
Eppure.
Come dicevo nel mio post iniziale, a me vengono in mente subito due amici miei, persone intelligenti, di sinistra radicale. All’università era uno dei due che mi diceva che negli ambiti umani probabilmente una verità non esiste, non io a lui. Sono passati dieci anni, che è successo? È una reazione ad un (presunto) aumento dei cazzari? Ai social network e relativo aumento di visibilità delle bufale virali?
E com’è possibile che io non riesca a farglielo notare, a farglielo “sentire”?
La scienza è neutrale: fortunatamente le leggi della fisica, le regole matematiche, le reazioni chimiche, i processi biologici non rispondono alle regole umane. Gli scienziati non sono neutrali, quindi lode a quelli che lo sanno e cercano di tenere su livelli separati quello che i fatti dicono loro e le loro eventuali opinioni.
Io so benissimo che, se fossi un ricercatore che sottopone a verifica una teoria, qualunque risultato potrebbe essere usato strumentalmente da qualcuno, sia esso la Nestlè, Greenpeace o Yanis Varoufakis. E allora cosa dovrei fare? Manipolare i fatti? Divulgare solo le scoperte che possono giovare alle persone che mi sono ideologicamente più vicine o più utili alle lotte sociali che condivido? Proporre delle interpretazioni più o meno prudenziali a seconda delle mie opinioni personali invece che del livello di certezza offerto dalle procedure? Questa non è scienza, è prostituzione intellettuale, che di fatto segue le stesse regole del complottismo più becero – enfatizzare solo i risultati che confermano i propri pregiudizi. Se conduco un esperimento, devo accettarne gli esiti. Se non lo faccio, non sono uno scienziato. Forse sono un attivista, certamente sono un cialtrone.
Oltretutto, la scienza è prevedibile fino ad un certo punto. Un risultato promettente oggi può finire in un cul-de-sac in due mesi e può servire come base per chissà quali altri sviluppi tra vent’anni. Un risultato apparentemente dannoso per le lotte sociali oggi può diventare loro fondamentale per delle scoperte future. E allora chi la decide la convenienza politica? Io? Sulle basi delle mie attuali convinzioni socio-politiche personali? Mi sa un po’ di delirio di onnipotenza.
Credo inoltre che certi movimenti e certe organizzazioni dovrebbero analizzarsi con attenzione e decidere quali battaglie, e soprattutto quali combattenti, conviene continuare ad ingaggiare. Pensare ad un modo diverso di intendere l’alimentazione non può essere fatto difendendo e portando sul bavero battaglie contro gli OGM basate su considerazioni ideologiche che non possono resistere più di 5 minuti ad un fact checking serio, perché si perde credibilità. Non si può, pur di parlar male dell’America, sponsorizzare chi va in giro a delirare di complotti lunari e scie chimiche. Non si può, pur di dare addosso alle multinazionali del farmaco, dare visibilità a metodi scientificamente inaccettabili e fattivamente inutili se non dannosi come l’omeopatia. È lo schema del “nemico del mio nemico”, e uno che propina il falso non può essere mio amico, prima di tutto perché io non sono un ciarlatano, e poi perché rischia di danneggiarmi. Big Pharma non è il cattivo di una scontata sceneggiatura di genere, a cui deve essere imputata ogni nefandezza perché altrimenti lo spettatore non può serenamente accettarne la sconfitta; inoltre, insistendo su bufale e teorie strampalate pur di attaccarla, si rischia di regalarle il ricorso al vittimismo, che come argomento ha sempre una discreta presa.
Piccola considerazione conclusiva: noto che in giro, qui tra i commenti e su Twitter, c’è chi celebra questo articolo con la bislacca motivazione che ha scatenato delle reazioni stizzite, secondo una logica che assomiglia pericolosamente alla retorica del “molti nemici, molto onore”. Mi limito a sottolineare che una replica sprezzante non si ottiene solo toccando nervi scoperti, ma anche propinando insensatezze.
La discussione, come il post, è qui, leggibile da tutti, coi suoi argomenti, i suoi esempi, i dubbi espressi, le domande, i riferimenti a dibattiti scientifici, perizie giudiziarie, esperimenti, epistemologia, eziologia e deontologia. Chiunque può leggersela e verificare se corrisponde o no alla caricatura che ne stai fornendo tu con questo commento che è poco più di uno sfogo caricato a faciloneria.
Chiunque può verificare coi propri occhi se, come hai scritto, qui tra i commenti “c’è chi celebra questo articolo con la bislacca motivazione che ha scatenato delle reazioni stizzite”. Poiché tale motivazione è del tutto assente dal dibattito, ne concludo che dei veri termini di questo dibattito te ne infischiavi prima di postare il commento e – plausibilmente – te ne infischi ora. Mi verrebbe da invitarti a una maggiore serietà e a un maggiore rispetto per chi sta discutendo, ma a cosa servirebbe?
Vai per la tua strada lastricata di certezze, e buon viaggio.
Quindi i commenti delle 5:50 del pomeriggio e dintorni sulle reazioni piccate e troppo rapide, come se si fosse toccato chissà che nervo scoperto, del CICAP – che ha piuttosto chiaramente scritto di non essere interessato ad un dibattito del genere, perché l’argomento è potenzialmente interessante ma come è stato affrontato no, anche loro se ne andranno per la loro strada lastricata di certezze, presumo – devono essere un bug del mio computer.
A parte questo, se parliamo di neutralità, di scienza e di fact checking, qualcuno mi dovrà poi spiegare cosa c’entrano le perizie giudiziarie, che nella gran parte dei casi non appartengono a nessuno di questi campi – e proprio per come sono costruite, non per cause incidentali, vedi tra l’altro alla voce perizie di parte – al punto che vengono glissate in buona parte dei commenti. Resto comunque a disposizione per capire come dovrebbe comportarsi uno scienziato, magari un membro del CICAP, di fronte ad una prova scientifica palese come quella della vicenda Stamina/Vannoni citata in qualche commento, se non smentendo categoricamente delle ricostruzioni ai limiti del fantasioso e soprattutto meramente opportunistiche di un tizio che ha fatto sciacallaggio sulla disperazione di genitori, indipendentemente dai rischi di strumentalizzazione, peraltro possibile qualunque cosa lo scienziato sostenga ed in questo caso particolarmente odiosa da entrambe le parti “scientificamente” coinvolte.
Anche le nostre reazioni alla “bolla di scomunica” del CICAP (che, ad esempio, io ho sovvenzionato per anni e di cui Mariano è stato a lungo socio e pubblicista) sono lì e tutti possono leggerle, verificando coi propri occhi se corrispondono alla descrizione che ne hai dato tu.
Che si debbano smentire categoricamente le bufale è la base minima di partenza della discussione. Se tu e altr*, a differenza di chi sta discutendo seriamente in questo thread, siete incapaci di – o comunque indisposti a – muovervi anche solo un passo oltre questa premessa da tutti condivisa e porvi i dubbi e problemi legati al come, al dopo, al contesto comunicativo in cui avviene la smentita (che, come molti hanno fatto notare e come del resto dicono diversi studi di neuroscienze e linguistica cognitiva, non basta), beh, non è colpa nostra.
Il “bug” non è nel computer, comunque.
Stando all’esempio di cui parlavo, quello dei processi per disastro ambientale, morti e lesioni colpose per esposizione ad amianto: chi assume gli incarichi di perito del tribunale o di consulente di parte? Ingegneri, medici, chimici: molti di essi hanno cattedre universitarie o vi collaborano. Non sono forse membri della comunità scientifica?
Negli elaborati peritali e nelle consulenze tecniche, al fine di supportare la tesi sostenuta, sono citate ampie bibliografie: una volta verificato che si tratta di studi scientifici e non di millanterie, non è forse importante comprendere le ragioni per cui lo studio finanziato ad una certa università dall’unione degli industriali statunitense diverge nelle sue conclusioni dallo studio commissionato da un ente governativo? E non è questo un conflitto interno alla comunità scientifica?
Nel processo, poi, l’apporto tecnico-scientifico entra a far parte di una dialettica più ampia (discussioni e memorie delle parti, convincimento del giudice), ma questo non vuol certo dire che l’apporto scientifico non vi sia, oppure che i consulenti di parte, per l’incarico che svolgono, hanno necessariamente abdicato ai doveri dello scienziato. E lungi da me il dire che la storia giudiziaria non è attraversata da casi di periti e consulenti senza scrupoli, con poca deontologia, o semplicemente sciatti. E ci sarebbe anche da chiedersi perché alcuni possono permettersi di nominare consulenti di primordine e altri sono costretti a ripiegare su scelte meno dispendiose. È un chiedersi retorico, naturalmente: il processo penale non fa che riflettere e rappresentare plasticamente gli squilibri socioeconomici.
Le perizie e le consulenze serie sono una potente faglia di emersione della conflittualità interna al dibattito scientifico. Evidenziare questi punti di emersione, naturalmente portando esempi circostanziati, e studiare il modo in cui i conflitti, le divisioni interne, le differenze di approccio sono rappresentate, o al contrario occultate, è precisamente la questione attorno alla quale qui si vuole confrontarsi.
Salve, mi sento spinto ad intervenire, malgrado i miei limiti, perché mi sento coinvolto; ho avuto una formazione piuttosto “irregolare”, tra discipline “umanistiche” e “scientifiche”, e ho ricevuto stimoli diversi e contrastanti, dei quali peraltro non sono mai venuto compiutamente a capo. Entrerei nella questione, dicendo che non credo che si possa “stanare” quella che Tomatis chiama la “comunità scettica” finché gli “scettici”, o almeno parte di essi, si trincereranno in un sistema di pensiero (fortemente identitario) positivista – scientista.
Mi sembra che uno dei conflitti alla base della discussione sia, sostanzialmente, l’adesione dei contendenti a due paradigmi diversi: alcuni divugatori/ricercatori e partecipanti alla discussione applicano teorie e metodi della “classica” logica cartesiana e positivista; altri partecipanti alla discussione mettono in campo strumenti (costruttivismo linguistico, etc.) che sono più affini alla cd. “teoria della complessità”. Riduzionismo contro olismo e così via…
Non mi sembra del tutto una castroneria pensare che se divulgatori/ricercatori adottassero un paradigma epistemologico diverso (la cd. “teoria della complessità”, intendo), molti dei problemi posti da Mariano Tomatis verrebbero superati di slancio. Esempio: l’assunto di Bressanini “il fact checking deve essere “solo”” è un esempio di applicazione del principio di riduzione (logica cartesiana); applicando, invece, il principio dell’olismo, si imporrebbe anche l’esame della rete di relazioni attorno al problema da esaminare. Oppure, il principio di aggregatività, che valorizza il ruolo dell’osservatore come selettore dei fenomeni da esaminare (rinunciando, tra l’altro, alla pretese di esaustività e onniscienza), mi sembra che apra le porte alla (legittima) figura del ricercatore e del divulgatore engagé. @Lucacasarotti, sostanzialmente, scrive qualcosa di simile – e meglio di me – , nella seconda parte del suo post.
Insomma, forse gli “scettici” dovrebbero accettare la sfida, come la stanno accettando ricercatori di ogni settore disciplinare – scienze “umanistiche” comprese -, di lasciarsi contaminare da un paradigma scientifico non cartesiano e non riduzionista, e di considerare i problemi con implicazioni sociali non come sistemi da scomporre e ridurre ad assunti lineari, ma come sistemi aperti, complessi, magari parzialmente inconoscibili: progetti. Se si converrà su questo punto, tra l’altro, forse pratiche come il “fact checking” o il “debunking” si arricchiranno di ulteriore dialettica e di densità, anche per il loro inserimento nel (dichiarato) progetto culturale di chi le pratica.
Ma i divulgatori e i ricercatori che non lo fanno, perché non lo fanno? Non lo so. Ci sarà chi ha avuto una formazione con paradigmi “tradizionali”, e che, quindi, non vuole/non è capace ad uscire da questo “imprinting”. Ci sarà chi sostiene, in buona fede, che il paradigma scientifico “cartesiano” è più rispondente ai suoi progetti di divulgazione e ricerca. Ma ho l’impressione che ci sia anche un motivo più sottile: il positivismo e la sua filiazione filosofico-politica, lo scientismo, sono dispositivi che valorizzano molto il ruolo sociale degli “scienziati”. Ovviamente non voglio spararla grossa dicendo che ogni “scettico” sia un potenziale antidemocratico che, sotto sotto, sogna una tecnocrazia più o meno autoritaria di scienziati al potere. Ipotizzo solo che, per parte della comunità scientifica, forse un paradigma suona preferibile ad un altro anche per motivi di aspettative di maggiore o minore riconoscimento sociale.
Una manciata di anni fa John Bullock, uno scienziato politico dell’Università di Yale, condusse alcuni esperimenti interessanti sulla disinformazione. Selezionò un gruppo di progressisti e chiese loro quanti disapprovassero il trattamento dei prigionieri a Guantánamo. Risultato: il cinquantasei per cento. Quindi mostrò alle cavie un articolo di «Newsweek» dove si raccontava di una copia del Corano buttata giù per il cesso della base americana. La percentuale dei critici salì subito al settantotto per cento. Infine, fece leggere a tutti la smentita della notizia, pubblicata dallo stesso giornale in un numero successivo. La percentuale scese, ma solo fino al sessantotto per cento, percentuale ben più alta di quella di partenza.
La cattiva informazione ha effetto anche se viene smentita. Vale anche per le bufale pseudoscientifiche.
Altri colleghi di Bullock presero due campioni di conservatori. Al primo, fecero leggere le dichiarazioni di Bush sulle armi di distruzione di massa possedute dall’Iraq. Al secondo, mostrarono sia quelle dichiarazioni sia l’intero rapporto Duelfer, dove si concludeva che Saddam Hussein non aveva armi di quel genere prima dell’invasione americana.
Ebbene, nel primo gruppo, il trentaquattro per cento dei volontari diede comunque ragione a Bush, sostenendo che Saddam avrebbe nascosto o distrutto il suo arsenale. Nel secondo gruppo, la stessa tesi fu dal sessantaquattro per cento degli individui.
Di male in peggio: le smentite possono addirittura rinforzare le false notizie.
È il nostro cervello a funzionare così. Lo ha spiegato bene il linguista George Lakoff in un aneddoto ormai celeberrimo, che però vale sempre la pena ripetere: se entri in una classe e ordini agli studenti: «Non pensate a un elefante», quelli subito ci penseranno, con tutto il contorno di grandi orecchie, proboscidi e zanne d’avorio. Negare un concetto attiva quel concetto nella testa delle persone.
Dire che «sicurezza non vuol dire più polizia», accende e rafforza i legami neurali tra le due parole. Ben presto il «non» scompare, a restare impigliate nelle sinapsi sono solo «sicurezza» e «polizia». E il tentativo di aggiungere alla negazione un’emozione negativa è inutile. Un’emozione non è un adesivo. Nasce solo se le si prepara il terreno. E non sarà una valanga di dati a sostegno della tesi a «far ragionare» chi non è già convinto.
La negazione, dunque, è sempre un’affermazione debole, che divora se stessa. Le smentite attirano l’attenzione su ciò che si vuole smentire, rafforzando il frame avversario anziché metterlo fuori gioco. Tempo fa, qualcuno si spacciava per noi su Facebook. Se noi avessimo dichiarato che “Wu Ming non è su Facebook”, l’enfasi (e quindi la memoria del pubblico) sarebbe stata su “Wu Ming” e “Facebook”. Quella frase, lungi dallo spezzare un legame, al contrario avrebbe stabilito una relazione forte tra Wu Ming e Facebook. Non è il significato letterale di una frase quello che conta, ma quali elementi vengono connessi tra loro.
Il frame da attivare (ergo la verità da dire) era invece: su Facebook c’è un impostore; quest’impostore sta usando la reputazione di Wu Ming in modo parassitario; da Facebook i Wu Ming sono assenti; chi si rivolge ai Wu Ming lasciando commenti su quella bacheca sta scrivendo all’indirizzo sbagliato.
Da notare che i quattro concetti-chiave (impostore, parassitario, assenti, sbagliato) sono tutte a chiusura delle rispettive frasi. Sono quelle che più penetrano nell’attenzione e nella memoria. Noi Wu Ming chiamiamo quest’uso della [di qualcosa che ricorda la] catafora “la cuspide”.
Articolata in quei termini, la nostra spiegazione funzionò. Diverse persone segnalarono allo staff di FB il finto profilo e la finta fan page, e lo staff intervenne rimuovendo tutto.
Gli studi su tutto questo compongono una mole sterminata. Gli esempi possibili sono tantissimi.
P.S. a scanso di equivoci:
ovviamente, a Guantanamo si è combinato anche di peggio, come è finalmente emerso in maniera inequivocabile l’anno scorso (rapporti sulle torture della CIA ecc.), ma non è questo il punto.Quando Bullock condusse il suo esperimento, l’opinione pubblica americana era all’oscuro di molti aspetti della detenzione di prigionieri nella base.
L’esperimento era volto a dimostrare che una falsa notizia, se coerente con un frame già attivo nella mente di chi la legge (in questo caso il frame “progressista”), non solo influenza le sue convinzioni, ma continua a farlo anche quando dichiarata falsa dalla medesima fonte che l’aveva diramata. La smentita non ha effetto.
Peggio ancora si è verificato con la notizia che confermava il frame reazionario: la smentita ha addirittura esacerbato la situazione.
Se pensiamo a quant’è difficile, nell’Italia di oggi, sradicare gigantesche bufale come i “30 euro al giorno agli immigrati”, anche se non reggono la minima presa in esame, capiamo ancora meglio di cosa si stia parlando.
Mi fa piacere che spieghi chiaramente le vostre prassi comunicative.
Però, applicando queste indicazioni mi viene in mente che forse più che discutere sulla legittimità o meno degli acchiappafantasmi o degli OGM, state comunicando un messaggio ben più generale. Vogliamo ragionarci, ma ragionarci davvero, rinunciando alle pur legittime tecniche retoriche?
Vediamo quale può essere il vostro messaggio, mettendo insieme ciò che volete che resti secondo gli studi citati da WM1, ovvero i concetti forti ed enfatizzati da metafore, specie a inizio e fine paragrafi:
“La neutralità difende Golia.
Scienza e fatti rimuovono il conflitto.
La neutralità non esiste, significa che è di destra.
Crescente complessità dei temi.
In discussione il mito di un “fact checking” neutrale.
Quando xxxxxxxx sostengono -con argomenti peraltro solidi- che xxxxx fa male, confligge con la celebre nota affidata da Banksy a un muro di Gaza. (!!!)
Per opporsi alle multinazionali, si usano argomenti pseudoscientifici.
Per xxxxxxxx è imperdonabile.
Ciò tradisce una concezione legalitario-giustizialista. Senza troppi scrupoli.
Sta al lettore scegliere da che parte stare.
Gettando via – senza sottilizzare troppo – il bambino e l’acqua sporca.
Contrapposizione noi vs loro, personaggi francamente inquietanti.
Guai a esprimere un dilemma etico che trascenda il proprio ombelico o sottolineare il disagio di fronte a un paradosso; la prospettiva viene così liquidata.
Mettere a fuoco una delle principali preoccupazioni che animano le attività del xxxxxx, senza escludere dall’orizzonte i suoi risvolti politici.
Ogni espressione è militante – quale spazio intende occupare la comunità scettica (scientifica) italiana?
Contiguità tra le posizioni legalitarie espresse dal Fatto Quotidiano e dal xxxxxxx. Di natura poliziesca: «sbirri che perseguono i sensitivi». Abbiamo davvero bisogno di poliziotti sul grigio confine tra Scienza e Mistero? (!!!)”
Mi sembra che stiate comunicando ai militanti un concetto pericoloso: se vi parlano di fatti, di dati, di scienza, mettete mano alla pistola. Chiedete carta di identità politica. Se insistono sul merito fanno come gli sbirri, ne abbiamo davvero bisogno?
Il che mi sembra terribilmente lontano dal metodo non solo scientifico, ma anche marxiano e materialista. Per me questo può fare molto, molto male agli obiettivi della sinistra.
“Mi sembra che stiate comunicando ai militanti un concetto pericoloso: se vi parlano di fatti, di dati, di scienza, mettete mano alla pistola.”
Certo, certo… E il fatto che noi stessi parliamo di fatti, di dati e di scienza, e che in questo thread stiano discutendo fisici, matematici, medici e ingegneri non ti fa sorgere il minimo dubbio riguardo a questo tuo “mi sembra”. L’importante è che ti sembri.
“Chiedete carta di identità politica.”
Se così fosse, non saresti nemmeno più qui a scrivere, e da un pezzo. Ma tant’è, qui è come l’Ungheria, si chiudono nei treni i sans papiers.
Ma non vi sentite mai, almeno per un istante, un poco ridicoli?
In un commento più in basso, ricordo un certo “Nicolas Bourbaki”, fact checker seriale dei fondamenti dell’algebra e della geometria e modello nonché pseudonimo di un gruppo di lavoro promosso da Giap!… A me sembra che quello che Giap! comunica qui e altrove ai militanti e ai suoi lettori-commentatori sia esattamente il contrario.
Eh, ma come hai visto, MarBern, nulla conta. Possiamo fare tutti i riferimenti al dibattito scientifico che ci pare, usare le acquisizioni delle scienze cognitive e illustrare come le usiamo, mettere in piedi progetti come Nicoletta Bourbaki per fare sistematico fact-checking e debunking sulle bufale della divulgazione storiografica, creare network composti principalmente di ricercatori, invitare sempre al dubbio e alla disamina delle strutture discorsive, persino dare soldi al Cicap (!), fare tutto questo per anni, ma non conta nulla. Perché può sempre arrivare il mentecatto di turno che, fingendo di ignorare tutto questo e buttandola in caciara per i suoi secondi fini (che magari esplicita in altri consessi telematici dove si carbura a vaneggiamenti e invettive contro i “wuminkia servi della Nato”), dice che siamo “nemici della scienza” e altre idiozie.
Addirittura, quest’ultimo mentecatto è arrivato a dire che emigra per colpa nostra (!), perché l’Italia è messa male e questa è la prova che… i nostri discorsi non servono. E questo autore di paralogismi, questo funambolo della fallacia logica si vorrebbe “difensore del metodo scientifico”.
Direi che per Saint-Just è abbastanza.
Ho preso i tuoi attrezzi e li ho usati come fai tu. I risultati ti sembrano ridicoli? Beh forse sono ridicoli gli strumenti che usi, forse possono far dire tutto e il contrario di tutto, forse sono roba tossica che puoi confutare solo con altra roba tossica (e infatti…). È questo il bel dibattito che vuoi? Pensaci.
E invece di usare argomenti ad hominem sii un padrone di casa cortese.
Chiediti che cosa resta del “socialismo” o del “comunismo” se alla base togli il materialismo e l’analisi scientifica; la bontà di cuore? il papa francesco?
Se persino la stessa possibilità di fare un discorso ragionevolmente basato sui fatti è *inquinata* da mezzucci retorici, giustificati a posteriori perché io so’ i buoni, come ritenete possa mai organizzarsi un reale progetto collettivo?
È vero come denunci tu che certe prassi funzionano. Le usano i grandi media e nel vostro piccolo pure voi. Perché funzionano, purtroppo. Peccato che corrompano il dibattito e danneggino qualsiasi assemblea, collettivo, movimento, partito ecc… in pro dei retori, che ne fanno una professione.
Questa cosa è veleno. Contestualizzare le falsità se le usiamo a fin di bene, e al tempo stesso politicizzare a forza tutti gli specialisti, ha un triste significato: significa “sentire” (sbagliando a mio parere) che la razionalità sarebbe perdente. Che bisogna ruttare più forte di loro.
Io credo che sia possibile un discorso di verità critico e analitico, di sinistra, anche se dispiace ai bardi professionisti dell’emozzzione.
E difendo questo concetto ancora con più passione, quando vedo che contro di esso c’è solo retorica.
Non sopporto più una sinistra passata da un fideismo assoluto nella scientificità interpretata deterministicamente da un certo Marx, al totale relativismo dove ogni tribe si rinchiude con la “sua” scienza certificata e i “suoi” sciamani <> (???) come certificatori.
La sinistra *deve* difendere l’oggettività, i fatti stilizzati e l’analisi fatta bene, complessa, di classe. Perché su quel terreno ha i fatti dalla sua parte. Se scende sul terreno dei mezzucci, degli obiettivi politici a brevissimo termine – salire sul carro di Syriza à la Ferrero per es. – poi si ribalta.
P.S. Precisazione sul tuo obliquo ad hominem. Io sono di sinistra e sarò migrante fra tre mesi, come tutti i miei amici, perché la retorica, le manifestazioni, gli articoli, l’indignazione, i distinguo eccetera non sono serviti a niente. Il loro contenuto di pancia, indimostrabile, talvolta miope ne ha minato ogni credibilità, man mano che essa veniva monopolizzata dagli esperti dell’emozional-popolare – sistematicamente i più impreparati in tutto il resto.
Minare anche la credibilità del dibattito scientifico con i metodi tossici che hai così ben illustrato significa dare ancora più spazio a questi personaggi. Che poi è il vostro inconfessato conflitto di interessi.
“Chiediti che cosa resta del “socialismo” o del “comunismo” se alla base togli il materialismo e l’analisi scientifica;”
Ecco una bella domanda da fare… ad altri. Non certo a noi che abbiamo appena tratto esempi da scienze cognitive e neuroscienze, non certo a chi sta discutendo qui.
Magari questa domanda potresti farla ai tuoi amici rossobruni e nazionalisti, a chi delira di “patrie”… Perché è proprio questo che rimane, tolta la consapevolezza (nutrita di acquisizioni scientifiche) sulle retoriche e i materiali mitologici che si usano in politica e nella comunicazione. Restano le “idee senza parole”, i miti nell’accezione più deteriore. Restano la Nazione e i suoi correlati tossici.
Quando ho letto questo articolo mi è subito venuto da commentare (e l’ho fatto su twitter in attesa dell’apertura qui) che il femminismo ha molto da dire su questo tema, o almeno su come lo leggo io, cioè sull’intreccio di narrazione, potere, sapere e fatti.
Immediatamente mi sono venute in mente alcune citazioni di Donna Haraway, in particolare da un testo che purtroppo non è più in commercio (spero sempre che Feltrinelli lo ristampi): Testimone_modesta@FemaleMan©_incontra_Oncotopo™. Già il titolo, a mio avviso, apre ad alcune riflessioni: la “testimone modesta” è un personaggio derivato dalle ricerche di Robert Boyle durante la Rivoluzione Scientifica nell’Inghilterra del Seicento e rappresenta le donne (ma anche tutti gli “inferiori”) a cui non era permesso assistere agli esperimenti, nè quindi prendere parola su di essi, verificarli o proporre altre interpretazioni dei “fatti”. Questa figura fa emergere la domanda non tanto su chi sia “razionale”, ma su quali siano i soggetti considerati tali, capaci di intervenire con “competenza”. (meriterebbero una descrizione anche gli altri personaggi del titolo, ma diventerei troppo lunga).
Haraway, in questo testo, mette in luce come la scienza sia sempre un processo storico, sottoposto a cambiamenti, narrazioni, mitologie e simboli e si concentra sul laboratorio, definendolo “un luogo speciale, non per una qualche ragione epistemologica che potrebbe confortare i filosofi positivisti, matematici dispeptici o i loro colleghi biologi, ma perché il laboratorio è un insieme e una concentrazione di azioni e attori umani e non umani, e di risultati che mutano le entità, i significati e le vite su scala globale” (p.104). Il laboratorio è, prima che un luogo sterile, un luogo pubblico e poroso, dove prende vita quella che Haraway chiama tecnoscienza: “per me, tecnoscienza significa nodi complessi di attori umani e non umani, indotti ad allearsi dalle tecnologie materiali, sociali e semiotiche che costituiscono per milioni di persone, e attraverso di loro, ciò che conta per natura e dato di fatto” (p.88). La scienza è, quindi, un insieme di relazioni, che troppo spesso vengono dimenticate.
Haraway ritiene, invece, che queste relazioni andrebbero sempre svelate: “ogni essere tecnoscientifico, sia esso libro di testo, molecola, equazione, topo, pipetta, fungo, tecnico, agitatore o scienziato, può – e spesso dovrebbe – essere costretto ad aprirsi in modo da mostrare i complicati fili economici, tecnici, politici, organici, storici, mitici e testuali che ne compongono i tessuti” (p.107). Fuori da questi fili non si dà scienza nè sapere e qui Haraway aggiunge quello che a mio avviso è fondamentale per una critica delle neutralità:“alcuni scienziati e filosofi, secondo me, sono allarmati dalla tesi che la scienza sia una pratica culturale, poiché ciò consente a una variopinta banda di intrusi di intervenire nella definizione di ciò che conterà come sapere scientifico, a vantaggio di chi e a quale costo”.
Preciso, forse in maniera superflua, che Haraway è tutto fuorchè contraria alla scienza e ai suoi “benefici”, ma vuole indagarne da un lato la storicità e dall’altro le ricadute sugli assetti della società e i vissuti delle persone. E questo è un tratto comune a buona parte del femminismo (forse una parte che in Italia è stata meno patrimonio comune) che da Mary Wollstonecraft in avanti mette in discussione i “fatti” a partire non da verità oggettive, ma soggettive e relazionali.
E qui torniamo alla parresia citata sia nel titolo che in alcuni commenti. Mi sembra interessante ricordare che, almeno in Foucault, accanto alla parresia dei cinici venga menzionata quella di Creusa che, nello Ione di Euripide, non solo rivolge la sua verità ad Apollo (potremmo dire al potere), ma anche al pedagogo, in un rapporto dialogico, che si espone sia alla critica che all’empatia. Credo che questa sia una forma di parresia richiesta agli scienziati: esporsi in una tela di relazioni e di rapporti, riconoscere che i fatti hanno uno sviluppo storico e accogliere le testimoni modeste nei propri laboratori. Riconoscere, cioè, che “la scienza prende forma attraverso sviluppi sintattici, semantici e pragmatici interni alla cultura, mobilizzando una narrativa con pretese di oggettività contrapposta ad altre tendenze che invece riconoscono la parzialità e responsabilità a tutto campo degli attori della tecnoscienza” (Liana Borghi, nell’introduzione ad Haraway).
Quello che la retorica dei “fatti” e delle “scienze dure” contrapposti alle opinioni mette in campo è una riduzione della complessità, ma anche una chiusura in confini angusti e settari. La scienza, come le femministe (non solo ovviamente) sanno non è solo un sapere aureo, teorico, intangibile, ma è anche un potere, che definisce il mondo e i suoi soggetti stabilendo confini e frontiere che pretendono di essere una mappa oggettiva di ciò che abbiamo davanti. Mettere in discussione questi confini e queste frontiere (e svelarne la struttura oppressiva) dovrebbe essere uno dei compiti di chi vuole mettere in questione il potere.
Troppo spesso, per concludere (anche se andrei avanti ore), mi sembra che “gli scienziati” siano ciechi di fronte al loro potere, nascondendosi dietro l’idea di stare descrivendo e dimenticando il potere performativo delle descrizioni.
Mi piacerebbe veder nascere, da questa bella discussione, un workshop permanente. Su Giap e negli spazi che si deciderà insieme di aprire, andrebbe proseguito questo filone di dibattito, sviluppando in una serie di post gli spunti venuti fuori nei commenti.
Questo sarebbe molto bello, anche perchè la continua parcellizzazione delle discipline (complici anche molte riforme universitarie) rende sempre più difficile trovare degli spazi di contaminazione e allontana sempre di più le scienze dalla possibilità di dibattito.
Ci ragioniamo sopra in tempi brevi e proponiamo uno strumento per coordinarci tra le interessate / gli interessati.
Leggendo cose su questo tema sono tornato su questo post e mi e’ saltato all’occhio questo commento. Avete piu’ pensato a questo workshop permanente? Anche a rileggerla dopo due anni e’ una discussione interessantissima e piena di spunti da approfondire.
La mia posizione da positivista critico è forse un po’ anomala, ma magari più vicina alla mentalità che stiamo criticando. Tutte giuste e tutte interessanti le osservazioni sulla scienza come percorso storico umano, sui limiti ecc. Quello che volevo dire io però è che non c’è nemmeno bisogno di arrivare a “tanto” per smontare la tesi del divulgazionismo neutro.
Io credo ai “fatti” e a una certa loro “oggettività” – altrimenti non si darebbe alcun presupposto per un metodo scientifico. Solo che questi fatti sono talmente “minimi”, hanno bisogno di tali e tante precisazioni e definizioni a monte, che se si fosse rigorosi la loro potenza narrativa sarebbe già disinnescata alla radice. Prima ancora di arrivare a inquadrarli in una teoria. Il fatto neutro io credo esista; il racconto di quel fatto è altra cosa.
All’università girava una battuta tra fisici nerd: “una teoria è una cosa a cui nessuno crede tranne chi l’ha formulata, un esperimento è una cosa a cui credono tutti TRANNE CHI HA RACCOLTO I DATI”
Diceva Karl Popper che la scienza è il metodo della sua falsificazione.
Questa affermazione ha un grande peso nella concezione stessa della scienza e della conoscenza acquisita attraverso di essa. Mentre la rivoluzione scientifica di Galileo e Newton, quella che siamo abituati a considerare scienza, diceva che la conoscenza dei fenomeni naturali era l’osservazione e la matematica. Osservava mille volte una pallina cadere dalla torre di Pisa in un certo tempo e poteva formulare la legge della caduta dei gravi.
Ma è un fatto ben noto che sia Newton sia Galileo “aggiustavano” le loro osservazioni per farle rientrare in belle equazioni (1). Ovviamente questo non significa che la gravità o l’accelerazione non esistano. Significa che l’osservazione e la conseguente creazione di un modello matematico non sono l’equivalente di una Verità ma sono frutto di una somma di osservazioni.
Poi ci sono i bias.
Nel campo della ricerca medica, ad esempio, negli ultimi 15-20 anni c’è stato il culto dei “fatti” (che in questo campo significa dei numeri) e cioè tutta la scienza medica si è basata sulla “Evidence based medicine” (medicina basata sulle evidenze). Moltissimi onesti ricercatori hanno spinto affinché le linee guida cliniche (che sono documenti, con valore legale, su come un medico deve gestire una data patologia) basassero le loro “raccomandazioni” su questi dati. Moltissimi hanno iniziato a fare le così dette metanalisi (cioè raccolta sistematica di tutti gli studi pubblicati su un dato argomento analizzati insieme con tecniche statistiche in grado di mettere insieme molti dati diversi) e si è pensato che questa tecnica bastasse per dire se, ad esempio, un farmaco fosse efficace o meno. Su queste metanalisi si sono poi basati gli organismi regolatori per redigere le linee guide cliniche.
Dopo un po’, però, la comunità scientifica ha capito 2 cose:
1) che non tutti i “fatti” di uno studio erano il risultato di analisi corrette e ben fatte, e
2) che i ricercatori e le aziende che finanziavano gli studi decidevano volontariamente di non pubblicare molti dei dati raccolti, soprattutto in caso di risultati negativi di studi finanziati da multinazionali (qui un racconto dettagliato di T. Jefferson sui dati sugli antivirali antinluenzali http://attentiallebufale.it/informazione-scientifica/ema-dalla-trasparenza-dei-dati-alla-medicina-basata-sui-guardoni/)
Per ovviare al problema 1 gli autori (onesti) di linee guida cliniche hanno creato dei sistemi di grading: cioè quando dicono che “Sulla base delle evidenze se il paziente ha la malattia X deve prendere il farmaco Y” aggiungono un numerino che indica (sulla base di parametri abbastanza oggettivi) se questa raccomandazione viene da studi solidi (rarissimamente) o, molto più spesso, da studi di dubbia qualità (per mille motivi). [interessante che questi gruppi di ricercatori sono volontari e offrono queste riflessioni e strumenti in modo open http://www.gradeworkinggroup.org/%5D
Invece il problema numero 2 è più difficile da affrontare. Un tentativo è stato fatto grazie alla decisione dell’European Medicine Agency (EMA) di imporre di registrare tutti gli studi clinici prima della loro autorizzazione. L’impossibilità e le barriere all’accesso ai dati non pubblicati (v. T. Jefferson citato sopra) rendono questo rimedio poco più che un palliativo.
Quindi, che significa “fatto”? E cosa è il fact checking?
Senza dubbio i dati pubblicati sono fatti, nel senso che sono dati accessibili, raccolti secondo un “metodo scientifico” e replicabili per chi voglia. Ma sono “fatti” anche quei dati che si sceglie di non pubblicare (perchè poco eclatanti, con effetti minori, o per mille altri motivi). E sono “fatti” anche i dati degli studi non pubblicati (ma registrati all’EMA) a cui le case farmaceutiche fanno di tutto per impedire l’accesso.
La scelta di cosa pubblicare è frutto un punto di vista niente affatto “neutrale”. (sia detto senza feticismo della neutralità, può essere semplicemente che il reagente non funzionava o che lo studio faceva schifo e basta).
Il fact checking, quello dei comunicatori scientifici onesti, non è soddisfacente se si limita ai dati pubblicati, senza, come per esempio ha fatto Tom Jefferson, approfondire e andare a spulciare i database per scoprire, ad esempio, che moltissimi studi non vengono pubblicati (e questo, per parafrasare ancora Mario Tronti, è lavoro di una vita).
La consapevolezza e la conoscenza dell’oggetto e dei limiti (filosofici) della nostra conoscenza e della possibilità di accesso ai “fatti” dovrebbe essere la premessa al fact checking onesto.
[la parte aneddotica sul cherry picking la metto in un post separato :-)]
Come reagirebbero i “fanatici dei fatti” di fronte al caso Vioxx?
Sono quasi certa che non direbbero che il New England Journal of Medicine (NEJM) non è attendibile tout court, perchè ha fallito il suo ruolo di controllo e ha pubblicato il lavoro “misleading” sul Vioxx. Nè che lo sia la multinazionale farmaceutica Merck che ha deciso di abbellire i fatti e non pubblicare alcuni risultati in quel lavoro.
La storia è questa: nel 2000 il NEJM (per chi non lo sapesse una delle 4-5 riviste mediche più prestigiose e attendibili) pubblica i risultati di uno studio sul farmaco Vioxx, per l’artrite, poi molti ricercatori indipendenti hanno iniziato a notare che questo farmaco causava una significativa percentuale di infarti. La Merck ha sempre negato e ha opposto a questi studi “i fatti” del loro studio pubblicato sul’NEJM e l’approvazione del farmaco da parte della Food and Durg Administration (che aveva accesso a *tutti* i dati).
Peccato che, grazie alla pressione di molti medici – che vedevano i loro pazienti beccarsi l’infarto- si è scoperto che lo studio (che si chiamava VIGOR- le case farmaceutiche hanno una passione per gli acronimi potenti) semplicemente era disegnato per non raccogliere dati sull’infarto. Per capirci, chi aveva disegnato il protocollo dello studio aveva escluso del tutto l’eventualità che si potesse verificare un infarto quindi in caso di infarto (ce ne sono stati 40) il dato non veniva non riportato. Più semplice di così!
Si è poi scoperto che almeno 2 degli autori dello studio erano consapevoli del numero eccessivo di infarti già al momento dell’invio dell’articolo alla rivista. Ma si sono attenuti ai “fatti” oggetto dello studio, cioè gli effetti gastrointestinali, e hanno omesso gli infarti in buona coscienza.
Anche il caso Vioxx ha avuto un risvolto giudiziario, la Merck ha patteggiato per quasi 5 miliardi di dollari di risarcimento ai pazienti in una causa collettiva, ma non ha mai ammesso le proprie responsabilità. Perchè? Perché la difesa si è basata sui “fatti”: in molte cause individuali, perse dai pazienti, gli avvocati si sono concentrati a dimostrare l’esistenza di molti diversi fattori di rischio dei querelanti (es diabete, pressione alta). Fatti che visti isolati dal contesto (dei dati scientifici) mettevano in dubbio il ruolo del farmaco. (http://www.nature.com/news/2007/071113/full/450324b.html)
Questo argomento non ha funzionato nella causa collettiva,dove la centralità è stato lo studio stesso, il fatto che la Merck si fosse rifiutata di condurre studi sulla sicurezza del Vioxx proprio sui pazienti a rischio, che però erano la popolazione che in maggioranza avrebbe assunto il farmaco.
Quindi i fatti erano che “non aveva effetti cardiovascolari”, ma perché non li avevano registrati e perché avevano escluso chi poteva averli.
La storia intera è andata avanti anni ed è molto appassionante e la trovate qui http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp048286 Qui una riflessione sul rapporto tra comunicazione (marketing in questo caso) e ricerca sul Vioxx http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp058136
Argomento interessantissimo! Grandi!
Da studente di matematica e militante spesso mi sono interrogato su queste questioni ritenendole affascinanti, provo ad aggiungere qualche elemento sparso:
1. Restando sulla matematica e sulla fisica, c è un concetto che ritengo molto interessante: le scienze non trattano mai della descrizione della realtà, ma della descrizione e costruzioni di MODELLI. La duplice interpretazione particellare e ondulatoria della luce ne è una prova. In matematica così come a volte in fisica non c è la pretesa di descrivere la realtà in-quanto-tale ma costruire modelli coerenti con la realtà NEL LORO AMBITO DI APPLICAZIONE, cosa che purtoppo spesso viene dimenticata quando si prova di applicare il metodo assiomatico alle scienze sociali ecc.. (mi viene in mente l etica di spinoza, che prova di costruire un libro di filosofia con teoremi e dimostrazioni, e sinceramente, mi fa un pò tenerezza…)
2. Si potrebbe aprire un dibattito anche sul “Beneficio del progresso”, domandandosi davvero cosa significhi. Ora, senza cadere in derive primitiviste (lungi da me) è comunque interessante chiedersi qunato davvero la ricerca oggi compiuta sia atta a cercare un beneficio per la comunità e quanto invece eseguita solo in un ottica produttivista e di controllo… è complicato, anch io non so bene come districarmi, ma è interessante..
3. Ultima questione che mi viene in mente è Wikipedia, la grande enciclopedia libera del sapere neutrale, che insieme a tente retoriche della rete porta al mondo la VERA conoscenza, e qui chiudo con due citazioni non troppo casuali.
“Il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione.” – Michel Foucault
“Il punto di vista neutrale è un concetto fondamentale in Wikipedia: un’enciclopedia non assume alcuna posizione, né di condivisione, né di rigetto di alcuna interpretazione di ciò che descrive.” – Wikipedia.org
Entro a piedi uniti : a me pare che Monsanto ,Bressanini , autolesionisticamente anche il contadino e direi anche i vari commenti di questa discussione stanno al di qua di una necessaria disambiguazione.
Infatti l’oggettività scientifica cui fa appello Bressanini non è la scienza sans prhase, ma è solo la scienza della Natura, contadino e Monsanto di fatto hanno a che fare con problemi inerenti anche alle scienze sociali ovvero storiche ( le quali hanno un altro statuto… )e chiamano in causa soggetti come il contadino e la Monsanto che sono soggetti storico-sociali, tutt’altro che naturali quindi.
È solo rimanendo aldiquà di questa disambiguazione che le Monsanto e i Bressanini possono più o meno consapevolmente “ tenere mischiate le carte” rappresentando la questione solo entro i termini dello statuto delle scienze della Natura e con ciò rivendicare una monca quanto comoda obiettività scientifica .
Se Bressanini volesse essere davvero scientifico dovrebbe allora definire l’ambito entro il quale vige la sua scienza e,cosi come espunge l’”attivismo” del contadino come elemento non-scientifico altrettanto dovrebbe fare con la ricerca di profitto della Monsanto .
Quello che scrivi in conclusione mi pare un approccio potenzialmente fecondo e illuminante. Illuminante perché mette in luce dei pregiudizi. Come questo:
-La “sete di profitto” di Monsanto, che peraltro nell’articolo sul caso giudiziario Contadino Vs Monsanto
http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2008/09/18/monsanto-contro-schmeiser-lagricoltore-contaminato-dagli-ogm/
Bressanini non nega né minimizza:
“Lo so, ci si può sentire a disagio a stare «dalla parte» del gigante Monsanto, con il suo fatturato di svariati miliardi di dollari.”
può però essere messa tranquillamente tra parentesi (“Stiamo parlando di raccontare la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità!” e questa verità, quindi, NON contiene i profitti di Monsanto).
Ma altrettanto non si fa con le condotte da “furbacchione” di Schmeiser, che vengono analizzate fino nel dettaglio.
A livello di analisi dei pregiudizi ne deriva che:
1) la sete di profitto smisurata fa parte dello sfondo (del framing anzi) e quindi NON entra nell’analisi fattuale. Nonostante SIA un fatto: basta tirare fuori con lo stesso impegno tabelle e dati sui bilanci di Monsanto prima e dopo l’ingresso in un dato territorio etc.
2) la furberia del contadino, viene analizzata e messa alla berlina – oltre ad aver subito sanzioni giudiziarie. Si ritiene quindi che quello sia un “fatto”. (e lo è, ma lo è anche l’altro)
(a meno che la differenza non la faccia il processo, e allora si avverano i rischi di un fact checking giustizialista…)
Insomma, qui il punto non è respingere il fact-checking, ma farne uno che si metta in gioco nella scelta dei presupposti e della selezione a monte dei dati da testare; e che poi, una volta detto questo, prosegua con un rigore che non è diminuito, anzi, da quella dichiarazione iniziale (che però non deve essere formale solo come premessa/disclaimer a un libro e poi scomparire nella prassi, non può accompagnarsi con arroganza o giudizi morali sprezzanti tipo: quel furbacchione del contadino…)
Ci sono alcuni punti su cui vorrei fare un po’ di chiarezza, o almeno presentare e argomentare il mio punto di vista, perché non vorrei confondere più piani diversi. Ci sono parecchi commenti a cui vorrei rispondere, tanti stimoli, tante informazioni… basta stare 24h lontano da Giap! e ci si ritrova con un’ora di lettura arretrata ;-). Rispondo qui a diversi altri commenti, vedi @maurovannetti, @lupoexpress, @e.talpa, @danielafinizio e molti altri. Lo faccio quindi in un nuovo commento che pero’ non è slegato da molti di quelli che lo precedono (e si sovrappone anche a @RUDEBOY qui sopra, che ha postato mentre scrivevo…)
Innanazitutto (@maurovannetti) per quanto riguarda l’esistenza di errori in matematica: come tutte le discipline, anche la matematica è umana e quindi soggetta ad errore. Il punto che volevo sottilineare riguardo alla vicenda Monsanto-Séralini è che ci sono dei livelli di tecnicità e difficoltà per cui poche persone sono in grado di reperire l’eventuale errore. Detto questo, non è che smettiamo di fare matematica o di richiedere rigore perché siamo umani e comunque facciamo errori…
Una questione che vorrei sottolineare e che è stata ben messa in luce da @JohnDoe è la sostanziale differenza concettuale tra la matematica e la scienza.
La matematica moderna (da Hilbert in poi) è nata dopo un importante periodo di crisi sui fondamenti. Il novecento ha visto una ristrutturazione che ha portato a un modello assiomatico: una vota scelti gli assiomi (proposizioni ritenute vere senza dimostrazione) e le regole logiche, si sviluppano tutte le conseguenze (proposizioni, teoremi etc.). Questo ha per esempio implicato la ristrutturazione della teoria degli insiemi che ha portato circa un secolo fa alla prima definizione formale (secondo i canoni odierni) di numero intero positivo. Più recentemente (anni 50) questo modello è stato portato all’estremo dal gruppo Bourbaki (fanatici del fact checking nella riscrittura dei fondamenti dell’algebra il cui fantasma già si aggiro’ su Giap!). Da questo punto di vista, l’esempio del teorema di Pitagora di @e.talpa è chiaro: se si elimina un assioma, allora il teorema di Pitagora non è dimostrabile, oppure va preso come “definizione aggiuntiva”. Alla fine, le velleità universalistiche della matematica si sono scontrate con il teorema di incompletezza di Goedel.
Il novecento è anche il secolo dei filosofi che si chiedono “cos’è la scienza?” e perché e come distinguerla dalla teologia piuttosto che dallo studio del paranormale? Che si prenda il Popper citato da @danielefinizio o la teoria delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn o l’anarchismo epistemologico di Feyerabend, lo sforzo è stato sempre quello di identificare la scienza e differenziarla dalle discipline non scientifiche. Mediando tra Kuhn e Feyerabend, ne esce che la scienza è prima di tutto una disciplina sociale in cui le metodologie, pur restando in un campo molto ristretto e dovendo obbedire a regole di rigore largamente condivise, hanno spesso dei confini sfumati. Come ricordato da @danielafinizio, la grande forza di Galileo e Newton non era quella di fornire dati esattissimi (anzi probabilmente Galileo sulla torre di Pisa non c’è mai salito, almeno non per buttare giù due pallette), ma quella di aver saputo dare risposte che più si confacevano alla concezione scientifica del mondo moderno. Semplificando, la scienza puo’ essere definita come l’interpretazione di fenomeni (naturali o sociali) che risponde a dei criteri metodologici, il cui rigore si basa sulla possibilità di utilizzare un linguaggio universale e formale come la matematica. E’ nel momento in cui non risponde più a questi criteri che si verificano le “rivoluzioni scientifiche” (cf. Kuhn). Ma, fino a quel punto, quella che Kuhn chiama “scienza normale” rimane un paradigma di riferimento per una comunità per distinguere il “vero” dal “falso”. Per esempio, la teoria delle stringhe oggi è tenuta come una delle interpretazioni più credibili nello studio della materia e delle particelle, é basata su tecniche matematiche molto raffinate, ma chi ci dice che tra vent’anni non avrà fatto la fine di teorie “perdenti” come quella del flogisto o dell’etere?
Da questo punto di vista, non distinguerei a priori la fisica dall’economia o dalla sociologia. E’ la pratica che ne viene fatta, più o meno lontana dalle restrizioni metodologiche e di riproducibilità imposte dalla comunità e più o meno infulenzata da scelte ideologiche, a dare l’impressione che ci sia una scala di valori tra la “fuffa” economista e la “perfezione universale” della fisica delle particelle. E soprattutto, per rispondere a @Lupoexpress, non è vero che “le leggi della fisica, le regole matematiche […] non rispondono alle regole umane”. Sono i fenomeni naturali che non rispondono alle regole umane, ma le leggi della fisica sono regole umane con cui noi li intepretiamo attraverso delle regole matematiche che sono quanto di più umano non ci sia. Da qualche secolo a questa parte, si è sviluppata una scienza il cui obiettivo è di rendere questa interpretazione il più possibile universale e indipendente dall’osservatore, ma questo non ne fa, per fortuna della scienza!, una verità assoluta.
Ok, cerco di concludere (perché mi sembra di dilungarmi, di fare il professorino e anche di andare un po’ OT) cercando di evidenziare come il post abbia secondo me centrato in pieno i problemi insiti nella produzione e nella trasmissione scientifica che molta cultura scientifica o divulgativa tende a sottovalutare o ignorare.
Innanzitutto ritorno su uno dei punti centrali del mio primo commento: lo sviluppo di tecniche (in particolare statistiche) sempre più raffinate e potenti, ma anche sempre più difficili da capire, da mettere in pratica rigorosamente e da verificare, pone un problema politico soprattutto perché tende sempre più a voler far dire alla scienza delle cose che non puo’ dire: per riprendere Lavielle, che vuol dire che gli OGM fanno o non fanno male? Che abbiamo deciso che l’intervallo di fiducia di un test deve essere del 5% pittusto che del 3%? E quanto l’utilizzo di questi sturmenti si allinea alle richieste di obiettività e riproducibilità che la comunità scientifica si è data? Da molti commenti qui sopra, mi sembra che ci sia qualche crepa qua e là…
Seconda cosa: fare scienza, fare divulgazione, scegliere il punto di vista sotto cui presentare un lavoro sull’omologia di Floer piuttosto che sull’impatto delle tecniche ogm sull’agricoltura europea è una scelta politica. (Faccio qui pubblicità, Saint Just sia clemente!, a un racconto di #tifiamoscaramouche, L’insidia dell’angolo acuto, che tratta della possibile nascita delle geometrie non euclidee). Fare finta che non sia cosi’, che ci possa essere una neutralità assoluta non è solo non considerare la scienza attuale nella sua evoluzione storica, ma rischiare di trasformarla in una teologia in cui i detentori del sapere non possono essere messi in discussione.
OT (scusate, tenterò di essere sintetico) @MarBern
La battuta sulla differenza tra fisica e altre scienze deriva dalla possibilità per la prima di esplicitare con chiarezza i propri assiomi (ti ringrazio per aver esplicitato il discorso Hilbert, che era quello che avevo in mente) che in questo caso dovrebbero derivare dall’evidenza sperimentale più (quante meno possibile) ipotesi di lavoro/teoriche/paradigmatiche. Dopodiché si procede per deduzione come in matematica.
Nelle altre discipline c’è molta più difficoltà non solo nell’approccio deduttivo/matematico ma anche nell’identificare gli assiomi.
E quest’ultimo punto -poca chiarezza negli assiomi- è ciò che ritengo sia causa ineliminabile della non neutralità nelle scienze (poi valgono ovviamente anche tutte le considerazioni storiche e i molti spunti interessanti sollevati in molti commenti).
@e.talpa, mi spiace non sono d’accordo. Faccio un esempio che tu stesso hai accennato prima: il teorema di Pitagora. Dal punto di vista del matematico moderno il teorema non è né falso né vero. Cioè, la possiblità di provarlo vero o falso risiede negli assiomi: se assumiamo il quinto postulato, allora è vero, se no no. La rivoluzione formalizzata da Hilbert consiste nell’astrarre completamente il formalismo da ogni sua intepretazione fattuale. Non ci interessa misurare dei triangoli, ma di dedurre proprietà universali dei triangoli a partire dalla loro definizione e dalle proprietà dello spazio in cui li consdieriamo. Starà poi ai fisici capire se certi modelli rispondono alle loro esigenze, come per esempio la struttura iperbolica dello spazio-tempo è basata proprio sulla negazione del quinto postulato. Poi ovviamente ci sono teorie matematiche più interessanti e utili alla fisica che saranno esplorate più di teorie “esotiche” (come ad esempio quelle che negano l’assioma della scelta).
Non è una gara a quale scienza è più esatta, è solo una differenza sostanziale. Di nuovo un esempio (tecnico, ma credo esplicativo): se un matematico dimostra che due varietà di Calabi-Yau hanno gli stessi numeri di Hodge, il fisico delle stringhe ne deduce alcune proprietà di simmetria sul compartamento di particelle elementari. Ma supponiamo che un giorno la teoria delle stringhe non sia più considerata credibile (confutazioni, esperimenti contradditori, chissà….): le varietà di cui sopra, in quanto ogetti formali (insiemi con certe proprietà) continueranno ad avere la stessa proprietà, ma non verrà più ritenuto scientificamente corretto che questa implichi una simmetria tra particelle.
Tornando al tuo commento, cerco di rimettere la nostra discussione in tema-post: non è la poca chiarezza negli assiomi, ma la poca chiarezza nell’esplicitare quali assunzioni implicite sono alla base della teoria che rende certe scienze meno neutrali. Per esempio l’elettronica, che prende spunto da fenomeni riproducibili in laboratorio e verificabili e intepretabili con strumenti logici rigorosi, appare molto più neutrale di una teoria economica (un esempio che invento su due piedi) con raffinati modelli matematici e delle deduzioni brillanti che si basa sulla supposizione che il mercato sia una mano invisibile che regola l’economia…. Se l’economista non chiarisce questa ipotesi e cerca di imporci delle “verità”, allora o è un ingenuo o è un impostore.
E’ proprio questo aspetto che ho forse esagerato nell’ultimo esempio che lo scienziato e il divulgatore non devono mai sottovalutare, anzi che devono continuare a sottilineare nel loro lavoro.
@MarBern mica capito cosa stiamo dicendo di diverso :) “[è] la poca chiarezza nell’esplicitare quali assunzioni implicite sono alla base della teoria che rende certe scienze meno neutrali”
Salvo forse che poi io aggiungerei anche che un metro e un secondo li sappiamo definire “bene” e quindi magari anche assiomi ulteriori possono essere descritti rigorosamente (Es. C è costante universale). Mi spiace ma mi rifiuterò invece di riconoscere che esistano definizioni altrettanto rigorose non solo di “mano invisibile” ma nemmeno di “uomo” o “rene”. Ovviamente sappiamo parlare di essi in pratica ma non credo sappiamo *definire* quale astrazione e quali caratteristiche rendono un uomo un uomo e quindi cosa non sarebbe uomo: troppo sfumato per il mio “gusto” di fisico, non modellizzabile, non matematizzabile, non misurabile insomma non *altrettanto* formalizzzabile. Poi non è che rilevi tantissimo per il topic, lo riconosco.
Ecco, e.talpa ha mostrato, in negativo, esattamente quello che intendo con spocchia gerarchica tra le diverse scienze.
La velocità della luce sarebbe una cosa “rigorosa” mentre un rene no. A me sembra che entrambi i concetti siano astrazioni e approssimazioni, a diverse gradazioni di rigore. Tanto per dirne una, la cosiddetta “velocità della luce” è in realtà la velocità teorica della luce nel vuoto assoluto, ma c’è il piccolo problema che il vuoto assoluto non esiste.
Da un po’ di commenti a questa parte, mi sembra che vi siate addentrati parecchio nei meandri di questioni epistemologiche, molto interessanti e da sviscerare ma fuori fuoco rispetto al tema centrale della discussione.
OK, ma l’idea che non si possano dare definizioni rigorose di cose che non siano matematiche o, massimo massimo, fisiche, è spesso la base su cui qualsiasi tipo di generalizzazione politica e sociale viene estromessa dai discorsi scientisti.
In questo modo si può ridurre tutta la discussione a un teoremino da terza liceo, esiliando le considerazioni sulla società umana come “non rigorose”, dunque ipso facto “antiscientifiche”, dunque ipso facto “sbagliate”.
Rifiutare l’assolutizzazione della gerarchia del rigore nelle scienze mi sembra un imperativo se si vuole scardinare lo scientismo pseudo-neutrale senza rinunciare al metodo scientifico.
Va bene, allora esplicitate meglio il legame tra quest’aspetto e quello affrontato nel post, legame che via via si è fatto più implicito. Lo scambio tra voi tre-quattro (e.talpa, MarBern, tu e ora mi sa anche Gvdr) è interessantissimo ma fitto e molto tecnico, temo che chi legge perda interesse.
Mauro, non *estremamente* rigorose non significa sbagliate. Viceversa spacciate per eccessivamente scientifiche può essere proprio l’atteggiamento che scatena la furia dei debunker…
Ciao MarBern, continuo a non vedere questa profonda differenza epistemologica tra matematica e altre scienze. Condividevo anch’io il tuo punto di vista fino a qualche tempo fa, poi ho iniziato a metterlo in discussione.
Dici che vabbe’, anche i matematici sono umani e quindi commettono “errori”, ma questo non inficia il metodo matematico. Certo, ma per quale ragione il sistema tolemaico sarebbe un errore epistemologicamente diverso da quello di un matematico che sbaglia una dimostrazione o addirittura di un chimico che fa cherry-picking per dimostrare che un farmaco è innocuo?
Ho ben chiaro il punto per cui il modello di un fisico è diverso da un oggetto matematico: il primo si pone come una astrazione di qualche aspetto della realtà materiale, il secondo come un oggetto della nostra fantasia che potrebbe accidentalmente servirci per parlare della realtà ma magari anche no e in tal caso le proposizioni che scriviamo sul suo conto sono comunque altrettanto interessanti per il matematico. Questa visione però mi sembra ingenua: innanzi tutto è ovvio che la ricerca matematica non procede davvero a casaccio, si studiano cose che in qualche modo remoto ci si aspetta, magari anche solo intuitivamente, possano rapportarsi all’universo fisico (e infatti va sempre a finire che si trovano applicazioni anche dei concetti più esotici); in secondo luogo, le nostre fantasie matematiche sono comunque oggetti che esistono nella realtà: sono configurazioni della nostra mente, funzione del modo in cui funziona il nostro cervello (oppure roba fatta da computer che sono a loro volta oggetti fisici).
La matematica è una scienza simile alle scienze naturali nella misura in cui parla di come il nostro pensiero costruisce sistemi formali e formula proposizioni sulle proprietà di quei sistemi formali. Nel sostenere che una certa dimostrazione è stata fatta correttamente fa un’affermazione “non rigorosa” che è a rischio di confutazione esattamente come è a rischio di confutazione dire che un certo modello fisico rappresenta sufficientemente bene un certo fenomeno naturale.
Molto interessante il tuo excursus su assiomi, Gödel ecc., anche se quello è un punto parzialmente diverso. Naturalmente l’esistenza di sistemi assiomatici non euclidei non falsifica il teorema di Pitagora, ma niente ci garantisce che anche all’interno del sistema assiomatico euclideo il teorema di Pitagora possa essere falsificato se un domani ci accorgiamo che incredibilmente per millenni abbiamo sbagliato un passaggio della dimostrazione; ovviamente è improbabile in modo stratosferico, come del resto è improbabile in modo stratosferico che un domani ci accorgiamo che una proposizione molto solida di una qualsiasi scienza non esatta, per esempio «Gli elefanti non hanno le ali», sia falsa.
PS: HO UNA ENNE SOLA PORCA PUPAZZA! :-)
Seguo Giap da anni, ma è la prima volta che provo a dare un contributo. Mi pare che i teorici della Scuola di Francoforte abbiano detto delle cose ancora attuali e valide anche sul tema analizzato da Mariano Tomatis, la pretesa ‘neutralità’ di un certo modo di interpretare il giornalismo scientifico divulgativo. I francofortesi ricordavano che l’avalutatività weberiana – qui assimilabile alla neutralità – veniva annullata in quella totalità del reale determinata dai modi di produzione della società capitalista.
Di recente in Italia la polemica sugli OGM ha visto su poli opposti Vandana Shiva e la senatrice a vita e scienziata Elena Cattaneo. Il discorso di Vandana Shiva non si limita alla dicotomia tossicità/salubrità degli OGM, ma investe anche i problemi connessi alla produzione agroindustriale di OGM in aree a vocazione agricola tradizionale, estensiva. Quest’ultima dimensione (del conflitto sociale determinato dai modi di produzione) è invece espunta dalla confutazione della Cattaneo. Qui gli articoli di repubblica:
http://www.repubblica.it/ambiente/2014/10/04/news/vietare_gli_ogm_un_grave_danno_non_ci_sono_prove_che_siano_nocivi-97287327/
http://www.repubblica.it/ambiente/2014/10/03/news/intervista_vandana_shiva_ogm-97215746/
Infine, invito gli interessati ad approfondire le vicende biografiche di Werner Heisenberg e John Von Neumann, due grandi personalità scientifiche, che fecero scelte differenti negli anni della corsa alla costruzione dell’atomica.
Guarda, non diamo per scontato che la Shiva faccia un buon servizio a chi si oppone agli OGM.
1)Dal punto di vista diciamo scientifico nei suoi testi (almeno in quel paio di libri che ho letto io) non c’è traccia di fonti; diciamo che l’atteggiamento è lo stesso che si ritrova nella seconda intervista che hai linkato:
“Specter non ha fatto una vera ricognizione sul campo, non si è spinto nella regione cotoniera del Maharashtra. Altrimenti avrebbe saputo di Shankar Raut e Tatyaji Varlu, del villaggio di Varud, suicidi dopo il disastroso raccolto di cotone Bt. E tanti casi come questi”
che diavolo vuol dire una frase come questa? è fatta per essere smontata. E i suoi libri sono costruiti così: evocativi e approssimativi. La Shiva è un bersaglio facilissimo per chi ne vuole smontare le teorie – sia per i prezzolati che per chi è in buona fede.
2)Dal punto di vista politico invece la Shiva porta avanti ragionamenti e proposte che funzionerebbero se non ci fosse il capitalismo. Se ci fossero – invece del capitale e dei rapporti di produzione determinati e brutali – dei “cattivi” a cui si oppongono i “buoni”.
Se prendi per buone queste due valutazioni
(ti prego ovviamnete di sottoporle a verifica sui testi, prendi questo per esempio: http://www.lafeltrinelli.it/libri/vandana-shiva/chi-nutrira-mondo/9788807172823)
allora è più facile capire perché la Shiva era dentro Expo, quell’Expo che non teme certo le critiche ma se le mangia. E la Shiva è facilmente digeribile.
@Wolf Bukowski “non diamo per scontato che la Shiva faccia un buon servizio a chi si oppone agli OGM.” <- Sono d'accordo. Farei anche un passo in più, non diamo per scontato nemmeno che opporsi agli OGM sia utile all'interno di una lotta contro una politica economica neocolonialista e di una lotta per la biodiversità. Non è solo di "argomenti dubbiosi", per me, ma di aver scelto l'obbiettivo sbagliato, averlo reso un mito, non essere più capaci di riconoscerlo come tale e quindi di non essere più capaci di abbandonarlo. In questo specifico ambito, nel triangolo Scienza/Narrazione/Militanza mi pare non ci sia più un flusso dalla scienza (dall'analisi rigorosa della realtà) alla militanza, perché è stato cortocircuitato dalla narrazione (gli OGM sono il mostro perché lo abbiamo ripetuto così tante volte che ora non possiamo più cambiare idea).
Tornando allo scenario di Andrea Ferrero, e dando per tacito che "si, un fact cheking incompleto sarebbe lontano da ogni neutralità, anche se corretto tecnicamente", occorre domandarsi "E poi? Cosa dovrebbero fare quelle associazioni umanitarie? Negare il fact checking o prenderne atto? Continuare con lo stesso obbiettivo o cercarne di più solidi (e magari meno forti narrativamente)? E come lo si fa senza perdere terreno?".
Del fatto se gli OGM siano o non siano impastati irredimibilmente all’agribusiness neocolonialista non stiamo discutendo qui. Ma, come vedi, già per come ho impostato questa risposta ho creato un frame (Agribusiness –> OGM).
Se ti avessi detto “del fatto che gli OGM facciano male o meno ai nostri organi interni”, per dire, avrei creato un frame diverso.
Insomma non mi pare che ci sia un problema incidentale di cortocircuito, mi pare che ci sia proprio una questione sostanziale sul framing.
Che poi ci siano “attivisti” che sparano stupidaggini è ovvio. Ma, se si va poi a vedere per bene, a spararle sono soprattutto i militanti della sottrazione, insomma quelli che hanno sempre il piano B dello svicolare dicendo “vabbè, io intanto mi faccio il mio orto, poi si vedrà”
Grazie per le precisazioni, io non ho letto niente di Vandana Shiva, l’ho sentita di recente come ospite ad un convegno. Ciò che mi pareva pertinente con gli argomenti di Tomatis era l’impossibilità di ‘isolare’ l’aspetto scientifico di certe questioni dalle implicazioni etiche in senso ampio,come invece ritengono alcuni divulgatori che disprezzano l’attivismo, quasi che la militanza fosse sinonimo di distanza dall’oggettività, per cui si instaura un frame in cui i divulgatori rendono conto oggettivamente, in modo autentico e fedele dei fenomeni, mentre i militanti/attivisti offrono rappresentazioni parziali, partigiane e dunque scorrette, false. In tal senso mi ricordavo la critica dei francofortesi al concetto di avalutatività/neutralità. E questo a mio avviso lo si può desumere anche dal confronto fra Shiva e Cattaneo. Naturalmente, a ben vedere, come dici tu e più avanti Wu Ming1, Shiva sembra organica allo stesso sistema che intende contestare e confutare.
Credo siano due obiezioni distinte.
Da una parte: la Shiva è funzionale a monsanto, per capirci (“il miglior nemico desiderabile” dice WM1). “Organica” sarebbe un’altra storia, e non mi ci avventuro.
Dall’altra la Shiva argomenta male e motiva peggio.
I due aspetti si rinforzano reciprocamente, ma sono distinti.
Si certo, organica qui è inteso in senso blando, non gramsciano, funzionale rende meglio. E’ uno schema dialettico dove l’argomentare su basi scientifiche incerte dell’interlocutore-attivista lo rende appunto il miglior nemico desiderabile per la controparte, chiunque essa sia, la Monsanto o il divulgatore ben allenato a pratiche di fact checking.
Un fatto è un fatto.
Eppure i fatti si possono minimizzare, esaltare, relativizzare, nascondere sotto tonnellate di altri fatti. Si possono usare certi fatti per “produrre dubbi” rispetto all’empiricità dei fatti in questione.
I fatti si inscrivono in teorie e le teorie sono spesso orientate da un punto di vista.
Le teorie vengono pubblicate su giornali scientifici attraverso peer per review che possono durare trenta giorni o solo tre giorni.
Più i fatti sono complessi, meno sono “nudi e crudi”, meno sono raw.
Anche un fatto come una rilevazione dell’aria di alcuni sensori al fine di individuare le polveri sottili, Taranto docet, può essere tutto tranne che un fatto neutro. I “dati” possono essere costruiti. Si possono fare le rilevazioni quando l’altoforno rallenta, quando il vento soffia in direzione favorevole agli interessi del padronato e contraria agli interessi dei polmoni degli abitanti del rione Tamburi. Questo è un primo “conflitto di interessi”. Si possono far fare i monitoraggi all’azienda che ha in appalto i cantieri, e probabilmente quei “fatti” non le andranno a nuocere (ad esempio, il caso dell’amianto nei cantieri Tav).
In campo medico, il caso dell’amianto è eclatante. Non si tratta solo di “prima non faceva male” e “ora si sa che fa male”. Si è sempre saputo che faceva male, era un fatto, ma questo fatto era diluito da teorie rassicuranti elaborate da medici proni agli interessi dell’industria dell’asbesto, che nondimeno erano scienziati. Altri medici le hanno smontate, in un conflitto aspro e politico in cui gli stessi fatti producevano interpretazioni diverse. Un conflitto sui fatti, durato decenni.
Ancora adesso ci sono scienziati che sul fatto che l’amianto faccia male producono teorie che interpretano quel fatto in maniera problematica per gli operai e favorevole agli industriali. Un esempio è quello della “dose grilletto” o “dose innescante”, una tesi che ha la finalità di circoscrivere alla sola esposizione iniziale un significato eziologico, al fine di limitare la ricerca di eventuali profili penali di colpa in una finestra temporale remota. E’ una tesi simile a quella “della prima fibra”: “caro operaio che tossisci in quest’aula, prima di lavorare per il mio cliente non hai mai fatto l’idraulico? Non hai mai tagliato un tubo d’amianto? Sì? Ecco, tanti anni fa, quel giorno ti sei rovinato i polmoni e quando in seguito sei stato assunto dalla Figlidilupo s.r.l. eri già ammalato”. “Chi può individuare la fibra che ti ammala, con tempi di latenza tanto lunghi?” Queste tesi sono state criticate e demolite da altri scienziati (in particolari dai prof dell’Istituto Superiore di Sanità), eppure sono state avanzate e rivendicate da scienziati italiani che scrivono su importanti riviste scientifiche internazionali e ricoprono ruoli di rilievo in università e ospedali (e che si fanno pagare come consulenti dall’industria dell’amianto, ça va sans dire).
La storia dei rapporti tra scienza medica e amianto è una storia che dimostra come i fatti sono lontani dal darsi di per sé evidenti. Sono diventati fatti insomma dopo anni di lotte e di conflitto, che hanno visto medici che lavoravano per l’industria opporsi ad altri medici che lavoravano “per la salute pubblica” (come si dice negli Usa, da noi diremmo “a fianco dei lavoratori”). Aggiungerei anche: sono diventati fatti grazie anche agli attivisti che hanno lottato assieme ai medici nei tribunali e nelle piazze.
C’è un libro ormai classico, “Doubt is their product”, di D. Michaels, purtroppo non tradotto in italiano, che spiega il lungo conflitto tra due modelli di medicina, con diverse implicazioni sociali, attorno ai dati grezzi, al conflitto di interesse e all’ingerenza dell’industria nella medicina. In particolare il libro analizza il caso degli studi medici su amianto, tabacco e pvc. Ne consiglio la lettura.
Tutto questo per dire che anche la scienza non è un ambito di fatti neutrali. Non si tratta di opporre “scienza” a “senso comune”, come possono credere gli ingenui, o scienza ad attivismo, o scienza a wishful thinking o “junk science” a “raw science” ma di comprendere che anche la scienza è attraversata verticalmente da conflitti politici. Il punto è che la scienza non sta fuori ma è parte della società, la società è divisa dal conflitto e la scienza migliore è quella che rende il conflitto esplicito, piuttosto che ammantarsi di una falsa neutralità che poi cade al primo caso “La Vecchia e Boffetta”(cercate su un motore di ricerca e capirete chi sono costoro).
«Adoro i wuminghia. Un titolo come “Scienza, feticismo dei “fatti” e rimozione del conflitto” poteva uscire solo da loro, e dalla convinzione, tipica di un certo genere di pseudointellettuale, che quando la realta’ e’ in contrasto con una piu’ profonda “verita’” dedotta dall’ideologia, la realta’ va ignorata.
Nella fattispecie, un pippone chilometrico per dire che le bufale sugli OGM non andrebbero debunkate perche’ gli OGM sono comunque politicamente inaccettabili, e quindi le balle che i vari Seralini e Greenpeace raccontano sono vere ad un livello piu’ fondamentale.
Vero e falso diventano concetti superflui, soppiantati da politicamente utile e controproducente. Sono l’equivalente di sinistra dei vari Maurizi Blondet che dicono che i protocolli dei savi di sion sono comunque “intimamente” veri anche se sono falsi.»
Giunto in simili abissi, il segnale del sonar, sopraffatto dal disgusto, smette di rimbalzare. Sono i fondali dove svanisce l’ultimo barlume di minima decenza e onestà intellettuale.
Domanda: cos’è questo schifo?
Risposta: è il “riassunto” del post di Mariano fatto da uno dei sedicenti “difensori della scienza” che si sono inalberati nei giorni scorsi. Quelli che stanno spammando la “bolla” del direttivo del Cicap. Tratto dal suo profilo FB.
Capite la portata del problema?
Bello bello davvero: ‘sto tizio ricorda che Séralini racconta balle ma dimentica che la Monsanto ha raccontato lo stesso tipo di balle. Tutta l’anilisi del perché e del percome, del ruolo dei controllori, della scienza come scelta politica, di cosa vuol dire raccontare balle in statistica, del racconto che se ne fa ai “profani” non gli interessa, è roba da pesudointellettuali militanti… mi pare che qui ci sia qualcuno che ignora la realtà o non la cita perché fa scomodo. Se questa è neutralità….
“Vero e falso diventano concetti superflui, soppiantati da politicamente utile e controproducente.”
Passaggio molto interessante…
Discussione molto interessante, anche se forse porta troppa carne al fuoco! Anche per un lettore assiduo di Giap!, per esempio, puo’ essere abbastanza arduo discutere il post senza aver chiare alcune definizioni.
Mi spiego: nei commenti precedenti vedo a volte mettere insieme ricercatori e divulgatori, ma le due cose sono diverse. Come pure la scienza (che come MarBern giustamente fa notare, non e’ mica tanto chiaro che cosa sia) e gli scienziati. Che poi, pure, cos’e’ uno scienziato esattamente? Il ricercatore e’ uno scienziato? I tecnici che aiutano i giudici a prendere delle decisioni raccogliendo, ordinando e “spiegando” fatti sono scienziati?
Con questo non voglio dire che una persona non possa essere sia “ricercatore” che “divulgatore”: nel momento in cui fa una ricerca, e’ un ricercatore, nel momento in cui spiega la propria scienza, e’ un divulgatore.
Devo pero’ ammettere che, in moltissimi corsi sulla “comunicazione scientifica”, mi hanno spiegato che un ricercatore e’ meglio che sappia spiegarsi da solo senza intermediari, perche’ senno’ c’e’ il rischio di vedere il proprio nome accostato a concetti mai espressi!
E questo e’ un punto molto importante. Il metodo scientifico di fatto riconosce l’esistenza di innumerevoli fattori di bias, e cerca di eliminarli. Pero’ non e’ affatto facile, e non e’ che esiste una “checking list” che permetta di eliminare tutti i bias, anzi! Fatto sta che, di solito, un articolo scientifico non dovrebbe mai concludere con una VERITA’ bensi’ con un “in determinate condizioni, in un determinato momento, e’ stato osservato questo e questo, e gli Autori pensano che quindi l’ipotesi xxxxxx sia “significativamente” provata” (anche se poi ci si aggiunge sempre un “further studies are required [give me more funding]”).
Detto questo, ogni essere umano e’ affetto da millemila bias. Lo e’ il professore, lo e’ lo studente, il ricercatore, il divulgatore. Lo sono nel loro modo di pensare, di formulare idee, di costruire concetti, di preparare un esperimento, di scrivere un articolo, di spiegarlo al proprio nonno.
Per questo ci sono i corsi di “scrittura scientifica”. E per questo si spinge molto sull’uso della costruzione diretta della frase VS una piu’ classica indiretta.
E.g. piuttosto che .
Quando poi uno scrive un articolo, mica puo’ mettersi a descrivere tutto quello che e’ concorso a svilupparlo. Gli Autori sono piu’ di uno, e a volte metterli d’accordo fa venire un gran mal di testa. E poi, perche’ e’ stata scelta quell’area e non un’altra che sembrava migliore? Tipica domanda da reviewer, a cui la tipica risposta e’: non era oggettivamente possibile. Quindi ci sono molti conflitti che vengono rimossi a qualsiasi livello: i conflitti interni al ricercatore, tra gli autori, nell’esposizione dello studio per la pubblicazione, nella scelta di come descrivere l’articolo da parte del divulgatore, della maniera di leggerlo da parte del lettore “finale”.
Per poter comunicare in maniera efficiente, purtroppo, bisogna eliminare la complessita’, i conflitti, la non-linearita’ della ricerca stessa. Bisogna “lucidare” l’articolo in modo che sia chiaro per chi legge. Il passo da far quest’operazione e pensare che, alla fin fine, lo studio e’ sempre stato lineare e che i conflitti non esistono, e’ breve. E puo’ avvenire pure nella memoria del ricercatore stesso, che rimuove certe parti della sua ricerca per “semplificare” il ricordo. Ovviamente un buon “scienziato” dovrebbe sempre sapere che la complessita’ e’ li, celata, ma non espressa chiaramente. E quindi dovrebbe avere un grosso carico di umilta’ a proposito di quello che effettivamente conosce: di fatto, non si dice spesso che “piu’ studio questo processo, piu’ mi rendo conto di quanto poco lo comprendo?” (further studies required, again).
Riassumendo: bias a manetta, si cerca di eliminarli ma alcuni sfuggono sempre. Ora il problema principale: e’ vero che la neutralita’ difende Golia, in ambito scientifico e/o divulgativo?
Prima di tutto bisogna fare una bella distinzione: (i) neutralita’ divulgativa e (ii) neutralita’ scientifica.
(i) La divulgazione fa uso di tecniche comunicative diverse da quelle usate nella preparazione di articoli. E’ molto piu’ simile a quella letteraria, e come tale manca di tutto un sistema di “eliminazione del bias” che avviene a livello degli articoli scientifici, dato adito ad una soggettivita’ molto piu’ diretta. L’esempio “giustizialista” del post [«il tribunale ha correttamente condannato l’agricoltore perché ha fatto il furbo»] e’ lampante: un Reviewer avrebbe fatto un segno rosso sulla frase e scritto “non pertinente. Il tribunale non e’ uno studio scientifico.” e ‘buona notte ai suonatori’.
Quindi, un framing di destra o di sinistra si impone fortemente nel racconto del divulgatore, sia che egli se ne renda conto o meno. Con “sinistra” e “destra” mi riferisco alla definizione che Wu Ming fa di queste parole, visto che siamo su Giap!.
E, in questo caso, un atteggiamento scientista e di “neutralita’ dei fatti” e’, effettivamente, di destra.
(ii) La scrittura di un articolo tende ad eliminare (o rendere meno visibili) tantissimi bias insiti in uno studio. E qui la domanda cade come un masso: una volta “neutralizzato” lo studio, questo e’ di destra o di sinistra?
Se lo studio e’ stato propriamente “neutralizzato”, come abbiamo visto, cerchera’ di presentare tutti gli elementi essenziali per essere interpretato: si cerca quindi di usare un framing “vuoto”, e il lettore dell’articolo e’ libero di interpretare i risultati dello studio secondo il suo caratteristico “framing”.
Purtroppo questo non succede sempre: ci sono sempre e comunque framing insiti nelle comunita’ scientifiche. Ci sono studi teorici e pratici. Ci sono ecologi e fisici. Ci sono geologi italiani e statunitensi. E fanno continuamente a botte (verbalmente…parlando) tra loro.
Ma avere un bias e non accorgersene, secondo me non e’ (e scusate l’infelice espressione, lettori di Giap!) “ne’ di destra ne’ sinistra”. Nel senso che puo’ succedere a tutti!
L’importante e’ sapersi mettere in discussione, forse. E dico forse, perche’ ci sono ricercatori che non si mettono poi tanto in discussione, sono fortemente convinti della loro idea, e poi, magari dopo anni ed anni, riescono pure a provarla con degli esperimenti convincenti.
Per concludere, secondo me:
– Nel mondo della scienza ci sono ricercatori di “destra” e di “sinistra”. Entrambi possono arrivare ad interessanti conclusioni ed aiutare a far “crescere” la nostra “conoscenza”.
Ma il fatto che utilizzino un framing o l’altro non vuol dire che vogliano appoggiare un Golia, secondo me, e comunque, nel processo di publicazione scientifica spesso il loro framing viene corretto.
– Nel mondo della divulgazione scientifica ci sono approcci di destra e di sinistra. Un approccio di destra appoggia lo status quo. Un approccio di sinistra mette in discussione lo status quo e, probabilmente, farebbe pure notare gli aspetti “nascosti” dei fatti (e.g. gli ogm non fanno male se ingeriti, ma che effetto avrebbero sugli ecosistemi?).
Scusate la prolissita’ (e la mancanza degli accenti sulla tastiera).
Sono anche io un matematico. Sono un militante, un ecologista, un ecologo evoluzionista. Meglio ancora, cerco ogni giorno di diventare ognuna di quelle cose. Molti accenti diventeranno apostrofi: scrivo dalla Nuova Zelanda (un paese ogm free, per inciso, e per motivazioni molto particolari, legate al rispetto della cultura Maori), con una tastiera che uso per la tesi di dottorato: cerco di sviluppare degli strumenti matematici per indagare il rapporto, complesso, non lineare, fra macroecologia e macroevoluzione. La mia ricerca si inserisce nella lotta per la preservazione della biodiversità; ed e’ una lotta che concepisco in modo politico, oltre che scientifico. Comunque, in tre anni non sono ancora riuscito a far apprezzare alla mia tastiera gli accenti. In compenso riesco a farle produrre dei commenti straziantemente lunghi.
L’articolo di Mariano mi ha deluso, no voglio nasconderlo, anche se ne condivido profondamente basi, metodi e fini. Non me ne voglia Mariano, non e’ mancanza di stima: sarebbe stato difficile accontentarmi, visto quanto c’è in ballo nello scenario proposto da Andrea Ferrero. Tant’è che mi risulta difficile procedere in modo lineare nell’esporre le mie riflessioni.
Perché deluso? Un po’ perché credo che l’attenzione posta su Mautino e Bressanini sia fuorviante rispetto ai problematici rapporti del triangolo scienza/narrazione/militanza che Mariano ha sapientemente esibito. Ma soprattutto, perché ritengo che per rispondere allo scenario proposto da Andrea non si possa ignorare l’altro senso di percorrenza del triangolo scienza/narrazione/militanza, quello che va dalla scienza alla narrazione attraverso la militanza. La narrazione della scienza come strumento di militanza. Il secondo punto (“Cosa dovrei fare meglio IO (militante, ecologista, ecologo)?”) e’, per me, molto più rilevante del primo.
Non scappo dallo sviluppare il primo punto. Io trovo la posizione dei due giornalisti meno omogenea e monocorde di come descritta da Mariano (Mautino, nella stessa discussione su FB afferma: “io sono convinta che non sempre sia possibile separate il punto di vista scientifico dal resto [il frame etico e politico], anzi, avrei scritto che non è mai possibile. Però non sono convinta che la responsabilità sia di chi fa notare un errore. La responsabilità è condivisa fra tutti gli attori: associazioni umanitarie, scienziati e governo (in questo caso)”). Ne’, mi pare, che Mautino inquadrasse il rapporto come “onesto vs. attivista” (Mariano su Twitter), bensì come un rapporto perpendicolare fra “corretto vs. scorretto” (e “completo vs. incompleto”, in seguito riprenderò queste dimensioni analitiche); rapporto che e’ ortogonale alla professione, alla strategia comunicativa e di lotta, … . Questa, almeno, la mia lettura (personalissima e limitata, dato che non conosco personalmente nessuno fra Andrea, Mariano, Beatrice e Dario).
Passo al secondo motivo di delusione. Mariano afferma che “il rigore argomentativo e l’impegno politico sono dimensioni tra loro perpendicolari e si possono miscelare in dosi diverse, dando corpo – senza soluzione di continuità – ad autori sommamente illuminati come a personaggi francamente inquietanti.” Io non posso essere più d’accordo. Vi sono due punti all’infinito che, simmetricamente, mi spaventano: un totale rigore senza alcun impegno (un mito) e un impegno appassionato ma privo di alcun rigore (una caricatura tossica della militanza). I due punti all’infinito non sono toccati da nessuno, e dobbiamo occuparci di figure più complesse. Il giornalista che mira ad una correttezza disciplinare rinunciando a discapito della completezza interdisciplinare nell’inquadrare gli argomenti in gioco, nascondendosi dietro i fatti, e’ l’obbiettivo sul quale si focalizza Mariano. Il militante che, pur avendo inquadrato bene le dinamiche globali di lotta, lascia l’argomentazione rigorosa (e scientifica) alle spalle e’ il suo duale. Del tutto inutile cercare di ponderare le due figure: esse agiscono in uno spazio pluridimensionale e sono incommensurabili (per i numerosi matematici, questo e’ vero a patto di non imporre un arbitrario peso alle varie dimensioni).
Sono, di nuovo, d’accordo con Mariano quando afferma che “una delle strategie testuali che consentono di unire al rigore la possibilità di incidere su piani che trascendono la mera divulgazione è l’engagement personale nel discorso.”
Vero, non nuovo, ma nemmeno scontato. Vi invito a leggere, come ottimo esempio riuscito, “Eternel Ephemera” di Niles Eldredge (male, malissimo se non sapete chi e’). Il secondo paragrafo del primo capitolo parte cosi’ “Years ago, as a fledgling paleontologist, I used to wonder how it could possibly have been that, according to the historians of geology and biology I had read […]” (1): la storia della biologia evoluzionistica, e la sua indagine sui tempi e i modi dell’evoluzione (in mancanza di una traduzione migliore) e’, inesorabilmente, la storia della personale scoperta di Eldredge della storia della biologia evoluzionistica ed il racconto della sua personale riflessione sull’evoluzione naturale. Ma nella narrativa scientifica, nei paper pubblicati dalle riviste peer reviewed (la forma narrativa di maggior consumo nella formazione della scienza) apparentemente non c’è un narratore. Scompare, per esigenze di economia informativa e perché ogni risultato deve poter essere ripreso, rivissuto, replicato (con esitivo positivo o negativo) da qualsiasi altra persona. A parlare e’ un “noi” generico: l’immagine proposta nei manuali di scrittura scientifica e’ quella di due persone sulla cima di una collina, una delle quali illustra all’altra i particolari che si possono scoprire indagando il panorama. Il giornalista, il divulgatore, l’attivista, il militante, devono sostituire a quel “noi” astratto della letteratura scientifica un noi vivo, forte, visibile.
Mi piace Wu Ming 1 quando ci esorta a “Dire la verità, certo, ma: bisogna farlo bene, sapere farlo bene, imparare a saperlo fare bene, e questo è il compito di una vita.”. Vorrei far avvolgere su se stessa, fino a farla diventare un uroboro, quella frase: dirla bene, imparare a farlo, rendersi conto delle forme narrative utilizzate, ricordarsi dei poteri di forza, essere militanti, ma, pur sempre, dire la verità. E non e’ facile, affatto. Non lo e’ per via di quelle macchine mitologiche che ci indicava Jesi: dobbiamo esserne coscienti e maneggiarle con maestria per non diventarne schiavi. Il dibattitto pubblico, anche e fortemente nella discussione intellettuale di sinistra, sulla scienza e’ intriso di innocue affermazioni che sono, appena sotto la superficie, narrative tossiche: dalle bufale semplici da smontare, ai complotti intricati e omnicomprensivi alle interpretazioni facilone e facilitate delle filosofie e sociologie postmoderne della scienza (mi domando quanti abbiano veramente letto i testi di Popper, Kuhn, Feyerabend, visto cosa infilano in bocca ai loro autori, o quanti hanno letto qualcosa di più recente di Feyerabend).
Se alla domanda di Andrea, “quegli scettici non avrebbero nessuna responsabilità?”, mi e’ facile rispondere che avrebbero una forte responsabilità, per incompletezza, per mancanza di engagement, per essersi lasciati incantare da uno di quegli spaventosi punti all’infinito, occorre pero’ affrontare anche l’altra domanda, senza cedere all’istinto di pesare pere ed arancie: “quegli attivisti [che avessero basato la loro lotta “anche” (Ferrero) su un “mito” “dalla scientificità molto dubbia” (Tomatis)] non avrebbero nessuna responsabilità?”
La risposta e’ difficile, impossibile senza una dolorosa autocritica. Resa più complessa perché mentre gli ipotetici scettici di Ferrero dicevano “solo”, gli attivisti dicono “anche”. E quindi diventa questione di frame, di quantità, di strategia… di frame, appunto.
Per essere espliciti, le associazioni e i movimenti (Tomatis accenna, perché lo fa Bressanini nel post su Schmeiser, a Greenpeace e SlowFood) che usano “discutibili argomentazioni pseudoscientifiche”, “considerazioni dalla scientificità molto dubbia”, hanno una responsabilità nella avvenuta trasposizione di una lotta contro un politica economica ed agricola ipercapitalista, distruttiva per l’ambiente e le popolazioni, in una lotta contro il mito (l’oggetto liminale (2)) “ogm”?
A me sta a cuore perché la seconda lotta e’ completamente ortogonale alla prima: possiamo avere una stupenda economia solidale, rispettosa, sostenibile, etica CON gli ogm come avere una spietata economia turboliberista e colonialista SENZA gli ogm. La narrativa e l’iconografia di quelle lotte (i.e., l’ogm come mela avvelenata disneyana: qui in un blitz di Greenpeace: http://ecologia.guidone.it/2013/07/05/blitz-di-greenpeace-per-chiedere-al-ministro-lorenzin-di-bloccare-gli-ogm/ , qui in una (bella!) versione di Michael D’Antuono: http://artandresponse.com/paintings/bad-apple/ e qui in un post della Organic Consumers Association: http://greenwei.com/blog/gmo-apples-will-begin-the-end-of-real-food-tell-feds-no/wicked-witch-says-trust-me-apple-is-safe/) che miti creano?
Come fanno a convivere le narrative della difesa del “piccolo contadino” Schmeiser (che consapevolmente coltivava ogm) e la distruzione dei campi del “piccolo contadino” Fidenato (che consapevolmente coltivava ogm)?
Siamo sicuri che Vandana Shiva (anche lei fra i blogger del Fatto Quotidiano), “santa patrona” del biologico sia una divinità benigna?
O che il “San Giorgio” Seralini sia più al nostro fianco del “Giuda” Mark Lynas?
Ma, ancora più importante, come si esce da questa impasse? Come si fa ad instaurare una narrativa meno tossica, più potente perché più corretta e più completa, engaged e rigorosa, nelle nostre lotte?
Ben venga il laboratorio permanente, io di sicuro sono interessato.
P.S. Ci sono nei vari commenti punti interessanti, ma per non rendere questo post, già lungo, insostenibile, rispondo direttamente laddove sono esposti.
(1) I passaggi in cui Eldredge incrocia le sue passeggiate con quelle di Darwin sono potenti:
“I knew none of these things about the medical school-even when I glimpsed its shadowy presence one winter’s night when I alighted in Edinburgh from a train from London. I was there to look over some of the cornets in the musical instrument collection overseen by Arnold Myers, renowned brass musical instrument historian. I was living outside my paleontological/evolutionary skin on that quick trip. I had no idea whatsoever that I was crossing Darwin’s footsteps as I entered Reid Concert Hall to see the horns in the basement, paying no heed whatsoever to the remains of a building next door that had been so important in the emergence of evolutionary theory.”
(http://cup.columbia.edu/book/eternal-ephemera/9780231153164)
(2) Per un inquadramento concettuale di “oggetto liminale” (boundary object) nell’ambito della genetica si veda Stem Cells, Translational Research and the Sociology of Science, Steve Wainwright et al. in The Handbook of Genetics & Society (ed. Atkinson, Glasner, Lockh) ttps://www.routledge.com/products/9780415410809
P.S. So che sono pedante, ma credo che alcuni miei punti di disaccordo su vari commenti possano servire per continuare la discussione.
E.Talpa dice: “ogni teoria scientifica è falsificabile” <- No, per buona pace di Popper, e' passato qualche anno dal 1959. Il falsificazionismo e' impossibile da applicare a scienze che fanno affermazioni probabilistiche (come la medicina, le scienze dell'evoluzione, l'ecologica, …). Porta a risultati paradossali e non può essere usato per distinguere teorie scientifiche e non. Il problema e' noto come fallacia dell'estensione probabilistica del Modus Tollens (vedi Hacking, Ian. Logic of statistical inference. CUP Archive, 1965.) e non ha soluzione.
Sempre e.talpa continua: "Figuriamoci se qualcuno riesce a convincermi di *sapere* quali possono essere le conseguenze a lungo termine in alcunché di biologico". La biologia non e' la fisica applicata ai sistemi viventi, come vorrebbe un approccio riduzionista che disconosce la complessità dei sistemi viventi. In biologia, ad esempio, sapere non e' "proiettare *esattamente*" (laddove con esattamente si intende con estrema precisione numerica), che invece e' il sapere della fisica. Tali fraintendimenti prestano il fianco ai peggiori (ipercristiani, dogmatici, imperialisti, razzisti) creazionisti in circolazione. Attenzione, la complessità epistemologica dell'attività scientifica non va riconosciuta solo dai giornalisti, ma anche dai militanti!
Maurovanetti critica una certa "idea che esistano “scienze esatte” […] e “scienze applicate” […] per arrivare infine alle “scienze umanistiche” che si barcamenano in cazzate senza il minimo rigore". Sono solidale con Mauro, questa gerarchia di discipline, propria di un positivismo ottocentesco, e' ridicola e intenibile. Ma lo e' anche annullare ogni differenza epistemologica. Non occorre illudersi che "alcune cose possano essere veramente “dimostrate” in senso assoluto" per sostenere la tesi che un prodotto della Boiron sia fatto di zucchero ed effetto placebo. Ne' farlo significa assoggettarsi alla "disillusione verso la cultura umanistica". La comunità scientifica e medica non e' migliore di altri comunità accademiche, ma non e' nemmeno peggiore. Se vanno seguite con attenzione le dinamiche dello sviluppo del vaccino per l'ebola, non si deve per forza considerare migliore la proposta di curare l'ebola con l'omeopatia (come e' stato proposto). Di nuovo, il discorso e' filosoficamente complesso.
Mauro si stupisce delle "forme di positivismo ingenuo o addirittura di platonismo matematico, ossia visioni filosofiche terribilmente rudimentali, siano tuttora diffuse anche tra individui che nel loro campo specifico sono assolutamente brillanti." Me ne stupisco anche io, ma non posso mancare di stupirmi di quante forme di postmodernismo e relativismo ingenuo, ossia visioni filosofiche terribilmente rudimentali, siano tuttora diffuse anche tra individui che nel loro campo specifico sono assolutamente brillanti.
A differenza di Wolf Bukowski io non so se "i fatti sono una parte della verità, sono costruiti lungo linee retoriche". Credo non sia cosi' semplice, e non credo che il costruttivismo sia onnipotente. Il secondo principio della termodinamica non cambia con il mio credo politico, per quanto forte e sincero sia il mio credo politico. Per di più, la critica che stiamo facendo qui e' tanto più forte quanto si rende autonoma da una critica all'epistemologia della scienza e si concentri sul rapporto tra scienza, narrazione e militanza. Dell'epistemologia scientifica si discute da un paio di millenni, io non me la sento di basare la mia militanza sulla scommessa che la posizione postmoderna radicale di essa sia quella giusta.
E poi basta, per oggi la chiudo qui, che vi ho già annoiato a sufficienza.
Ciao gvdr, sono d’accordo su quasi tutto ciò che hai scritto.
Popper è un grezzo, il falsificazionismo è una visione puerile del metodo scientifico, inapplicabile a qualsiasi caso reale. Non credo sia casuale la coincidenza tra le sue posizioni politiche anticomuniste e la sua epistemologia sottosviluppata. Il sospetto che ho è che Popper voglia semplicemente usare il falsificazionismo come clava per schiacciare qualsiasi idea che sia possibile uno studio scientifico di cose più complesse di un pendolo: il suo vero obiettivo è il marxismo e se per minare le fondamenta epistemologiche del materialismo storico deve affossare qualsiasi tentativo di conoscenza scientifica della società umana, muoia pure Karl con tutti i filistei.
Sono d’accordo con la tua critica al riduzionismo fisico applicato alla biologia, ma credo che si possa fare una critica simile al riduzionismo fisico applicato… alla fisica. Senza neanche bisogno di tirare in ballo la meccanica quantistica o Ilya Prigogine, ci sono già stranoti esempi puramente newtoniani che vanificano l’idea che si possa “proiettare esattamente” ciò che sappiamo di un sistema per prevederne l’evoluzione con esattezza. Cito in modo non rigoroso l’esempio più banale, che forse stupirà chi tra i giapster non ha grandi competenze fisiche: non è possibile prevedere con esattezza il comportamento di tre corpi della stessa massa che gravitano uno attorno all’altro; le loro traiettorie future dipendono in modo decisivo magari dalla centomillesima cifra dopo la virgola della loro posizione attuale. Se pensate che la biologia o il marxismo non siano scienze perché non sanno fare previsioni esatte, allora dovete concludere che non lo sia neppure la fisica.
Naturalmente la mia tirata contro l’idea di dimostrazione assoluta more geometrico non era volta a dire che “vale tutto” e quindi forse anche l’acqua fresca spacciata da quella multinazionale ciarlatana che hai citato è altrettanto buona del vaccino contro la polio. Credo che sia assolutamente fondamentale per noi fare una battaglia contro le pseudoscienze e le bufale, che sono intrinsecamente reazionarie anche quando accidentalmente possono sembrare fornirci qualche fragile argomentazione a favore di battaglie progressiste. Su questo punto c’era chiarezza già ai tempi di Engels, che usò parole sprezzanti per esempio contro chi si opponeva alle vaccinazioni (complottari simili bazzicavano già la Prima Internazionale!).
La mia tirata vuole invece dire che quando difendiamo una posizione scientifico-politica dobbiamo essere consapevoli che difendiamo qualcosa di approssimativo, probabilmente confutabile almeno in parte, frutto di una serie di astrazioni e presunzioni a monte. Stiamo difendendo la posizione che ci sembra più solida contro quelle che lo sembrano meno. Questo per quanto mi riguarda non toglie niente al vigore e alla determinazione con cui sono disposto a battermi per difenderlo, è anzi proprio questo il metodo scientifico: trattare proprio come se fossero vere proposizioni che sono solo provvisoriamente stabilite come scientificamente fondate, senza dimenticarsi dei limiti di qualsiasi nostra proposizione. Lo scientismo mi pare che si basi spesso sulla concezione per cui sarebbe invece possibile arrivare a “dimostrazioni” nel senso ingenuo del termine, inattaccabili e isolate dalle condizioni in cui quelle dimostrazioni sono state formulate.
Detto questo, concordo che anche il “relativismo assoluto”, oltre ad essere un ossimoro, sia un’arma spuntata che di fatto nega, per la via opposta, il metodo scientifico. Dire che ogni teoria è in un certo senso altrettanto valida di qualsiasi altra è alla fine della fiera una forma camuffata di idealismo filosofico che non ha il coraggio di manifestarsi come tale, perché sostanzialmente tratta tutte le idee come oggetti magici che nascono dal nulla e che quindi hanno pari dignità e non trovano mai nel mondo materiale (laboratorio, economia, lotta di classe) un terreno di confronto. Su questo sarebbe utile riprendere i ragionamenti di Lenin contro l’agnosticismo filosofico, che è un po’ la stessa cosa del relativismo ingenuo, del postmodernismo ecc.
Comunque vorrei anche dire che proprio sul secondo principio della termodinamica ho avuto alcune delle più accanite discussioni politiche della mia vita. :-) Se ci pensi, non è affatto così ovvio cosa significhi quel principio. Io lo vedo come un principio costruttivo, che dà una direzione alla freccia del tempo e quindi che dà fondamento al progresso, all’autorganizzazione della materia, a un analogo naturale di quello che nella storia umana è lo sviluppo delle forze produttive; questa è una visione molto moderna e controversa della termodinamica, mentre la vulgata dominante usa il secondo principio per dire che tutto tende al caos e alla morte, un’interpretazione che riempie migliaia di testi divulgativi e che è usata spesso per veicolare pessimismo cosmico e altri concetti reazionari. Non aprirei qua un dibattito sull’entropia ma volevo solo far notare che la scienza è più conflittuale di quel che si crede anche nei suoi strati apparentemente più lontani dalle scienze sociali.
Scusate, capisco che chi non è fisico si senta insultato se qualcuno come me dice che la sua scienza è meno rigorosa, ciò non toglie che ciò che è matematizzabile con precisione abbia un maggior grado di certezza. Ho già premesso che questo non ne intacca l’importanza. Anzi mi pare che *proprio* ciò che è “meno esatto” sia di “più fondamentale importanza”.
L’esempio dei tre corpi l’avevo già riportato io sopra ma non è la stessa cosa dire che basta un minimo errore di misura per ottenere predizioni divergenti rispetto a scienze in cui si dice che un medicinale porta benefici nel 80% dei casi, che significa che quando non funziona non sappiamo perché (l’approccio statistico nelle scienze non dure non è solo dovuto a errori sperimentali ma al fatto che non possiamo isolare le variabili e modificarle una per volta perché un uomo non è scomponibile e quindi non le sappiamo nemmeno definire queste variabili).
popper è senz’altro banale ma il fatto un’affermazione sia decidibile (possa esserle attribuito il valore falso) resta comunque un criterio per stabilire se si sta parlando di fuffa, di deliri o di qualcosa di comunicabile. Anche un’affermazione probabilistica è falsificabile. Cercherò comunque di procurarmi i testi citati e approfondire.
Non credo che la mia posizione tiri acqua al mulino dei peggio creazionisti. Ci sono molte cose dubbie a mio avviso nell’evoluzionismo ma questo non significa che si può dire qualunque cosa, proprio perché le affermazioni creazioniste non sono metodologicamente scientifiche “falsificabili” nel senso che intendo ma non sono capace a spiegare. Se un creazionista formula la sua tesi in un modo che possa essere sottoposto a smentita sarei felice di prenderlo in considerazione. Che poi siano portatori di posizioni reazionarie in questo caso non ha niente a che vedere con l’uso politico che si può fare della scienza… proprio perché non stanno facendo scienza.
Penso che non ci sia un incoerenza logica se dico che le scienze che non possono proiettare con certezza non possono convincermi che qualcosa non è nocivo e contemporaneamente che posso scartare come fuffa incoerente determinati deliri e rigettare il relativismo assoluto.
L’ho fatta troppo lunga e deviato un po’ il topic ma in realtà volevo dire fin dall’inizio solo una cosa molto banale del tipo “il divulgatore che dice che qualcosa non fa male dovrebbe andarci piano e contestualizzare pesantemente perché anche senza considerare i problemi comunicativi sta formulando un’affermazione molto dubbia e imprecisa proprio dal punto di vista scientifico. In realtà al più potrebbe dire che non è ancora stato dimostrato che in queste condizioni sia rilevabile un certo effetto eccetera”
Effettivamente stiamo andando troppo OT. Se volete continuare in privato maurovanetti MarBern scrivetemi la mia mail è come il nick qui sopra hotmail.it
Penso che dire che le scienze sociali siano meno rigorose non le qualifichi automaticamente come fuffa.
@e.talpa Concordo con te la discussione è molto tecnica e non vorrei monopolizzare lo spazio su Giap!. Tra l’altro i commenti si allungano, c’è bisogno di decine di righe per esprimere i concetti e quando lo si fa in fretta si passa, probabilmente a giusto titolo, per dei pressapochisti (mi dispiace aver semplificato, lo scopo del mio discorso non era di esprimere nei dettagli teorie epistemologiche né di spacciarle per le richerche le più attendibili e moderene, ma di evidenziare limiti della scienza riconosciuti fin da Feyerabend). Come @gdvr anche per me il cuore del problema è la militanza e la coscienza dello scienziato/ricercatore e non l’epistemologia (anche se dai miei commenti puo’ non sembrarlo).
Per andare meno OT, concludo con una questione che mi pongo spesso quando sento parlare di evoluzione, anche da divulgatori e scienziati. Ho l’impressione sgradevole che ci sia nell’ordine del discorso un frame di intepretazione teleologica. Esempio stupido: l’evoluzione ha dotato le giraffe di un collo lungo perché potessero mangiare le foglie degli alberi. Espresso diversamente: le giraffe che (casualmente) per una mutazione genetica si sono ritrovate col collo lungo sono sopravvissute meglio e quelle dal collo corto si sono pian piano estinte. Credo che sia un frame importante da depotenziare (e capire quanto inconscio e quali macchine mitologiche siano all’opera) perché da un lato presupporrebbe che ci sia una forza superiore che induce delle mutazioni per migliorare la probabilità di sopravvivenza, dall’altro dice che la selezione naturale è votata al “miglioramento della razza”.
Visto la differenza di fuso orario, rispondo stringatamente.
@e.talpa. Esattezza (precisione numerica) e certezza non sono la stessa cosa. La fisica è estremamente esatta, ma per esserlo ha bisogno di condizioni al contorno molto precise (e precisamente misurate) al di fuori delle quali i comportamenti caotici la fanno da padrone. Le scienze speciali (vedi “Nonsense on Stilts” di Massimi Pigliucci) sono meno precise, ma non meno certe: le “incerte” previsioni che fanno hanno validità in uno spettro ampio di condizioni al contorno (Pigliucci arriva a dire che sonk addirittura più certe…).
Il problema di Popper (che non ho mai pensato fosse “grezzo”, o “banale”, mi basta capire che non è applicabile) è che “X implica Y al 99%” (frase tipica delle scienze probabilistiche) NON è falsificabile. Dunque il criterio della falsificabilità (non la decidibilità, altra cosa ancora) non distingue fra scienza e “fuffa”. Per distinguerle, allora, tocca fare il lavoro sporco: andare ad osservarne il metodo, capire quali sono le premesse operative (e, anche, il frame). È per quello che Sèralini non ha fatto scienza ma fuffa ;-)
@MarBern, Oltre alla posizione dello scienziato/ricercatore, io credo sia importante tenere conto dell’atteggiamento del militante/attivista. Il triangolo Scienza/Narrazione/Militanza ha vari sensi di percorrenza, e bisogna tenerli tutti assieme.
Su evoluzionismo (ma cos’è che non ti convince e.talpa?) sono d’accordo che non dovrebbe essere presentato con elementi teleologici. E credo che fossero d’accordo già Lamarck e Brocchi, l’hanno ribadito Darwin e Wallace, e da allora credo sia assodato. È anche vero, però, che il racconto teleologico è estremamente attraente narrativamente, e qualcuno ci casca. Ma la maggior parte della divulgazione ne è cosciente (sono usciti dei bei bei libri, ultimamente, come “L’Evoluzione Ovunque” di Marco Ferrari). Su evoluzionismo e razza, beh, Barbujani e Cavalli Sforza hanno dimostrato, proprio attraverso lo studio dell’evoluzione umana, già nei sessanta l’infondatezza della pretesa di dividere la popolazione umane in “razze” biologiche. Il loro impegno contro il razzismo (biologico e culturale) è stato (ed è) esemplare.
@Maurovan(aggiungiamo una n)etti . La discussione sul secondo principio va un po’ oltre la mia zona di confort. Potrebbe piacerti “Why Information Grows” di Cesar Hidalgo, che fa osservazioni simili alle tue.
@gvdr per favore contattami privatamente la mail è il mio nick atat hotmail it. Proseguiamo privatamente con Mauro vanetti e MarBern.
@gvdr, sull’evoluzionismo, in effetti la mia osservazione non riguardava gli scienziati. Come ricordi tu, gli stessi padri della teoria non avevano questa visione teleologica.
Quello a cui mi voglio riferire non è la produzione scientifica o la divulgazione “specializzata” (grazie per il suggerimento bibliografico, mi procurero’ il lavoro di Ferrari), ma piuttosto un ordine del discorso, un frame sotteso a tante spiegazioni sentite in documentari o alla radio. La questione lessicale (come nel mio esempio della giraffa, si dice spesso “l’evoluzione ha perfezionato” oppure “l’evoluzione ha aiutato a sopravvivere” etc.) non è cosi’ anodina, anzi ritengo che la forma di discorso scelta si inserisca nel framing teleologico. La settimana scorsa di nuovo ho sentito una formulazione simile in un documentario sulle cellule neuronali dell’intestino umano trasmesso da Arte…
Almeno su Vandana Shiva, ha risposto Wolf qui :-) E per fortuna lo ha fatto lui, io stavo per farlo ma le troppe bestemmie mi tenevano bloccato. Shiva è il miglior “nemico” che Monsanto possa desiderare.
Per il resto, i tuoi commenti mi sembrano molto utili e spero che altri si aggancino ai tuoi punti per proseguire il dibattito.
C’è una delle conclusioni che non mi trova d’accordo:
– Nel mondo della scienza ci sono ricercatori di “destra” e di “sinistra”. Entrambi possono arrivare ad interessanti conclusioni ed aiutare a far “crescere” la nostra “conoscenza”.
Ma il fatto che utilizzino un framing o l’altro non vuol dire che vogliano appoggiare un Golia, secondo me, e comunque, nel processo di publicazione scientifica spesso il loro framing viene corretto.
Permettimi di chiedere se questo sottointende che la conoscenza non sia di destra né di sinistra o se sono io che faccio una deduzione sbagliata. L’esempio delle biografie di Heisenberg e von Neumann riportato da @Francesco C. dimostra che non solo gli scienziati ma anche i loro risultati sono di destra o di sinistra.
La tua analisi sulle forme di scrittura è correttissima, ma mi sembra che venga rivota a dire “il linguaggio scientifico è asettico, quindi neutrale”. Su questo credo che ci sia molto da discutere. Possiamo fare esperimenti mentali paradossali (simile a quello citato nel post) immaginando test su cavie umane (o animali, visto che esistono…) o studi su come “migliorare” l’effetto di armi chimiche etc etc.
Quindi quando dici che nel processo di pubblicazione il framing viene corretto, possiamo essere d’accordo solo parzialmente, perché viene corretto all’interno di una certa comunità e rispetto a cert parametri tecnici e niente più. Molti framing rimangono al di fuori.
(facendo a gara di prolissità): un altro passaggio che mi fa un po’ riflettere e mi tocca da vicino:
in moltissimi corsi sulla “comunicazione scientifica”, mi hanno spiegato che un ricercatore e’ meglio che sappia spiegarsi da solo senza intermediari, perche’ senno’ c’e’ il rischio di vedere il proprio nome accostato a concetti mai espressi!
Sono d’accordo sul fatto che un ricercatore debba sapersi spiegare da solo, per sapere situare la sua ricerca in un contesto che vada al di là della sua ristretta comunità e perché è un esercizio intellettuale prezioso per lo stesso ricercatore. Ma la giustificazione riportata sottintende che la cosa importante per un ricercatore è di mettere il suo nome su un risultato, che questo risultato sia ritenuto per la sua importanza. Il ricercatore appare come depositario della forma corretta della conoscenza espressa da quel risultato. Questa è la scienza moderna, in cui la cosa che conta è pubblicare per sopravvivere e mettere il proprio nome su risultati importanti per risalire gli scalini della gerarchia accademica. Non sono un ingenuo, perché questo è anche parte del mio lavoro. Pero’ se la scienza fosse un sapere neutrale, se fosse solo l’avanzare inesorabile della conoscenza, rinnovare i punti di vista (rispettando la correttezza dei risultati), plagiare e contaminare il lavoro altrui dovrebbe essere un’attività stimolata e apprezzata. Ma cosi’ non è…
Scusate, questa era una risposta a @Bruche che non è stata postata nel posto giusto! Spero non aumenti la confusione.
Riconosco di non aver esplicitato completamente alcuni concetti, rimanendo così un po’ troppo vago.
Per risponderti: la conoscenza, intesa come tutti i risultati di tutti gli studi possibili, non è neutrale, siamo d’accordo. La scelta di cosa studiare, come studiarlo e come interpretare i risultati contiene già bias. Per questo, “La scrittura di un articolo tende ad eliminare (o rendere meno visibili) tantissimi bias insiti in uno studio” con enfasi su “tende” e “rendere meno visibili”.
Infatti poco sotto scrivo “ci sono sempre e comunque framing insiti nelle comunità scientifiche. Ci sono studi teorici e pratici. Ci sono ecologi e fisici. Ci sono geologi italiani e statunitensi. E fanno continuamente a botte (verbalmente…parlando) tra loro”. Un tipico esempio lo abbiamo nella discussione sulle scienze dure che si sta svolgendo in questi commenti.
Il mio commento sulla “comunicazione scientifica” non voleva andare nella direzione dell’appropriazione della verità, più che altro nella direzione della “correttezza delle fonti”.
Nella pubblicazione di un articolo, come detto sopra, il framing viene ridotto o nascosto. Nel momento della “comunicazione” dello studio, invece, il framing è di solito bello evidente. Se un ricercatore è in grado di “comunicare” il suo studio direttamente, allora il framing insito nella ricerca diverrà molto più evidente all’ascoltatore (a meno che il ricercatore non abbia interesse nel nascondere le sue intenzioni).
Mi rendo però conto, mentre scrivo, che la situazione è complessa: chi l’ha detto che i risultati debbano per forza essere interpretati con il framing che li ha prodotti? Anzi, è molto interessante vedere come un punto di vista “alieno” possa rileggere lo studio in maniera creativa! Più o meno come quando, durante una lezione, la discussione con uno studente crea possibili nuove linee di ricerca.
Però il rischio di ritrovarsi con un “cugino di Darwin” c’ è sempre!
Poi ci sono tanti altri problemi che tu citi: il bias nel sistema di pubblicazione scientifica, il sistema pubblica o muori, ma anche il narcisismo tipico di molti scienziati.
Insomma, Leibniz VS Newton ci insegna tante cose.
Una cosa che invece non mi è chiara: rinnovare i punti di vista, secondo me, anche se non stimolata, è un’attività’ molto apprezzata. Chi non vorrebbe essere al centro della prossima “relatività ristretta”?
Invece, per quanto riguarda plagio e contaminazione del lavoro altrui, non capisco cosa intendi. Non citare le fonti? Far passare come tuo un lavoro di fatto eseguito da qualcun altro (uno studente di specialistica)?
Grazie per i chiarimenti. Per rispondere alla tua ultima domanda, la parola plagio nel mio commento è scelta molto male. Volevo solo dire che la deriva di una scienza performistica e di un criterio di valutazione basato sulle pubblicazioni non è certo il modo migliore per favorire ibridazioni, collaborazioni e contaminazioni, anzi favorisce appunto il plagio come lo intendi tu: non citare fonti e spacciare per proprio il risultato della tesi di uno studente. Mi sembrava di cogliere, nella citazione che tu riportavi, soprattutto perché inserisce la questione del prestigio del nome del ricercatore (“vedere il proprio nome accostato a concetti mal espressi”) un atteggiamento che fosse in qualche modo corrotto da questa corsa alla performance. Ma forse ho travisato il senso della citazione.
Possibilissimo che questo avvenga a livello inconscio! A forza di vedere lotte sterili sull’ordine in cui mettere i nomi degli autori, si finisce per usare collegare delle frasi e delle parole a certe esperienze senza volerlo. Però io mi riferivo al fatto che, spesso, ci si sforza di usare definizioni precise, riferimenti chiari e frasi strutturate, per poi vedersi riassunti in un articolo che dice il contrario di quello che si voleva comunicare. Non è un’esperienza solo mia, anche altri colleghi l’hanno provata. Come un grande gioco del telefono senza fili, però con più politica.
Tanto per tornare alla questione “Facebook rubacommenti” volevo solo segnalare che sono nate delle discussioni a seguito di un post di marco cattaneo su questo articolo…
https://www.facebook.com/marco.cattaneo.583/posts/10153467144156832?pnref=story
And obviously, nessuno dei commentatori ha letto né l’articolo né la discussione; al momento, se interrogato su due piedi, non sarebbe nemmeno in grado di dire chi abbia scritto l’articolo (Mariano non è mai nominato), e soprattutto non sa chi abbia citato “Le Scienze”, dove, quando, in che contesto e perché.
Infatti uno lo chiede: scusate, ma io nell’articolo di Wu Ming [sic, e pazienza…] non trovo il passo riportato, dov’è? Ma intorno a lui è tutto un caricarsi la molla a vicenda, sembra di vedere Idiocracy: I Wuminghia ih! Ih! Ih… Nemici della scienza, ah! Ah! Ah!… Stalin e i gulag yuk! Yuk!… Ehi, sentite questa: Gli anni ’70! Stra-LOL… Prot!
Ah, in mezzo a tale squallore in branco c’è anche la Mautino, con un commento degno del livello generale. Quod erat demonstrandum.
Ecco, pensate che questi si presentano come alfieri della scienza, del ragionamento scientifico e del sapere super partes.
Ma soprattutto, in questo episodio si vede bene come questa gente tenga al fact-checking, alla verifica delle fonti e quant’altro.
E questo è per voi che state discutendo: sappiate che i vostri commenti «chilometrici» «puzzano di finto lontano chilometri». Qualunque cosa voglia dire.
Comunque è molto interessante e rivelatore, quel sottothread.
«Come mai non c’è neanche un commento “normale”? Li filtrano all’origine? O si sono messi d’accordo prima? Boh, sbaglierò ma a me la faccenda puzza.»
A parte l’emettere sentenze e seminare sospetti su come discute una comunità che palesemente non si conosce, comunità che ha lavorato anni per trovare un suo “stile” di confronto, i commenti normali sarebbero… quali?
«Mega-LOL!!!!»?
«;-))))))»?
Incredibile quanto possa essere perturbante, sul web italiano di oggidì, una discussione dove ci si sforza di mantenere un focus, un capo e una coda, e soprattutto una buona qualità dell’interazione.
La saga continua:
https://www.facebook.com/marco.cattaneo.583/posts/10153470268021832
ma non possiamo invitarlo a commentare qui perdincibacco?
Di questa “saga” di FB sopra segnalata mi colpisce il commento:
“Forse i deboli sono tali anche perché abboccano alle bufale. Piccole monadi autoimmuni causa, e non effetto, del loro disagio”
Ecco questo mi pare particolarmente interessante, perché porta agli eccessi un atteggiamento già presente nella divulgazione à la Bressanini e nell’ideologia dominante. Mi spiego:
il divulgatore “standard” dice di voler formare cittadini capaci di valutare da soli quello che è bene e quello che non è bene dal punto di vista scientifico, e poi scelgano loro.
Io trovo ingannevole questo approccio – così come (molto più evidentemente) quello del commento sulle “monadi”.
Non siamo esseri soli di fronte a una verità che ci viene comunicata più o meno bene; siamo membri di una società che vive conflitti anche all’interno, e ben all’interno, dei processi di costruzione del sapere. La nostra scelta è sempre un compromesso tra convinzioni personali, ricatti economici, ideologie dominanti o oppositive o pseudo-oppositive. NON sto dicendo che non si debba singolarmente esercitare un diritto e un dovere di scegliere, ma sto dicendo che scegliere programmaticamente di rivolgersi al “cittadino” come singolo operatore di scelte E’ già in sé una scelta ideologica.
Si tratta di soggettivizzazione di questioni altamente sociali. Lo stesso accade, mutatis mutandis, con le improbabili ipotesi di “bollini etici contro il caporalato”. Come se il singolo consumatore potesse fare quello che la collettività rinuncia a fare, ovvero battere il caporalato…
Per chiarezza: quale è in questo caso la questione altamente sociale? Perché una formazione sufficiente alla comprensione di certi argomenti è individuale, e non riesco a immaginare bene come socializzarla.
La questione altamente sociale, nella fattispecie, è “che tipo di agricoltura vogliamo” (visto che anche il commento su FB partiva dalle piante transgeniche).
Non riesco francamente a capire cosa ci sia da capire. Uno che scrive/divulga si sceglie un interlocutore.
O si parla alle “monadi” e si cerca di convincerle, o si cerca di parlare in modo da coinvolgere/tener conto di/relazionarsi a contesti sociali.
Quando ti tiri fuori preventivamente dalle premesse e dalle conseguenze sociali della divulgazione che fai ti rivolgi – chiaramente – alla “monade”.
Questo rivolgersi è un framing discorsivo molto forte.
Di queste “saghe” di FB sopra segnalate mi colpisce invece il maschio (inteso come modalità, nulla a che vedere con il genere del commentatore) e tronfio compiacimento nello sbandierare la propria ignoranza, non esimendosi dallo spandere giudizi impietosi quanto dichiaratamente dettati da pregiudizio su autori letterari e loro opere.
Lasciamo perdere i “Who Mink” (cit.), ma persino su Eco (“scrive solo saggi su Focault?”, sempre cit.).
Quanto fa figo non prendere in mano un volgare romanzo (il che ricorda le scellerate uscite di Odifreddi sulla letteratura)…
E costoro dovrebbero ergersi a difesa dell'”assenza di bias” e della “rappresentazione neutrale dei fatti” (qualunque cosa questo significhi, ammesso pure che abbia un senso)?
Visto che lo stralcio preso da Cattaneo è stato preso dal mio commento, ci tengo a scusarmi con voi per l’attenzione stupida da esso generata, e son disposto a chiarire con il Cattaneo stesso se servisse. Ovviamente non mi rimangio le mie parole ma preferirei non nuocessero a voi, anche visto il fatto che erano un po’ off-topic rispetto al post. :)
Mi spiace anche perché LeScienze continua ad essere una rivista fantastica e non mi sognavo nemmeno lontanamente di generare ulteriore conflittualità tra l’ambito scientifico e la sinistra…. anzi! Lo scopo era il contrario. Ma magari son ingenuo.
Non hai bisogno di scusarti con noi né con nessuno, e poi, dove vuoi recarti a chiarire? In quel thread, di fronte al semicerchio dei lapidatori da social? Lascia perdere. Ormai credono alla bufala dei “wuminchia nemici della scienza” e nessun debunking può far cambiare idea ai creduloni. Soprattutto quando sono in branco su FB. Meglio pensare ad altro, valorizzare al massimo il primo intervento di un socio Cicap qui su Giap (rpaura, qui sotto).
Per capirci, che vuoi andare a dire dove impazza gente che scrive roba così?
«Persino Giobbe in mano loro diventa “di sinistra”, neanche tirasse molotov a Padova contro la Celere… Non hanno proprio vergogna.»
Mi tengo ampiemente lontano dai commenti da piazza su fb. Ho invece scritto in privato a Marco Cattaneo per chiarire la provenienza del commento. Lui ha modificato il post menzionando questo. Ovviamente lui rimane in disaccordo con il post, ma spero almeno questo serva a limitare le incomprensioni nei vostri confronti e in generale l’odio tra chi e’ amante della scienza e chi e’ a sinistra, che di questi tempi non ne serve altro.
Avevo scritto il commento cercando di avvicinare le due parti ma direi che ho fatto il contrario. La prossima volta taccio :)
Provo a dire anche io la mia, se non altro perché, da socio e collaboratore CICAP, e da giornalista scientifico, mi sento un po’ tirato in causa da un dibattito molto interessante. La questione di fondo che mi interessa del ragionamento di Mariano Tomatis è quello della presunta obiettività della divulgazione e della comunicazione scientifica, e dei limiti del debunking. Tantissimi studi hanno dimostrato, più o meno recentemente, i problemi della comunicazione scientifica, soprattutto nella sua smania di semplificare questioni complesse, finendo così per “silenziare” problemi più complessi nascosti all’interno della questione (cito per tutti il volume di sintesi di Massimiano Bucchi “Scienza e società”). Se una parte più avanzata del dibattito italiano in materia accetta queste premesse, esiste nondimeno un’enorme platea di “comunicatori” e “debunker” che la ignora o la rifiuta, tutta presa dalla sacra crociata contro l’ignoranza e la manipolazione delle informazioni. Sacra crociata a cui anche io ho preso parte a suo tempo (per esempio tra il 2011 e il 2013 con un sito per smontare le bufale sulla fine del mondo), per poi spingermi su altri fronti, guidato dall’esigenza di comprendere meglio le ragioni psico-sociologiche di coloro che credono in teorie pseudoscientifiche, dalle scie chimiche all’omeopatia. D’altro canto, tra chi si occupa di debunking ce lo diciamo continuamente: si possono convertire solo i già convertiti. E se ce lo diciamo così spesso, perché allora questa levata di scudi contro il post di Tomatis, che non fa altro che incoraggiare alla problematizzazione di questioni di stretta attualità? Il caso OGM non è un caso come gli altri. Io stesso ho organizzato incontri con scienziati di primo piano a livello nazionale per favorire una corretta informazione scientifica sugli OGM, rendendomi però conto che si finiva spesso per lanciarsi in crociate scientiste dove qualsiasi ragionamento sugli aspetti economici e politici veniva bollato come irrilevante. Personalmente resto della mia idea (favorevole) agli OGM, ma in questi dibattiti ho spesso notato che tutti i dati, i grafici e le pubblicazioni scientifiche che si potevano presentare a favore della tesi “pro” non bastavano a convertire gli scettici. Dovremmo liquidare tutti questi scettici come irriducibili analfabeti? Dovremmo ignorare le istanze di chi critica il modello economico degli OGM? Non credo proprio. Dovremmo piuttosto renderci conto che la scienza è troppo importante per lasciarla agli scienziati, e che ogni tematica scientifica ha bisogno di essere problematizzata dal punto di vista sociale, politico ed economico. Non vinceremo la battaglia contro le pseudoscienze appellandoci a una pretesta obiettività della scienza e – ancora peggio! – della comunicazione scientifica, ma solo accettando di riconoscere l’altro, lo “scettico”, il “fuffaro”, come un interlocutore nostro pari grado, sforzandoci di capire le sue ragioni.
Concludo ribadendo che non ho avuto piacere nel leggere né la nota del direttivo CICAP né i commenti liquidatori di diversi esponenti della comunicazione scientifica italiana, che si sono praticamente rifiutati di partecipare a un dibattito che invece ritengo molto interessante. Sbaglia chi crede che quello di Tomatis sia un attacco personale nei confronti di persone peraltro stimatissime, come Bressanini e Mautino. Sbaglia chi si limita a parlare di “pipponi”, facendo intuire tra l’altro che il buon divulgatore deve essere breve e conciso. Perché proprio lì, negli spazi della brevità e della concisione, si nascondono i veri problemi della comunicazione della scienza.
Il commento di Roberto Paura è importante e onesto.
Aggiungo una considerazione a mo’ di corollario di quanto dice a proposito di una delle liquidatorie più frequenti al post di Mariano, quella per cui “è un pippone”. Pippone a cui si dovrebbe contrapporre un’auspicata brevità. Questa liquidatoria, se ho capito bene (non sono su FB), è metaforicamente sulla bocca anche di alcuni giornalisti scientifici, quindi di persone che fanno del giornalismo almeno una parte della loro attività. Ebbene, a proposito di giornalismo, proprio ieri, durante un incontro a Milano sui temi della comunicazione e degli strumenti d’inchiesta giornalistica a cui era presente e relatore anche Mauro Vanetti, Leonardo Bianchi -news editor di Vice e firma molto nota da queste parti- sottolineava che il lungo testo di approfondimento è un formato assolutamente consueto, e anzi richiesto, sui principali siti di informazione mainstream. E sottolineava anche come non sia affatto vero che un testo destinato alla pubblicazione in rete debba essere breve per essere efficace. Come esempio di particolare virtuosismo nel genere, Leonardo portava un sito di pericolosi bufalari votati al comunismo, questo (aprire con cautela): http://www.theguardian.com/.
La “long form” è diventata uno standard, e nonostante ciò si riesce ancora, in modo del tutto provinciale, a liquidare quale “pippone” un testo di approfondimento. Naturalmente la capacità di sintesi resta un obiettivo da perseguire. Ad ogni contesto il codice più appropriato. Ma ci sono cose che, per essere dette, necessitano di spazio, di tempo e di calma.
Detto scherzosamente: “Dovremmo piuttosto renderci conto che la scienza è troppo importante per lasciarla agli scienziati” lo dicono di solito i politici che non ti vogliono finanziare! :) Riporta alla memoria l’immagine dello scienziato pazzo che vuole dominare il mondo, eh eh!
Più seriamente: il problema è che magari gli OGM sono sicuri in determinate condizioni, sotto determinati punti di vista. E poi, ci vuole una bella definizione di “sicuro” (parola vaga e quindi a rischio). Uno studio può dire: l’OGM 1234, nelle condizioni studiate, non è risultato tossico. Da qui a dire “Gli scienziati dicono che gli OGM sono sicuri” è fare un passo moooooooolto più lungo della gamba! Ma anche solo dire “L’OGM 1234 è sicuro per la coltivazione su grande scala” è un discreto salto concettuale, secondo me.
Dico la mia, da osservatore interessato (ricercatore, simpatizzante cicap), che si è preso la briga di leggersi tutta la discussione su fb che ha provocato il post di Mariano.
Premetto che sono tra quelli che considera l’esperimento proposto da Andrea interessante, e prendo subito posizione: sono d’accordo con banski, non credo alla neutralità della scienza, non credo che attivismo e onestà siano inconciliabili.
Detto ciò, le ragioni del rifiuto a discutere sono a parer mio ovvie, e condivisibili: Mariano ha travisato in maniera eclatante le posizioni di Dario e Beatrice ridicolizzandole, storpiandole. Per farla breve la risposta di d&b a quel l’esperimento non era affatto un “no”, ed entrambi hanno sostenuto che in quella situazione avrebbero denunciato la tortura; è evidente che questo ultimo passaggio, non menzionato da Mariano, è derimente sia per quanto riguarda la neutralità che l’attivismo, andando a confutare in colpo solo l’intera esegesi di Mariano.
A quest’obiezione ripetuta ossessivamente dai diretti interessati (“Tomatis scorretto, ha travisato, non la pensiamo così ecc. ecc.”), Mariano ha risposto nel poscritto.
Il poscritto di Mariano è una professione di buonafede (che per quanto mi riguarda davo già per scontata) ma non affronta minimamente l’obiezione.
Francamente credo che il travisamento sia evidente a chiunque abbia letto la discussione originale, e non capisco il senso di discutere di posizioni negate dai diretti interessati, trovo quindi apprezzabile l’invito di Mariano ad andare al nocciolo della questione. Tuttavia al netto delle posizioni di Beatrice e Dario cosa rimane del post? In questo senso il comunicato del cicap mi pare sensato.
«Francamente credo che il travisamento sia evidente a chiunque abbia letto la discussione originale»
Non dico qui, ma anche nel thread FB da cui provieni puoi trovare smentite in tal senso, persone che hanno letto tutta la discussione originale e chiedono a Mautino: “Ma in che senso Tomatis avrebbe travisato?” Perché, pur con tutta l’insistenza nel dichiararla tale, la questione non è autoevidente.
«Al netto delle posizioni di Beatrice e Dario cosa rimane del post?»
Il suo nocciolo, da cui è nata la discussione qui sopra, per chi ha la curiosità e la pazienza di leggerla. Discussione nella quale stanno intervenendo prevalentemente persone di formazione scientifica, membri (ancorché precari) della comunità scientifica, e anche giornalisti scientifici e un socio Cicap in netto disaccordo con il comunicato del direttivo. Tutte persone che hanno trovato utile e ispirante il post di Mariano.
Mah, a me pare invece autoevidente, e ritengo possa essere così per molti altri che non partono da posizioni pregiudiziali. Fra l’altro mi pare di intravedere una mezza ammissione in questo senso nel poscritto di Mariano. Poi non pretendo di parlare per tutti (il “chiunque” usato era ovviamente iperbolico), ma credo che nel valutare la posizione del cicap dovreste tenere conto anche di questa interprerazione, che ritengo sia perlomeno onesta, forse ciò eviterebbe di cadere in una sorta di “vittimismo” funzionale a fare del comunicato del cicap una caricatura.
Se sono (siamo) qui a scrivere e perché ritengo anch’io la discussione (comunque) interessante, e in questo mi discosto dal comunicato del cicap. Secondo me più per merito di Andrea, e di alcune divagazioni nei commenti, che di Mariano, che infatti per indicare il nocciolo della discussione, privato il suo post della critica a b&d che ne costituiva il centro di gravità, deve rimandare a ciò che è scritto tra i commenti.
Brevemente, e dal fondo:
1) se si parla di “indicare il nocciolo della discussione”, come scrivi, è del tutto normale indicare la discussione. Se invece intendevi dire “indicare il nocciolo del post”, non è Mariano ad aver indicato tale nocciolo rimandando alla discussione, ma la discussione a essersi sviluppata partendo da quel nocciolo. Il post era inteso come un’apertura di dibattito, è nell’ordine delle cose che un aggiornamento/poscritto faccia riferimento al dibattito aperto.
2b) Devo dire che l’unico vittimismo l’ho visto da parte di Mautino e Bressanini, ma qui siamo nel reame delle connotazioni, può benissimo darsi che nei rispettivi usi la parola “vittimismo” abbia differenti riverberi di senso, in base ai parametri di ciascuno.
Per i miei parametri, ad esempio, il vittimismo di Mautino è insopportabile, una gnola continua da giorni. Le ho offerto più volte lo spazio di Giap per spiegare dove Mariano sbaglia, le ho scritto che il diritto di replica era garantito, che qui sarebbe stata benvenuta, e non sono stato l’unico a dirglielo, ma si è sempre rifiutata, chiedendo invece una mai meglio precisata “correzione del post” da parte di Mariano. È tutto nel thread dei DM che ci siamo scambiati su Twitter. Dopodiché, l’ho vista riemergere in quel thread di FB, e rispondere ai dubbi di un’interlocutrice con minime varianti dello stesso soundbite: «Tomatis è stato scorretto, io non la penso così, leggi la discussione su FB», anche quando era chiaro che l’interlocutrice la discussione l’aveva letta, e con attenzione. Se Mautino ha scelto questa linea, non è colpa nostra. Più che sperare che cambi idea, cos’altro possiamo fare?
2c) Per quanto riguarda il comunicato del Cicap, in alcuni commenti qui sopra si sono indicate delle aporie interne al testo. È in errore chi le percepisce come aporie? Forse. Ma il vittimismo che c’entra?
3) La questione del travisamento continua a non sembrarmi autoevidente, soprattutto se all’implicita proposizione ricorsiva (la questione è autoevidente perché è autoevidente) si accompagnano frasi come «mi pare di intravedere mezze ammissioni», dove ci sono almeno due gradi e mezzo di separazione tra il soggetto e l’oggetto del presunto eureka;
4) La nota positiva, che recepisco, è che sei venuto qui a discutere e trovi la discussione interessante, e in questo ti discosti dal comunicato del Cicap. Su questa base, un confronto serio si può costruire.
Monsanto ha vinto la causa. Trovi traccia di disagio nei commenti di b&m? Io non la vedo. Forti di una verità giudiziaria, non sembrano preoccupati che la loro narrazione venga strumentalizzata dai powerful.
Perché questo mi chiedo nel post: se abbia o meno diritto di cittadinanza il disagio per le potenziali strumentalizzazioni (ovviamente la mia risposta è positiva.) La seconda metà del post accenna a strategie *testuali* e *discorsive* per includere tale disagio nella divulgazione senza distorcere il racconto dei fatti: naturale che la sede di un dibattito sull’argomento sia il sito di un collettivo di narratori. La discussione su FB da me citata mira a screditare tali tentativi, partendo dall’assunto che ciò equivalga a mentire sui fatti pur di affermare una posizione: una caricatura che serve a consolidare il frame militanza = distorsione dei fatti. I commenti di questi giorni non si allontanano neppure minimamente da questo ritornello: il punto sembra essere l’uso dell’aggettivo “piccolo” per definire un contadino che semina 400 ettari di terreno.
Lo so, ci si può sentire a disagio a stare «dalla parte» del gigante Monsanto, con il suo fatturato di svariati miliardi di dollari. Viene «naturale» stare dalla parte del più debole, che in questo caso è indubbiamente l’agricoltore. Ma non è una buona ragione per fare disinformazione.
Scusa davvero, ma io non capisco se davvero ti sfugge il punto, visto che poi ti sei chiesto più volte come mai sia stato recepito in questo modo il tuo articolo. Ora, a parte che il virgolettato che ti ho messo, l’articolo sulla vicenda Monsanto-contadino non è sorto dal nulla, e non trattava l’argomento OGM in sé, ma è stato scritto proprio per mostrare come per tirare acqua al proprio mulino ci sia spinti a distorcere i fatti. Qui non c’è nessun atteggiamento liquidatorio basato sul fact-cheching, e non c’è nessuna strategia retorica per tenere fuori il disagio che tu dici. C’è un articolo che spiega a fondo e con l’uso di fonti giudiziarie una certa vicenda. Scritto per persone intelligenti, non le monadi caricaturali che ad esempio Wolf in qualche commento qua e là mette in piedi non si sa bene sulla base di cosa. E non capisco ancora come fai a dire che la discussione su fb mirasse a screditare alcunché, dato che ti è stato risposto che si parlava su basi esperienziali, non che fosse un postulato, attivismo=distorsione fatti.
Pensi che per poter estendere il campo degli interventi il CICAP dovrebbe trovare altre competenze? Perché non credo che un articolo del CICAP sugli aspetti economici degli OGM abbia, oggi come oggi, lo stesso peso che ha un articolo del CICAP sugli aspetti di sicurezza alimentare degli OGM.
E di persone che parlano degli aspetti sociali ce ne sono tante, cosa porterebbe in più il CICAP alla discussione?
No, nel caso di specie – gli OGM – non credo che il CICAP abbia molto da dire. Non siamo nel campo della pseudoscienza, quindi non è un tema che il CICAP dovrebbe trattare (il libro di Mautino – che è membra del Comitato – e Bressanini – che non lo è – è stato pubblicato da una grande casa editrice, non dalla press del CICAP).
E devo anche confermare che ultimamente il CICAP sta riconoscendo grande interesse alla dimensione sociologica delle pseudoscienze, sforzandosi soprattutto di comprendere cosa spinge certe persone a credere in teorie prive di fondamento scientifico. Ovviamente non tutti i membri condividono quest’impostazione. Molti – forse la maggior parte – sono ancora presi dal furore sacro della guerra contro i fuffologi. Mi sembra particolarmente interessante il fatto che la maggior parte dei membri di questa categoria provenga dalla comunità scientifica, e non dal giornalismo o dalle scienze sociali. C’è una convinzione diffusa, tra chi fa ricerca nell’ambito delle scienze esatte, che non ci sia nulla da discutere con le persone che credono in teorie pseudoscientifiche. Ma questo assunto spiega anche perché, a mio personale giudizio, il loro modo di fare divulgazione scientifica sia sbagliato: parlano solo ai già convertiti, ai già interessati, e tralasciano il resto del mondo.
Questa è una posizione interessante. Nella tua esperienza, è mai successo che il dialogo coi non convertiti si rivelasse fruttuoso?
(la domanda è posta in questa forma perché nella mia esperienza non è ancora successo, ovviamente)
Arrivo con ampio ritardo a risponderti, ma lo vorrei fare recuperando un vecchio intervento di Beatrice Mautino che a suo tempo condivisi molto e che credo anticipasse esattamente i temi dell’intervento di Mariano Tomatis, anche se poi una serie di incomprensioni (mi chiedo se non siano anche personali) ha impedito alle persone tirate in ballo di discutere razionalmente di una questione che essi stessi condividono. Ebbene, in un post sul suo blog nel settembre 2013 Beatrice Mautino scrive “Io non mi diverto più”: http://www.divagatoriscientifici.it/io-non-mi-diverto-piu/
Una critica ampiamente condivisibile a un certo modo di fare debunking e divulgazione attraverso lo scontro frontale noi-loro. Mautino raccontava di come l’approccio utilizzato da lei e Bressasini a un incontro sugli OGM al Festival della Letteratura di Mantova – in cui cioè non demonizzavano gli oppositori ma anzi ne comprendevano le tesi – fosse in realtà di gran lunga superiore a quello impiegato da tanti debunker, del CICAP o in generale del web. Un approccio che condivido e che dimostra la distanza, perlomeno di Beatrice Mautino, da quello “scientismo” di cui è stata accusata, e che tuttavia è invece ancora oggi condiviso da tanti, soprattutto membri della comunità scientifica. Ancora sugli OGM ricordo un giorno di aver ascoltato, mentre ero alla guida, un dibattito alla radio in cui si confrontavano Edoardo Boncinelli e Vandana Shiva. Non ho alcuna simpatia della Shiva e non ne condivido le tesi. Però il modo in cui Boncinelli replicava, senza mai entrare in argomento ma limitandosi a liquidare le tesi dell’avversaria definendole “anti-scientifiche”, con un tono molto duro, da barone universitario, non mi è piaciuto affatto. E’ il vecchio leit-motiv di chi non vuole nemmeno sedersi a parlare con l’oppositore perché non scende dall’alto dell’Olimpo della Scienza. Poi allora non ci lamentiamo dei tempi in cui viviamo. Non è questo il modo di discutere di temi scientifici. Beatrice scriveva nel suo post: “Il punto non è che mi sono stufata del Cicap o di quel che gira attorno ai fan della scienza. Non ho nemmeno perso la voglia di divertirmi e scherzare su queste cose. Il punto è che tutto questo indignarsi, prendere in giro, leggere i peggio link e guardare tutta l’immondizia che gira su youtube per poi commentarla rigo per rigo o battuta per battuta, passare il tempo a cercare di sputtanare questo complottista o quel fuffaro, è una grande, gigantesca, enorme perdita di tempo.”
Tutto condivisibile, soprattutto un concetto che mi sembra colga brillantemente il punto: quello del “fan della scienza”. Ne abbiamo davvero bisogno? Personalmente direi proprio di no. Per cui, per tornare alla tua domanda, ti rispondo che sì, a volte i dibattiti con i “non convertiti” si sono rivelati molto fruttuosi, quando non inizi a ironizzare su di loro o a togliergli subito la parola. Dibattiti sugli OGM come sulla sperimentazione animale o sui vaccini. Dipende dagli interlocutori. A volte ho chiamato scienziati che erano fan della scienza, ed è andata peggio; spesso se affianchi nel dibattito un sociologo riesci a evitare il confronto-scontro. Serve anche un moderatore aperto al dibattito. Mica è facile…
https://www.youtube.com/watch?v=pLIpaEGkSM8
il video di quel dibattito, credo……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..
La cosa interessante che mi noto nel post che hai aggiunto è che Mautino raggiunge due conclusioni: il dialogo “funziona” meglio dello scontro, e con alcune persone è inutile perdere tempo (che riprende la tesi di Fanelli, come dicono nei commenti).
Forse la contrapposizione diretta pu`o essere un modo per approcciarsi al secondo gruppo, degli irriducibili? Non tanto per loro, ma per segnalare agli osservatori terzi che certe idee non sono parte del discorso, e chi le propaga non ha la stessa autorevolezza? Sto pensando al caso della vecchietta che vede il farmacista proporle un rimedio omeopatico: come fa a sapere che il farmacista si è posto al di fuori della categoria dei “professionisti rispettabili”?
“Supponiamo che le associazioni umanitarie si oppongano alla tortura e che cerchino di fermarla con ogni mezzo, anche dicendo che quegli esperimenti non sono attendibili. Se gli scettici di quella società facessero “fact checking” dicendo che quegli esperimenti in realtà sono validi dal punto di vista scientifico, senza dire nient’altro”.
Ma perchè mai in questo esperimento mentale le associazioni umanitarie dovrebbero usare un argomento “scientifico” non valido anzichè argomenti “etici” validi?
Andrea rispecchia le posizioni anti “OGM” : non abbiamo argomenti scientifici “forti” ma solo argomenti “etici”; Ergo lavoriamo per svalutare gli argomenti scientifici.
Domanda: chi avrebbe tout court “svalutato gli argomenti scientifici”? Ferrero? Tomatis? Noi WM? Chi interviene qui? Dopo avere risposto sul “chi”, per favore indicare come e dove. Grazie. Perché affermazioni tanto apodittiche quanto pesanti sarebbe meglio corredarle con fonti, link, esempi, anziché presentarle come autoevidenti.
Difficile ragionare con così tante premesse campate in aria. Tipo il dare per scontato che questi fantomatici “anti-Ogm” siano incapaci di entrare nel merito e possano solo opporre argomenti “etici”.
Tra l’altro comincio francamente a stancarmi del frame “quelli che dicono no a prescindere”. Qua in Valsusa lo sentiamo ogni tre per due ed è chiaramente la più comoda delle scuse per troncare qualsiasi discussione negando *a prescindere* alla controparte addirittura la dignità di interlocutore. Alla faccia della “neutralità scientifica”!
Metto in fila una serie di commenti, forse un po’ confusi e sicuramente banali, ma che, data la densità di idee espresse sopra, non possono non essere tali
Condivido profondamente l’idea che la neutralità sia un mito e che coincida nella pratica a prendere le parti del più forte in campo.
Nel fatto specifico, credo che ciò che dice Bressanini abbia poco di neutrale, e non lo sia da diversi punti di vista.
Al contrario di ciò che è stato scritto in più punti, Bressanini è un attivista. E’ attivamente coinvolto nello smontare una certa cultura anti-scientifica (e/o a-scientifica) che è presente in molte questioni/dibattiti. Essere un divulgatore scientifico è essere un attivsta. Questo significa necessariamente (o no) che la descrizione della scienza che viene fatta sia, per chi la vive da dentro, spesso naive e che i processi che portano alla creazione e alla validazioni della teoria scientifica siano spesso nascosti. Come detto in più punti il fatto non esiste senza i modelli, così come la scienza non guarda ai fatti ma guarda ai fatti all’interno di modelli e teorie (che a loro volta sono constantemente messi alla prova dai fatti). Ma non credo che Bressanini abbia qualcosa da dire in contrario.
Nello specifico, sulla questione Schmeiser-Monsanto (questo è l’articolo che conosco io http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2008/09/18/monsanto-contro-schmeiser-lagricoltore-contaminato-dagli-ogm/ ), il messaggio che Bressanini vuole fare emergere non è chi sia il buono tra Monsanto e il contadino furbo. Quello che sottolinea alla fine dell’articolo (“la morale” e “a chi fa comodo”) è l’esistenza di due interessi (economici) contrapposti, quello di Monsanto e quello di COOP, SlowFood etc etc. Che a me pare un discorso molto condivisibile su Giap.
Nello specifico sugli OGM. Concordo che qualsiasi discorso sul tema dovrebbe tenere in conto la totalità degli aspetti del caso e quali sono gli aspetti coinvolti. Il fatto che gli OGM non facciano male direttemente alla salute non implica che siano il bene, e pensare che gli “altri” aspetti siano separabili dalla discussione è (quantomeno) pericoloso.
Mi pare altrettanto (se non di più) pericoloso pensare che il “male” e il “problema” siano gli OGM. Mi pare che sia questa la riduzione di tutto a un fatto biologico, che porti a dimenticare il conflitti sociali ed economici che sono dietro agli OGM e alla produzione/vendita del cibo in generale.
Ancora una volta mi pare di tornare alla danza delle mozzarelle, e di tornarci (anche) attraverso Bressanini.
Su attivismo e fatti. Credo che la distinzione tra fatti e modelli e/o tra fatti e opinioni sia una distinzione spesso artificiale e imprecisa. È una fatto o un opinione che se vado indietro di un po’ di milioni di anni i miei antenati non erano uomini? È un fatto o un’opinione che se non riduciamo le emissioni le temperature e il livello degli oceani si alzeranno? È un fatto o un’opinione che la “medicina” omeopatica non abbia alcun effetto (che non sia nullo)? È un fatto o un’opinione che la teoria delle stringhe funziona? È un fatto o un’opinione che gli OGM facciano male alla salute?
Nessuno può dimostrare con *certezza assoluta* che la risposta sia affermativa o negativa a ciascuna di queste domande. Detto ciò, ad alcune di queste domande si può rispondere con un grado di confidenza abbastanza alto. Se chiedete a un qualsiasi biologo o climatologo la risposta alle prime tre domande, vi risponderà che le prime tre affermazioni sono fatti, o che comunque sono tanto plausibili quanto è plausibile che la terra sia (circa) sferica e non piatta.
Se una persona giustifica una sua opinione col fatto che la terra sia piatta, quella persona perde di credibilità.
Questo non dovrebbe estendersi all’opinione.
In conclusione. A me “il neutrale” spaventa. Ma mi spaventa molto di più chi ha opinioni senza sapere perché.
Intervengo nella discussione solo per segnalarvi un articolo scientifico (open access)
che parla proprio del rapporto tra attivismo e scienza:
http://www.ejolt.org/2014/07/activism-mobilising-science/
Non ho ancora letto l’articolo, ma spero che sia interessante
quanto l’abstract (che potete leggere dal link).
Leggendolo mi è venuto naturale pensare
alle esperienze italiane dei vari comitati NoTav, NoMuos etc.
Intervengo in ritardo e dicendo cose che, qui e lì, sono state forse già dette.
Ho letto l’articolo di Bressanini sul contenzioso Monsanto- e secondo me il problema sta nel fatto che non si tratta di un “argomento scientifico”, nel senso che non si tratta di un argomento di divulgazione scientifica sugli ogm in sé: come notato da WuMing1, si tratta di un articolo di “cronaca giudiziaria” che racconta – con un punto di vista orientato sugli aspetti legalitari – la storia di un processo. Un articolo che Travaglio avrebbe potuto scrivere quasi identicamente. Bressanini lo dice: scrive questo articolo per mostrare alle persone che a volte i fatti vengono manipolati, che bisogna verificare le fonti, etc.. Per questo, non lo ascriverei alla categoria “articoli scientifici non neutrali”. Bressanini per primo sbaglia sia a considerarlo un articolo scientifico, sia a considerarlo neutrale.
Qui sopra si è fatta una lunga discussione sull’oggettività dei fatti, e ad un certo punto sembrava che, al grido di “sì ma tanto tra errori sperimentali, cherry picking, protocolli studiati ad hoc, e margine statistico, alla fine nessuno studio può affermare con certezza il risultato”, si possa confutare qualsiasi risultato. Attenzione: vale nei due sensi. Anche la relazione causa-effetto tra l’esposizione all’amianto e varie malattie è *verificata* sulla base di indagini statistiche, ma non *dimostrata*. L’accettazione di una correlazione statistica come probabile relazione di causa effetto è la base della ricerca medica, se confutiamo questo allora veramente non c’è più modo di distinguere tra farmaco e placebo, o tra farmaco e omeopatia. Poi si possono fare le analisi dettagliate per smontare uno studio più o meno valido, più o meno orientato, ma sempre all’interno della premessa di partenza.
Intervengo un po’ sulle questioni “matematiche”: MauroVanetti dice ” «In matematica non è rarissimo che risultati ritenuti corretti dalla comunità e pubblicati anche su riviste prestigiose si rivelino sbagliati anche dopo anni»
Sembra una banalità o una sciocchezza di poco conto, ma è un’informazione molto importante. Smonta l’idea che esistano “scienze esatte”, […]”
io vorrei sottolineare che se viene pubblicato un risultato sbagliato, questo non inficia
assolutamente il fatto che la matematica sia una scienza esatta, al massimo suggerisce che il referee sia un cazzone (con il dovuto rispetto).
Ma mi pareva, alla fine, che la questione fosse sulla militanza e sulla neutralità. Io mi considero tra gli scettici à la Bressanini, e per questo mi considero militante: contro le fuffe omeopatiche, i complottismi, le pseudoscienze in generale. Il debunking è una forma di militanza, centrata su un altro conflitto.
Però se uno è uno scienziato, il suo parere è tanto più autorevole quanto più è circoscritto al suo campo di competenze; la complessità dei fatti secondo me viene meglio messa in luce non se – per dire – il biologo dice la sua sui problemi economici legati agli ogm (il suo parere non è distinto da quello dell’uomo della strada, essendo al di fuori del dominio di competenza), ma se il biologo spiega ciò che è emerso dalle ricerche scientifiche e l’articolo è affiancato da uno studio politico-economico da parte di un esperto in materia.
Sempre con l’intento di uscire dalle secche delle reciproche incomprensioni, Bressanini non ha mai considerato quello su Schmeiser un articolo scientifico ma sempre e solo un post divulgativo – e dalle sue reazioni alla discussione dobbiamo prendere atto che ha rivendicato apertamente la sua (propria e del post) “non neutralità”.
Il passo avanti lo si può fare solo se si parte dal presupposto, ovvio per chi scrive ma non per tutti i lettori, che qui si è tutti “contro le fuffe omeopatiche, i complottismi, le pseudoscienze in generale.” Concordi sull’idea che il debunking sia “una forma di militanza, centrata su un altro conflitto.”
@Mariano Tomatis, beh mi sembrano passi importanti. Se si arriva alla condivisione dell’assunto che il debunking può essere interpretato come una pratica di militanza, mi sembra un passaggio non da poco. Mi sembra interessante l’espressione di @herato “forma di militanza, centrata su un altro conflitto”. Poiché il conflitto ha degli attori, delle parti in causa, volevo chiedere ad @herato, se ha tempo e voglia, di approfondire il discorso e di cercare di definire chi siano, nella sua visione, gli attori del conflitto di cui parla.
ho risposto sotto a e.talpa per errore, volevo rispondere qui, e devo tirare per le lunghe il commento perché Giap me lo lasci pubblicare
Tutti concordi sul denunciare la fuffa per fuffa. Ma tale deve essere dimostrata: niente affatto concorde con il denunciare per fuffa a priori una novità a caso che proviene storicamente da fuori della pratica occidentale per pregiudizio senza concedere beneficio del dubbio. Che poi dovrebbe essere l’approccio normale dello scettico cicap incluso: io non mi rifiuto a priori di credere che tu possa piegare i cucchiai con il pensiero, ti sfido a farlo in ambiente controllato.
Sulla certezza delle affermazioni essendo in parte responsabile della deriva. Il fatto è che dimostrare vero e dimostrare falso non sono equivalenti. E c’è dietro una forte questione sociale: il principio di precauzione. Non devo dimostrare io che fa male: devi dimostrare tu che non ne fa. E se ci fosse un effetto che si manifesta dopo x anni e non ne sono trascorsi abbastanza dalla nascita del fenomeno c’è un grosso problema. Quindi si deve riconoscere che il dibattito si sposta sul piano politico: ci sono benefici vogliamo correre dei rischi? Che poi tra l’altro è noto che in caso ci sia la possibilità di un danno catastrofico perde di senso un’analisi del rischio classica tipo valore di aspettazione e “assicurazione”. Mentre nella vulgata questo spesso si omette o peggio si accusa di allarmismo.
Chiarifico.
Sono d’accordo che l’affermazione “X non fa male” deve essere interpetata come “nelle condizioni (durata del trattamento, condizione del soggetto, etc) verificate in laboratorio, l’assunzione di X non ha prodotto significativi (quanto?) aumenti dell’insorgenza di questo questo e questo tipo di patologie rispetto ad un gruppo di soggetti analogo che non ha assunto X”. E questo è ciò che compete allo scienziato. Il legislatore – basandosi anche su considerazioni economiche, sociali, politiche, enunciate da altri esperti – deve fare l’analisi costi/benefici, calcolare il rischio, stabilire delle regole sull’agente X. Credo in questo di essere d’accordo con quanto dici tu.
Quello che volevo sottolineare è che se usiamo il fatto che le correlazioni sono solo statistiche, che il campione è limitato, che gli studi sono stati fatti per periodi limitati…solo per dire che l’affermazione “X non fa male” in realtà non potrà mai essere verificata, allora anche l’affermazione “X fa male” può diventare
“la correlazione tra la somministrazione di X a persone di categoria Y tra il 1950 e il 1955 ….e l’insorgenza di Z è del 99%”, che è un’affermazione diversa. Ad ogni modo, credo non sia un’osservazione così profonda.
Piccola citazione che non potrebbe essere più chiara. Non c’è molto da aggiungere, lo scientismo meglio lasciarlo alle stelle nascenti del PD (https://www.facebook.com/photo.php?fbid=794522773963538&set=a.209709649111523.50016.100002174684724&type=3&theater)
“ In questo, come in tanti altri campi – ma qui in modo forse ancora più acuto – lo sguardo del sociologo o dello storico della contemporaneità non può essere neutro, per quanto radicata sia l’intenzione di limitarsi a fornire un quadro il più possibile completo e accurato di ciò che accade, mettendo tra parentesi ogni giudizio sulla bontà, sulla liceità, sulla desiderabilità di questi processi. Ciò non è possibile perché inevitabilmente la stessa scelta degli strumenti concettuali di analisi, dei criteri di pertinenza, del taglio del discorso, rimandano a presupposti ineliminabili, a orientamenti di fondo che condizionano, lo vogliamo o no, anche la più asettica descrizione di un processo. ”
Antonio Caronia, premessa a Il Cyborg, ShaKe, 2008.
Un paio di riflessioni, da ingegnere informatico. Chi ha la mia formazione, non sempre riesce a dire qualcosa di sensato su epistemologia, Heisenberg o Gödel, ma dubito possa avere qualcosa di più chiaro in testa della differenza tra “dato” (numeri, bit, byte, rilevazioni di sensori) e “informazione” (un qualsiasi “elemento di conoscenza” acquisito o comunicato).
In mezzo, tra dato e informazione, ci sta il cosiddetto “algoritmo”. E per quelli come me, l’esistenza dell’algoritmo spazza via l’idea stessa di neutralità. By design, diciamo.
L’algoritmo stabilisce quali “set di dati” considerare, come elaborarli (meglio, come “trasformarli”), come “rappresentarli”. Se poi pensiamo che viviamo nel mondo complesso e complicato dei “big data” e della “information overloading” e che è necessario applicare metodi di “data analysis” per consolidare nuove informazioni attraverso la correlazione di una grande mole di dati e informazioni (individuando ovvero “scegliendo” una “vista” piuttosto che un’altra), il cerchio si chiude: il dato “nudo e crudo” è un inutile bit, l’informazione è il risultato di trasformazioni e rappresentazioni che incorporano sempre una “intelligenza esterna” e una complessità. Anche il “fatto” è il risultato di un algoritmo. Quindi, in fin dei conti, la conoscenza è una “vista”, tra le tante possibili.
Questo non è un processo neutrale, per nulla. Diciamolo, il primo “attivista” è l’algoritmo stesso. O il primo despota, a dirla tutta. L’algoritmo è sempre “ideologico”.
Per la mia sensibilità, la riflessione che scatena il prezioso post di Tomatis non è quindi sulla neutralità, ma sulla trasparenza. Nel nostro modo complesso e sempre più digitale, si pone l’urgenza di “rilasciare il codice sorgente dell’algoritmo”, ovvero rendere il più possibile chiari e trasparenti le fonti, i metodi e i modelli che hanno implicato la scelta di quello specifico set di dati, quella specifica trasformazione, quella specifica rappresentazione.
Per come la vedo io, Golia è chi rende opaco il suo algoritmo, chi non “rilascia il codice sorgente” o, peggio, chi impone alla discussione pubblica il proprio algoritmo come l’unico possibile. Sarebbe bello parlare di Google, del suo misterioso motore di ricerca e, che so, delle inquietanti “bolle di filtraggio”, ma qui mi limito a ricordare la polemica di qualche giorno fa, sull’uso “disinvolto” dell’asse Y da parte del Governo, per graficare i dati dell’occupazione in modo più “attraente”. Ecco, Golia, trucca le intercette.
Allora, secondo me, Davide non ha l’obbligo di essere neutrale; ha l’obbligo di essere trasparente, il codice sorgente deve rilasciarlo tutto, nei dettagli; in più deve fare “reverse engineering” degli algoritmi opachi di Golia, proporre algoritmi alternativi. Se Golia usa una scala per l’asse Y, Davide ne deve proporre un’altra, senza cercare il giusto o lo sbagliato, ma come effetto di un consapevole “reverse” finalizzato a fornire maggiori e diverse informazioni, quindi più e diversa conoscenza.
Insomma, addio neutralità, benvenuto conflitto: algoritmo per algoritmo, grafico per grafico, informazione per informazione.
Concludo con un aneddoto. Ai tempi dell’Università girava la storiella del gruppo di ingegneri cui il governo commissiona una “pipeline” per portare efficacemente la maggior quantità possibile di sangue da New York a Los Angeles. Tutti gli ingegneri partono a manetta con i calcoli ma uno di loro alza la mano e chiede: ehi, ma perché dovreste trasferire sangue da NY a LA?
Allora ci interrogavamo sul genere di ingegneri che avremmo voluto essere, del tipo che ottiene le risposte migliori, a testa bassa, senza preoccuparsi troppo del valore della domanda; oppure del tipo che alzava la mano.
Ecco, credo che mai come in questi tempi complessi e difficili, permeati da peloso scientismo e pulsioni tecnocratiche, sia necessario per la comunità tecnico-scientifica dare una risposta. Con la massima trasparenza, appunto.
Grazie AsinoMorto, il tuo post mi da lo spunto
per introdurre una differenza che nei commenti matematici/fisici
risulta in qualche modo nascosta.
La distinzione che proponi tu tra dato-informazione-algoritmo,
è la stessa di cui parlano sopra maurovanetti, MarBern ed e.talpa
tra fenomeno naturale-modello-teoria.
Loro hanno messo in luce bene gli errori e le storture
che si possono avere proiettando la verità del modello
a “verità” nel sistema modellato (la natura).
Con la tua ulteriore distinzione tra informazione ed algoritmo
si aggiunge il passo successivo,
ovvero che la scelta dell’algoritmo/teoria impone non solo
una scelta di elaborazione dell’informazione/modello
ma anche la scelta del linguaggio con cui parlarne.
Riflessione importante, @AsinoMorto, purché la “trasparenza” con la quale vogliamo render conto dell’algoritmo sia sottoposta alla stessa analisi critica che abbiamo riservato alla neutralità. Altrimenti il feticismo rientra dalla finestra. Nel momento in cui l’algoritmo diventa un “fatto” che vogliamo comunicare, allora anche quella comunicazione avrà per forza a che fare con bias, retoriche, frame narrativi (e sarà dunque non-neutrale, non-trasparente, perché ci sarà un ulteriore algoritmo che mi permette di passare dall’algoritmo-in-quanto-dato all’informazione-sull’algoritmo).
Non mi intendo di algoritmi informatici, ma ho qualche esperienza di algoritmi narrativi, e in particolare di quelle trasformazioni – la termodinamica della fantasia – che permettono di passare da una fonte d’archivio a un racconto. I titoli di coda dei nostri romanzi sono, da sempre, il tentativo di rendere (più) trasparente l’algoritmo che ci sta in mezzo. Eppure, negli anni, ci siamo resi conto che quelle note non possono essere un puro elenco di riferimenti: vanno spiegate, bisogna far capire cosa hai fatto con i dati, come li hai trattati, che scelte hai compiuto. Ma nel raccontare tutto questo usi un altro algoritmo, fai altre scelte, decidi che una fonte ti ha influenzato e un’altra no, citi un articolo che hai ritenuto importante e un altro invece lo tralasci, perché non puoi metterci dentro tutto. Eppure, proprio dall’articolo che non citi potresti aver preso un’immagine che però non ricordi come ti è arrivata. In breve: non è possibile liberare tutto il codice sorgente di un romanzo storico, e nel momento in cui si prova a comunicarne almeno una parte, si finsice per contaminarlo narrativamente, per attirarlo nel campo d’azione del romanzo stesso, come abbiamo fatto, con un iperbole, nel Quinta Atto dell’AdS.
@Wu Ming 2. Rapidissima replica un po OT, solo per un piccolo spunto. La tua è stata una risposta “trasparente”: c’è un “bug” nel tuo algoritmo (perdonami la semplificazione estrema), l’hai documentato e implicitamente hai lanciato un processo condiviso e iterativo di “debugging”, in vista di una migliorativa “versione 2.0”. Così come il triangolo di Escher è definito dai cerchi che lo delimitano, così il modello è stato delimitato dagli errori, dalle imperfezioni che non sono ancora stati superate e tutto questo sta sull’etichetta: “attenzione! Leggere prima di aprire la confezione”.
Per come la vedo io, il valore è proprio questo. La “prassi trasparente” mette l’accettazione della presenza di errori e imperfezioni e il loro superamento al centro di un processo iterativo di miglioramento, operativamente e non solo come generico assunto teorico. E facendo ciò scatena dinamiche collaborative più che competitive, consapevoli più che acquiescenti. Lo spirito critico viene più facilmente “abilitato”.
La “trasparenza” rimpiazza il debunking (azione spot, ostile e asimmetrica) con il debugging (azione continua, amichevole, paritetica e collaborativa).
Leggendo i commenti, qua e là ho percepito un certo arroccamento (e mi pare che la neutralità sia un mattone importante del muro di confine) e disagio, forse inadeguatezza, ad affrontare la complessità (sempre più simile al caos, peraltro).
La “trasparenza” in questo senso mi pare una medicina, che non solo tiene vivo e alimenta lo spirito critico che giustamente invochi, ma abilita elementi importanti per qualsiasi efficace modello di comprensione della complessità del reale.
Ora smetto con le metafore da nerd lo prometto e grazie per lo spazio.
A me l’articolo di Tomatis non piace per l’assunto iniziale: cioè che Mautino, Bressanini et al. fingano di non vedere la trave (cioè le responsabilità globali di Monsanto & co.) e si concentrino sulla pagliuzza (gli errori di Schmeiser e altri “minori”) per disinnescare la questione Ogm sfruttando la propria autorevolezza scientifica.
A me pare che quell’operazione, invece, sia avvenuta soprattutto per opera del composito fronte anti-Ogm, e in particolare della sua componente ambientalista meno politica. A un certo punto, nella difficoltà del post-genova 2001, si è fiutato che mettendo da parte la critica economica alle biotecnologie e concentrandosi sugli aspetti salutisti, si potessero intercettare consensi lontani: dagli eco-fascisti (è sano ciò che è italiano) a Eataly, da Alemanno ministro dell’agricoltura a Farinetti. Quel tipo di critica non portava da nessuna parte, come poi il caso Séralini ha dimostrato. Il frame non l’hanno creato Bressanini e Mautino: l’abbiamo creato “noi” che ci eravamo presi la responsabilità di dire la verità sulla Monsanto e dovevamo dirla bene, saperla dire bene, e imparare a saperla dire bene.
Mi sembra che centri il punto del processo politico, @pwd, ma non quello dei soggetti coinvolti. Che in molti, anche in buona fede, abbiano trovato interessante e (stupidamente) strategicamente utile fare un minestrone di critiche che vanno dagli aspetti economici – indubitabili – a quelli scientifici sugli OGM, è vero.
è stato stupido perché il processo era ed è:
1st step) c’è un progetto agricolo sul mondo che cerca di replicare il successo (fatto di cose buone e cose pessime) della rivoluzione verde, e lo vuol fare fottendosene degli impatti sulla la popolazione di interi continenti (Africa in primis)
2nd) usare tutti i mezzi politici/scientifici/(bio)tecnologici per farlo.
Ovviamente puntare tutto sul secondo, e poi sulla parte più irrazionale dei problemi generati dal secondo (il timore sulla salute), per disinnescare il primo è una grande stupidaggine. E credo che la discussione su questo post, pur essendosi giustamente tenuta alla larga dalla questione sostanziale degli OGM, abbia mostrato in filigrana il perché.
Dove sbagli allora? Nel definire il “noi” che ha fatto l’errore di cui sopra. Ed è un problema di “noi” che attraversa e incrocia la definizione di sinistra. Io credo, ma anche altri qui dentro credono, che il punto oggi sia – ancora e più che mai – il capitalismo. Una sinistra che possa operare una trasformazione è necessariamente anticapitalista. Come c’entri questo con la discussione in atto è presto detto: è chiaro che Coop, che in qualche assurdo modo si ritiene ed è ritenuta parte della sinistra, può supportarti finché dici che ti batti contro gli OGM perché può darsi che facciano male.
Ma ti scarica se dici che combatti gli OGM perché sono parte della fase 2 del progetto indicato a 1. E ti scarica perché Coop, nel suo piccolo a livello globale, è parte e promotrice della fase 1.
Per quanto riguarda Slow Food, beh la sua critica agli OGM è inquinata da Shivismo e da passatismo bucolico. Leggi se non l’hai fatto qualche libro di Petrini, è insopportabile la laudatio temporis acti che ne pervade quasi ogni pagina, come se la vita in campagna fino agli anni 50 (e oltre) non fosse un inferno di miseria, oppressione di classe, di genere, religiosa.
Quindi sbagli sul “noi”: quel “noi” non è noi. Noi si prova a saperla dire bene, poi si sbaglia sempre, ma ci si prova.
Wolf, sono del tutto d’accordo. Uso il noi perché dare sempre la colpa a “loro” mi sembrerebbe vittimista. Però ci metto le virgolette, perché lo so che noi non siamo “noi”. Però credo che tu abbia colto perfettamente il punto.
In ogni caso, io ho visto anche molti di noi (non “noi”) cincischiare parecchio in giro. Per curiosità, per ingenuità, per ignoranza. Faccio un nome? Io. Io ho partecipato e organizzato in prima persona a iniziative con Vandana Shiva, Mario Capanna, Verdi di ogni risma e crisma (ma non sono un boy scout: una volta ne feci saltare una solo perché ci partecipava uno di Big Pharma, e avevo fatto 700 km per andarci – sono solo un po’ scemo). C’è stata una zona grigia, i movimenti lasciavano spazio, la Coop lo capiva, il nemico è forte, abbiamo avuto molto da fare. Non bisogna flagellarsi né assolversi. Virgolette.
Trovo il post iniziale e le successive discussioni decisamente
stimolanti. Tanti sono i punti sollevati che meriterebbero ciascuno
una propria analisi, dalla creazione del consenso e relativa retorica, alle
dinamiche del rapporto tra esperti e profani, attivisti e non,
scientisti e non. Sulla questione chiave, cioè sulla diffusione e
difesa di un’immagine neutrale della scienza, la storia della scienza
offre a mio avviso utili strumenti di analisi critica. Mi riferisco
alla storiografia scientifica apparsa negli ultimi decenni dopo la
cosiddetta “svolta culturale”, dedita in particolare alla
scienza occidentale. In molti di questi studi, l’approccio razionale
al mondo inorganico ed organico, avvenuto in un determinato contesto
storico e geopolitico, viene sezionato ed analizzato in termini di
accesso, produzione/trasformazione, trasmissione/appropriazione della
conoscenza scientifica. Con buona pace di alcuni commentatori/lapidatori
intervenuti sulla pagina Fabebook menzionata sopra nel post di John Doe (07/09/2015, 1.15 pm), questi termini sono politicamente, economicamente e, ça va sans dire, socialmente carichi. Tale storiografia ha messo decisamente in
crisi, almeno (o solo?) in ambito accademico, le “grandi narrazioni”
della scienza come mera storia di progresso, o come sola storia di idee scientifiche, o infine come scienza fatta essenzialmente dai
“grandi”. Il passaggio successivo è il seguente: perché perpetuare, a
livello di giornalismo scentifico, un’immagine della scienza neutrale,
mitizzandone la portata in termini di avanzamento del sapere? Una
risposta la offre lo storico della scienza Kostas Gavroglu, che ha
affrontato la popolarizzazione della scienza filtrandola attraverso la lente dell’ideologia e dell’egemonia culturale. Qua uno dei suoi scritti (open access): “Science popularization, hegemonic ideology, and commercialized science”,
http://johost.eu/vol6_fall_2012/kostas_gavroglu.htm
Ultima osservazione. Le levate di scudi a cieca difesa della scienza non giovano ad un’educazione scientifica che sia critica e, per
l’appunto, consapevole dei conflitti passati ed odierni, educazione
oggi ancor più necessaria di fronte ad un’irrazionalità dilagante (non
mi riferisco alla critica agli OGM, bensì ad una rinnovata tendenza
newagica/mistica del rapporto persona-natura, oppure ad esempio alla
questione “no vaccini” e alle conseguenti pesanti ricadute sociali).
Non sono un addetto ai lavori (perciò mi sono perso in alcuni dei commenti più tecnici) però mi piace pensare di essere un utente “consapevole” perciò molti dei siti che visito regolarmente si occupano di debunking e divulgazione scientifica.
Una cosa che ad esempio trovo molto fastidiosa è che i siti di debunking spesso si aprono con un disclaimer che ne sconfessano le pretese politiche, ma fare debunking è essa stessa un’attività politica specie considerando il fatto che interi movimenti politici basano la loro propaganda su informazioni distorte quando non balle inventate di sana pianta.
Capisco la necessità di fornirsi di una legittimità scientifica ma questa non è la stessa stessa cosa di una neutralità politica e spesso nelle discussioni da bar (o da facebook) le due cose si mischiano in maniera problematica. Se il fact-checking è fatto da un’autorità con una specifica identità politica è esso stesso meno valido rispetto a quello di un’autorità che nasconde (o non è consapevole) della propria e perciò si professa neutrale?
La vera oggettività imho non è essere liberi da bias politici (cosa che credo umanamente impossibile) ma essere coscienti dei propri e renderli espliciti al proprio pubblico. Come ribadite voi professarsi nè di destra nè di sinistra é propagare un’ideologia di destra il problema però é che alcune volte chi lo fa é in buona fede e ci crede davvero perché magari è più interessato al proprio campo di interesse e non ha sufficiente conoscenza politica da essere conscio dei propri bias.
Che fare quindi? Buttare il bambino con l’acqua sporca? Chiedere un outing di tutti i siti di divulgazione? Trollare nei commenti per far emergere l’orientamento politico di chi scrive?
Articolo ottimo: di quelle cose che mi frullano in testa da tempo e che finalmente qualcuno ha espresso chiaramente in parole. Mi è venuto in mente sin dal titolo quell’intervista a Pasolini (probabilmente stranota anche all’autore), in cui parlava di <> , in quanto la tendenza del <> è quella di <>…è forma religiosa anche la pretesa di oggettività scientifica, ed è qua che il <> diventa <>.
Posto questo, mi pare allo stesso tempo un necessario spunto di autocritica: per smascherare <> non servono forse attivisti e militanti accurati, precisi, estremamente preparati? Con chiare basi filosofiche, ideologiche, e, perché no, scientifiche?
È una critica che faccio anche a me stessa quando mi rendo conto, per esempio, di non avere una preparazione sufficiente per muovere una critica seria agli OGM. Ma devo anche ammettere che nel mio percorso ho incontrato militanti estremamente preparati così come militanti estremamente approssimativi, anche su questioni più basilari.
Come procedere? Come divulgare informazione di qualità, materiale di studio, anche su larga scala? Intendo dire, ci vogliono gli strumenti per capire che la “scienza” non è neutrale, e quali sono le implicazioni di questo. Senza avere gli strumenti, non si può contraddire un ipotesi “scientifica”, che agli occhi di chiunque sarà dunque inevitabilmente vera. L’esempio più banale è riscontrabile in campo economico: si affida il governo a dei “tecnici” come se l’economia e le sue applicazioni fossero una scienza esatta, univoca e <>. Se io (un io ipotetico ma abbastanza comune) non riesco a concepire l’idea che, ad esempio, il sistema economico nel suo complesso non sia immodificabile, che l’economia sia anch’essa una costruzione umana (e non ontologica), che la teoria economica dominante sia, inevitabilmente, ideologica…banalmente, mi fido. E immagino che i miei tecnici abbiano in tasca una verità scientifica, neutrale, inconfutabile.
E se, come attivista, non so dare davvero alternative chiare e serie a questo io ipotetico, probabilmente ho fallito. E i tecnici, gli scienziati, rimarranno le voci più autorevoli, in quanto “neutrali”, in quanto “innocenti”.
(perdonate il repost, ma mi erano saltate le frasi tra virgolette per qualche motivo che mi è tuttora)
Anna, tutto quello che scrivi tra virgolette caporali singole < > viene interpretato da WordPress come comando html e quindi non-testo e quindi scompare. Per favore, riposta usando le virgolette alte “” o le caporali doppie « ».
leggendo il post mi sono venute in mente un paio di cose che potrebbero essere interessanti come approfondimento:
sulla presupposta neutralità delle notizie, sull”obiettività™’ del 50/50 journalism (robert fisk (https://www.youtube.com/watch?v=Bgpx1STOblw affronta l’argomento nel suo “the age of the warrior”)
sul ruolo che la ‘scientificità/razionalità’ hanno nella costruzione dell’immaginario e dell’identità del moderno occidentale™ (chris hedges si occupa dell’argomento nel suo “I don’t believe in atheists”).
ps avevo scritto un commento ma ho finito per fare un papiello semi-infinito. qualora interessasse lo si può leggere qui https://figuredisfondo.wordpress.com/2015/09/08/306/
disclaimer: sono consapevole di avere il brevetto di volo pindarico ma reputo che si tratti comunque di argomenti correlati al topic del post :-P
-sull’informazione-
la neutralità nelle notizie è una farsa così come lo è lo spacciare l’esposizione dei fatti™ per il fare informazione. senza una chiara esposizione del contesto un evento fattualmente vero può facilmente fornire una rappresentazione distorta/falsa dell’avvenimento.
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un esempio:
fatto: a luglio israele ha sgomberato 2 edifici di coloni in cisgiordania.
notizia: internazionale ha riportato la notizia così: “l’esercito israeliano sgombera alloggi illegali in cisgiordania”. l’articolo si chiude con l’indicazione che “[gli insediamenti illegali] sono considerati un ostacolo al processo di pace nella zona”.
messaggio che se ne trae: israele sta allontanando i coloni (che nell’immaginario liberal sono i veri cattivi) e sta cercando di riattivare il processo di pace™.
contesto che manca: 1) negli stessi giorni è stata annunciata la costruzione di nuove colonie; 2) D: cosa c’è dietro la pratica di smobilitazione e ricollocamento di alcune colonie? R: ci sono le teorie del prof. dan schueftan, uno dei principali consulenti del governo israeliano dai tempi di sharon ed ideatore del muro di separazione. nel suo “the need for separation” schueftan teorizza, per risolvere il ‘problema demografico’, la prassi dell’hafrada (separazione): smantellare colonie/insediamenti dai territori in cui non è possibile instaurare una consistente maggioranza di popolazione ebraica in modo da evitare la ‘levantinizzazione’ di israele e, nel contempo, costruire insediamenti ‘accerchiando’ i più piccoli villaggi palestinesi in modo da creare artificialmente una forte maggioranza ebraica in una determinata area.
ovviamente, alla luce del contesto, la notizia appare totalmente differente.
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restando nell’ambito dell’informazione un ulteriore elemento fuorviante molto simile al feticismo dei fatti™, che pure viene spacciato per certificazione di obiettività, è quello del giornalismo bilanciato o 50/50 journalism (tralascio la falsa idea figlia dell’ultrasemplificazione e strumentale al bipolarismo per cui su un dato argomento le opinioni siano al massimo due).
purtroppo anche tanti ‘armati di buone intenzioni’ hanno fatto proprio l’approccio ultrasemplificato e, per raggiungere una platea più vasta, finiscono per appiattire le proprie argomentazioni riducendole a soundbites senza realizzare che in realtà stanno facendo il gioco del ‘nemico’. su questo gli esempi si sprecano, primo tra tutti l’antiberlusconismo… but i digress…
è grazie al 50/50 che è possibile inscenare la rappresentazione di un dibattito complesso come quello sugli ogm appiattendolo su ‘dannoso /non dannoso’ senza affrontare elementi strutturali come gli aspetti relativi al brevetto. in tantissimi casi il 50/50 è vero è proprio teatro.
il 50/50 journalism elimina contesto e complessità ed è responsabile sia dei vari talk(freak)show che appestano l’etere (in cui personaggi patetici come civati vengono spacciati per opposizione e/o un eventuale attivista è rilegato al ruolo dell’uomo serpente/donna barbuta/freak a piacere) sia del fatto che, appena una situazione si presenta come controversa™, ci debba essere una voce che sostiene la causa ‘mainstream’.
una delle cose interessanti è che, nella maggioranza dei casi, la voce ‘dissonante’ non è neanche rappresentata da un ospite e/o una dichiarazione ma dalla notizia in sé.
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un esempio:
durante il massacro di gaza dell’anno scorso le voci palestinesi erano assenti dai media e le dichiarazioni di zuhri, portavoce di hamas, non sono state riportate se non, raramente ed in terza persona, dagli inviati a gerusalemme (nei rari casi in cui era presente una voce che condannava i vari massacri questa apparteneva ad un occidentale (moni ovadia spopolava)).
nel contempo le conferenze stampa israeliane erano spesso in diretta ed i vari consoli, ambasciatori, portavoce delle comunità ebraiche e sionisti vari alla rondolino erano ospiti fissi (a cui, ovviamente, non venivano poste domande ma dato spazio libero per cimentarsi nell’hasbara)
specificamente ricordo che su rainews (che è stata tra le meno peggio nel coprire la guerra), dopo la notizia della devastazione di shujaiya, fu dato spazio ad uno di questi personaggi (mi pare fosse pacifici ma non ne sono certo) per fornire il punto di vista israeliano.
sempre restando sul massacro di gaza, ricordo casi in cui il 50/50 era rappresentato da due servizi. ad esempio: servizio 1: bombardamento di un ospedale a gaza; servizio 2: la paura degli abitanti delle colonie. ça va sans dire che, in tutto questo bilanciamento, erano assenti il contesto e informazioni indicative come il carico delle varie testate dei missili israeliani e dei razzi palestinesi.
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-sulla scientificità/razionalità-
premetto che non faccio riferimento al cicap in quanto è un contesto che non conosco ed a cui non sono interessato.
ho notato che negli ultimi anni è emersa ed ha acquistato rilevanza il ‘personaggio’ del ‘razionale™’ (non obbligatoriamente professionale e la cui formazione non è per forza scientifica).
il razionale™ non va confuso né con il divulgatore scientifico né con chi ha un approccio analitico e/o è un sostenitore del metodo scientifico.
le varianti sono tante ma, in generale, il razionale™ si fa paladino della scientificità/modernità, si batte appassionatamente contro la religione, ama parlare di ‘dati’, è frequentemente portatore del sacro fuoco dell’iconoclastia (passione, imo, alquanto infantile), è beffardo ed ama dileggiare i ‘non razionali’ e, benché in alcuni casi possa porsi come critico del sistema, tende a considerare l’occidente™ come superiore in quanto faro della produzione scientifica/tecnologica, delle libertà™ e del progresso™. in molti casi l’occidente™ assume anche un ruolo ‘civilizzatore’ (una sorta di riedizione del white man’s burden di rudyard kipling).
come dicevo le varianti sono molteplici ma, leggendo il post, mi è venuto in mente il contesto degli anti -teisti che si marchettizza proprio come ‘razionale’.
benché oggi molti tra gli esponenti principali non si facciano scrupoli a rilasciare dichiarazioni palesemente razziste/islamofobiche e para-fasciste (cfr dawkins, harris o il defunto hitchens che, attraverso un cherry-picking dei suoi articoli, continuava a venir spacciato come ‘di sinistra’ nonostante avesse abbracciato le teorie di huntington e dichiarasse di trovarsi in linea con personaggi come wolfowitz), il claim di questi razionali™ resta quello della confutazione delle superstizioni/parascienze e degli approcci non scientifici.
il ‘problema’ che ho con i razionali™ è, oltre alla visione suprematista che puzza di para-fascismo, che presentano una visione ultrasemplicistica della nostra specie. una visione in cui, una volta sconfitta la ‘superstizione’, la razionalità provvederà a portarci in un mondo ‘ottimale’ in cui supereremo le nostre limitazioni.
questa visione è, per quanto possa apparire allettante ai gonzi, a) dogmatica; b) presuppone un punto di ‘fine’ della storia; c) quella che spaccia per ‘razionalità’ è, imo, una visione individualistica della società che suona molto simile ai discorsi sull’interesse individuale che muove il sistema capitalistico (cfr in particolare dawkins e harris).
una delle questioni problematiche è che, data l’ultrasemplificazione diffusa e l’assenza di sistema immunitario intellettuale, la figura del razionale™ è fortemente identizzante ed ha molto appeal tra chi si colloca emotivamente a sinistra (vuoi per la storica ingerenza vaticana/ecclesiale, vuoi per l’interpretazione letterale del “la religione è l’oppio dei popoli”… senza considerare che oggi la religione dominante è, de-facto, quella del mercato: alla mano di dio che sfiora l’indice di adamo si sostituisce quella invisibile del mercato grazie alla quale scelte egoistiche del capitale portano un beneficio generalizzato).
Una domanda sul movimento dei “razionali”: possibile si sia originato -nella sua versione on line- negli States a causa della forte pressione dei creazionisti (piuttosto che dal positivismo illuministico)?
certo. nasce e prende forza durante la presidenza bush in risposta non solo al creazionismo ma anche ai gruppi di preghiera che si svolgevano alla casa bianca ed al dip di giustizia di ashcroft.
ma poi, come avevo indicato prima, è andato a braccetto con i neo-con ed ha abbracciato le teorie di huntington sullo scontro di civiltà.
ad esempio le critiche mosse dai razionali all’invasione dell’iraq non erano sulla violazione del diritto internazionale o tantomeno sull’imperialismo ma sulla cattiva progettazione dell’invasione e della conseguente occupazione.
il problema è che in tanti ‘a sinistra’ hanno abboccato alla (giusta) critica al creazionismo ma hanno finito per seguirli lungo tutto il percorso.
A me piacerebbe che venissero avanzate delle proposte su come approcciare i razionali. Per favorire la comunicazione nel verso opposto ad es. WM2 diceva “quando dite ‘la scienza sa benissimo che’ sappiate che un umanista si imbestialisce”. Nel caso contrario quali sono gli errori da evitare e le pratiche da percorrere?
E perché ‘paradossalmente’ ci sono razionali di sinistra (italiani), relativisti, antirazzista, che detestano l’approccio legalitario a la m5s e poi sono incapaci di accorgersi quando incappano negli stessi meccanismi mentali che criticano gli altri? Come li si raggiunge senza farli arroccare ulteriormente?
ad avercele le risposte ed algoritmi che siano universali…
in ogni caso, per quanto riguarda i razionali™ ‘di sinistra’ l’unica cosa che posso dirti è che, nella mia esperienza, si tratta di soggetti la cui identità politica è frutto di appartenenza emotiva/consumo identitario.
l’unica cosa che può, a mio giudizio, essere utile a riguardo, è la sana prassi della de-strutturazione.
ciò che intendo è che, imo, il problema di fondo sta nell’appartenenza identitaria (figlia dell’ultrasemplificazione).
è una roba tossica che porta al tifo ed alla sospensione di qualsiasi esercizio di critica. mi fermo qui altrimenti finisce che il brevetto di volo pindarico non mi basta :-)
Premetto che non faccio parte della comunità scientifica e spero di non andare OT; ma mi sono letto buona parte del thread, perché mi sembrava colto, interessante e stimolante, ma ad un certo punto mi sono bloccato, perché mi è sembrato costruito su presupposti inconsistenti. Sarà che tendo a semplificare tutto, ma a me sembra che il discorso sia più semplice e provo a illustrarlo.
Premessa:
Non esiste nulla al mondo di neutrale, salvo, forse, i morti e alcuni minerali inerti, tutto il resto, anche solo per il fatto di esistere agisce e partecipa (“prende parte” – notare la lingua quanto può essere precisa: partecipare non è stare in un posto indefinito, ma da una parte) alla vita.
La “comunic/azione” è in assoluto la cosa meno neutrale al mondo, visto che la parola stessa indica un’azione che agisce sulla comunità.
Nel momento in cui un ricercatore, un tecnico, uno scienziato diffondono un “dato” fanno comunicazione e sono immediatamente equiparabili ad un giornalista, ad un narratore, ad un taxista e alla vicina di pianerottolo che ti raccontano le cose loro.
Detto questo, io non vedo nessuna differenza fra una relazione peritale e un articolo del mio quotidiano preferito; ambedue mi propongono la visione che l’autore ha del “dato” e della sua applicazione alla realtà.
Visione che l’autore ha il “dovere” di comunicarmi insieme al dato, come stimolo a ragionarci sopra.
Dando per scontata l’onestà dell’autore (quegli altri manco li prendo in considerazione) l’unica cosa che mi interessa è controllare se l’autore ha realmente rispettato i “sacrosanti” (mi piacciono le parolacce) dogmi del giornalismo di qualità: le cinque W (Who, What, When, Where, Why – Chi, Cosa, Quando, Come, Perché).
Infatti se il nostro ricercatore, insieme al dato, mi dice chiaramente chi è (così forse capisco il suo approccio mentale), cosa ha fatto per ottenere il dato e come l’ha fatto, in quali condizioni spazio/temporali e pensando di ottenere cosa (il perché è fondamentale), allora io potrò giudicare il dato e le conclusioni che il ricercatore ne ha tratto, potrò provare a replicarlo e/o provare a rielaborarlo applicando metodologie e prospettive differenti.
Il dato nudo, senza le cinque W, è inutile e fuorviante sempre e comunque. Cioè è un tentativo di raggiro (come potrebbe essere una perizia di parte in un aula di tribunale – vedi Monsanto-Seralini).
Dopodiché mi interessa poco il posizionamento del divulgatore fra gli “attivisti” e/o i reazionari.
Mi interessa solo che i dati che i dati siano validi e validabili, cosicché io possa migliorare il mio cammino, leggendoli con la “mia” visione, in rapporto dialettico con quella del divulgatore.
Vorrei commentare un paio di cose, una connessa con il problema dello scientismo/positivismo (I) e l’altra connessa con il problema del debunking (II).
(I) Mi è capitato, recentemente, di discutere con il fratello di un amico a proposito dei movimenti di sinistra dell’America Latina e dell’Europa. La discussione è stata difficile, soprattutto perché era arduo concordare delle definizioni: per farla corta, a me non andava giù l’idea di accorpare esperienze diverse come quella del Venezuela e quella dell’Uruguay senza rivelarne le differenze. Purtroppo la discussione si è interrotta bruscamente quando il mio interlocutore s’è reso conto che ho un background scientifico (lui è un pittore): secondo lui, infatti, non ci saremmo capiti mai.
Ora, questo è solo un esempio, ma ho avuto altre esperienze simili: si fa spesso un processo di estensione secondo il quale scienziato = positivista. E credo questo si debba anche a come le scienze vengono rappresentate, ed il problema non si limita all’Italia o alla “cultura occidentale” (qualsiasi cosa essa sia) ma l’ho osservata in tutto il mondo. E’ un frame così comune e radicato, che sono sicurissimo molti non si rendono conto neppure di essere immersi in esso. Forse pure i divulgatori, sicuramente molti ricercatori stessi.
(II) Un altro problema che mi sembra ricorrente nei commenti a proposito del debunking è di definirlo attivismo. Il debunking secondo me è più che altro un’attività’: lodevole senz’altro, spesso necessaria, ma comunque un’attività, non attivismo in senso politico. Anzi, precedente all’attivismo: se non si fa un po’ di verifica dei fatti e delle fonti, è facile farsi prendere per i fondelli (un esempio per tutti: le foto delle foibe). Però il fact-checking si può fare sia da destra che da sinistra: non è che, una volta conosciuti tutti i fatti perfettamente, saremo tutti d’accordo (pensarlo sarebbe, secondo definizione, di destra).
C’e’ poi il problema dell’uso del linguaggio, secondo il quale la parola “furbo” in Italiano ha una connotazione negativa e la parola “giustizialismo” è abbastanza univoca, ma non ha senso dilungarmi.
Ciao @Bruche, scusami ma non sono molto d’accordo con te. Ti rispondo frettolosamente almeno su un punto, la definizione di debunking. Il debunking è una pratica culturale e come tale non può essere neutrale; nessuna forma di espressione, all’interno del contesto e della rete di relazioni in cui viene espressa, e per il modo stesso con cui viene formulata, è “neutrale”. Lasciamo perdere le teorie di linguistica cognitiva, perché qui ci sono persone che possono scriverne diecimila volte meglio di me. Stiamo ad un livello più superficiale: il debunking è sempre una relazione conflittuale, perché ci sono uno o più attori che cercano di confutare un assunto espresso da altri attori. Se vai ad individuare, nel concreto, chi sono gli attori e quali sono le relazioni che li legano, ti saluto neutralità. Ti faccio un esempio di fantasia. Immaginiamo un naturalista bravissimo; immaginiamo che sul suo blog si diletti di “debunking”; immaginiamo che il novanta per cento dei suoi articoli siano dedicati alla confutazione dei saperi tradizionali degli eschimesi. Non ti viene un velato sospetto che il pur bravissimo naturalista abbia un qualche tipo di “non neutralità” verso gli eschimesi? La pratica del “debunking” attiva sempre un conflitto, perché comunque, quando “smonti” un assunto, volente o nolente, tiri un colpo di clava al singolo o al gruppo sociale che si riconosce in quell’assunto. Magari varia il livello di consapevolezza in chi lo pratica, ma sempre “attivismo” è.
Credo che ci sia un fraintendimento causato da approssimazione nel mio commento. Credo di aver usato male la parola “attivismo”. In realtà siamo assolutamente d’accordo, per questo ho scritto che “il fact-checking si può fare sia da destra che da sinistra” e quindi, effettivamente, “sempre attivismo è”.
Il problema sorge da una conversazione esterna al blog (e ho sbagliato a non contestualizzare), secondo cui debunking = attivismo, con, in questo caso, attivismo = portare la verità, in cui è insita l’idea che, una volta che diverse persone abbiano una conoscenza perfetta dei fatti, faranno tutti le stesse scelte. In realtà quello che avrei dovuto fare era attaccare questa definizione sbagliata di attivismo, che a questo punto fa coppia con la definizione altrettanto sbagliata attivismo = distorsione di cui parla Jackie.brown.
Quindi chiedo scusa per l’incomprensione, e ti ringrazio per avermi aiutato a chiarire il mio commento!
Aggiungo che ho interpretato la frase di @herato “Io mi considero tra gli scettici à la Bressanini, e per questo mi considero militante: contro le fuffe omeopatiche, i complottismi, le pseudoscienze in generale. Il debunking è una forma di militanza, centrata su un altro conflitto.” proprio in questo senso, e.g. militanza=portare la verità. E come fai giustamente notare anche tu sopra (mi scuso di nuovo, mi ero perso il tuo commento), quel “centrata su un altro conflitto” è ambiguo…
ma no @Bruche, mi scuso io che ho assunto un tono immotivatamente pedagogico e ho scelto un esempio superficiale e riduzionista. Sulla questione mi permetto di consigliarti il post denso ed elegante di @mrmill che è poco qui sotto. Quello che vorrei sistematizzare meglio, magari con aiuti, è che per contestualizzare/decostruire una pratica di debunking o di fact-checking, secondo me, l’assunto in discussione è centrale non meno dell’analisi della rete di relazioni tra i due attori in gioco, tra il debunker e chi subisce il debunking. Anzi, se devo dirla tutta, l’assunto da correggere/confutare a volte è un mero pretesto retorico. Secondo me, i fattori discriminanti sono altri, e cioè capire le relazioni e le “cornici” per cui un attore “a” si sente in dovere di ingaggiare una pratica conflittuale, tramite una narrazione, contro un attore “b”. Una lettura capovolta rispetto al “feticismo dei fatti” criticato nel titolo del post. E’ per questo che chiedevo a @herato, se ne aveva voglia, di chiudere il suo ragionamento e di identificare, a suo modo di vedere, quali fossero gli attori del conflitto. E comunque, come vedi, se adotti quest’ottica (che fa parte di un paradigma preciso), il problema della supposta “neutralità” ce lo siamo lasciati abbondantemente alle spalle.
Sì, sì, stavo pensando alla risposta.
Innanzitutto rispondo a Bruche che per me “portare la verità” e “smascherare la menzogna” sono due concetti forse sinonimi, ma che hanno una connotazione diversa: se ti dimostro che la tua teoria è falsa non ho automaticamente dimostrato che la mia sia vera.
Essere razionalisti/scettici per me significa innanzitutto utilizzare un metodo scientifico per l’analisi di fatti, teorie, affermazioni in genere. I capisaldi di questo metodo sono, innanzitutto,
– la verifica delle affermazioni
– un uso parsimonioso e motivato della relazione di causa-effetto (altrimenti detto: troppo spesso una successione temporale o una coesistenza di due fenomeni viene interpretata alla luce di questa categoria)
– evitare argomenti del tipo “cui prodest” per dimostrare un’implicazione nei fatti
– evitare di confondere le azioni “favorire, auspicare, desiderare” con quelle “causare/provocare”
– un uso serrato della logica: qui parlo di esempi come gente che nega la frase “tutte le pecore sono nere” con “tutte le pecore NON sono nere”, e usa questo tipo di argomentazioni nei ragionamenti.
Dov’è la militanza in tutto questo? La militanza sta nell’urgenza della pratica, nell’incapacità di lasciar correre. E perché lo si fa?
Rispondo per me, dicendo anche cosa intendo per “centrato su un altro conflitto”.
Io trovo che le pseudoscienze e la disinformazione scientifica in generale siano DANNOSE, dal livello più elementare (gente che sia affida a cure improbabili o peggio le impone ai figli), al livelli più sofisticati (influenze sul comportamento che possono avere il fatto di credere ad oroscopi,
sette, creazionismi). La disinformazione scientifica è quella che può far basculare il consenso elettorale verso partiti che propongono soluzioni palesemente irrealizzabili, o realizzabili con spese (economiche, umane, politiche) che non erano state preventivate [in questo caso penso sempre alla macchina all’idrogeno propagandata da Grillo, che non si pone mai il problema dell’estrazione dell’idrogeno: dagli idrocarburi? dall’acqua potabile? dall’elettrolisi dell’acqua di mare? e quali sono le conseguenze di questa ultima pratica?— i motori a biocarburante: la gente lo sa che molti cereali vengono dirottati sulla produzione di carburanti? – etc etc].
La non padronanza (anche a livello elementare) delle armi della logica esposte qui sopra può causare pregiudizi (buona parte del razzismo e del sessismo – tra gli altri – sono, prima che immorali, fascisti, classisti, etc., IRRAZIONALI e INFONDATI).
Io quindi mi sento in conflitto con tutto questo. Il conflitto sociale, che qui su Giap è il conflitto per antonomasia, ha delle intersezioni, ma non è la stessa cosa.
[spero di essermi spiegata; leggo assiduamente ma non sempre ho la freschezza di rispondere]
Concludo con un’osservazione. Per me l'”atteggiamento scientifico” contiene in sé il senso del proprio limite: non parlo soltanto del fatto che intrinsecamente la scienza è in fieri e quindi sempre soggetta a revisione, miglioramento, smentita, o al fatto che nelle scienze “naturali” la complessità (nel senso della quantità delle variabili in gioco) dei fenomeni rende chiaro che le descrizioni saranno molto spesso qualitative o statistiche; anche per quanto riguarda la Fisica bisogna aver ben rpesente la differenza tra “realtà” e “modello”. Romanticamente, la bellezza della scienza sta nel fatto che descrive così bene pur essendo un modello che dipende in maniera drammatica dalle nostre capacità e caratteristiche cognitive.
Nel dibattito non si è sfiorato un altro bellissimo esempio che a mio parere conferma la tesi del post: il nucleare.
I vari divulgatori scientifici (compreso Bressanini, sono andato a rileggermi i suoi post del sul Fatto Quotidiano) e numerosi scienziati autorevoli, hanno riempito pagine e pagine di numeri e di fatti.
In questo caso non sono servite a nulla le intense attività di debunking delle (presunte?) inesattezze scientifiche di chi era contro il nucleare. Tutti i numeri portati a spiegarci come di solo fotovoltaico ed eolico non si potesse vivere (tra l’altro, quasi tutti sbugiardati dagli sviluppi di questi pochi ultimi anni), le rassicurazioni sulla facilità e sicurezza della gestione delle scorie radioattive, la nuova generazione di reattori, le nuove tecnologie, la ricerca che avanza, il fatto che non era vero che negli altri Stati non si stesse investendo nel nucleare, il fatto che l’energia prodotta dal nucleare va nella direzione del protocollo di Kyoto in quanto non produce C02, ecc. ecc. ecc.
Da tecnico, ascoltavo e concordavo sulla verità della maggior parte dei dati. Ma sempre riaffiorava il motivo per cui gli italiani si sono tappati le orecchie, hanno fatto bla bla bla non ti ascolto e abbiano per ben due volte votato contro.
Semplicemente, penso io anche a fronte di quanto scritto da Mariano, perché sistematicamente era rimosso l’unico fatto che interessava: Fukushima, Chernobyl, Mururoa, Hiroshima e pure l’Iran a la sua voglia di avere la bomba.
La coscienza, la morale collettiva, la “pancia”, la paura, chiamiamola come vogliamo, ha prevalso sulla scienza?
Inizio con una constatazione: Mariano – che ha scritto il post – e Wu Ming – che l’ha proposto su Giap – hanno colto un interesse e una necessità di discussione su temi che non era scontato trovassero un’attenzione tanto ampia, come è dimostrato dai molti commenti approfonditi e pensati lasciati in calce al post. Viste molte reazioni, alcune scomposte, già questo fatto è una risposta difficilmente trascurabile per chi di questi temi fa materiale di riflessione ed elaborazione quotidiana.
Nel post si smentisce la possibilità di mantenersi neutrali nell’attività di fact checking e nella divulgazione scientifica sviluppando il ragionamento lungo due binari: a un livello micro per la presenza di un bias individuale che non è annullabile (come non lo è mai in generale); a un livello macro per l’impossibilità di non tenere conto degli enormi interessi economici e della relative pressioni per spostare il dibattito su posizioni favorevoli ai powerful. Ce n’è un terzo che vale la pena esplicitare, si colloca a monte e riguarda il peso dei processi che si svolgono nella sfera sociale e che inducono mutamenti significati sulle categorie concettuali e sui metodi utilizzati per conseguire gli obiettivi che scienza e tecnologia si pongono. A essere molto chiaro a riguardo è Marcello Cini nel volume Il supermarket di Prometeo (Codice edizioni, 2006) in cui, per comprendere i fenomeni sociali contemporanei, parte dal tentativo di «cogliere la relazione che lega le diverse forme del dominio dell’uomo sulla natura (pensiero scientifico e prassi tecnologica) con i mutamenti intervenuti nei diversi aspetti – economici, culturali, politici – del tessuto sociale.» Come evidenzia lui stesso questo approccio significa attribuire allo sviluppo scientifico e tecnologico un’inedita e più forte influenza sui processi sociali, poiché dopo avere nel XX secolo portato a compimento l’instaurazione del dominio della nostra specie sulla materia inerte, «il secolo appena iniziato vedrà realizzarsi il nostro dominio sulla materia vivente e il controllo sulla nostra stessa mente». Ma questa maggiore influenza da parte di scienza e tecnologia significa anche dover necessariamente fare i conti «con i crescenti condizionamenti qualitativi, oltre che quantitativi, che agiscono in senso inverso», cioè da parte dei processi che si svolgono nella sfera sociale su scienza e tecnologia.
Se passiamo a un livello d’analisi sociologico, si deve evidenziare che la natura non è più esterna alla società, ma dal momento che si interviene sulle basi biologiche della vita sociale e individuale questa viene incorporata nelle relazioni sociali e trasformata in cultura. I modi del conoscere diventano parte integrante delle relazioni sociali stesse. Tutto questo per dire: non esistono dunque ambiti di ricerca che hanno ricadute sociali, ma tutti sono immediatamente parte della sfera dei processi sociali che a sua volta viene influenzata dalle forme del pensiero scientifico e tecnologico. Si è di conseguenza sempre di parte, le scelte riguardano i fini ma anche i mezzi adottati, mai semplicemente strumentali rispetto ai fini. Esplicitare la propria posizione, situarsi all’interno di un campo di forze in conflitto, è necessario, perché attribuisce la responsabilità del proprio punto di vista e delle proprie scelte, oltre a ricordare che esistono altri punti di vista e altre possibili scelte. Non farlo significa espellere tout court il conflitto dal processo di definizione della realtà sociale, una posizione difficilmente sostenibile in qualsivoglia campo del sapere.
[…] se tale narrazione fosse possibile, sarebbe giusto farlo? Al riguardo è uscito la settimana scorsa un interessante articolo di Mariano Tomatis, ospitato da Giap, il blog dei Wu Ming. Il problema sollevato da Tomatis -a […]
Propongo uno stralcio dall’ultima parte del post “I problemi indivisibili” a cui rimanda il pingback qui sopra. I grassetti sono miei.
«In questo tipo di forma mentis [quella di chi ha avuto una formazione scientifica, N.d.R.], è però facile scivolare poi nel rifiutare l’esistenza di certi problemi, o ritenerli intrinsecamente (e non temporaneamente) secondari. A forza di focalizzare un aspetto del problema, finiamo per non analizzarne altri, e quindi accettare supinamente lo status quo: E.g. sul post di Bressanini discusso sopra si potrebbe applicare questo schema: “non mi interessava analizzare il discorso politico legato ai brevetti –> non conosco il problema dei brevetti –> la opinione comune è che siano un bene –> la accetto e incorporo nella mia narrazione.” (nota bene: non so se lo schema sia reale. È probabile che l’opinione di Bressanini sulla politica e filosofia dei brevetti sia ben informata; quello che voglio dire è che questo schema potrebbe tranquillamente generare lo stesso identico post)
E questo è effettivamente lo schema della falsa neutralità che diventa destra – accettando lo status quo, lo si supporta, quindi si è intrinsecamente conservatori. Questo tipo di pitfall è ancora più probabile visto lo stato drammatico attuale del rapporto tra scienze naturali e discipline umanistiche in senso lato. Sia pur con varie luminose eccezioni, chi fa scienza spesso ha conoscenze rudimentali di politica e filosofia, incluso chi vi scrive. E ancor più spesso oggi si sente autorizzato a ritenerle un orpello inutile; o addirittura a ritenerle discipline bambinesche in cui di sicuro può fare come e meglio di chi le pratica […] Da qui lo spettacolo desolante che si è sviluppato intorno al post di Tomatis e al thread dei commenti su Giap (thread che ho seguito assai poco, ammetto, ma che mi è sembrato in media di buon livello culturale), che sono stati a loro volta malamente derisi con un anti-intellettualismo imbarazzante e -quello sì- di destra, di destra brutta.
Dall’altro lato, però, persiste l’incapacità di comprendere quali siano i metodi, gli obiettivi e financo la psicologia di chi fa o comunque si occupa di scienza, agitando il fantasma di una volontà o viltà politica inesistente e arrivando a deliri come “oggi Le Scienze è di destra”. E in mezzo? In mezzo il vuoto. Quello di Mariano Tomatis è stato un tentativo goffo; in esso possono esserci stati anche dei pezzi di malafede e di misquoting (la cosa ha fatto infuriare, apparentemente, Mautino e Bressanini, che ne hanno approfittato in parte per smarcarsi dalla diatriba; ma in generale sono problemi loro e non mi riguarda). Ma ha avuto il pregio di poter creare di una discussione su come parlare di scienza. Tentativo non recepito. Non parlo di Tomatis, nè al limite di Bressanini/Mautino: ma della galassia di tifoseria attorno alle due parti, che con rare eccezioni bandiscono striscioni e non si parlano -ed è inevitabile, non sono in grado di parlarsi. Lingue diverse, logiche diverse. Due parti che non dovrebbero esistere, visto che in realtà entrambe vogliono la stessa cosa: cambiare il mondo tramite la verità. Ancora una volta tra le due culture sta il baratro, un baratro muto che ingoia ogni speranza di una cultura.»
Apprezzo lo sforzo di riflessione che informa questo post. Certo, sono in disaccordo su diversi passaggi (che sopra non ho citato) e ravviso anche qui lo stesso problema che ho notato altrove: si commenta sempre la prima metà del post di Mariano (dove si parlava dell’esperimento proposto da Ferrero e si riassumeva un articolo di Bressanini sul caso Schmeiser-Monsanto) e non si dice nulla sulla seconda (quella dove Mariano suggeriva possibili approcci), ma in generale questa mi sembra la cosa più decente e seria scritta sinora “in quel milieu”. Virgoletto per segnalare che sto usando un luogo comune: l’autore, Massimo Sandal, è un (fresco) collaboratore de Le Scienze.
Dove proprio il post non mi convince è nella conclusione: Sandal si rammarica della separatezza e incomunicabilità tra “le due culture”, e parla di “due tifoserie” che parlano lingue “incomunicabili”. Ma:
1) come esempi di “tifoseria”, da una parte – quella della presunta “forma mentis scientifica” – Sandal pone la baraonda di greve anti-intellettualismo, lo sfoggio di mentalità di “destra brutta”, il triste spettacolo messo in scena su FB (lo abbiamo linkato anche in questo thread); dall’altra parte – quella della presunta forma mentis “umanistica” – quali esempi fa? Un singolo commento, sempre il solito, lasciato da un commentatore secondo cui l’attuale direzione de “Le Scienze” ha impresso alla rivista una svolta “neutralista” e perciò di destra. Un parere discutibile ma legittimo, trasformato tout court in “delirio”. Anche fosse, sarebbe il delirio di una sola persona.
Insomma, mi sembra che un piatto della bilancia sia pieno zeppo e l’altro… Beh, l’altro no.
2) mi pare che a riattivare e rafforzare il frame delle “due culture” sia proprio Sandal. In questa vicenda non si sono scontrate “due culture”, semmai due diversi modi di discutere, in due diversi ambienti comunicativi (per dirla in caricatura: da una parte FB dove yuk! yuk! e dall’altra questo blog dove si scrivono “pipponi”). La maggior parte delle persone intervenute su Giap in questi giorni ha una formazione scientifica o tecnico-scientifica, quasi sempre inclusa nella declaratio terminorum in apertura dei commenti (“Sono un matematico”, “Sono laureato in fisica”, “Sono giornalista scientifico e socio Cicap”, “Sono un informatico”, “Intervengo da ricercatore” ecc. ecc.). Questo è un blog aperto da scrittori e quindi si presta a essere etichettato come “covo di umanisti”, ma la comunità che si ritrova qui sopra della separazione tra le “due culture” se ne è sempre infischiata. Ci sono scienziati che amano la letteratura, e lettori di romanzi che si interessano di scienze. E figure del tutto ibride, come appunto Mariano, che è di formazione scientifica, ha scritto su riviste scientifiche peer-reviewed, ma non ha la “forma mentis” di cui parla Sandal, quella che ritiene la filosofia e le arti “orpelli inutili”.
Velocissimo perchè ho ore e ore di sonno arretrato:
si commenta sempre la prima metà del post di Mariano (dove si parlava dell’esperimento proposto da Ferrero e si riassumeva un articolo di Bressanini sul caso Schmeiser-Monsanto) e non si dice nulla sulla seconda (quella dove Mariano suggeriva possibili approcci)
In realtà 1)ho fatto presente che sulla seconda parte sono fondamentalmente d’accordo, testimone ne sia un altro mio post di qualche tempo fa sulla necessità di ritrovare il senso del racconto della scienza come storia (di cui lo storytelling giornalistico è solo una delle declinazioni e forse la meno interessante) 2)ho fatto presente che quegli approcci mi paiono approvati solo se dalla parte che ci piace. Se non ho approfondito è perchè per il resto, più che dire “in linea di massima sono d’accordo” non saprei ora come ora. La parte problematica è la precedente.
Sandal pone la baraonda di greve anti-intellettualismo, lo sfoggio di mentalità di “destra brutta”, il triste spettacolo messo in scena su FB (lo abbiamo linkato anche in questo thread); dall’altra parte – quella presunta forma mentis “umanistica” – quali esempi fa? Un singolo commento, sempre il solito, lasciato da un commentatore secondo cui l’attuale direzione de “Le Scienze” ha impresso alla rivista una svolta “neutralista” e perciò di destra. […]
Insomma, mi sembra che un piatto della bilancia sia pieno zeppo e l’altro… Beh, l’altro no.
Avrei dovuto per par condicio forse citare esempi singoli di ciascuna curva dello stadio, oppure non citarne nessuno. Potevo copincollare uno dei vari “Wu Minghia” e buonanotte. Mea culpa: ma la baraonda in realtà c’è un po’ da entrambe le parti, e da entrambe le parti sui social ci sono stati numerosi commenti razionali e informati (cfr. Marco Cattaneo di Le Scienze, o anche la stessa Mautino). Quello che mi interessa non è il singolo commento, che fa punta dell’iceberg, è il clima generale. Ricordo il modo con cui Wu Ming ha tenuto una ossessiva difensiva estrema i miei primissimi commenti a braccio su Twitter,e viceversa c’è stata la chiusura a riccio totale, per esempio, di Bressanini. È questo atteggiamento da ragazzi della via Pal che non va, che non si regge.
ma la comunità che si ritrova qui sopra della separazione tra le “due culture” se ne è sempre infischiata.
Sulla comunità, non so. Posso concordare forse sulla discussione in questo specifico thread. Percepisco però costantemente un certo sospetto, in certi ambiti, verso ciò che “puzza di scienza”, forse proprio perchè noi scienziati siamo spesso grezzi, parliamo male, siamo anche un po’ ignoranti (non è sarcasmo eh). In generale, frasi come “ma i maestri del sospetto – Marx, Nietzsche e Freud – hanno rinvenuto tre cariche esplosive alle fondamenta dell’oggettività scientifica” mi paiono un esempio limpido di questo tipo di ragionamento, del tipo “ah sì voi poveri ingenui vi credete oggettivi ma noi la sappiamo più lunga”. La scienza sa benissimo, invece, senza il name dropping, che la sua pratica è a costante rischio di essere inquinata dalla soggettività: è per questo che abbiamo la bizzarra abitudine di ossessionarci con statistiche, controlli double-blind, ripetizione di esperimenti, peer review eccetera. Non serve che me lo dica Freud, dei bias inconsci: basta leggere la storia della misura della carica dell’elettrone (se non la conoscete, è illuminante).
Ci sono scienziati che amano la letteratura, e lettori di romanzi che si interessano di scienze. E figure del tutto ibride, come appunto Mariano, che è di formazione scientifica,
Su questo assolutamente, mi ci metto se posso pur io – anche se faccio i post con le immaginette di PK e Dr Who invece che con Cioran o Musil, per amor di leggerezza. Non pretendo di avere una cultura profonda, ma insomma, non sono il prototipo del geek che legge fumetti Marvel (che anzi, boh) e se gli chiedi chi è Duchamp ti guarda basito (wink wink). Di gente così ce n’è tanta. Però ecco, se parli di Dada in certi contesti molti ti guardano strano, e viceversa se parli di elettroni in altri. Questo problema esiste eccome ed esiste ancora.
Molto bene, mi sembra che sia partito un dialogo. Non voglio monopolizzare, anche perché tu hai risposto principalmente a Mariano e lascio volentieri spazio a lui, ma su una cosa mi sento di risponderti. Quando scrivi:
«La scienza sa benissimo, invece, senza il name dropping, che la sua pratica è a costante rischio di essere inquinata dalla soggettività: è per questo che abbiamo la bizzarra abitudine di ossessionarci con statistiche, controlli double-blind, ripetizione di esperimenti, peer review eccetera. Non serve che me lo dica Freud, dei bias inconsci […]»
stai scrivendo una cosa antistorica. Perché non è questione di “name-dropping”, è questione di storicizzare. Anche categorie e metodi della scienza sono storici, esiste una storia dei paradigmi epistemologici, che cambiano, si evolvono, vengono rovesciati, vengono rimpiazzati… Tu stai descrivendo metodi, verifiche e consapevolezze di oggi (consapevolezze che peraltro non sembrano ancora essere di tutti…) in risposta a un brano che parlava di ieri. Ri-cito dal testo di WM2 linkato da Mariano:
«Leibniz sperava che un giorno qualunque disputa si sarebbe potuta risolvere con un calcolo, ma per fortuna quell’alba non è mai sorta. Il positivismo ha sognato che la scienza potesse emanciparsi una volta per tutte dai suoi trascorsi filosofici e letterari, ma i maestri del sospetto – Marx, Nietzsche e Freud – hanno rinvenuto tre cariche esplosive alle fondamenta dell’oggettività scientifica: gli interessi economici, la volontà di potenza e l’inconscio.»
Ed è un dato di fatto che i paradigmi epistemologici di oggi sono “post-Freud”, “post-Nietzsche” e “post-Marx”.
Tu scrivi “non serve che me lo dica Freud”, e invece è servito eccome. La rappresentazione dell’inconscio data da Freud non combacia col paesaggio mentale che stanno mappando le neuroscienze, ma senza quell’idea di inconscio, che ha aperto il campo delle possibilità, non ci sarebbero stati i passaggi successivi. Freud descrisse il cosiddetto “errore di Cartesio” una buona ottantina d’anni prima che Damasio ne facesse il titolo del suo libro più famoso.
Nella formulazione del principio di indeterminazione di Heisenberg si coglie bene l’impronta della radicale critica del soggetto inaugurata da Nietzsche.
Marx e il migliore marxismo (checché ne dicano i detrattori ignoranti che confondono Marx con lo stalinismo e il materialismo con Lyssenko, più volte citato a sproposito su FB nei giorni scorsi) hanno dato un enorme contributo al dibattito su basi, sviluppi e limiti di un approccio immanentista, scientifico oltre l’ingenuità positivista (che anche oggi continua a riaffacciarsi), consapevole del proprio ruolo nel capitalismo e volto a una continua autoinvestigazione.
“Marx, Nietzsche e Freud” è una semplificazione, sono tre “fondatori di discorsività” diversissimi tra loro, ma sono tre nomi che riassumono una fase del pensiero critico occidentale, che grossolanamente possiamo allungare dagli anni Quaranta del XIX secolo agli anni Trenta del XX. Siamo tutti post-loro.
Credits: “maestri del sospetto” è una definizione di Paul Ricoeur, “fondatori di discorsività” è un concetto di Michel Foucault.
Tra l’altro, fatico a vedere almeno due di questi tre nomi come figure di umanisti puri esterni alla comunità scientifica che la criticano da fuori.
Freud era sicuramente uno scienziato: medico come formazione, arrivò alla psicoanalisi tramite la neurologia, cioè “dal basso” e non per via puramente filosofica.
Marx era laureato in filosofia, certo, ma con una tesi sulla fisica di Democrito confrontata con quella di Eraclito. Nella sua vita si è occupato di matematica, fisica, economia, biologia. Nei suoi Manoscritti Matematici riflette sui fondamenti epistemologici del calcolo differenziale. Credo sia abbastanza noto che ha definito la sua posizione politica “socialismo scientifico” e il suo atteggiamento è sempre stato quello di un debunker ante litteram.
In quasi tutte le discipline scientifiche, del resto, c’è stato nel Novecento del dibattito fondazionale che partiva dall’interno. Io mi sono laureato in intelligenza artificiale, che è una sottodisciplina dell’informatica molto tecnica e al tempo stesso permeata ab origine da un discorso filosofico sui propri limiti e sui propri orizzonti.
Tu scrivi “non serve che me lo dica Freud”, e invece è servito eccome.
È possibile che sia antistorico, te lo compro e ritiro. Mi vien da pensare che se fosse interamente così il metodo scientifico sarebbe nato solo dopo Freud e non prima: ma non conosco la questione abbastanza.
Però subito dopo mi dici Nella formulazione del principio di indeterminazione di Heisenberg si coglie bene l’impronta della radicale critica del soggetto inaugurata da Nietzsche. , e qui francamente resto basito. Vorrei capire in che senso quello che è un risultato squisitamente matematico, che dipende dalle proprietà di serie di Fourier per quel che ne capisco, possa dipendere anche da qualsiasi cosa avrebbe inaugurato Nietzsche – del resto, il principio di indeterminazione quello è, qui come nella galassia di Andromeda. Perchè qui mi pare si vada molto vicino alle famigerate “imposture intellettuali” di Sokal, in cui si fanno cortocircuiti concettuali tra cose che “suonano” simili ma che simili non sono. Vorrei capire, magari sbaglio io.
Non sto a discutere Marx, dove rischio di fare serie figuracce, solo che non sono convinto il suo metodo fosse granchè scientifico: ritengo ovviamente abbia avuto una immane importanza e serietà a livello di discorso politico, ma a parte ciò. Di certo non te lo confondo con Stalin o Lysenko, eh, non sono a questo livello di abbrutimento. Quanto al ruolo della scienza nel capitalismo, chi lo nega: ma (al di là di casi di frode o risultati metti sotto il tappeto) i risultati della scienza -le proposizioni sul mondo che fa- non dipendono dal sistema economico in gioco. Un amminoacido è un amminoacido, ovunque siamo nel cosmo. Questo è il tipo di oggettività che interessa a chi fa scienza e chi ne parla. Mi rendo conto che ad altri interessa più come questi si inseriscono nella società e nella prassi. Entrambe cose interessanti, ma sono due mestieri diversi. Bene che i mestieri si parlino, ma che non confondano i piani.
No, Sokal non c’entra, semplicemente stiamo parlando di due cose diverse. Tu stai parlando della validità di un principio, io della domanda che si è posto chi lo ha scoperto. Ci sono domande che in alcune epoche/culture/episteme, semplicemente, non sono possibili, a nessuno può venire in mente di formularle e cercare di rispondere, perché le fondamenta concettuali del sapere sono altre, i problemi da risolvere sono altri.
Con la crisi di un’epoca/cultura/episteme, di un “regime di verità” (quest’espressione è di Foucault) vengono posti altri problemi, e nascono nuove domande, che portano a nuove scoperte, che a loro volta pongono altri problemi, prima inimmaginabili, che danno all’episteme un colpo definitivo e proiettano tutto il pensiero fuori da essa.
Ora: la domanda che porta a scoprire il principio di indeterminazione, come gran parte delle domande della fisica novecentesca, è possibile in un’epoca in cui certi fondamenti non sono più tanto saldi. Dopodiché, che Heisenberg avesse letto Nietzsche è noto, Heisenberg aveva una formazione letteraria e umanistica, la crisi dei fondamenti della generazione precedente la trovò in Nietzsche, nelle Elegie duinesi di Rilke e altri autori. Ma anche se di Nietzsche non avesse mai letto una riga, la domanda che si pose sarebbe comunque “post-Nietzsche”.
Spero che adesso ci siamo capiti.
Sulla questione dell’auctoritas: certamente tra gli “umanisti” – a proposito, ma ci mettiamo anche gli scienziati sociali, tra gli “umanisti”? Tipo gli psicologi? Gli antropologi culturali? Gli storici post-Annales? – abbondano quelli che usano i nomi nella logica dell’ipse dixit, ma altri – e spero si capisca che è il mio caso – lo fanno per dire: vai a vedere che riflessioni ha fatto costui o costei su quest’ordine di problemi. Ecco, prima ho citato Foucault perché su quest’ordine di problemi ha scritto e detto cose che ritengo importanti, e suggerisco l’incontro con esse perché lo ritengo fecondo.
E, va aggiunto, anche la domanda “Quali domande sono possibili in una data epoca?” non sarebbe stata possibile in altre epoche.
semplicemente stiamo parlando di due cose diverse. Tu stai parlando della validità di un principio, io della domanda che si è posto chi lo ha scoperto. Ci sono domande che in alcune epoche/culture/episteme, semplicemente, non sono possibili
Ottimo, questo chiarisce molte cose: vedi, alle due (tre, quattro, zero) parti di questo dialogo spesso interessano cose diverse -ma non se ne rendono conto, e quindi una espressione appena ellittica può condurre a incomprensioni catastrofiche.
Direi che questo è proprio il punto di partenza su cui costruire semmai un dialogo: Quali domande ci interessano? A me alcune, a te altre. A me, come scienziato, per esempio, interessa cosa fanno i recettori G-protein-coupled e come si sono evoluti; a te interessa come mai studio quelli e non altro, e come una struttura economica può sfruttare i miei risultati. Le due cose si influenzano, a volte molto banalmente (mi danno soldi per noiosissime questioni farmacologiche e non per questioni evolutive prive di rilevanza pratica ma di interesse culturale); a volte sottilmente (quando cerco molecole che si attaccano a un recettore, sto lavorando a basso costo, pagato dalla società, a vantaggio ultimo dell’industria?)
Sul fatto che certe domande non te le puoi porre prima di certi milieu culturali sono d’accordo ed è un bel punto su cui riflettere. A essere pedante, resto comunque perplesso sull’esempio del principio di indeterminazione (che, a dispetto del nome altisonante, non è che una disequazione) che, a quanto ne so io, è appunto una derivazione matematica inevitabile una volta formulata la base della meccanica quantistica: ci potrebbe arrivare un robot, in linea di principio (e, sì, oggi esistono robot e programmi in grado di dedurre leggi fisiche e dimostrare teoremi). Arrivare all’interpretazione di Copenhagen (o a quella many worlds, o altre) semmai può essere -anzi di sicuro è- influenzato e conseguenza dall’ambiente culturale intorno, ma qui esuliamo dal discorso della matematica e arriviamo alla domanda sul senso delle nostre equazioni. Ma va beh, è un dettaglio off topic a questo punto: semmai lascio se ne occupino i fisici.
«Una derivazione matematica inevitabile una volta formulata la base della meccanica quantistica»
Eh, appunto. Non stiamo dicendo cose diverse, semplicemente sottolineiamo diversi aspetti del medesimo processo.
Una derivazione, appunto, deriva da. Ma deriva da, e lo fa inevitabilmente, solo ed esclusivamente una volta che è successo qualcosa che ha reso possibile porsi il problema: in base a questo, non deriverà forse che questa certa cosa non si può fare? E infatti no, non si può fare. Ma non si poteva concluderlo, né chiederselo, nell’episteme precedente. “Tutto qui” :-)
Beh ma allora è inesatto dire che Nietzsche appare nella formulazione del principio di indeterminazione (come peraltro? non mi è chiaro); semmai appare, come uno dei millanta elementi culturali, nella storia della meccanica quantistica in generale.
Veramente era un po’ più indiretta e problematizzata di così :-) Non era «Nietzsche appare», ma:
«[…] si coglie bene l’impronta della radicale critica del soggetto inaugurata da Nietzsche […]», con la successiva precisazione che “Nietzsche” sta per uno dei nomi che riassumono «una fase del pensiero critico occidentale, che grossolanamente possiamo allungare dagli anni Quaranta del XIX secolo agli anni Trenta del XX.»
Comunque sì, l’esempio specifico del principio di indeterminazione (che ho fatto perché ricordavo che Heisenberg era un lettore di Nietzsche) è estendibile alla meccanica quantistica in generale. E saranno pure “millanta” gli elementi culturali in gioco, però la ricezione di Nietzsche nell’Europa borghese del primo Novecento non è proprio un elemento culturale qualsiasi.
In quest’altro commento Bruche ha spiegato cos’è appena successo tra noi due:
«Da un punto di vista scientifico, avrebbe dovuto scrivere “La teoria del positivismo era che la scienza potesse emanciparsi dalle sue radici filosofiche e letterarie. Questo e’ risultato impossibile a causa dell’influenza che gli interessi economici (Marx), la volontà di potenza (Nietzsche) e l’inconscio (Freud) hanno sull’oggettività scientifica.”
Ovvio che da un punto di vista “scientifico” la costruzione del discorso “umanistica” sia “ampollosa”, mentre, dal punto di vista di un “umanista” la costruzione della frase “scientifica” sia “sterile”. Entrambe vanno lette prendendole dal loro contesto, ed interpretate.»
“Nietzsche”, “Freud” e “Marx”, nel discorso di WM2, sono anche figure retoriche. Metonimie, per la precisione. Che si usano anche nella divulgazione scientifica (es. “prima di Einstein si pensava che…”), del resto.
Vorrei rispondere al post “originale ” di devicerandom ma ci metterò un po’.
Nel frattempo volevo spezzare una lancia in suo favore a proposito di Heisenberg. Francamente anch’io non penso che la questione sia la formazione che egli aveva. Sono d’accordo che la scienza vada storicizzata ma credo che la scoperta della disequazione per quanto “post” non sia “dovuta a” e che questo tipo di affermazioni sia invece una cosa che “tipicamente” irrita chi è più di formazione scientifica (perché magari è valido il principio generale ma viene citato in un caso in cui è davvero difficile vederlo applicato). Il campo di indagine mainstream di due diverse discipline (fisica e filosofia in questo caso) in un dato momento non è necessariamente in relazione. “Accade che” per evoluzione della storia di una disciplina ad un certo punto ci si occupi di una determinata cosa. E che si sbatta il naso in delle novità in modo del tutto inaspettato. Altrimenti non si capirebbe ad esempio com’è possibile che un fondatore (piuttosto positivista) della meccanica quantistica come Einstein poi possa rigettarne le implicazioni “filosofiche”.
La disequazione nasce a mio avviso dall’analisi dei dati a prescindere dalle idee filosofiche. Ed è stata sconvolgente. Mi risulta che Heisenberg e Bohr si siano presi un periodo sabbatico per cercare di dargli un significato ed è solo in quel momento che la formazione culturale entra in gioco. Tant’è che la stessa cosa l’hanno interpretata in modo diverso: uno ha tirato fuori il principio di indeterminazione e l’altro l’idea di complementarità.
Poi si danno anche dei casi in cui sono delle novità scientifiche a influire sulla cultura filosofica e non solo viceversa :) ma ho già divagato abbastanza -e poi è un altro terreno minato: perché effettivamente l’estensione di un principio in modo arbitrario oltre il suo campo d’applicazione è un’altra delle cose che fanno imbestialire ed è pure uno dei modi di far passare come “verità scientifica” un’opinione -quindi proprio una delle cose su cui si voleva mettere in guardia nel post iniziale, imho.
«L’estensione di un principio in modo arbitrario oltre il suo campo d’applicazione è un’altra delle cose che fanno imbestialire…»
Cosa che però in questo scambio di vedute non è accaduta. Me ne sono ben guardato dall'”estendere” il principio di indeterminazione in altri campi, l’ho lasciato lì dov’è :-) Mi sembra di aver fatto un discorso compatibile con questo che hai fatto tu:
«[…] cercare di dargli un significato ed è solo in quel momento che la formazione culturale entra in gioco. Tant’è che la stessa cosa l’hanno interpretata in modo diverso: uno ha tirato fuori il principio di indeterminazione e l’altro l’idea di complementarità.»
Ecco, il principio di indeterminazione è anche, su un piano diverso da quello della sua letteralità e validità oggettiva, una costruzione culturale. Costruzione che non sarebbe stata possibile nell’episteme positivistica.
Però mi sa che ormai ci stiamo intorcinando. Dalla mia risposta a un solo passaggio del commento di @devicerandom è nata una disamina di come si usano o non si usano i nomi nei discorsi tipici di questo o quel campo del sapere. L’abbiamo ormai sviscerata, questa faccenda. Torniamo al “core” dello scambio tra Mariano e @devicerandom.
a proposito, ma ci mettiamo anche gli scienziati sociali, tra gli “umanisti”? Tipo gli psicologi? Gli antropologi culturali? Gli storici post-Annales?
Nel contesto di questa chiacchierata decisamente sì. Esiste un termine migliore? Psicologia forse è quella più ambigua.
La storiografia, e lo dico da storico di formazione, è forse ancora più “ambigua”. Ma mi fermo qui, perché da questa notazione può nascere una digressione lunghissima.
Non voglio assolutamente prendere lo spunto di digressione che hai offerto, però non posso trattenermi dall’osservare con divertimento che io, fisico di formazione e invece ignorante di storiografia se non per qualche libretto qua e là, avrei detto che questo campo tra tutti quelli citati fosse il più prossimo, per intenzioni e natura del soggetto di studio, a una scienza – come fra l’altro ho già scritto da qualche parte più sopra. Mi piacerebbe approfondire, in altro tempo e luogo.
La storia è una scienza, ma… vallo a dire alla maggior parte degli scienziati :-)
La storia è scienza e letteratura. Uno storico, di lavoro, trasforma i dati in storie. I plot devices della storia non sono categoricamente distinguibili da quelli della letteratura. La storia nasce con Erodoto e conserva anche quell’impronta. In Erodoto c’è molta fiction. La storia si occupa anche di oggetti dai confini indefinibili (le mentalità, ad esempio). Per schiudere alcuni scenari, la storia può usare espedienti narrativi come le “ipotesi controfattuali” (il “what if”). And so on.
Dici: “il metodo scientifico sarebbe nato solo dopo Freud”
Il metodo scientifico, però, deve ancora nascere adesso, sebbene sia stato tirato in ballo molto sovente nella discussione. Quello che nei testi si spaccia come tale (osservazione, formulazione ipotesi etc…) è una fiaba, e spesso, molto spesso, i ricercatori non ne sono consapevoli. Come dice giustamente WM1 ci sono domande problematiche alla base del processo scientifico (non lo chiamerei metodo), con il loro contesto storico, politico e di potere, e spesso sono taciute al pubblico o raccontate in una forma più rassicurante. Nella letteratura scientifica, anche di nicchia, e anche con la massima buonafede, molto spesso la “research question”, citata da Bruche più in basso, viene formulata nell’articolo/presentazione non nella sua enunciazione originale, ma in una funzionale alla narrazione della pubblicazione, che rimuoverà contraddizioni, errori di valutazione e travisamenti da un lato, e dall’altro esalterà il rigore, il metodo (non come protocollo, ma come espediente narrativo creato a posteriori dell’indagine scientifica), la neutralità e la bravura dei ricercatori. Nemmeno in caso di malafede è facile andare a scalfire questa scorza e rivelare gli interessi e i bias nascosti, e per farlo ci vuole tempo, che spesso non è neutrale nemmeno lui e, anzi, fa decisamente il gioco dei potenti, come nei casi citati di amianto, Vioxx o in quello del thalidomide. Negli anni trascorsi per smascherare queste frodi, con solidi appigli nella letteratura scientifica, alcuni powerful hanno fatto affari d’oro, molti powerless hanno pagato il prezzo.
Non capisco né perché il metodo scientifico sarebbe dovuto nascere con Freud, né perché non sia ancora nato … e in realtà non capisco perché il paradigma galileiano di sperimentazione debba essere “una favola”.
Ovvero vorrei sapere se le “domande problematiche alla base del processo scientifico” sono altre oltre a quelle già citate di origine economica, politica e di responsabilità verso le proprie scoperte, e della comprensione del funzionamento dei processi mentali e del ruolo del subconscio. Se non ce ne fossero altre mi sembrerebbe fuori luogo parlare di un problema radicale nel metodo scientifico, che si occupa unicamente di ricostruire matematicamente il comportamento quantitativo dell’Universo. Lo scienziato è uno specialista, e purtroppo come tale presenta fin troppo spesso, in buona o in cattiva fede, la tipica miopia che accompagnia la specializzazione; sono d’accordo se mi si dice che c’è bisogno di scienziati consapevoli del tema delle proprie responsabilità, meno se mi si dice che c’è bisogno di scienziati che imparino a fare Scienza – in quello mi sembra che ce ne siano stati e che ce ne siano tuttora di molto bravi. (sul fatto che la comunità scientifica non sia consapevole della lezione di Freud qualche dubbio lo avrei, però ammetto di non conoscere adeguatamente a fondo la teoria della psicanalisi)
Se invece era una questione di perfezionabilità del metodo scientifico – in realtà dal post non si direbbe -, allora comprendo di più il discorso, ma ancora non lo condivido: certo, il metodo scientifico è in evoluzione, si è adeguato alla natura delle sue scoperte e oggi si fa ricorso a strumenti che un tempo sarebbero apparsi non scientifici (e.g.: l’uso della statistica nella dinamica newtoniana, con buona pace dell’anima suicida di Boltzmann); però da qui a dire che il metodo scientifico sia ancora da fondare mi sembra che ce ne passi.
Ho apprezzato gli altri tuoi commenti, provo a chiarire.
Quando dico che il metodo scientifico debba ancora nascere, intendo dire che non esiste un algoritmo, applicato il quale si certifica che sia stata fatta “scienza”, una specie di certificazione ISO XX001. Con ciò non nego che esistano modi di procedere scientifici, ma dire che esista una sola procedura, che tra l’altro parta da un’osservazione neutra e senza preconcetti, è un mito, una fiaba.
Si osserva, infatti, solo ciò che si cerca: le osservazioni sono zuppe di teoria: prima della formulazione della relatività chi avrebbe pensato di andare a vedere la curvatura della luce durante un’eclissi? Forse è ancora più evidente quanto la teoria permei le osservazioni, quando si sentono ricercatori o studenti parlare tra loro e interpretare ciò che vedono in base a ciò che hanno studiato e tirare in ballo elettroni, atomi, molecole, orbitali, spin, etc… Non dico che non vada bene, anzi, sono un realista (moderato) anch’io, faccio solo notare che dei bambini o dei non specialisti non si esprimerebbero così, e di fronte ad uno stesso fenomeno non osserverebbero le stesse cose che osserva lo scienziato/il ricercatore/il docente.
Quando parlo di domande problematiche, probabilmente sì, intendo quelle a cui ti riferisci tu e possono essere (senza pretesa di esaustività): comprendere un fenomeno, curare una malattia, far laureare uno studente, pubblicare un articolo, fare un sacco di soldi, creare un’arma micidiale con cui assoggettare un popolo e fare un sacco di soldi. Partendo da domande diverse è possibile anche arrivare allo stesso posto, nell’esempio del Vioxx o del Thalidomide tutti ora concordano che abbiano severi effetti collaterali, tuttavia i percorsi possono essere resi alquanto accidentati dalle domande di partenza, che non sono neutre, anche se nobili: anche decidendo di curare una malattia o descrivere un fenomeno in un mondo di tempo e risorse limitate scegliamo di non curarne un’altra o non spiegare/inventare qualcos’altro.
Infine dire che ricostruire matematicamente il comportamento quantitativo dell’Universo sia l’unico scopo della scienziato o del metodo scientifico mi sembra un approccio un po’ riduttivista. Il formalismo matematico è potente, ma in alcuni casi la descrizione matematica può non essere la migliore. La descrizione non è poi l’unico compito della scienza, c’è la scoperta e c’è l’invenzione. Per esempio i ricercatori hanno sintetizzato il cubano, molecola stabile non esistente in natura, non hanno forse fatto scienza, sebbene non abbiano ricostruito “matematicamente il comportamento quantitativo dell’Universo”?
Infine di scienziati certo ce ne sono di bravissimi, ma lo si può essere senza consapevolezza epistemologica, che non è detto aiuti ad essere più bravi o più produttivi in termini di articoli nell’unità di tempo.
«Non sto a discutere Marx, dove rischio di fare serie figuracce, solo che non sono convinto il suo metodo fosse granchè scientifico»
Ma se dici che ne sai poco e quindi rischi di fare figuracce, perché ti avventuri appunto a fare una dichiarazione così drastica?
Risposta: perché i pregiudizi scientisti sono così forti che in questa società si considera normale trattare da ciarlatano chiunque si occupi di scienze sociali, anche quando – come in questo caso – si tratti dello scienziato più autorevole, influente e confermato del suo campo.
L’influenza di Marx sulle scienze sociali è più o meno come l’influenza di Galileo sulle scienze naturali, e se ci sono molti che negano questa o quella proposizione di Marx (così come tutti negano che avesse ragione Galileo sostenendo che le maree non dipendono dall’influenza lunare), questo non significa certo affermare che non abbia dato un contributo scientifico seguendo un metodo scientifico.
Quel che faceva Marx era studiare nei dettagli delle cose e poi trarne generalizzazioni e predizioni falsificabili. A me sembra metodo scientifico.
Basti dire che l’opera di Marx più famosa, Das Kapital, rimase incompiuta anche dopo decenni di lavoro, perché Marx voleva verificare ogni singolo dato, ogni singola affermazione, sincerarsi della tenuta di ogni analisi e ragionamento, e si poneva in modo addirittura lacerante questioni di metodo, cercava sempre nuove fonti anche per mettere alla prova il metodo, con un approccio che poi si sarebbe detto “interdisciplinare”. Riempiva quaderni su quaderni di estratti e appunti, e ogni volta si rendeva conto della necessità di un supplemento di ricerca e indagine. La storia di come fu scritto (o… non scritto) Das Kapital è appassionante.
Uno dei crimini culturali dei presunti “marxismi” burocratici andati al potere nel XX secolo in giro per il mondo è stato – spesso in nome della “scienza” – occultare questa dimensione critica e scientifica del lavoro di Marx. Come ha scritto Marcello Musto: “La sua teoria, da critica qual era, fu utilizzata a mo’ di esegesi di versetti biblici. Nacquero così i più impensabili paradossi […] Critico rigorosissimo e mai pago di punti d’approdo, divenne la fonte del più ostinato dottrinarismo. Strenuo sostenitore della concezione materialistica della storia, è stato sottratto al suo contesto storico più di ogni altro autore.”
Una decina d’anni prima veniva pubblicato “On the Origin of Species” di un altro Carletto. E si potrebbe trapiantare quasi di peso il tuo primo paragrafo per Darwin:
“Basti dire che l’opera di Darwin più famosa, On the Origin of Species, rimase incompiuta [pubblicata quasi controvoglia, e Darwin non fu fino all’ultimo contento della sua esposizione] anche dopo decenni di lavoro, perché Darwin voleva verificare ogni singolo dato, ogni singola affermazione, sincerarsi della tenuta di ogni analisi e ragionamento, e si poneva in modo addirittura lacerante questioni di metodo, cercava sempre nuove fonti anche per mettere alla prova il metodo, con un approccio che poi si sarebbe detto “interdisciplinare”.”
Il parallelo e’ affascinante. Soprattutto se confrontato con la rapidita’ di pubblicazione odierna.
«Per quanto svolto grossolanamente all’inglese, ecco qui il libro che contiene i fondamenti storico-naturali del nostro modo di vedere.»
Lettera di Karl Marx a Friedrich Engels, 19 dicembre 1860. Il libro a cui si riferisce è On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life, di tale Charles Darwin :-)
1) Per quale motivo, se un matematico parla di geometrie non-euclidee, e cita Riemann e Lobacevskij, nessuno lo accusa di fare “name dropping”, mentre se uno scrittore tira fuori Freud, Marx & Nietzsche, commette un’infrazione da intellettuale che se la tira e vuol far vedere agli altri quanti nomi conosce?
Anche questo genere di stigma nei confronti della citazione – che per gli “umanisti” è prassi comunissima – mi sembra un grosso ostacolo al dialogo tra le “due culture”, e trovo strano che arrivi proprio da uno come @devicerandom che invece quel dialogo vorrebbe favorirlo.
2) Una frase come “la scienza sa benissimo che”, se fosse vera, dimostrerebbe proprio il contrario di quanto vuole dimostrare, e cioè che la scienza non ha capito nulla della lezione dei “tre maestri del sospetto”. “La scienza sa benissimo” è proprio il tipo di premessa che rende odioso, a molto umanisti, il discorso scientifico. Sono certo che gli scienziati, nella loro pratica, nutrono moltissimi dubbi e sospetti, però poi, quando parlano con i profani, pensano di dover metter su la maschera di chi, invece, “sa benissimo”. E’ proprio una questione di stile, di gioco linguistico: un filosofo, fin dai tempi di Socrate (scusate il name dropping), sa che la sua disciplina si fonda sul “so di non sapere”; troppi scienziati, invece, sembrano dominati dal bisogno di dimostrare che tutte le loro conclusioni stanno sullo stesso piano di un 2+2=4.
Ciao, la discussione era così interessante che non sono riuscito a trattenermi dall’intervenire, per quanto a metà di un discorso. Spero che le modeste intenzioni di questa risposta mi impediscano di fare un intervento che disturbi le dinamiche di questo bellissimo dialogo.
Riguardo a “Una frase come ‘la scienza sa benissimo che’, se fosse vera, dimostrerebbe proprio il contrario di quanto vuole dimostrare” e al capoverso seguente, condivido pienamente che l’ammissione socratica del dubbio debba essere tenuta come bussola sempre da ogni scienziato degno di tal nome; e purtroppo questo principio di buon senso è troppo spesso ignorato, come ho avuto modo di esperire indirettamente.
Mi sembra tuttavia altrettanto vero (io penso ad esempio alla Fisica, mio ambito di provenienza) che il modo di procedere del discorso scientifico nel corso della propria storia ed il fraseggio del proprio graduale tentativo di dar spiegazione degli avvenimenti dell’universo abbiano un moto particolare, che forse trova unicamente nello studio della Storia una valida somiglianza all’interno degli ambiti di studio canonicamente umanistici. E’ vero: tutto va messo in discussione, ma nel ragionamento scientifico questo ha un’importantissima eccezione, ovvero che ogni risultato empirico precedente non deve essere mai negato: i principi filosofico-epistemologici che hanno portato ad esso o che da esso sono discesi possono essere cambiati, sì, ma il risultato sperimentale no, mai (a patto che sia esso un dato “assodato” da numerose misurazioni indipendenti e concordi). Esso dev’essere sempre spiegato da qualsiasi futuro modello della realtà.
(A tal proposito è esistito un bellissimo dialogo tra illustri personaggi della storia della Fisica, sull’eventuale vantaggio o handicap dato dal farsi guidare, nella ricerca teorica e sperimentale, da tali principi a priori; famosa è la citazione sbandierata dai newtoniani, “Hypotheses non fingo”, per quanto il loro stesso ispiratore fosse il primo a infrangerla intimamente)
Si possono citare innumerevoli esempi che rendano l’idea del principio appena esposto: la contrapposizione tra la natura corpuscolare e ondulatoria della luce è stato oggetto di un dibattito durissimo, al momento risolto dalla meccanica quantistica relativistica dei campi, ma su cui ancora nessuno si meraviglierebbe di ricevere sorprese; eppure la diffrazione è un dato empirico che qualsiasi teoria fisica concernente il comportamento della luce dovrà includere come conseguenza. In tal senso un aneddoto su Einstein è illuminante: agli albori della teoria della Relatività Generale, prima delle verifiche dagli studi dell’orbita di Mercurio, quando al fisico tedesco venne chiesto se non lo turbasse il fatto che la propria nuova teoria, così sconvolgente per le implicazioni filosofiche, non avesse alcuna evidenza empirica, egli rispose che tale affermazione non era corretta poiché, dal momento che il nuovo modello conteneva come caso particolare la fisica newtoniana “classica”, essa aveva una quantità innumerevole di verifiche sperimentali.
Riassumendo, in tal senso allora sì, la scienza “sa benissimo che”: per quello che le compete, i propri risultati ottenuti non possono essere messi in discussione, o comunque lo possono essere solo in misura di quanto essi siano assodati e di quanto altre esigenze empiriche almeno altrettanto assodate lo richiedano a gran voce; invece, per quanti tra i propri principi e assunzioni abbiano implicazioni filosofiche la Fisica non sa un bel niente, e tutto può e deve mettere in discussione.
La frase in questione però, letta nel contesto di provenienza, mi è parsa non parlare tanto dei contenuti scientifici, quanto piuttosto del metodo e ancora di più della dialettica (parafrasando, “la sua pratica [del name dropping] è a costante rischio di essere inquinata dalla soggettività”). Per quanto io ritenga che ci sia un qual certo parallelismo, estendere al metodo scientifico il discorso che ho fatto per i suoi contenuti mi appare compito spinoso, e in sincerità non penso di essere la persona più adatta a farlo.
Posso avventurarmi però a dire che anche per quanto concerne il metodo, l’eversione della prassi è vitale per il rinnovamento e per la spiegazione dell’ancora inspiegato, e che tuttavia quasi quattro secoli di storia costruttiva nel senso dei contenuti (come da me esposto più sopra) hanno portato ad individuare, ad astrarre, alcuni principi “buoni” e linee guida abbastanza solidi; viene anzi il dubbio se possa esistere una definizione delle Scienze che possa non contenere in modo sostanziale una qualche formulazione di tali principi astratti dall’esperienza! In tal senso la scienza “sa benissimo che” alcuni dei suoi tratti costituivi, riguardanti il modo di costruire teorie, sono precisamente quelli, determinati da tali forme e non da altre.
NOTE TECNICHE:
* il mio discorso è stato fatto pensando la Matematica come soggetto escluso da quelli scientifici
*ai tre maestri del dubbio mi permetterei di aggiungere un quarto, che forse più degli altri ha inferto una ferita sanguinolenta alle fondamenta della Scienza, ovvero il tedesco Godel.
Anche questo genere di stigma nei confronti della citazione – che per gli “umanisti” è prassi comunissima – mi sembra un grosso ostacolo al dialogo tra le “due culture”
Gli scienziati in generale, anche a livello psicologico, aborrono (per quanto umanamente possibile – ci provano, ecco) il ricorso all’auctoritas. Nella scrittura scientifica accademica citi Tizio quando ti serve esattamente il suo risultato e devi far capire a quale testo ti riferisci. Inoltre in molti casi non lo citi neanche per nome, ti limiti a una nota che riporta, in bibliografia, all’articolo di riferimento. Scrivere “Come diceva Tizio, X=Y” suona spesso più come un “Lo diceva Tizio, quindi attento a non essere d’accordo”, mentre un “X=Y (ref.34)” vuole essere più neutro. È, appunto, una prassi linguistica -potremmo fare come gli umanisti e cambierebbe ben poco- solo che ovviamente prassi linguistiche diverse a quelle a cui si è abituati suonano in modo diverso.
e trovo strano che arrivi proprio da uno come @devicerandom che invece quel dialogo vorrebbe favorirlo.
Io voglio favorirlo, ma appartengo comunque più a *una* di queste culture che all’altra. Arriva perchè, appunto, ho convenzioni diverse, e uno che in ogni paper di biologia sull’evoluzione della zucchina decorasse ogni frase con “Secondo Darwin…” o “Come direbbe Ernst Mayr…” suonerebbe bizzarro e paternalistico, anche perchè sarebbero spesso riferimenti estremamente ovvi e condivisi. Non vado assolutamente a citare Watson e Crick ogni volta che parlo della doppia elica del DNA. Ripeto: convenzioni linguistiche diverse, no more no less. Basta capirsi senza saltare sullo spillo.
“La scienza sa benissimo” è proprio il tipo di premessa che rende odioso, a molto umanisti, il discorso scientifico. Sono certo che gli scienziati, nella loro pratica, nutrono moltissimi dubbi e sospetti, però poi, quando parlano con i profani, pensano di dover metter su la maschera di chi, invece, “sa benissimo”.
Eh, la scienza è sì piena di dubbi, ma al suo confine, diciamo. Ci sono altre cose che invece, effettivamente, sappiamo davvero benissimo, e se per te è frustrante questo tipo di consapevolezza solo apparentemente arrogante, è frustrante per noi dover convincere sempre del fatto che sia così. L’acqua è fatta di idrogeno e ossigeno: questo lo sappiamo benissimo, e sarebbe il più ingenuo dei falsificazionismi pensare che domani possa saltare fuori il contrario -anche in questo tipo di visione, qualunque modello successivo deve spiegare i dati del modello precedente, e questi dati ti dicono che ci sono delle “cose” che sono definite idrogeno e ossigeno, e che sono appiccicate assieme in un certo modo molto ben definito e noto in altissimo dettaglio. È una consapevolezza pacifica e fattuale del tipo “la neve è bianca”, non un diktat apodittico e arbitrario. Poi se mi chiedi invece “cosa succede all’acqua in una transizione di fase” ti rispondo che ne abbiamo un’idea, che certe cose le sappiamo e altre no e che chissà.
A “noi” risulta molto difficile capire come mai un tale discorso suoni “odioso”: è odioso dire “so bene che abito a Bologna” (dubbi solipsistici a parte)? C’è un gap forse più psicologico che altro.
Commento veloce:
(i) se dico che uso il modello di proprieta’ del suolo di Brooks&Corey invece che quello di van Genuchten – o se dico che considero un liquido Newtoniano, faccio o non faccio “name-dropping”? Lacaniano VS Newtoniano. In fondo mi sembra che negli articoli si possa scrivere “as noted by Hassan at al. 2014″…
(ii) “So bene che abito a Bologna” non veicola solo le informazioni (a) io abito a Bologna (b) io conosco l’affermazione (a). La lettura della frase cambia dipendendo da chi la dice, come, in che contesto e da chi l’ascolta.
E questo vale anche per le scienze, senno’ perche’ sarebbe tanto difficile (dal punto di vista linguistico) far collaborare ingegneri, fisici, biologi, geologi? Pensa alla differenza tra la maniera di concepire un grafico tra un ingegnere ed un fisico…
Secondo me la differenza è se citi un modello/oggetto specifico (e.g. il fluido newtoniano) o un sistema ben preciso non ovvio (e.g. “qui uso il modello di Ciccio&Pasticcio et al.2007”) rispetto a qualcosa di ovvio e condiviso (immagina un paper in cui scrivi cose del tipo “La proteina c-Myc si lega, secondo leggi termodinamiche descritte da Boltzmann e Gibbs, al major groove della doppia elica del DNA, per la cui scoperta dobbiamo tutto a Watson e Crick”). Nei primi due casi stai chiarendo di che parli, nel secondo sei bizzarramente paternalistico. Per me, nella frase del commento, bastava dire “oggi sappiamo che c’è l’inconscio” senza necessariamente la purple prose che invoca esplicitamente “maestri del sospetto”,eccetera. Ma ripeto, convenzioni, ci siamo chiariti: pace.
Eppero’ non parlava solo di inconscio, bensi’ di leggi economiche e volonta’ di potenza. Da un punto di vista scientifico, avrebbe dovuto scrivere “La teoria del positivismo era che la scienza potesse emanciparsi dalle sue radici filosofiche e letterarie. Questo e’ risultato impossibile a causa dell’influenza che gli interessi economici (Marx), la volontà di potenza (Nietzsche) e l’inconscio (Freud) hanno sull’oggettività scientifica.”
Ovvio che da un punto di vista “scientifico” la costruzione del discorso “umanistica” sia “ampollosa”, mentre, dal punto di vista di un “umanista” la costruzione della frase “scientifica” sia “sterile”. Entrambe vanno lette prendendole dal loro contesto, ed interpretate. Come fare traduzioni da una lingua all’altra: un petit-dejeuner non e’ un piccolo digiuno – o forse si? E’ una colazione o un pranzo? Dipende in che epoca e’ stato detto!
Ottima disamina, grazie – mi è molto più chiaro. Direi però allora, entrando nel discorso, che non è l’oggettività dei risultati ultimi della scienza quanto viene influenzato, quanto la sua pratica quotidiana.
Gotcha! (notare il pun) – Nel senso che abbiamo (1) trovato un punto di contatto, (2) determinato che il problema non risiede -solo- nei risultati ultimi bensi’ in tutto il processo e (3) siamo arrivati all’ultima risposta possibile ad un commento. Colonne cosi strette si vedono sono nell’esposizione dei poster scientifici :D
Pur condividendo la formazione da fisico, non condivido questo rifiuto in assoluto delle citazioni in ambito scientifico. Bada bene, non sto affermando che quella “per auctoritas” sia una tecnica di argomentazione in alcun modo probante, semplicemente sto dicendo che si può capire dal contesto quali parti siano argomentative, quali invece contengano un amichevole tentativo di dare spunti di approfondimento, provenienti dalle proprie letture.
Inoltre negare qualsiasi ruolo per le citazioni nel mondo scientifico mi sembra non corretto: ho letto numerosi libri di testo iniziare ciascuno dei propri capitoli con citazioni da corrispondenze tra persone di spicco della fisica del ‘900. Inoltre molti di costoro non hanno nascosto di aver letto le opere originali, a volte illegibili per occhi abituati al formalismo odierno, dei padri della Fisica (basti pensare a Feynman che aveva letto gli incomprensibilmente geometrici Principia di Newton).
Certo, la Fisica “didattica” – e lo stesso penso valga per tutte le altre scienze – hanno una forte tendenza ad essere non storiche; infatti il corso che prende la spiegazione è cronologico solo per macroaree e incidentalmente: l’ordine è quello della complessità crescente, ed è studiato per essere il più veloce possibile per arrivare alla teoria affermata nell’ambito in questione. In questo senso le contraddizioni che portarono a tali teorie sono dimenticate dai libri di testo (ad esempio, la meccanica delle matrici e quella ondulatoria sono due teorie che nessuno studia più oggigiorni nei corsi universitari, benché tutti imparino a memoria che il formalismo di Dirac faccia da ponte tra la descrizione della meccanica quantistica di Heisenberg e quella di Schrödinger). Lo stesso vale per le pubblicazioni: nello spazio limitato di un articolo l’obiettivo è massimizzare l’efficienza della spiegazione, quindi si tende a tagliare corto e mostrare quanto strettamente necessario per replicare e esperimenti e modelli fisico-matematici, o per comprendere i risultati.
Il motivo addotto per la lettura dei testi classici della fisica da parte di quegli illustri personaggi era però – opinione che condividevo e condivido con il mio professore di Storia della Fisica in università – non di migliorare nello spiegare quanto già si sa, ma di imparare come a volte nello sviluppo autonomo di teorie nuove siano necessarie quelle che a posteriori risultano contraddizioni storiche… per ampliare la mente, insomma! Pensiero obliquo et similia.
Infine devo dire, ma spero tu non ti offenda, che mi fa un po’ sorridere questo rifiuto per le citazioni in un un ambito così pieno di concetti e grandezze battezzati con nomi illustri: l’equazione di Einstein, le trasformazioni di Lorenz, il tensore di Faraday … Se usare queste quantità significa in qualsiasi modo rifarsi al lavoro di questi scienziati, moltissime frasi in ambito fisico non sono meno piene di riferimenti che una critica letteraria comparativa media. =)
Nessun rifiuto assoluto. Ho spiegato cosa intendevo, è l’uso della citazione. Anche io amo usare quotes, anche se di norma un po’ oltre il campo scientifico; nella mia prima tesi di dottorato c’erano citazioni di CCCP, Sonic Youth, Mark Twain… :)
Pensa alla differenza tra la maniera di concepire un grafico tra un ingegnere ed un fisico…
Non la conosco. Mi illumini? :)
In genere, i fisici sono interessati al processo in se’: nel grafico vogliono vedere una bella relazione, una curva che spiega un concetto anche “astratto”. Gli ingegneri sono molto piu’ result-oriented: vogliono numeri! Se due linee si incontrano, il fisico ti chiede subito “perche’?”, l’ingegnere “dove?”. Ovvio queste sono generalizzazioni, e come tali vanno prese – eppure mi sono trovato spessissimo in situazioni simili…
Ah ma non è il modo in cui lo concepiscono, allora, è quello che vogliono tirarne fuori.
(di nuovo l’antispam di Giap pare aborrire le frasi corte. Perchè?)
Non è l’antispam, è un plugin di WordPress che si chiama “Minimum Comment Length”, grazie al quale evitiamo commenti apodittici, svogliati ed emoticontenti di se stessi :-)
Come si inizia un articolo scientifico? Dalla research question. Quello che vuoi tirare fuori da qualcosa e’ parte di come lo concepisci. Tu capisci uno studio – in pratica lo fai nascere nella tua testa, lo “concepisci” -, trovi qualche gap bello succoso, e da li si arriva alla research question. In teoria – la pratica e’ molto piu’ casinara, specialmente in scienze come la geologia…
mi permetto di aggiungere solo una cosa su questo tema del “name droppig” che sento molto.
Io ho una formazione filosofica e mi interesso di scienza e di letteratura, senza vedere nessuna contraddizione in questo.
anche a me, come a @WuMing2, colpisce che @devicerandom che dice di voler colmare il divario tra le culture stigmatizzi le citazioni umanistiche. E mi colpisce principalmente perchè la citazione è parte fondante del mio (in quanto “filosofa”) “metodo scientifico”. E lo è non soltanto per un’esigenza di storicizzazione, ma anche per poter osservare i problemi che ci si trova di fronte con occhi diversi (di volta in volta quelli di Freud, di Marx o di Donna Haraway), con la consapevolezza che narrazioni diverse incidono e influiscono sulla costruzione della realtà.
Penso che un buon modo per iniziare un dialogo proficuo sarebbe quello di tenere presente che esistono metodi e modalità di studio diverse.
Eh, vedi, a me invece colpisce molto, da fuori, che queste siano parte del “metodo” di certe scuole filosofiche. È un discorso un po’ difficile da mettere a fuoco: Ovviamente citi autori nel momento in cui stai parlando di un loro risultato, e li discuti pure, fin lì ok. Ma a volte, al mio occhio bruto, sembra che molti testi siano tutto un puro gioco di citazioni e di “Tizio, analizzando cosa diceva Caio a proposito di Sempronio, ci ricorda Gaio quando interpreta Cassio”.
Questo può sembrare insultante o dismissive, ma è una descrizione di una impressione superficiale, non sto dicendo che sia giusto o sbagliato. Semplicemente, mi è estraneo, e come dicevo sopra gli attribuisco un senso istintivo che probabilmente non ha. Potrei dire che, dal lato opposto, nella ricerca scientifica attuale si perde il senso della storia: quasi mai in un articolo scientifico peer reviewed si parla della storia e delle personalità che hanno tessuto un filone di ricerca, si presenta il tutto come una serie di nozioni acquisite in modo neutro. A me invece, anche solo per amor di contesto, piacerebbe saperlo. Ma non usa. Convenzioni, convenzioni, stupide convenzioni.
MI permetto di aggiungere la mia esperienza (laurea in fisica, prestato all’aeronautica, sono uno di quelli che prende gli articoli pubblicati e cerca di trarne qualcosa di utile): il problema epistemologico non è affatto sentito dai ricercatori (queli che conosco io, almeno).
Si fa ricerca, si hanno risultati, si pubblica. E chi usa quei risultati non si occupa di filosofia, ma di significatività (e utilità, ovviamente). Popper è un problema per chi fa divulgazione, o chi fa “attivismo” (definite il termine a piacere). E di chi vende le cose che faccio io :).
Che sia questa l’origine delle due culture? Non umanistica contro scientifica, ma operativa contro speculativa?
Apprezzo la tua lettura che entra nel merito del post e mi consente di segnalare alcuni snodi importanti. Per me il cuore si annida nella seconda parte, dove segnalo alcune soluzioni al problema cruciale “come possono convivere in un testo il rigore scientifico/argomentativo e l’espressione di una posizione ideologica?”
Mi sarei volentieri risparmiato la prima parte se non avessi intuito, dalla discussione su Facebook ampiamente citata, che in alcuni ambienti non è affatto ovvia la risposta alla domanda implicita: “possono convivere in un testo il rigore scientifico/argomentativo e l’espressione di una posizione ideologica?”
Non ho scelto io il caso Schmeiser: Dario Bressanini mi ha segnalato il suo articolo e io l’ho letto con interesse perché era un buon punto di partenza; esso infatti è un esempio in atto di convivenza tra il rigore scientifico/argomentativo e la presenza di una posizione ideologica (la discussione verterà poi sul fatto che sia implicita o esplicita.)
Provo a sviluppare il punto in forma di videogioco a livelli, uno sopra l’altro come in Donkey Kong.
Level I
Greenpeace spaccia bubbole pseudoscientifiche approfittando della simpatia generata dal contadino e lodevolmente il post su L’Espresso fa debunking, offrendo al lettore gli strumenti per accorgersi della strumentalizzazione del caso. Bressanini ci porta dietro la vicenda, svelando le manipolazioni dei dati scientifici operate da Greenpeace. Come quando Houdini accendeva le luci per “sgamare” le macchinazioni dei falsi medium.
Level II
Nel mio post faccio un lavoro simile: suggerendo di distinguere tra diversi tipi di “bugie” (Schmeiser le usa consapevolmente come linea di difesa in tribunale, mentre dopo si accoderà alle bugie pseudoscientifiche di Greenpeace) faccio esplicitamente debunking dell’articolo di Bressanini. La scelta di confonderle svela qualcosa di importante: la concezione legalitaria alla base del pezzo, un punto di vista che tra l’altro Bressanini rivendica. Quanti lettori, prima di questo dibattito, erano consapevoli dell’esistenza di presupposti ideologici – impliciti o espliciti – in ogni testo divulgativo?
Interludio
Nel 1999 nasce il Cicacicap, una meta associazione il cui acronimo sta per “Comitato italiano per il controllo delle affermazioni del Cicap.” Avrà vita breve, è poco più di una goliardata nata tra sostenitori del paranormale, ma introduce il classico (e importante) tema “Chi controlla il controllore?” All’epoca ventilammo l’idea borgesiana di fondare il Cicacicacicap, su cui avrebbe vegliato il Cicacicacicacicap e così via.
Cito l’idea di una torre del genere perché sopra il “Level II” posso ipotizzare un articolo di debunking del mio post. Salendo quindi al…
Level III
Come quella di Bressanini, anche la mia analisi si basa su presupposti ideologici. Si può farne debunking individuando le strategie testuali che svelano il *mio* punto di vista. Quando uso l’immagine dell’adolescente inseguito dalla casa discografica per aver condiviso una traccia musicale su Torrent sto sfruttando un artificio retorico per far indignare il lettore: il parallelo Monsanto/casa discografica e contadino/adolescente rivela la parte verso la quale solidarizzo maggiormente. Facendo auto-debunking sono come un illusionista che svela i suoi trucchi. Quali sono dunque il senso e il valore di questo terzo livello?
Innanzitutto ritengo che un bravo divulgatore non solo debba usare queste strategie discorsive in modo consapevole, ma debba essere disposto a compiere un passo in più, svelandone apertamente l’uso al suo lettore.
Da anni la comunità degli illusionisti mi guarda con sospetto perché ritengo – con altri colleghi – che l’Illusionismo 2.0 debba considerare la possibilità di condividere con il pubblico ciò che avviene dietro le quinte. Nell’ambito della divulgazione, aprire l’officina e consentire uno sguardo alle tecniche che usiamo per raccontare la scienza mi pare indispensabile (AsinoMorto usa l’azzeccatissimo termine di debugging. Wu Ming 1 ha spesso usato l’espressione “mostrare la sutura.”)
Fare auto-debunking è prezioso ma sarei ingenuo a pensare di aver risolto il problema della torre: collocandosi al “livello IV” il tuo post e la discussione su Giap cercano di individuare – nelle mie linee di analisi – le strategie che ho usato in modo non consapevole e le mie debolezze argomentative; si tratta di un atteggiamento costruttivo molto diverso dal fulmine lanciato sulla torre nel sedicesimo Arcano Maggiore dei Tarocchi.
Rispondo giusto a questo:
La scelta di confonderle svela qualcosa di importante: la concezione legalitaria alla base del pezzo
Ma non sono confuse, secondo me. In quel pezzo ci sono i dati E ci sono affermazioni colorate politico/sociale, ma sono separate. Puoi leggere gli uni e rigettare i secondi. È peraltro esattamente quello che avochi tu nella seconda parte del post, una narrazione che includa dati oggettivi E un commento di tipo personale. Solo che nel caso di Bressanini è un commento personale che non ti/ci piace.
Una puntigliosità sulla parte iniziale del post: il gedankenexperiment posto da Ferrero non e’ poi così tanto “toy world”.
Cito “Instead of being tried for war crimes, the researchers involved in Unit 731 were given immunity by the U.S. in exchange for their data on human experimentation.”
A proposito della sperimentazione fatta dai Giapponesi nella WWII.
Che ricordare solo i Demoni Nazisti fa comodo, sono stati additati e condannati. Ma la guerra fredda aveva un certo effetto sul “giudizio etico” – così come altre questioni politiche d’oggidì.
Good point, e d’accordissimo sul discorso storico sulla guerra fredda e i Demoni Nazisti come unici “cattivi” di comodo nella storia. Però in entrambi i casi parliamo di esperimenti passati, non presenti, non è una situazione in corso. Grazie comunque di averlo ricordato.
Trovo, tra l’altro, molto interessante il paper citato nel post (Kaplan et al. 2015): nel mondo scientifico ci si mette in discussione, anche su (cito dal paper) “the importance of properly focusing on the questions asked, rather than more narrowly on the data gathered”. Poi non so quanti biologi leggano “Studies in History and Philosophy of Biological and
Biomedical Sciences”.
@devicerandom
Vorrei approfittare dello spazio che abbiamo qui per rispondere al tuo post http://blog.devicerandom.org/2015/09/09/problemi-indivisibili/?lang=it
Premetto che apprezzo l’impostazione che gli hai dato, lo sforzo di chiarezza e che condivido alcune opinioni, perciò un po’ mi spiace evidenziare i punti di disaccordo ma che dire: sul resto concordo :) (anche perché in larga parte del tuo intervento riconosci le ragioni di Mariano di cui ho già dichiarato l’apprezzamento).
Prima di andare punto per punto però vorrei fare qualche considerazione di ordine generale. Mi pare interessante il tuo spunto conclusivo su quelle che hai chiamato le “culture” degli interlocutori: “[Formazione scientifica e umanistica sono] due parti che non si parlano -ed è inevitabile, non sono in grado di parlarsi. Lingue diverse, logiche diverse“. Io penso che la cultura sia una sola e che non solo sia possibile ma ci si debba parlare. Probabilmente dobbiamo imparare a farlo meglio per evitare di scontrarci anche quando non ce n’è bisogno. Provenendo da una formazione analoga alla tua forse capisco da dove viene il pregiudizio… negli anni 80 chi era di provenienza umanista spesso guardava come “un po’ grezzi” quelli di provenienza scientifica. E quando uno provava a discorrere di concetti fisici dal grande impatto filosofico i primi si nascondevano dietro a un rifiuto ad interessarsi della questione del tipo “Ah ma è troppo tecnico”. La cosa faceva giustamente imbufalire: si provava a far notare cose come “guarda che non avere una pallida idea di cosa sia il secondo principio della termodinamica è di un’ignoranza tale per l’importanza culturale che ha che sarebbe come se uno non avesse mai sentito nominare Shakespeare”. Siccome poi chi si occupa di scienze nel tempo libero qualche lettura la fa, mentre la sensazione era che fosse più raro per un umanista leggere di scienze (tantomeno le fonti), per reazione al sentirsi “ghettizzati” pian piano quelli di formazione scientifica hanno iniziato a sentirsi superiori… e oggi siamo arrivati al punto opposto, mi pare. Capisco che l’analfabetismo scientifico sia ancora dilagante soprattutto in Italia ma mi pare che molti di quelli che chiami “tifosi” della parte scientifica abbiano ormai raggiunto un livello di arroganza notevole -e ovviamente ingiustificato.
Tu stesso noti “una ossessiva giustificazione di banali pregiudizi viene spacciata per oggettività.
(…) Questo è un problema, ma non è un problema della logica della scienza o della sua narrazione, bensì un suo fallimento
(…) è semplicemente l’effetto dell’avere una formazione scientifica e quindi dell’aver imparato a scindere i problemi nelle componenti”
Francamente non posso credere che l’arroganza ingiustificata possa essere una conseguenza inevitabile di una formazione scientifica. E siccome penso si debba fare autocritica e mi sento chiaramente meno umanista che scientifico vorrei capire quali meccanismi mentali trasformano in fanatici delle persone razionali e agire su essi.
Poi credo si possa agire da “entrambe (2 e solo 2?) le parti”: non penso sia un problema culturale ma linguistico. Il mio professore di fisica al liceo usava questa metafora “cane e gatto non si capiscono perché uno scuote la coda quando è felice l’altro quando è nervoso”. (Esempio che tra l’altro fa capire come la descrizione dei fatti sia scivolosa). Ma essendo noi un minimo più evoluti possiamo fare uno sforzo per superare la “barriera linguistica” e io lo auspico.
Sul resto del tuo pezzo:
“Tomatis semplicemente lamenta che Bressanini ha parlato di questo caso (non scientifico) mostrando il suo punto di vista”
Temo tu abbia completamente frainteso. Il problema non è avere una posizione. Il problema è non dichiararla e far credere che abbia lo stesso livello di oggettività.
Mariano propone di strappare il velo ed è molto interessante il fatto che questo rispecchi le sue idee sull’illusionismo: come svelare i trucchi non toglie nulla alla magia, svelare il proprio bias non diminuisce la denuncia delle inesattezze.
Divagazione: due spunti sull’illusionismo. Primo: al cicap hanno *dovuto* partecipare prestigiatori perché gli scienziati non riuscivano a sgamare i trucchi: altro che confutare i filosofi o più semplicemente i complottisti, dovremmo prendere atto che siamo i primi creduloni. Secondo: alcuni trucchi hanno un’estetica matematica a mio avviso. Esempio la donna che levita nel vuoto, come si fa a farle passare attorno il cerchio a mostrare che non esiste un sostegno, se il sostegno ovviamente c’è? Beh usando concetti di topologia!
“Chiedendo al divulgatore scientifico di schierarsi gli si chiede fondamentalmente di uscire dal merito delle sue competenze
(…) [A proposito di bias] chiedere a chi scrive di esplicitarli/evitarli in toto è piuttosto utopistico: non puoi toglierti qualcosa che magari non sai nemmeno di avere”
Il punto non è essere perfetti né *chiedere* di uscire dalle competenze. Il punto è essere consapevoli che i bias ci sono e che volenti o nolenti si va “oltre” i fatti e quindi ammetterlo. Tra l’altro lo stesso Bressanini lo fa quando dice “io *parto* dai fatti”. Grazie, lo facciamo tutti. Ma che sia chiaro che poi stai difendendo una tesi soggettiva. Esempio che sei giustizialista. Perché io quella tesi magari la voglio combattere perché ne riconosco la “legittimità intellettuale” ma chiaramente non una inesistente “inevitabilità logica”. E tu stai barando se tenti di far passare l’idea immotivata che io che ti sto contestando non accetto la realtà dei “fatti”. Stai usando un artificio retorico per sminuire la mia posizione in modo ingiusto.
“chi lavora contro la realtà ha oggettivamente torto, per banale definizione di “torto”, e quindi chi lavora contro la realtà cerca di creare un potere dove non ha diritto a nessuno”
Appunto. Chi confonde il piano di ciò che è assodato con l’opinabile è nemico della verità.
“[sulla scomposizione di un problema in pezzi elementari… non voglio dire sul riduzionismo]
È ovviamente una approssimazione: [… nel caso] peggiore le conclusioni mutano quando inizi a montare i pezzi tra loro”
E questo è precisamente il motivo per cui in argomenti complessi limitarsi all’analisi del singolo elemento è fuorviante. La meccanica statistica ci dice che caratteristiche di un gas come la pressione sono riconducibili ai movimenti delle singole molecole: ma se devi parlare di un fenomeno collettivo e anziché parlare di temperatura vai a guardare il moto di una singola molecola stai sbagliando approccio. Mi sembra che sia precisamente quello che fa un debunker scorretto in certi casi: contesta una singola specifica affermazione e vorrebbe dedurne l’inattendibilità “politica” di un “movimento/attivismo”
Perdonate le pedanteria e la lunghezza ma mi sembrava un dovuto riconoscimento all’intervento dettagliato di @devicerandom
“Primo: al cicap hanno *dovuto* partecipare prestigiatori perché gli scienziati non riuscivano a sgamare i trucchi.”
Il che è comprensibilissimo. I trucchi sono resi possibili da un framing che agli scienziati (almeno a quelli delle scienze “dure”) sfuggiva totalmente. Loro erano concentrati sulla cornice narrativa dell’esperimento in determinate condizioni, mentre lo psychic della situazione, agendo su un altro livello e con un altro linguaggio, ne aveva imposte altre. Ci vuole un gatto per capire il segnale mandato da un gatto che muove la coda. Ci vuole un mago per capire che una certa frase o un certo gesto di uno psychic è “misdirection”. Ci vuole un narratore per capire che Bressanini sta narrando. Ci vuole un attivista per capire che un debunker sta facendo attivismo.
Io penso che la cultura sia una sola e che non solo sia possibile ma ci si debba parlare. Probabilmente dobbiamo imparare a farlo meglio per evitare di scontrarci anche quando non ce n’è bisogno.
Ehm, è esattamente il mio punto. Il problema è che abbiamo sganciato talmente tanto i due ambiti che ormai parlano due lingue diverse. Guarda solo la diatriba sulla questione formale di come citare qualcuno, qua nei commenti su Giap. Dovremmo parlarci, ma abbiamo perso i fondamenti per farlo.
Capisco che l’analfabetismo scientifico sia ancora dilagante soprattutto in Italia ma mi pare che molti di quelli che chiami “tifosi” della parte scientifica abbiano ormai raggiunto un livello di arroganza notevole -e ovviamente ingiustificato.
E idem, questo è esattamente quello che intendevo dire. Chiedo venia se non era chiaro.
Francamente non posso credere che l’arroganza ingiustificata possa essere una conseguenza inevitabile di una formazione scientifica.
Infatti non lo è, non ho mai detto questo. Quello che ho scritto è che Tomatis confonde il tentativo di separare le componenti di un problema per “demonizzazione dell’attivismo”. Quello che succede però (vedi paragrafo successivo del post) è (autocito): “In questo tipo di forma mentis, è però facile scivolare poi nel rifiutare l’esistenza di certi problemi, o ritenerli intrinsecamente (e non temporaneamente) secondari. A forza di focalizzare un aspetto del problema, finiamo per non analizzarne altri”
Ma essendo noi un minimo più evoluti possiamo fare uno sforzo per superare la “barriera linguistica” e io lo auspico.
Io credo che sarebbe bene avere un linguaggio almeno parzialmente comune. O perlomeno una stele di Rosetta, dai.
Temo tu abbia completamente frainteso. Il problema non è avere una posizione. Il problema è non dichiararla e far credere che abbia lo stesso livello di oggettività.
Ma la posizione di Bressanini è assolutamente dichiarata, è ovvia nei suoi commenti. In secondo luogo, i bias più perniciosi sono quelli che non sai di avere o che addirittura in un dato contesto non sono neppure percepiti come bias perchè (nel tuo ambiente) universalmente condivisi: sono convinto che Bressanini per esempio non considerasse l’avere una opinione mainstream sui brevetti un bias, così come di norma non considero avere una opinione mainstream dell’inferenza causa-effetto un “bias”.
Riformulo: Se sei cresciuto in un mondo/ambiente dove copyright e brevetti sono considerati un fatto ovvio e inevitabile, non consideri il tuo essere a favore dei brevetti un “bias”. Inizi a considerarlo tale quando entri in contatto con un movimento d’opinione opposto.
Il punto è essere consapevoli che i bias ci sono
e ok…
e che volenti o nolenti si va “oltre” i fatti e quindi ammetterlo.
…not ok.
Di nuovo, nel debunking di Bressanini nessuno ha messo in discussione la sua ricostruzione dei fatti. Tutto quello di cui si sta parlando è come li commenta. Le due cose nel suo articolo sono ben separate e separabili. Ora, se a me interessano i fatti, non vedo perchè debba preoccuparmi di come Bressanini li commenta. Il guaio semmai accade quando presenti i dati in modo parziale o fuori contesto o con un contesto parziale etc.
Grazie, lo facciamo tutti.
Ottimista. :)
Ma che sia chiaro che poi stai difendendo una tesi soggettiva. Esempio che sei giustizialista.
No. Bressanini stava demolendo la ricostruzione mediatica del caso-Schmeiser confrontandola con i fatti. Il suo “giustizialismo” interviene solo nel modo in cui li commenta.
E tu stai barando se tenti di far passare l’idea immotivata che io che ti sto contestando non accetto la realtà dei “fatti”. Stai usando un artificio retorico per sminuire la mia posizione in modo ingiusto.
Dipende: se contesti i fatti o se contesti il loro commento.
Appunto. Chi confonde il piano di ciò che è assodato con l’opinabile è nemico della verità.
Che è quello che stiamo tutti cercando di dire.
E questo è precisamente il motivo per cui in argomenti complessi limitarsi all’analisi del singolo elemento è fuorviante.
La scomposizione di un problema in sottoproblemi è fondamento di ogni programma di ricerca degno di questo nome. Non per arbitrarie assunzioni filosofiche, ma perchè semplicemente non siamo in grado di affrontare problemi complessi diversamente. Siamo tutti consapevoli che stiamo approssimando il discorso, ma non si da alternativa. La soluzione all’approssimazione l’hai quando poi, esaurito il sottoproblema, lo monti assieme agli altri sottoproblemi.
La meccanica statistica ci dice che caratteristiche di un gas come la pressione sono riconducibili ai movimenti delle singole molecole: ma se devi parlare di un fenomeno collettivo e anziché parlare di temperatura vai a guardare il moto di una singola molecola stai sbagliando approccio.
Certo, ma la meccanica statistica non ha senso se non sai già come si comportano le singole molecole. Stai dimostrando il mio punto :)
Mi sembra che sia precisamente quello che fa un debunker scorretto in certi casi: contesta una singola specifica affermazione e vorrebbe dedurne l’inattendibilità “politica” di un “movimento/attivismo”
Questo è un discorso ancora diverso. C’è un problema garbage in,garbage out in certi movimenti. Se un movimento fonda sistematicamente (importante questo “sistematicamente”: il singolo errore in buona fede è altra cosa) la sua causa su ricostruzioni parziali o affermazioni palesemente false, è un movimento scarsamente credibile. Di più: è un movimento che lotta contro la realtà, e come tale rischia di portarti alla catastrofe.
Non mi stanno più arrivando in mail le notifiche degli update :(
Brevemente: il tuo discorso sul copyright mi pare dimostri il mio punto: se non sei consapevole dei tuoi bias e non prendi in considerazione che ce ne possano essere, e prosegui con dei toni da “è oggettivo che” stai sbagliando qualcosa.
Sulla scomposizione proprio non concordo: non è vero, puoi studiare il comportamento macroscopico senza sapere niente del comportamento microscopico. E in certi casi devi perché si usano proprio strumenti diversi. E se ti ostini a guardare il dettaglio e perdi di vista il generale… Di nuovo stai sbagliando.
Forse è perché stamane abbiamo aggiornato WordPress? Il plugin potrebbe non funzionare con la nuova versione. Verifichiamo.
il tuo discorso sul copyright mi pare dimostri il mio punto: se non sei consapevole dei tuoi bias e non prendi in considerazione che ce ne possano essere, e prosegui con dei toni da “è oggettivo che” stai sbagliando qualcosa.
Se non percepisco i miei bias, o non li vedo come come tali, come posso pensare qualcosa di diverso dal fatto di essere oggettivo? È una contraddizione.
puoi studiare il comportamento macroscopico senza sapere niente del comportamento microscopico.
E arrivi fino a un certo punto.
E studiando solo quello microscopico arrivi fino a un certo punto, pure.
La descrizione completa ce l’hai studiando entrambi, ma li si studia di norma separatemente, e poi si mettono insieme i pezzi. Esempio: in biologia molecolare prima identifichi i geni che possono essere coinvolti in un meccanismo; poi li isoli; poi vedi con che partner interagiscono, poi vedi a loro volta questi partner cosa fanno, e alla fine ricostruisci il reticolo delle interazioni, e poi inserisci questo reticolo nel sistema etc. (magari non proprio con questo ordine rigoroso, ma famo a capisse).
non solo non riesco a gestire le mie subscription dal cell, ma mi sta pure abbandonando la connettività :S
@devicerandom:
“Se non percepisco i miei bias (…) come posso pensare qualcosa di diverso dal fatto di essere oggettivo?”
semplice: fai professione di modestia, dici che sei assolutamente convinto di quello che pensi ma sai di essere soggetto a errori ;) e comunque una volta che te li fanno notare ne prendi atto ;)
Sul micro e macro, continuo a non concordare. Sarà la formazione diversa ma l’esempio del gas mi pareva chiaro. Il moto della singola molecola è assolutamente irrilevante per le proprietà dell’ensemble. Tant’è che le leggi termodinamiche sono state trovate prima di capire che potevano derivare dall’azione congiunta di molti corpi. Se quello che ti interessa studiare è il comportamento macro, le proprietà singole non ti interessano, ti interessano degli aggregati (magari statistici) comunque il senso è che il tuo sguardo si volge “altrove” e usi strumenti analitici “diversi”. Anche restando al tuo esempio, per quanto in utopia potremmo dire che la biologia derivi logicamente dalla chimica e questa dalla fisica, sarai d’accordo che studiando i geni non fai riferimento alle interazioni elettromagnetiche che danno struttura alle molecole. Come hanno detto altri prima e meglio, hai imposto a monte un quadro concettuale all’interno del quale ragioni con “metodi” caratteristici.
La mia critica alla divulgazione falsamente oggettiva su questo punto voleva quindi essere: se io contesto il tuo impianto iniziale d’insieme, che un singolo “fatto” sia “come tu lo dici” non “ti da ragione” sul tutto. Piuttosto banale, di nuovo, ma spero di aver chiarito.
Aggiornato e riattivato il plugin, i commenti via email dovrebbero funzionare, adesso.
fai professione di modestia, dici che sei assolutamente convinto di quello che pensi ma sai di essere soggetto a errori ;) e comunque una volta che te li fanno notare ne prendi atto ;)
Ma questa è implicita, cielo, nessuno pensa di avere la verità rivelata. Se un debunking è soggetto a errori però lo devi dimostrare. Ora, qui nessuno, di nuovo, nessuno ha dimostrato che il debunking di Bressanini sia errato. L’unica cosa che gli si contesta è che lo abbia commentato dal punto di vista di una sua cornice culturale: al che ti dirò, mi viene da dire un cortese “esticazzi”, visto che all’interno di quale cornice culturale avrebbe dovuto commentarlo?
Quando Bressanini dichiara che il suo debunking è oggettivo, ha assolutamente ragione: il debunking lo è. Il modo in cui poi apostrofa Schmeiser magari è discutibile, ma il debunking è oggettivo e tale resta.
Sarà la formazione diversa ma l’esempio del gas mi pareva chiaro. Il moto della singola molecola è assolutamente irrilevante per le proprietà dell’ensemble.
L’ensemble esiste come insieme di singole molecole. Certo, ciascuna molecola conta poco, ma di nuovo: se non conosci le equazioni del moto, la meccanica statistica non la fai.
Tant’è che le leggi termodinamiche sono state trovate prima di capire che potevano derivare dall’azione congiunta di molti corpi.
Ma la termodinamica classica non è la meccanica statistica – mi dà delle proprietà generali ma non mi dice cosa succede all’interno del gas. Per esempio, le deviazioni dall’equazione dei gas non le spieghi se non inizi a introdurre modelli di interazione intermolecolari -e lì le proprietà delle singole molecole ti interessano.
In secondo luogo l’esempio dei gas è poco rilevante: stai parlando della somma di elementi tutti uguali (le singole particelle). Io sto parlando di un problema, non di un gas. Per fare un’analogia solo leggermente migliore (ma comunque poco istruttiva), non studio un gas ma una cellula. E, sì, posso studiare il comportamento macroscopico della cellula, trovare delle regole eccetera, ma non capirò come agire su di essa senza una comprensione dei meccanismi interni.
sarai d’accordo che studiando i geni non fai riferimento alle interazioni elettromagnetiche che danno struttura alle molecole
Oh cielo, non sono per niente d’accordo: hai appena descritto il mio lavoro!
Poi chiudo perché ci sono in corso altri spunti ben più interessanti. Quello che intendevo dire l’ha espresso con parole migliori delle mie bruche qui sotto: C’e’ poi il concetto di properties emergence, secondo il quale quando molte “entita’” si relazionano tra loro, emergono nuove entita’, proprieta’, regolarita’ o patterns.
Tra l’altro questo di connette ai big data e ai sistemi complessi in maniera interessante.
Attenzione: non metto in discussione che @devicerandom conosca tutto questo! Anzi sono convinto che lo sappia ca va sans dire che se per caso quello che ti interessa sono proprio le proprietà emergenti, di studiare gli elementi -che singolarmente quelle proprietà non l’hanno- ci fai poco (ci fai altro)
Altra puntigliosita’ a proposito della “scomposizione in pezzi elementari”:
1) Il fatto che si divida un problema in parti semplici da “attaccare” e’ una cosa che si fa credo in tutti i campi, nella cucina, nella scienza, nella scrittura dei romanzi (magari non in tutte le tecniche, non sono uno scrittore ma ricordo un corso base) o di programmi.
Ma si riconosce anche che la definizione di “parte semplice” puo’ essere sbagliata.
Il fatto che una proprieta’ A sia responsabile per un processo X non vuol dire che A sia in realta’ un costrutto, e che, per esempio, A sia in realta’ formato da A1, A2 e A3 (ma ancora non lo sappiamo) e solo A1 sia importante.
2) D’altro canto, puo’ essere che X sia “principalmente” dipendente da A, ma in condizioni non affrontate dallo studio, sia invece B la proprieta’ piu’ importante. A questo punto, qual’e’ la relazione tra A e B nel processo X?
Per questo si fanno esperimenti multifattoriali (che pero’ non risolvono ne’ il punto (1) qui sopra, ne’ il problema dello spazio delle variabili esplorato)
3) C’e’ poi il concetto di properties emergence, secondo il quale quando molte “entita’” si relazionano tra loro, emergono nuove entita’, proprieta’, regolarita’ o patterns.
Tra l’altro questo di connette ai big data e ai sistemi complessi in maniera interessante.
Attenzione: non metto in discussione che @devicerandom conosca tutto questo! Anzi sono convinto che lo sappia. Il problema e’ che mi sembra che possa non essere scontato per tutti, almeno dalla lettura del post.
Per questo e’ una puntigliosita’.
(Prego gli admin di giap di controllare perchè temo un altro commento nello spam)
(Li prego molto, maledetto filtro anti-brevità)
Non preoccuparti, non c’è bisogno di farlo notare ogni volta, controlliamo la cartella spam diverse volte al giorno :-)
[…] interessante articolo che ha sollevato un certo fermento nella comunità dei comunicatori della scienza. Personalmente […]
Ecco, appunto, un esempio di quello che intendevo nel mio commento sopra quando dico che ci sono persone “secondo cui debunking = attivismo, con, in questo caso, attivismo = portare la verità, in cui è insita l’idea che, una volta che diverse persone abbiano una conoscenza perfetta dei fatti, faranno tutti le stesse scelte.” Magari nel caso de “il coraggio di essere di parte” uno ha diritto ad avere la sua opinione comunque, ma su altre cose “Si, vuoi dirmi che Schmeiser ti sta simpatico comunque per altre ragioni? Benissimo, parliamone; ma la verità fattuale di cui sopra di per sé va contro di lui, la verità è schierata.”
Perfetto per illustrare @giac l’atteggiamento che volevo attaccare (anche se l’ho fatto in maniera un poco rozza, ahime). Tutto il discorso secondo il quale la scelta stessa dell’argomento su cui fare debunking, delle parole usate e della lettura delle conclusioni si perde in questo frame. Interessante come i due poli attivismo=inventarsi fandonie e attivismo=portare la verità, alla fine dei conti, arrivino alle stesse conclusioni. Probabilmente dovuto ad una confusione nei termini ‘attivismo’ e ‘verità’.
scusate,
avevo scritto un commento lungo (per i miei standard) in risposta a Brucke e giac, e non lo vedo. Cercherò di riscriverlo, ma più tardi. sorry
C’è, tranquilla! :-)
Same problem here. C’è un lag prima che appaiano?
(Ah, peraltro denunzia che il mio commento sarebbe troppo corto, ergo introduco questa disutile parentesi)
(E questo invece è apparso subito. Misteri di WordPress. Mi sapete dire se la risposta a WM sopra è stata postata con successo?)
No, erano finiti nello spam.
«Per inerzia, anche da parte di molti suoi comunicatori, il modo in cui la scienza viene rappresentata è tornato positivista fuori tempo massimo, per così dire, ignorando come ormai da più di un secolo la scienza abbia cambiato paradigma abbandonando l’idea di essere autosufficiente”. Intervista a Mauro Ceruti, docente di filosofia della scienza.
Link qui: http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/SCIENTISMO-.aspx
Minchia, 216 commenti! :-D
Commento 217: l’estrema specializzazione dei campi scientifici fa sì che una scienziata che si occupa di staminali (magari Senatrice a vita) sugli ogm non sia legittimata ad esprimere un parere scientifico (figurarsi un divulgatore anche se laureato in Biologia: Genetista Vegetale come Mieli è uno Storico). Un esperto di Genetica Vegetale sostenne, probabilmente a ragione, in un cortese dialogo con me, l’assenza di pericoli per la salute. Quando gli feci presente il problema dei brevetti, dei monopoli ecc. mi ha rispose: “ma questo non è il mio campo”. La mia risposta retoricamente banale e non scientifica fu: “probabilmente la Storia non era il campo degli esperti militari che pianificarono l’invasione dell’Iraq”.
Ah, e sempre a proposito di neutralità e affini, non dimentichiamoci il grande tormentone dell’ estate: …. l’ ANALFABETISMO FUNZIONALE!
pare che la maggior parte degli italiani ne soffra, il che significa che molti non sono in grado di *interpretare le cose che succedono* o dare una spiegazione blanda ai fenomeni sociali..
chi sia a stabilire la giusta interpretazione alfabetizzata funzionalmente della realtà non è dato da sapere: il MIUR? Gli economisti della Bocconi? O forse quei fascisti dell’ ANVUR?
Sono rimasto un po’ in dietro con i commenti: “Voi siete in tanti a scrivere ma io sono uno a leggere” (Troisi). Alcune considerazioni sparse, cercando di rivolgermi ai vari interventi direttamente.
1) “positivista”, “razionale”, “scientista”: io rivendico la validita’ filosofica di ognuna delle espressioni contemporanee di quelle posizioni filosofiche. Mettendo da parte una visione caricaturale della filosofia della scienza, positivismo, scientismo e razionalismo sono tre (molto diverse) estremi di un complesso gradiente di programmi filosofici, come lo sono l’interpretivismo, il costruzionismo ed un relativismo logico assoluto. Non conosco, nel dibattito filosofico moderno, alcun rappresentante di posizioni arroccate su quegli estremi.
Mi riferisco ad esempio alla figura del razionale™ descritta da @figuredisfondo: non e’ un razionalista, ne’ uno scientista, ma, piuttosto, qualcuno che disconosce ogni valore ad ogni altra forma di indagine del reale; una figura, mi pare, calcata sui “new atheists”, e.g., Dawkins. Ma considerare il metodo scientifico come particolarmente efficacie nell’indagare alcuni problemi e alcuni ambiti della realta’ non significa disconoscere ogni altra forma di sapere. La figura dello scienziato/scientista che non sa amare perche’ non sa misurare l’amore (un must di un sacco di film che strizzano l’occhio a posizioni fideistiche / new age) non ha terreno.
1.1) Occorre, poi, tenere in mente le differenze fra il piano ontologico, epistemiologico e comunicativo, che invece mi sembrano facilmente mischiati. Riconoscere che la comunicazione di un risultato di statistica medica non e’ neutrale non significa, necessariamente, affermare che la statistica medica non sia in grado di gettare luce sull’impatto di un certo farmaco; mettere in dubbio l’oggettivita’ della statistica medica (come metodo di ricerca) non significa, necessariamente, mettere in dubbio l’esistenza di una “realta’ fenomenica”. Son tre salti concettuali forti. Siamo tutti d’accordo sulla prima affermazione, mentre la terza (da Socrate a noi) e’ discutibile. Fondare una strategia di lotta sulla posizione (ontologica) che “non esiste un mondo oltre le parole che usiamo per raccontarlo” e’ una scommessa arrischiata e non necessaria.
2) @Tomatis si chiede: “Quanti lettori, prima di questo dibattito, erano consapevoli dell’esistenza di presupposti ideologici – impliciti o espliciti – in ogni testo divulgativo?”. Per rispondere sarebbe forse necessario capire chi siano questi lettori. A me pare difficile credere che, i lettori di questo blog (come un lettore quadratico medio de Le Scienze o di Query), sia cosi’ scevro di ogni infarinatura sociologica, filosofica e scientifica per credere il contrario. Uno che di professione fa lo scienziato lo impara nel momento in cui deve scegliere un grafico o se inserire o meno un risultato (positivo o negativo) per economia narrativa del paper.
3) @BeppePons: “estrema specializzazione dei campi scientifici”? Si e no. E’ anche vero che le opportunita’ e le motivazioni per compiere ricerca interdisciplinare stanno aumentando fortemente. Ci sono interi istituti di ricerca rivolti a “mischiare le carte”. Certo, c’e’ anche tanta scienza che si fa sempre piu’ specifica, per accomulazione, ma il procedere per cicli di cumulazione e rivoluzione e’ proprio del metodo scientifico.
4) La complessita’ non e’ per nulla estranea alla scienza, ne’ la scienza cerca sempre e solo, come uno schiacciasassi, di ridurre la complessita’. Il chaos, la complessita’, la non linearita’ (la dinamica dei fluidi, e qui strizzo l’occhio a @la_lotti) e’ al centro dell’attenzione della ricerca scientifica da una trentina e passa d’anni (non che sia mai stata ignorata). “Simple mathematical models with very complicated dynamics” di May e’ del 1976, “How long is the coast of Britain” di Mandelbrot del 1967!
@gvdr, in merito alla questione 2) forse io posso fornire alcuni frammenti di informazione che, dando l’idea dell’impatto di questo post, possono aiutare a figurarsi risposte.
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Secondo sito di provenienza: Facebook (3145 visite, dato non disaggregabile)
Visite provenienti dal sito del Cicap: solo 189, circa l’1%.
Il dato del Cicap, purtroppo, è l’unico che abbiamo a disposizione per identificare, seppure grossolanamente, un target di lettori “scientisti” (virgolette d’obbligo, qui). Degli altri lettori, soprattutto di quelli provenienti dai social, non sappiamo nulla. Di certo, però, circa 11.000 persone che leggono una discussione su scienza e capitale, divulgazione scientifica e bias cognitivi, sono parecchie. Non penso corrispondano in toto alla nostra “readership” consueta, né agli abbonati a “Le Scienze”.
Io invece provo a dire qualcosa in merito alla considerazione con cui chiudi il punto 1.1. E ti rispondo da poco più che orecchiante della filosofia, ché di mestiere studio il diritto romano, fa’ tu quanto posso essere competente…
Gli autori i cui nomi riecheggiano tra il post e i commenti, segnatamente il Foucault genealogista e studioso dei meccanismi di veridizione, hanno passato l’intera loro vita a mettere in guardia dall’affidarsi ad una strategia di lotta fondata solo sulle parole.
[Se potessi mettere una footnote con numeretto relativo accanto al lessema “veridizione” scriverei: molti dei commenti piccati al post di Mariano, quelli –per capirci- in stile “guardate, Tomatis e i Wumminkia dicono che bisogna spacciare il falso per fini ideologici!”, non tengono (o fingono di non tenere) conto che la premessa a tutto il ragionamento è l’interrogarsi sulla veridizione, sul verum dicere. Anche a sforzarsi, quale termine più esplicito si poteva usare? FINE NOTA]
Il libro che fa “esplodere” la fama di Foucault fuori e dentro i confini francesi si intitola “Le parole e le cose” (l’anno prossimo è il cinquantesimo dalla pubblicazione), dove la congiunzione “e” dice molto su come il filosofo di Poitiers la pensasse in materia. Ma sui rapporti tra fatti, strategie discorsive e processi di soggettivazione, Foucault è tornato a ragionare, forte anche di un confronto durato anni con le fonti antiche, con gli stoici in particolare, soprattutto negli ultimi corsi al College de France.
Il problema è stato quello che a Foucault hanno fatto dire poi i decostruzionisti, Derrida e i derridiani, ma che Foucault non ha mai detto: e cioè che tutto si esaurisce nel testo e nelle sue interpretazioni, e via delirando.
È contro questa mefitica lettura che polemizzo alla fine del mio primo commento in capo a questo tread. In quel commento non tiravo esplicitamente in ballo Foucault, per non prestare il fianco allo straw man, ma nel frattempo il suo nome è riemerso nei commenti (e non poteva essere altrimenti, visto che su scetticismo e episteme ha detto e scritto molto), e quindi tanto vale citarlo apertamente.
Tu definisci la posizione per cui “non esiste un mondo oltre le parole” pericolosa, e hai ragione. Posizione, questa, che è ancora di gran moda, per quanto forse lo sia meno rispetto agli anni ’80 e ’90, e contro la quale bisogna schierarsi in modo netto, come secondo me il post di Mariano fa in maniera assolutamente inequivocabile. Nel commento dicevo anche che la reazione uguale e contraria per cui “ci sono solo fatti” è un atteggiamento altrettanto estremo, che ignora almeno un secolo di dibattito epistemologico.
Persino la frase di Nietzsche che gli ultrarelativisti, specie in Italia, hanno eretto a summa del loro pensiero, quella per cui appunto “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, vuol dire tutt’altra cosa rispetto a ciò che le hanno fatto dire strappandola a forza dal contesto del Frammento in cui è collocata. Nietzsche dice che il mondo è conoscibile, e che i nostri istinti e bisogni, con i loro pro e contro, mediano la conoscenza soggettiva. Dunque non dice che va bene qualunque interpretazione, tanto esistono solo le interpretazioni: ragiona sul perché dietro alle cose non c’è un solo senso, ma –diceva lui- “innumerevoli sensi”.
Invece, in merito al tuo punto 1), segnalo che tu stesso incorri in un equivoco scrivendo:
«Fondare una strategia di lotta sulla posizione (ontologica) che “non esiste un mondo oltre le parole che usiamo per raccontarlo” e’ una scommessa arrischiata e non necessaria.»
L’assunto di partenza – di Mariano, nostro e di molt* intervenut*- è in realtà questo:
«esistono modi di comunicare il mondo che vanno ben oltre ciò che crediamo stiano facendo le nostre parole».
Senza risalire a Freud: dalle scoperte di Bateson sul “doppio legame” in avanti, passando per gli studi di Goffman sull’interazione strategica, fino a Lakoff et alii sulle “metafore primarie” che informano già a livello neurale il nostro linguaggio, questa dovrebbe essere roba acquisita da decenni. Ma non sembra esserlo.
Un esempio di incomprensione… “razio-suprematista” della natura suggestiva, seduttiva e mitopoietica del linguaggio lo troviamo in questo testo sul sito del Cicap:
https://www.cicap.org/new/stampa.php?id=275639
Il titolo è “Gli elementi per sostenere una posizione”. E magari servirà per “sostenerla”, ma non certo per farla passare.
Il testo potrebbe occuparsi di retoriche, di framing, di – qui uso un’espressione di Watzlawick che faceva riferimento a una teoria sul cervello oggi démodée, ma la tecnica descritta non ne risulta inficiata – “linguaggio del cambiamento che blocca temporaneamente l’emisfero sinistro”… Potrebbe, ma non lo fa, resta sul piano della nomenclatura linguistica. Illustra concetti di grammatica che non servono a nulla. O meglio: servono in linguistica, ma sono inutili per un debunking che abbia successo. Perché la suggestione (il braccialetto della salute mi fa bene, l’oroscopo dice cosa mi succederà oggi ecc.) si muove in una dimensione diversa, emotiva.
Se con simili “lezioncine” si pensa di convincere i creduloni, ci si sbaglia di grosso. E infatti non li si convince. Non basta il “lume della ragione”, è erroneo pensare che basti dimostrare sul piano razionale la falsità di una tesi suggestiva perché questa smetta di suggestionare.
Per questo trovo molto interessante l’approccio di un altro socio Cicap, Roberto Paura: capire la mentalità che rende possibile credere a bufale, paranormale e pseudoscienze. Confrontarsi con chi ci crede. E vorrei saperne di più, di questo percorso che Roberto ha intrapreso.
Concordo appieno. In realtà avevo affrontato brevemente su Wired la questione, se posso: http://www.wired.it/scienza/2015/03/10/perche-non-crediamo-scienza/
Ecco, questo è l’aspetto della questione che più mi interessa, e quello su cui sento di avere più cose da dire.
Ed è probabilmente quello su cui un dialogo potrebbe essere proficuo a breve termine -potrebbe essere un benchmark, se vogliamo: un progetto pilota (nel senso più vago del termine) di “collaborazione” che ci dia un’idea di cosa possiamo capire e ottenere gli uni dagli altri. Facendo un esempio ipersemplificato, posso chiedere a dei narratori ed esperti di narrazioni come posso narrare una questione scientifica di pubblico interesse -e.g. l’omeopatia non funziona- facendomi ascoltare dal tipo di persone che la praticano, e che hanno valori e visioni del mondo quasi certamente diverse dalle mie.
Mariano, per tirare in ballo uno non proprio a caso, si è scontrato direttamente con la difficoltà di trovare questo “benchmark”. Ed è passato dalla fiducia nel debunking “razio-suprematista” (il suo libro dove debunka Rol è tuttora, per me come lettore, una pietra miliare) e dalla militanza nel Cicap (da cui è uscito nel 2007) alla perlustrazione di altre lande dove, fatidicamente, ha incontrato prima Loredana Lipperini, poi noi e poi altri. Nei suoi libri e sul suo blog, si è interrogato in pubblico su cosa non vada in quel tipo di debunking, su cosa non vada nell’approccio “scettico”. Perché il Cicap esiste dal 1989 e nonostante tutti i suoi sforzi e la forte stampella mediatica di Angela e della Rai sembra aver convinto ben poca gente?
E’ così che ha intercettato le nostre riflessioni, per molti versi analoghe, ma aventi come oggetto la comunicazione dei movimenti, la teoria radicale ecc.
Il punto è che i paragnosti, i guaritori, gli spacciatori di pseudomedicina, gli astrologi, tutti costoro lavorano coi materiali del sorprendente, del meraviglioso, del perturbante e dell'”alternativo”, e quindi rispondono a bisogni umani, perché noi abbiamo bisogno di sorpresa, di meraviglia, di differenza.
Di contro, lo “scettico” che fa debunking può offrire solo il proprio ruolo di guastafeste, è quella la figura che fa: è colui che buca il palloncino. E il palloncino va bucato, su questo siamo tutti d’accordo, ma bucarlo non affronta il problema a monte, non risponde ai bisogni che dicevamo. Bucarlo a colpi di auctoritas e ipse dixit, poi, non fa altro che rafforzare la voglia di “alternative”. Basti vedere che, nonostante tutto il debunking, le teorie cospirazioniste prosperano in tutti i campi, perché fanno sentire chi ci crede contro il potere, contro le verità ufficiali.
Ogni teoria cospirazionista si basa su un fondo di verità che il debunking di solito non affronta. E’ certamente una cazzata che gli americani si siano distrutti le Twin Towers da soli per poter fare la guerra, ma è un fatto storicamente acclarato – ad esempio – che l’incidente del Golfo del Tonchino che diede avvio alla guerra del Vietnam fu un falso incidente orchestrato dagli USA; è un fatto che al consiglio di sicurezza dell’ONU Powell mostrò (forse a sua insaputa) prove fabbricate sulle presunte “armi di distrazione di massa” di Saddam. And so on, and so on. Gli USA hanno mentito spessissimo sul conto dei loro nemici, e a volte si sono letteralmente attaccati da soli per crearsi un casus belli. Se uno fa debunking delle teorie assurde sull’11 Settembre e non affronta il loro fondo di verità, non fa che rafforzare la teoria che vorrebbe smontare.
E’ lo stesso errore che a mio avviso fa Bressanini (ammettiamo per ipotesi che sia un errore e non una scelta di campo cosciente), non occupandosi del fondo di verità (le nefandezze di Monsanto, il land grab, i brevetti, lo sfruttamento) delle teorie anche strampalate sugli OGM che Schmeiser portò in tribunale, né del bisogno reale che comunque tali teorie soddisfano.
Ora, è incredibile che il Cicap abbia imparato così poco dai prestigiatori e dai mentalisti con cui collabora. In tutti questi anni, sembra aver usato il loro sapere solo per trarne la “pars destruens”, lo smascheramento dei paragnosti, quando invece avrebbe dovuto affidare loro un bel pezzo di “pars construens”: come smontare le bufale senza ignorare i bisogni a cui le bufale rispondono, e senza fare la figura del guastafeste? Se c’è gente che lavora col meraviglioso e col perturbante, beh, quelli sono i maghi, gli illusionisti.
Abbiamo cominciato a riflettere insieme, e ne abbiamo scritto.
La ricerca di una nuova magia che rimanga magica anche spiegando i propri trucchi ha incrociato la ricerca di una letteratura che rimanga accattivante anche mostrando il metodo e i materiali con cui è stata costruita. In entrambi i casi, il “codice sorgente” della narrazione non solo viene messo a disposizione di chi la fruisce, ma viene incorporato come parte della narrazione. Per dirla con Mariano:
«in due numeri davvero sorprendenti (“Il gioco dei tre bussolotti” e “L’uomo tagliato in tre”) [i due illusionisti Penn & Teller] svelano senza scrupoli il trucco utilizzato: contro ogni aspettativa, ciò non minaccia in alcun modo lo stupore dell’esibizione. Nella prima parte del numero l’appello è all’emozione e all’irrazionalità; la seconda invoca un piacere di segno opposto, del tutto razionale, che nasce dall’apprezzamento dei tecnicismi dietro la magia – quella “sutura” che nella prima parte non si scorgeva […] L’ideale sarebbe mantenere (come spettatori) e coltivare (come illusionisti) un equilibrio che metta insieme incanto e disincanto.»
Noi – essendo artisti, l’abbiamo presa “in senso inverso”: questo è un movimento che va dalla meraviglia (tesi) alla critica (antitesi) per ottenere uno stupore consapevole (sintesi). Ma è possibile anche l’altro movimento: dalla critica/debunking (tesi) alla meraviglia (antitesi) per ottenere una critica che sappia rispondere al bisogno di meraviglia (sintesi).
Sul perché il Cicap non abbia sconfitto i complotti ho riflettuto spesso. Oggi (non ho opinioni granitiche) ritengo che scientismo e anti-scientismo non si combattano, ma si alimentino a vicenda. Per farmi capire, mi piace molto citare l’esempio di Telethon: un istituto che fa ottima ricerca, competitiva a livello internazionale e interessante per le aziende (a giudicare dai circa 400 brevetti detenuti da Telethon). Ma che prospera su un sistema di donazioni (non solo, ora) basato sulla lacrimevole retorica delle malattie prive di interesse commerciale e dunque trascurate. Perché il pubblico dona più volentieri più per una malattia rara che per uno scienziato bravo. Dunque, per fare ottima ricerca, soprattutto in Italia, bisogna coltivare un’immagine pubblica falsata della ricerca stessa, più vicina all’incanto antiscientifico di cui parla WM1. La scienza che si nutre dell’antiscienza. Anni fa scrissi una cosa che spiega meglio questa idea:
http://www.minimaetmoralia.it/wp/terapie-telegeniche/
Scrivevo: “I successi scientifici di Telethon non dipendono da un elevato grado di alfabetizzazione scientifica dell’opinione pubblica, ma dal suo opposto. Telethon deve nascondere dietro a ospitate farlocche, contatori truccati, interviste lacrimevoli la sua onestissima e eccellente, ma forse meno emozionante, attività di ente di ricerca. È un paradosso pericoloso e scomodo per ogni progressista: per produrre ottima scienza, Telethon ha bisogno di una diffusa ignoranza sull’oggetto della ricerca scientifica e sugli interessi in gioco. Un’opinione pubblica più educata saprebbe che le terapie geniche non sono trascurate dall’industria, pretenderebbe ministri dell’istruzione migliori di Mariastella Gelmini in grado di emancipare i ricercatori dagli oboli e si dedicherebbe ad altre nobili cause (il centro dell’Aquila è ancora per terra, sapete?). E non è detto che la ricerca, tutto sommato, ne guadagnerebbe.
L’oscurantismo come motore della scoperta scientifica: possibile?”
Anche Massimiano Bucchi, in “Scientisti e anti-scientisti” (Mulino, 2012) faceva ragionamenti simili.
E’ possibile aggiustare il collegamento alla riga:
“Abbiamo cominciato a riflettere insieme, e ne abbiamo scritto.” ? Grazie! =)
Link corretto, grazie della segnalazione!
Ottimo, e peraltro si situa nell’alveo di una riflessione su cui volevo proseguire questo discorso in modo più generale. Ne riparleremo. Grazie.
Mostrare la sutura,nonché l’equilibrio tra incanto e disincanto sono in fondo gli elementi essenziali, mutatis mutandis, dell’effetto di straniamento di Brecht.
Qualcuno muore in scena e all’improvviso quello che credevi essere semplicemente il personaggio di un vetturino alza lo sguardo dall’agonizzante e si rivolge al pubblico, raccontando il perché e il percome in quel crocicchio si muore e addirittura il perché quella stessa rappresentazione sia fallace.
Alcuni testi di Mariano mi hanno ricordato questo.
Sì, mutatis mutandis, perché lo straniamento brechtiano è giocato molto sul dis-incanto, mentre nel lavoro di Mariano (e, aggiungo, nei nostri UNO) si cerca di dis-incantare mantenendo quel che c’è di buono, vitale e propulsivo nella meraviglia.
Provo a spiegarmi meglio: il dis-incanto del teatro epico brechtiano è senz’altro giocato su una forma di stupore, ma è uno stupore che deriva dall’interruzione dell’azione scenica propriamente detta. L’interruzione trascina lo spettatore fuori dall’azione scenica, dove gli spiegano i meccanismi e gli si rende impossibile immedesimarsi in qualunque personaggio. Anche l’attore del teatro epico recita in un modo che respinge l’immedesimazione, perché “cita sè stesso mentre recita”, si guarda costantemente da fuori. Hai ragione, questo è stato senz’altro un modo di “mostrare la sutura”, ed è stato fondativo.
Però nei due numeri di Penn & Teller linkati da Mariano, non c’è straniamento. Non c’è alcuna interruzione dell’azione scenica: la spiegazione del trucco è parte dell’azione scenica. Penn & Teller sanno bene che, nel teatro di magia, interruzione, straniamento e presenza scenica distaccata avrebbero effetti distruttivi e deprimenti. Romperebbero i coglioni. E boredom is counterrevolutionary, diceva qualcuno.
Il teatro di magia è una variante del teatro drammatico: c’è la catarsi, c’è la scarica degli affetti, che avviene con la riuscita del trucco di magia, wow!
Penn & Teller mantengono la catarsi, ma operano una trasformazione radicale: uno dice «Wow!» vedendo che il numero funziona anche mostrando il dietro le quinte e spiegando il trucco. Penn & Teller sono talmente bravi e si divertono talmente tanto (altroché presenza scenica distaccata!) che l’autosmascheramento diventa parte del trucco. Uno ne esce al tempo stesso consapevole e meravigliato. Anzi, ancor più meravigliato, perché consapevole di essere meravigliato pur essendo consapevole. Scusate l’inghippo.
Ecco, si parva licet componere magnis, a me piacerebbe riuscire a scrivere come Penn & Teller fanno magia. E ci sto provando da anni :-)
Rubo frettolosamente dieci righe per lavorare sul punto 4) di @devicerandom. “La complessita’ non e’ per nulla estranea alla scienza”: infatti. Ma “la scienza” non è un blocco monolitico, è una rete di relazioni attraversata da conflitti furiosi. Uno dei conflitti più fecondi è la lotta tra paradigmi (mi riferisco alla definizione di Kuhn).”La scienza (che) cerca sempre e solo, come uno schiacciasassi, di ridurre la complessita’ ” è un paradigma; la ricerca che dedica attenzione (scelta di per sé non neutrale) su “Il chaos, la complessita’, la non linearita” è un altro paradigma (o forse più di uno?).
Tutto questo per riprovare a dire che, imo, una delle precondizioni perché il dialogo diventi fruttuoso e si instaurino nuove relazioni è la scelta di campo (non neutrale) di un paradigma piuttosto che un altro, e mi sembra che i paradigmi “post cartesiani”, tipo “teoria della complessità” e simili siano il luogo dove situarsi. Sennò temo che ci sia il rischio che tutto rimanga un avvincente – ma alla lunga sterile – torneo di fioretto, anche per la difficoltà di avere un linguaggio condiviso.
La scienza (che) cerca sempre e solo, come uno schiacciasassi, di ridurre la complessita’ ” è un paradigma; la ricerca che dedica attenzione (scelta di per sé non neutrale) su “Il chaos, la complessita’, la non linearita” è un altro paradigma (o forse più di uno?).
Questa è una visione di moda all’esterno, ma all’interno del lavoro scientifico non esiste. Chi lavora su sistemi non lineari e su sistemi lineari usa gli stessi metodi e gli stessi paradigmi filosofici di fondo – è solo il comportamento del sistema studiato a essere diverso. In parole povere, il brouhaha intorno a “teoria del caos”, “complessità”, al di là di alcuni importanti risultati di fondo, è fondamentalmente marketing: di cui gli scienziati sono responsabili, perchè vivono in un sistema che li costringe a vendere dei prodotti essenzialmente (culturali). Su questo sarebbe interessante una giap-analisi, ecco.
Mi concedo, scusandomene, ancora un post; l’ultimo, perché altre urgenze incombono su di me. “Chi lavora su sistemi non lineari e su sistemi lineari usa gli stessi metodi e gli stessi paradigmi filosofici di fondo”, scrive @devicerandom. Non sono d’accordo. Credo che emerga un nodo importante, la rappresentazione del “lavoro scientifico”. Utilizzando da ignorante un modello alla Furio Jesi, mi sembra che il problema sia la rappresentazione da parte di alcuni, del “lavoro scientifico/comunità scientifica/la scienza/ la ricerca scientifica” come la “pappa indistinta” di jesiana memoria. Riprendendo l’intuizione di @figuredisfondo, proporrei di definire il razionale(TM) come colui che descrive la comunità scientifica/la “scienza”/il lavoro scientifico in modo unitario e indistinto, e si autodescrive identitariamente al suo interno o nei suoi pressi (anche per il solo consumo culturale). Simmetricamente, l’irrazionale(TM) è colui che descrive il mondo scientifico in modo unitario e indistinto, e si autodescrive identitariamente all’esterno di esso (anche per i soli consumi culturali). Io non credo che sia un conflitto reale. Per cercare di rappresentare “il lavoro scientifico” (qualunque cosa sia) in modo conflittuale, ho provato, in altri post, a proporre di identificare come “faglia” dei conflitti la contrapposizione tra paradigmi (cfr. Kuhn) e/o metodi diversi: la scienza come paradigmi conflittuali in gioco tra loro, legati dialetticamente anche alle reti di relazioni della produzione-distribuzione-consumo della merce “ricerca scientifica”. Probabilmente è una belinata, ma ho fatto un tentativo. Abbozzo tutto questo perché, forse, ipotizzo, la “difficoltà di trovare (un) “benchmark” di cui parla @Wuming1 nasce dalla mancanza del ritrovarsi in un paradigma adatto e unificante. E il paradigma “cartesiano-positivista” secondo me non è adatto per n ragioni. Ma se retrocediamo a pensare che i “paradigmi filosofici di fondo” siano unitari e tendenzialmente statici, e siano proprio quelli cartesiani-positivisti (cosa che ti situa in posizione razionaleTM), sono perplesso. Tutto qui.
(Nota: @devicerandom, scrivi: “Questa è una visione di moda all’esterno”, ma non so perché mi situi di default “all’esterno” (vedi cornice “razionaleTM” vs. irrazionaleTM). Io non ho, volutamente, dato nessun tipo di riferimento personale, ma un piede mezzo “all’interno” ce l’ho avuto, e ho maturato, invece, la percezione di un “lavoro scientifico” intimamente conflittuale. Come vedi, o sono percezioni soggettive, legate a centomila variabili, o, forse, ognuno si è portato dietro cornici che aveva in testa già da prima. Beh, poco importa.)
Salutando, segnalo un articolo di Massimiano Bucchi, già citato da @pwd e forse altri: http://www.soc.unitn.it/sus/membri_del_dipartimento/pagine_personali/bucchi/articoli/2010_perch%C3%A8_scienza_e_societ%C3%A0_non_si_capiscono.pdf
La colonna di Bucchi che citi è interessante anche perché può essere letta da un’angolatura diversa: il problema dell’impact factor dei Journals e di come influisce sulla ricerca e sulla cooperazione tra diverse “classi” di scienziati (e quindi si riconnette con il problema “le scienze non si parlano tra loro”). Ma qui rischio seriamente di andare OT, quindi non vado oltre!
Un appunto sempre sul tema collaborazione: nonostante sia difficile, si fa.
Oh lettori dei commenti, sappiate: gli studi interdisciplinari si fanno, e sono pure “fighi” (nel senso che hanno delle possibilità di andare su Nature o Science).
Però sono un casino da organizzare!
Scusate Giac e Devicerandom: c’e’ stato una riduzione di complessita’ fra gli autori dei commenti. Quello su scienza, complessita’ e rulli compressori e’ colpa mia, non di Device Random.
Su questo, potresti dirmi quale programma di ricerca scientifico aderisce al paradigma dello “schiacciasassi”? A me pare tanto uno strawman, un uomo di paglia utile per argomentarci “contro”, ma che non ha riscontro sul terreno.
Kuhn si perde, secondo me, perche’ e’ difficile, se non impossibile, delineare paradigmi monolitici e stabili nella comunita’ scientifica. E perche’ la “guerra fra paradigmi” e’ uno strumento di analisi che, se funziona bene per “conflitti vecchi” (Newton vs. Leibniz, per dire) diventa scomodo per conflitti odierni ove i paradigmi filosofici sono micro, strumentali, porosi, leggeri.
probabilmente mi sono espresso infelicemente nel mio commento. provo a chiarire:
nel mio commento faccio non faccio riferimento al dibattito scientifico (da questo il disclaimer all’inizio del commento).
in ogni caso, quando parlo della figura del razionale™, la intendo come elemento di consumo identizzante identizzante dell’occidente.
parlando dei new atheists mi riferisco anche a dawkins (mi pare di averlo citato assieme ad harris. se non l’ho fatto è stata un’omissione dovuta ai vari copia e incolla) ma, in particolare, ai vari ‘seguaci’ (leggi: persone ‘normali’ che hanno fatto propria quella posizione in funzione identizzante. su come la ‘scientificità / nerdmania possa essere identizzante, specialmente nell’epoca dei social media, ci sarebbe da scrivere capitoli… ma non è questo il giorno (cit) in ogni caso). “you don’t need to be scientifically litterate to pose as if you were” (cit).
solo una cosa: mi spiace se la lettura del mio commento possa aver suggerito un interesse/propensione per un eventuale spiritualismo/relativismo (anche se non vedo da cosa potrebbe emergere… ma tant’è). per quanto possa valere ti segnalo che per me il new age è munnezza pura gratinata in orientalismo un tanto al kg e, pertanto, tendo a disprezzare qualsiasi riferimento a quella visione macchiettistica.
ps all’interno del dibattito filosofico, benché sia al margine dei razionali™, c’è daniel dennett.
Esempio clamoroso (e per me sinceramente sorprendente) di scientismo positivista da sinistra: l’Almanacco della Scienza di Micromega, luglio 2015. Stavo entusiasticamente per comprarlo quando ho letto i sunti degli articoli e mi sono venuti i brividi.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/micromega-52015-almanacco-della-scienza-in-edicola-dal-23-luglio/
Gli articoli all’unisono contestano il pensiero critico verso la scienza che si suppone ormai pervasivo nella sinistra stessa, e invocano nostalgicamente il dopoguerra in cui (si legge nell’introduzione) “la politica in generale e la sinistra in particolare avevano colto il potere progressista della scienza, per poi rassegnarsi invece a una via di declino”. Di ciò sarebbe la colpa degli scarsi investimenti nella ricerca in Italia. Da non crederci.
Forse non dovrei giudicare senza averlo davvero letto, ma l’impatto è pessimo e respingente per chiunque dubiti che la scienza sia rimasta ferma alle magnifiche sorti e progressive ottocentesche.
Per me invece, pensa un po’, l’impatto è ottimo, e la frase che citi nella prefazione mi pare ineccepibile. Quale sarebbe il problema? Il fatto che si chiami l’omeopatia con il suo nome? Il fatto che si dichiari finalemente, chiaro e tondo, che i richiami alla “natura” come valore metafisico e al rifiuto della tecnologia sono valori di destra?
Il problema, “pensa un po’”, è che l’approccio positivista tout-court viene usato strumentalmente come un manganello contro ogni critica o approccio critico a ciò che è considerato dai più (o dai più forti) come inoppugnabilmente “scientifico”, tacciandolo di essere oscurantista, primitivista, di destra, di rifiutare la tecnologia, di essere causa del declino del paese ecc.
“Il potere progressista delle scienza” è una pericolosissima arma a doppio taglio usata prevalentemente da governi e lobby per girare a queste ultime il denaro dei comuni cittadini, più che come pretesto per finanziare di più la ricerca (e a volte le due cose coincidono).
Il problema è nientemeno che il tema dell’articolo sulla neutralità delle “verità scientifiche” e loro messa in discussione.
Io mi ritengo una persona solidamente di sinistra e con una solida cultura scientifica (dottorato in fisica e tante letture in altri ambiti) ma è facile essere tacciati, un po’ come in questo caso, di fare parte di “quelli là con la paranoia delle scie chimiche”.
Mi permetto di fare un esempio paradossale, casus belli da te citato e tanto caro agli scientisti: l’omeopatia. L’omeopatia in senso commerciale è probabilmente una truffa: acqua fresca e palline di zucchero vendute a caro prezzo. Ma in termini di esperienza quotidiana questo placebo salva ogni giorno milioni di bambini (parlo anche da genitore) da dosi inutili di sostanze tossiche come paracetamolo, cortisone, antibiotici ecc. che nel 90% dei casi vengono somministrate quando non sono neanche lontanamente necessarie. E’ per me ovvio che le medicine quando sono necessarie vanno usate ma la nostra cultura è quella di avere la pillola pronta ad ogni linea di febbre. Allora come valutare seriamente il rapporto costi-benefici di questo fenomeno bizzarro? Risposta: quando un problema è complesso ognuno (in buona fede) lo valuta secondo la propria “ideologia” prevalente perché non riesce a fare altrimenti.
PS Mi piace molto, filosoficamente, lo “stare a cavallo dei due mondi” detto da Carlo Trombino sotto.
come un manganello contro ogni critica o approccio critico a ciò che è considerato dai più (o dai più forti) come inoppugnabilmente “scientifico”, tacciandolo di essere oscurantista, primitivista, di destra, di rifiutare la tecnologia, di essere causa del declino del paese
Alt. Parliamo di qualcosa che è:
A) veramente inoppugnabilmente scientifico
B) spacciato per inoppugnabilmente scientifico ma non realmente tale
?
Nel caso (A), allora sì, mi accodo a “oscurantista/di destra/causa di declino”. Nel caso (B), ovviamente invece siamo di fronte a una mistificazione e quindi parliamone.
“Il potere progressista delle scienza” è una pericolosissima arma a doppio taglio usata prevalentemente da governi e lobby per girare a queste ultime il denaro dei comuni cittadini, più che come pretesto per finanziare di più la ricerca (e a volte le due cose coincidono)
Possibile ma: esempi concreti di lobby maligne a cui giriamo soldi con la scusa della scienza? Onestamente eh, non mi vengono in mente.
Anche fosse, il fatto che risorse vengano stornate in malafede non cambia il discorso sulla scienza in sè. Indicare che un corpo è malato non implica dover ammazzare il paziente.
Io mi ritengo una persona solidamente di sinistra e con una solida cultura scientifica
Potrei applicare la stessa definizione a me, anche se il “solida” per me è sempre relativo, so sempre di avere fin troppo da imparare.
Allora come valutare seriamente il rapporto costi-benefici di questo fenomeno bizzarro? Risposta: quando un problema è complesso ognuno (in buona fede) lo valuta secondo la propria “ideologia” prevalente perché non riesce a fare altrimenti.
Io ti direi invece che tale fenomeno bizzarro andrebbe studiato a fondo proprio per capire come poter massimizzare i benefici (trovare un modo per scatenare l’effetto placebo) e minimizzare i costi (il rischio che gente si curi con un placebo per malattie in cui il placebo non basta. Ci sono omeopati che consigliano l’omeopatia per tumori e AIDS, sappilo.)
‘in termini di esperienza quotidiana questo placebo salva ogni giorno milioni di bambini” <- No, son sciocchezze pericolose! Credo, di nuovo, sia questione di frame e di contesto. Che se cade, se viene nascosto, diventa tremendo. E reazionario. Il placebo omeopatico e' un lusso che ci possiamo permettere in una societa' di ricconi petulanti. In cui un naso che cola e' una disgrazia, e un mal di testa diventa una emicrania. E allora, in quel contesto, piuttosto di distribuire medicinali veri, meglio dare zucchero (corroborando, comunque, l'ipocondria perenne di genitori viziati). Ma passare l'idea che quegli zuccherini possano in qualche modo fare bene (a parte che come placebi) ha un effetto pesante in nazioni in cui le condizioni di salute son molto piu' basse e le malattie son vere, serie e poco generose. Concedersi il lusso di pensare che tanto l'omeopatia non e' cosi' male senza specificare il frame e' di destra, reazionario, colonialista.
Io ci ho pensato a lungo e, sull’omeopatia, sono arrivato esattamente a queste stesse conclusioni. Fermo restando che l’effetto placebo è un fenomeno molto più complicato e affascinante di quanto lo faccia la chiacchiera quotidiana, fenomeno sul quale molti scienziati continuano a interrogarsi e fare esperimenti. Però, sì, sono d’accordo con gvdr. Però invito anche a non incistarvi: se questa discussione si trasforma in un dibattito pro o contro l’omeopatia, diventano vani i nostri sforzi di non farne una discussione pro o contro “gli OGM”.
Di nuovo: “Il problema è nientemeno che il tema dell’articolo sulla neutralità delle “verità scientifiche” e loro messa in discussione.”
No, Tomatis non parla della neutralita’ delle verita’ scientifiche. Non mi sembra proprio. Tomatis parla della neutralita’ del debunking e della neutralita’ della narrazione delle verita’ scientifiche. Mescolare il piano comunicativo con il piano epistemologico od ontologico e’ fare una gran frittata!
Ringrazio per i commenti e provo a dare alcune risposte sparse.
@gvdr
“Tomatis parla della neutralita’ del debunking e della neutralita’ della narrazione delle verita’ scientifiche”
E’ vero, ma diversi interventi di questa discussione (ad es. di MarBern, tra I primi a commentare) hanno allargato il discorso evidenziando come la “verità scientifica” stessa (cioè le pubblicazioni scientifiche) siano parziali, manipolabili, potenzialmente distorte da chi le scrive e finanzia. Una verifica seria e approfondita, se mai viene fatta, di solito accade dopo i titoloni sui giornali, telegiornali, web ecc. e alle volte non ci sono proprio dati e pubblicazioni sufficienti per farla affatto. Quindi separare il piano ontologico da quello comunicativo è forse facile nel mondo delle idee ma non in quello reale.
@devicerandom
“A) veramente inoppugnabilmente scientifico
B) spacciato per inoppugnabilmente scientifico ma non realmente tale”
Magari è davvero questione di avere presupposti diversi ma secondo me (vedi sopra) la Scienza come qualcosa di puro che dimostra verità inoppugnabili non esiste se non in ambiti estremamente artificiosi (es. i sistemi “classici”). A maggior ragione in argomenti complessi come l’ambiente, la salute, l’economia, le teorie sono necessariamente delle tali approssimazioni che il primo dovere di ogni essere pensante e di fare la “tara” ideologica a qualunque informazione: background di chi lo dice, se ci sono potenziali conflitti d’interesse ecc.
“esempi concreti di lobby maligne a cui giriamo soldi con la scusa della scienza? Onestamente eh, non mi vengono in mente.
Anche fosse, il fatto che risorse vengano stornate in malafede non cambia il discorso sulla scienza in sè.”
Ogni ambito con grossi interessi in gioco è potenzialmente preda delle “lobby maligne”, maligne nel senso banale (ma nefasto) che hanno per obiettivo il profitto e non la salute delle persone, ed in molti di questi ambiti la verità scientifica prevalente del momento può avere un peso enorme.
Qualche esempio ovvio e grossolano:
– Favorire o bloccare gli OGM e relativi pesticidi
– Comprare col denaro pubblico milioni di vaccini per possibili epidemie (quanto possibili?) dopo che si è diffuso il panico a livello mondiale (ad arte o in buona fede?)
– Evidenziare o negare i pericoli dell’energia nucleare
– Negare/evidenziare studi sui cambiamenti climatici per continuare/ridurre l’uso di combustibili fossili
NB: sono esempi a supporto e NON voglio soffermarmi a discutere di nessuno di questi :)
@gvdr
“Concedersi il lusso di pensare che tanto l’omeopatia non e’ cosi’ male senza specificare il frame e’ di destra, reazionario, colonialista.”
Qui l’affermazione suona aggressiva al limite dell’isteria e devo entrare nel merito.
Il frame del mio discorso era chiaramente specificato: l’esperienza quotidiana. Il fatto che essa avvenga in un paese occidentale non credo faccia di me (come di te) automaticamente un colonialista. Rovesciando provocatoriamente la prospettiva: il placebo è una componente fondamentale di molte medicine tradizionali dove il rito è parte essenziale della cura. Dire che la “nostra” medicina è scienza mentre quella è solo superstizione è un atteggiamento colonialista. L’atteggiamento scientista a compartimenti stagni cerca di sradicare i saperi tradizionali, quello critico di capire quali esigenze umane soddisfano. Ciò che cercano medici (veri, non ciarlatani) e pazienti che si rivolgono a medicine atipiche in occidente non è il ritorno al medioevo ma il focus sulla cura della persona piuttosto che del sintomo.
Non voglio cadere in una banalizzazione pericolosa: la carenza di farmaci di base e ospedali nelle aree rurali dei paesi poveri è senza dubbio una cosa gravissima. E’ anche senza dubbio che in occidente la pressione al consumo di farmaci e alla produzione di nuove “molecole” in nome della scienza abbia una logica commerciale non solo del tutto estranea alla salute ma crescentemente contraria ad essa. Si veda ad esempio la strage da overdose da farmaci negli USA, quasi triplicata in dieci anni e tre volte superiore ad es. all’overdose da eroina http://www.drugabuse.gov/related-topics/trends-statistics/overdose-death-rates (sito governativo)
E giudicare tutto ciò come un fenomeno da viziati ipocondriaci è poco scientifico :)
“Qui l’affermazione suona aggressiva al limite dell’isteria” <- Sminuire una posizione con un richiamo alla malattia mentale è, di nuovo, retorica da fascisti (qualcuno lo aveva ben spiegato di già in questa discussione). Riferirsi, poi, all'isteria, una finta malattia (ora espunta dai manuali psichiatrici) inventata e diagnosticata per "tenere sotto controllo" il disagio e la ribellione femminile, mi rende veramente faticoso soprassedere e continuare questo dialogo.
Ti chiederei solamente di sostenere con qualche evidenza le tue affermazioni apodittiche:
in base a cosa dici che una verifica seria e approfondita viene fatta solo a seguito dei titoloni? A me pare attività quotidiana (e i titoloni spesso provengono proprio da quella attività, non il contrario); basta guardare quante ritrattazioni non finiscono nelle news.
Non ho mai detto che separare i piani ontologici ed epistemologici sia facile. Ma rimane neccessario per non fare solo confusione.
Medicina tradizionale: il rispetto della cultura non significa il cristallizzare le altre culture nella loro forma "vergine" (quella, cioè, esotica che ci piace vedere nei documentari e che non è affatto "vergine"). è, lo ripeto, una forma di colonialismo. È, si parla di frame non di scienza, imporre un frame narrativo nostro a culture altre, decidere noi quali siano le priorità di altri.
E dare zuccherini invece che spiegare che alcune cose NON sono malattie non fa che peggiorare quell'epidemia a cui ti riferisci.
A me pare che spesso le pubblicazioni siano seguite dai titoloni. Poi a volte ci sono le le verifiche e le smentite spesso NON più seguite dai titoloni (non capisco tanto in cosa dissentiamo su questo).
PS: Anche rafforzare le proprie affermazioni infarcendo il discorso di attacchi alla persona e non al merito è da fascisti. E anche spostare il discorso su un piano ostentatamente accademico e “superiore”.
Conosco bene l’origine della parola “isteria” che però ha ormai un significato comune ben definito (vedi dizionari).
Peccato essere caduti nell’attacco personale da forum becero quando la mia intenzione di discutere era seria e sincera, ancorché volutamente un po’ provocatoria.
Se l’hai letto come un attacco alla persona non posso che scusarmi. Criticavo la retorica. Devo averti letto nel modo sbagliato, e te l’ho detto in modo ancor peggiore.
Dal link che hai postato
“…Un altro luminare della ricerca italiana, Alessandro Rossi, descrive le ultime acquisizioni delle neuroscienze che danno finalmente una risposta scientificamente fondata alla classica domanda della filosofia: chi siamo ?”
Più che scientismo positivista a me sembra la presentazione di una puntata di kazzenger…
Bellissimo articolo e ricchissima conversazione.
I figli del positivismo e del razionalismo scientista (come quelli citati da diegusz nel commento sopra) spesso coincidono con i “new atheists” alla Dawkins citati da gdvr. Il rapporto tra scienza, idea di progresso e politica, per come lo intendiamo ora, può essere fatto risalire al periodo del positivismo (come avete fatto giustamente notare). Lombroso era in qualche modo vicino ad un socialismo moderato, e pur da positivista si avvicinò alle sedute spiritiche e ad altri argomenti che al cicap definirebbero pseudoscientifici (ma su Lombroso e sul suo rapporto col ‘paranormale’ ci sarà certamente qui gente più preparata di me che potrà correggermi).
Lo stesso Freud fu deriso per anni dalla scienza ufficiale in quanto si interessava di sogni, motti di spirito e argomenti “pseudoscientifici”.
Insomma, nell’Ottocento il rapporto tra razionale e irrazionale era magmatico all’interno stesso delle scienze razionali. Un moto, quello positivista, che arriva fino ai Dawkins di oggi attraversando tutto il Novecento: Italo Calvino, parlando alle riunioni del mercoledì einaudiane, raccontando le sue impressioni sulla bozza del romanzo L’ultima notte inviatagli da Furio Jesi, commentò: “Tempi duri per gli irrazionalisti..”
Non so se anche oggi sono “tempi duri per gli irrazionialisti”, se sono tempi più duri rispetto a quelli di Freud e Lombroso. Non so. Probabilmente dipende dal ceto socio/culturale e dal luogo di provenienza.
Ma questo dibattito ha radici antiche, e percorsi tortuosi.
Eugenio Garin nel suo Lo Zodiaco della Vita racconta dello scontro fra “Atene e Alessandria”, fra scienza e magia, fra irrazionale e razionale a partire dal Quattrocento. E si scopre che, al contrario di quanto dicano i new atheists da tastiera, il confine fra razionalisti e irrazionalisti è stato poroso e obliquo per secoli.
Copernico per campare faceva oroscopi; Galileo (non era il solo) era propenso a credere che il sole stesse sì al centro dell’universo ma avesse un’anima. Al contrario, la chiesa (che coi suoi miracoli dà lavoro al Cicap) condannava il culto del sole e sosteneva che gli influssi ficiniani fossero una follia.
Entrambe le parti, a loro modo, avevano ragione!
Per questo credo (e, correggetemi se sbaglio, ma credo sia anche l’opinione dell’autore dell’articolo) che l’approccio migliore sia quello di rimanere “a cavallo fra due mondi”, come Gulliver, senza abbracciare acriticamente (irrazionalmente? :) ) una delle due concezioni.
Quella dell’irrazionale nella Scienza è un tema delicato, e mi sembra che richieda un distinguo.
Per prima cosa, direi che esiste un irrazionale “a posteriori”, e attenzione, non sto parlando di falsi storici (probabilmente tra Atene e Alessandria la città che incarna la scienza, in opposizione alla magia nel messaggio al quale rispondo, è paradossalmente proprio Alessandria, dato che Archimede vi fondò una scuola che arrivò a vette di ingegneria toccate nuovamente soltanto dopo più di un millennio e mezzo; tanto che parecchie malelingue tra gli studiosi della storia della fisica dicono che Cavalieri avesse un grosso debito verso alcune letture di originali dal greco che cominciavano a girare in quegli anni, quando introdusse gli “indivisibili” mettendo le primissime basi a ciò che un secolo dopo sarebbe diventato il calcolo infinitesimale).
E’ invece vero che molti scienziati si siano dilettati con pratiche che oggi giorno si direbbero tutt’altro che scientifiche; la chiave di interpretazione qui mi sembra essere proprio quella specificazione temporale: “oggigiorno”. Mi spiego meglio: il più grande studioso di Isaac Newton, il celebre economista Keynes, per definirlo usò l’espressione molto suggestiva “non il primo degli scienziati ma l’ultimo degli stregoni di Babilonia”; ciò per via delle numerose pratiche occulte con cui il professore lucasiano usava intrattenersi, e principalmente quella dell’alchimia. Questo interesse stravagante però va ulteriormente storicizzato: il rapporto con l’occulto era infatti diverso in quel periodo rispetto al nostro, e la chimica, che sarebbe nata da lì a pochissimo, non aveva ancora potuto sfatare alcune delle lusinghe offerte dalle pratiche alchemiche.
Tutto sommato, non mi sembra che Newton in cerca della pietra filosofale debba destare più stupore di Faraday che a metà ‘800 attaccava spire e galvanometri sopra pale di giganteschi mulini per vedere se per caso una variazione di campo gravitazionale inducesse una corrente. A qualsiasi fisico, ma addirittura a molti maturati da liceo scientifico, questo esperimento rischia di apparire ridicolo, nonostante sia stato tentato da uno dei più grandi fisici sperimentali della storia; eppure è evidente che l’irrazionale, nel senso del rifiuto della sterile logica deduttiva, è a volte addirittura indispensabile per fare breccia nelle vecchie teorie.
Faccio notare che vale anche il discorso inverso, spesso nuove teorie e nuovi approcci vengono inizialmente etichettati come irrazionali dalla comunità scientifica perché richiedono un cambio di prospettiva facile allo scienziato che lo propone, ma arduo ai contemporanei. Per quel poco che ne capisco, mi sembra che la rivoluzione compiuta da Freud nell’ambito della psicoanalisi rientri in questa casistica dell’irrazionale.
L’irrazionale quindi, come tutto, va storicizzato, e nel presente la Scienza in un qualche modo lo accetta e lo comprende.
E’ l’irrazionale dell’immaginario remoto che, superato, la scienza riconosce come corpo estraneo: esiste infatti un bagaglio scientifico di conoscenze assodate, comprovate corposamente, e ormai quasi incrollabile, che è la “migliore descrizione matematica disponibile” per quella parte dell’esistente che le scienze si propongono di descrivere, e che non lascia posto per descrizioni alternative e in disaccordo che non siano giustificate in modo scientifico (ovvero non includenti in modo quantitativo la descrizione precedente come caso particolare). Banalizzando: per chiunque abbia un minimo bagaglio di anatomia, fisica di base e volendo anche teoria dell’informazione, telepatia telecinesi e altri sbalorditivi poteri mentali sono una fantasia che può esistere solamente nelle finzioni letterario/cinematografiche.
Altre teorie che invece non abbiano la pretesa di contendere e confutare il potere descrittivo e predittivo del bagaglio di conoscenze scientifiche “assodate” sono del tutto compatibili con esse; un altro esempio banale è l’esistenza di numerosi scienziati che credono in una delle religioni monoteistiche.
Riassumendo, l’irrazionale nel mondo scientifico non solo è ammesso, ma è prezioso! Questo però finché non si instauri una voluminosa letteratura di studi ed esperimenti, dopo di che non esiste più spazio per l’irrazionale, ma solo per i modelli verificati, le teorie da verificare e poi le fandonie.
Tutto ciò che non può essere verificato sperimentalmente in nessuna delle proprie implicazioni, invece, non fa parte del dominio di competenza delle scienze, in quanto non ne condivide l’oggetto di interesse.
Ottima osservazione.
Bellissima la citazione da Keynes sull’ultimo stregone di Babilonia (potrebbe applicarsi, volendo, anche a Freud), e gli esempi su Cavalieri e Faraday confermano la tua conclusione, cioè che “l’irrazionale nel mondo scientifico non solo è ammesso ma è prezioso!”
E cosa può esserci di più irrazionale e dovuto al caso, alla fortuna, alle parche, al destino o agli Dei, di una mela che cade da un albero e colpisce in testa uno scienziato assorto nei suoi pensieri? :)
Sono incirca d’accordo con tutto questo bellissimo post tranne che per una piccola cosa: in che senso l’esperimento di Faraday sarebbe irrazionale? Lo è solo date le conoscenze attuali (e anche lì, chissà, visto che si va a cercare l’unificazione tra gravitazione e le altre forze!) Nel suo contesto mi pare del tutto razionale, anzi, mi pare forse il primo tentativo di grand unified theory!
Mh, mi spiace di non essere riuscito a spiegarmi bene, il post è evidentemente tanto bello quanto poco efficace .. :)
Quello di Faraday voleva essere, come dici tu, un esempio di “irrazionale a posteriori”: chiaramente se uno si mette nell’ottica del ricercatore sperimentale, che cerca un’increnatura empirica nelle iperuraniche teorie, immediatamente comprende il tentativo dello scienziato britannico, e simpatizza con lui. Se invece uno si ferma alla teoria del campo elettromagnetico assodata oggigiorno, e apprezza la simmetria delle equazioni di Maxwell, può pensare che nel rapporto coniugale-schizofrenico che esiste tra campi elettrico e magnetico non c’è posto per quello gravitazionale (tanto più perché la ragione profonda è che i due sono in realtà un unicum).
Anzi, mi offri l’occasione per esplicitare che, nelle mie intenzioni, il paragone tra Faraday e Newton era inteso non a stigmatizzare il primo, bensì a ridimensionare la stravaganza del secondo.
Articolo ottimo: di quelle cose che mi frullano in testa da tempo e che finalmente qualcuno ha espresso chiaramente in parole. Mi è venuto in mente sin dal titolo quell’intervista di Pasolini (probabilmente stranota anche all’autore), in cui parlava di “demistificare l’innocenza della tecnica”, in quanto la tendenza del “capitalismo tecnico” è quella di “rendere le sue tecniche ideologiche e ontologiche; renderle tacite e irrelate; renderle abitudini; renderle forme religiose”…è forma religiosa anche la pretesa di oggettività scientifica, ed è qua che il “mezzo tecnico”diventa ”mezzo di potere”.
Posto questo, mi pare allo stesso tempo un necessario spunto di autocritica: per smascherare “l’innocenza della tecnica” non servono forse attivisti e militanti accurati, precisi, estremamente preparati? Con chiare basi filosofiche, ideologiche, e, perché no, scientifiche?
È una critica che faccio anche a me stessa quando mi rendo conto, per esempio, di non avere una preparazione sufficiente per muovere una critica seria agli OGM. Ma devo anche ammettere che nel mio percorso ho incontrato militanti preparati così come militanti estremamente approssimativi, anche su questioni più basilari.
Come procedere? Come divulgare informazione di qualità, materiale di studio, anche su larga scala? Intendo dire, ci vogliono gli strumenti per capire che la “scienza” non è neutrale, e quali sono le implicazioni di questo. Senza avere gli strumenti, non si può contraddire un ipotesi “scientifica”, che agli occhi di chiunque sarà dunque inevitabilmente vera. L’esempio più banale è riscontrabile in campo economico: si affida il governo a dei “tecnici” come se l’economia e le sue applicazioni fossero una scienza esatta, univoca e “innocente”. Se io (un io ipotetico ma abbastanza comune) non riesco a concepire l’idea che, ad esempio, il sistema economico nel suo complesso non sia immodificabile, che l’economia sia anch’essa una costruzione umana (e non ontologica), che la teoria economica dominante sia, inevitabilmente, ideologica…banalmente, mi fido. E immagino che i miei tecnici abbiano in tasca una verità scientifica, neutrale, inconfutabile.
E se, come attivista, non so dare davvero alternative chiare e serie a questo io ipotetico, probabilmente ho fallito. E i tecnici, gli scienziati, rimarranno le voci più autorevoli, in quanto “neutrali”, in quanto “innocenti”.
(mi scuso ancora per il repost e la mia incapacità di virgolettare)
Quanto dici sull’economia mi trova d’accordo, ma attenzione: L’economia è costruzione umana, quindi un bel po’ diversa dalla fisica o dalla chimica.
Non sono sicuro di essere d’accordo con te, o meno. E’ un problema che mi sono posto più volte anch’io, affacciandomi all’ambito dell’econofisica: solo perché il soggetto appare più complesso da studiare, dovrebbe questo essere un movente per ritenerlo come soggetto di studio estraneo? Davvero può esistere un sistema che produca dati misurabili quantitativamente, che appaia obbedire a un sistema coerenti di leggi (non insenso giuridico, ma in senso dialettico) e che però non possa in alcun modo essere oggetto di studio scientifico?
Se non fosse per paura del sapere egemonizzante, a me verrebbe da dire il contrario … Ad ogni modo mi riserbo di sospendere il giudizio per l’affermazione universale, e di giudicare caso per caso: i prossimi saggi in lista di lettura sono di macro economia.
Ecco, l’esempio economico era volutamente borderline… :-)
anche perché pensavo ad un problema più di metodo che di merito: la narrazione del sapere scientifico, la costruzione di un sapere scientifico
Non ho detto che non possa essere una scienza – in un certo senso è una branca particolare della etologia umana. Ho detto che l’economia è una costruzione umana, perchè parte da una serie di convenzioni possibili tra esseri umani e studia il risultato, lo sviluppo e le possibilità di queste convenzioni. È un po’ come studiare gli scacchi: posso studiarli matematicamente in modo assai rigoroso, ma gli scacchi non esistono nei cieli, ce li siamo inventati noi.
La conseguenza naturale è che se tu studi rigorosamente gli scacchi e io invece voglio giocare a dama, non ci capiamo. Ho il sospetto che in economia ci sia spesso questo problema: gli economisti ti danno soluzioni ineccepibili, ma se e solo se prendi per buone le regole iniziali del gioco. ;)
ma scusate, qui il problema non è che l’economia è o non è una scienza. Anche lo fosse, nessuna teoria di per sé porta all’approvazione di un sistema di regole, e siamo alla fallacia naturalistica. Nel caso in questione il problema è semmai che ci sono persone che non riescono mai a sganciarsi dalla loro ideologia. Nessuno parla di demistificare l’anestesia o il parto in ospedale. Gli ogm sono stati ammantati di ideologia, è questo che va smascherato. E non capisco poi perché un divulgatore dovrebbe cominciare a scrivere in funzione di una minoranza di persone che per vari motivi non sono d’accordo. Il punto che trovo debole del discorso di Roberto Paura. Come se tutto fosse una questione di convincere, convertire. Penso che c’è un’ampia base di persone che è in grado di capire la buona divulgazione, che ha fatto autocritica da un pezzo, e che la nostra scuola debba essere in grado di formare persone del genere. Siccome il fanatico non si converte cambiamo discorso? Ma io per esempio non sapevo che pensare degli ogm, mi sono letto certe cose e ora ho un’idea. Bressanini parla eccome di Monsanto, ma pure delle multinazionali che producono pesticidi e che sono contrarie agli ogm, perché gli tolgono mercato, così come delle multinazionali del biologico. Parla di brevetti, che esistono per qualsiasi cosa comunque. Non so se parla di land grabbing e sfruttamento, ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con gli ogm. Una volta che ti ha detto che sono nati con la ricerca pubblica e che lì dovrebbero tornare, cosa dovrebbe dire di più? Su questo argomento non c’è un fondo di verità da esplorare. Inoltre non è che lui e altre persone che fanno il suo mestiere non si interroghino sull’effetto delle loro parole, lo fanno da un bel po’ di tempo. Ora, quando Roberto Paura nominava i suoi convegni, io non penso che il problema sia il fatto che vi erano escluse le tesi avverse, ma che il convegno fosse improntato in un certo modo. Se il discorso fosse in partenza inclusivo dei vari aspetti che possono o meno interessare l’uso di una tecnica, comunque il risultato non cambia. Una volta che hai accolto l’altro, le sue obiezioni, cosa resta? Se quelle obiezioni sono sbagliate che si fa? Certamente penso che il discorso che state facendo possa essere utile per chi fa divulgazione, e spero che ci sia un incontro fra di voi.
«non capisco poi perché un divulgatore dovrebbe cominciare a scrivere in funzione di una minoranza di persone che per vari motivi non sono d’accordo»
Nella mia ingenuità, io credevo che il debunking di una bufala avesse come fine convincere chi ci crede – o, potenzialmente, potrebbe crederci – che si tratta di una bufala. Oppure fornire a chi già non ci crede informazioni e strumenti per convincere altre persone. Che non pensavo fossero “una minoranza”; al contrario, pensavo che bufale, pseudoscienze e complottismi stessero conoscendo un vero boom nella nostra società. Sono contento di apprendere che non è così. Ne deduco che la divulgazione scientifica tesa a fare chiarezza su questioni controverse in realtà è scritta per una maggioranza di persone che non le ritengono controverse. Cioè si predica ai convertiti per il puro gusto di farlo.
Però subito dopo scrivi:
«Come se tutto fosse una questione di convincere, convertire. Penso che c’è un’ampia base di persone che è in grado di capire la buona divulgazione, che ha fatto autocritica da un pezzo, e che la nostra scuola debba essere in grado di formare persone del genere”
Ehm, ma se “non è questione di convincere”, formarle per fare cosa? E in che senso la scuola di cui parli le starebbe “formando”, se sta confermando loro quello che sanno già?
Appunto, nella mia ingenuità, pensavo che le si dovesse “formare” a contrastare le bufale. Mi sembrava che, ad esempio, questa fosse la missione del Cicap. Missione che secondo me le varie attività di divulgazione e debunking non stavano riuscendo a compiere, per vari motivi, alcuni dei quali li ho esposti sopra.
«Inoltre non è che [Bressanini] e altre persone che fanno il suo mestiere non si interroghino sull’effetto delle loro parole, lo fanno da un bel po’ di tempo»
Oh, ma che Bressanini ricorra del tutto consapevolmente a certi artifici retorici e usi per convinzione e non per mero lapsus attributi come “realistica” (vedi esempio), io ne sono convinto.
«Una volta che hai accolto l’altro, le sue obiezioni, cosa resta? Se quelle obiezioni sono sbagliate che si fa?»
Non penso affatto né ho scritto da nessuna parte che si debbano “accogliere” le obiezioni di complottisti e/o creduloni. Al contrario, si tratta di capire perché una divulgazione e/o un debunking impostati in un certo modo non riescano a spazzare via tali obiezioni, e quindi capire su quale “fondo di verità” (premesse fattuali distorte o generalizzate indebitamente, ma anche fondo di verità psicologico, esistenziale) poggino tali obiezioni, allo scopo di separarle da esso, e far capire che da quelle premesse non possono discendere certe conclusioni.
«Certamente penso che il discorso che state facendo possa essere utile per chi fa divulgazione»
Ma scusa, hai appena scritto che la divulgazione si scrive per la maggioranza che è già d’accordo, un’ampia base di lettori che ha già fatto autocritica. E allora perché pensi possa essere utile il discorso che abbiamo fatto, se è basato sull’idea che la divulgazione debba arrivare a chi ne ha più bisogno?
Sull’ultima cosa. L’autocritica mi sembra di averla vista in chi fa divulgazione, non mi riferivo ai lettori. Non penso che i due discorsi siano alternativi, ed è bene essere in grado di parlare in modi diversi per pubblici diversi. Ma non è neanche detto che sia una cosa che tutti sono in grado di fare, senza contare del tipo di impegno che richiede. Inoltre il fatto che non si riesca a togliere ogni obiezione, non esclude che si arrivi comunque a un’altra parte di persone, poiché non tutti sono contrari a una certa cosa per gli stessi motivi, e non tutti hanno delle resistenze psicologiche o identitarie, quindi è possibile che funzionino entrambi i modi. Anche se partite da presupposti diversi, penso che un divulgatore possa giovarne dall’incontrare queste riflessioni, tutto qua.
Sull’accoliere l’altro mi riferivo al commento di Roberto Paura, il primo, quando racconta la sua esperienza di convegni in cui per principio non ci sono pareri non strettamente scientifici, e riflettendo su questo pone l’idea che con questo metodo non si potrà mai arrivare a convincere altre persone. Credo che così si mischino due cose diverse. è chiaro che la divulgazione scientifica non può essere usata direttamente per formare opinioni politiche, e allo stesso tempo non ha senso in un ambito in cui si cerca di capire cosa sono gli ogm da un certo punto di vista includere questioni economiche e politiche. Mentre in un ambito in cui si invitano alla discussione le varie parti, la parte scientifica servirebbe solo come appoggio per verificare o meno alcune questioni.
Poi scusami per i tanti commenti, ma non riesco a capire perché definire non realistica una certa opzione in un certo contesto chiuda il discorso. Se penso all’uso degli animali nella ricerca biomedica, al di là di tutte le questioni etiche, chi è contrario deve dire cosa si fa in alternativa. E le alternative sono due: abbassamento degli standard di ricerca attuale oppure uso degli esseri umani. Quindi non capisco perché in una discussione politica seria non si possa ribattere che si vogliono fonti d’energia alternative insieme con consumi minori.
Una discussione politica seria dovrebbe includere anche l’analisi di come viene posta una questione, per i motivi che spiegavo nel commento linkato, che hanno spiegato altri meglio di me, e che qui su Giap sono stati sviscerati più volte, tanto che annoio me stesso ribadendoli. Effetto di framing. Le parole che usiamo attivano cornici metaforiche e narrative. Se inquadro il discorso in un certo modo, proseguirà dentro quel quadro e sarà difficile cambiarlo, soprattutto se:
1) si inscrive nello statu quo e nella sua cornice narrativa; 2) io parlo dalla posizione di “esperto”.
Nell’esempio, l’espressione “una volta che ti ho smontato” evoca un discorso già smontato senza nemmeno doverlo smontare. Chi sta parlando – il quale in realtà non ha smontato nulla – è già diventato il protagonista dello smontaggio. C’è già una narrazione in corso, con un protagonista che agisce, potente, in grado di smontare i discorsi. Il racconto è cominciato in medias res, con qualcosa che è lì per terra, sotto i tuoi occhi, fatto a pezzi. Sappiamo chi è stato (l’esperto che ci sta parlando), ma non sappiamo ancora il perché.
Il perché arriva con l’attributo “realistica”. Il motivo per cui quella cosa lì che ti è stata messa in testa già smontata ha fatto la fine che ha fatto è: non era realistica. Si dà per inteso che la realtà sia quella data e tutto il resto debba adeguarsi, mentre il discorso sulla scelta tra fonti rinnovabili o non rinnovabili è per sua stessa natura un discorso sul modello di sviluppo e quindi sul possibile cambiamento.
Infine, c’è la finta concessione, grazie alla quale il locutore si pone come magnanimo, aperto, democratico: “poi sta a te”. Che mi ricorda la scena di Totò che visse due volte in cui chiedono a Gesù di resuscitare un tizio sciolto nell’acido, e lui risponde: “E che resuscito, se non c’è rimasto niente?” Perché è chiaro che, una volta smontato il discorso perché la realtà è questa, “poi sta a te” significa “fai pure, poniti fuori dalla realtà”.
Insomma, sembra una frasetta innocua, confinata al proprio significato letterale. In realtà è una storia, con un’ambientazione, un protagonista, un’azione, un movente, un mistero, una soluzione.
Quello di Teleton è un esempio perfetto di sfruttamento del paradigma vittimario, per quanto lo scopo sia anche nobile. La strategia funziona, perché intercetta e fa leva su un dispositivo che informa uno strato molto profondo della nostra mentalità, quello per cui appunto siamo portati ad empatizzare con la vittima, cioè con chi per definizione subisce e non ha colpe. Il tema è stato esplorato ad esempio da Daniele Giglioli nei suoi due libri più recenti, Critica della vittima (citato e “messo al lavoro” anche qui su Giap) e Stato di minorità, dove ciò che viene sottoposto a vaglio critico è l’eccesso di questa identificazione sacrosanta, e sul versante opposto la creazione strumentale di figure di vittime che vittime non sono. Non a caso la vittimizzazione (oltre ad essere tratto distintivo di più o meno tutti i gruppi di estrema destra) abbonda in ambito pseudoscientifico, complottaro e presso fuffari variamente assortiti: nella loro autonarrazione, sono loro gli incompresi, gli impotenti, le vittime delle lobby e del sistema tutto.
Ma la mozione degli affetti in funzione del paradigma vittimario si dà anche per scopi di per sé più che degni: è il caso di Teleton. E questo mio commento è ad elevato tasso emotivo: perché, ecco, io ho proprio una di quelle malattie lì, quelle rare che non studia nessuno, a dar retta alla loro retorica. Ma io del ruolo di vittima una volta l’anno su RAIUNO non so che farmene (il protagonista dell’intervista lacrimevole potrei essere io, se decidessi di accettare quel ruolo, né mi sognerei mai di biasimare chi decide di farlo): mi interessa molto di più trasformare lo stato di cose presenti, mentre la posizione della vittima è per certi versi comoda, come nota ancora Giglioli, perché la vittima è quasi per statuto impotente, priva di agency. Ed ecco allora che la donazione annuale mossa da pietà per la vittima rischia d’essere il più classico degli atti aggiusta-coscienza, per quanto essi possano essermi anche personalmente utili.
Chiudendo la parentesi Teleton e tirando le fila per tornare al tema del dibattito: chi si occupa di smontare le bufale deve essere in grado di identificare anche gli schemi retorici su cui esse poggiano, gli istinti, gli affetti e i bisogni che quelle narrazioni risvegliano. Il paradigma vittimario è uno di questi schemi, e infatti è adottato spessissimo.
Pardon, ho postato male. Il mio commento qui sopra rispondeva all’ultimo lasciato da pwd, di cui proseguiva il discorso: invece così sembra isolato…
Se conosco qualcosa di un settore del sapere è la ricerca storica: qui posso valutare, e solo su su alcuni argomenti, la qualità della divulgazione. (Ad esempio le bufale di alcuni giornalisti che si spacciano per storici). Di economia so quel poco che basta per non essere d’accordo con le basi ideologiche del neoliberismo, ma non sono in grado di valutare le espressioni matematiche di ricerche, che pur collocandosi nel campo antiliberista, sostengono opinioni diverse, tipo welfare “classico”/beni comuni, qui mi faccio guidare da argomentazioni di carattere filosofico e retorico. Un buon liceo scientifico frequentato tanti anni fa e un vecchio esame di statistica mi permettono appena di percepire la complessità della matematica, geometria, logica ecc. sottostante la ricerca scientifica in senso stretto, che è, in ogni caso divisa in campi sempre più specialistici poco comunicanti: vecchio esempio, cosa ne sapevano i fisici degli anni 50′ sugli effetti medici della radioattività? Francamente non sono in grado di capire neppure che cosa sia la “teoria delle stringhe” e tanto meno se abbia un senso, per non parlare della materia e della energia oscure. Appena sono in grado di comprendere descrittivamente e non matematicamente il principio di indeterminazione. Insomma, di fronte alla divulgazione scientifica non posso che affidarmi, da vecchio asino che sa di non sapere, alla certificazione dei divulgatori, ahimè anche accademica, per cui sugli ogm spero che a divulgare e demistificare siano esperti di genetica vegetale assieme a esperti di genetica umana che possibilmente abbiano condotto ricerche comuni.
Volevo condividere una riflessione che si faceva questa mattina sul tuider per quanto riguarda l’uso del termine “hotspot” per denominare quelli che sono a tutti gli effetti campi di concentramento.
Nell’evidente frame “neolinguistico”, mi pare che l’utilizzo del gergo tecnico (hotspot richiama prima di tutto il wi-fi) sia un elemento da sottolineare.
Hotspot è un termine “consumerizzato”, nel senso che è ormai noto e famigliare a tutti, senza però che il termine comunichi nulla di più di una generica presa d’atto dell’esistenza di un “black box” (non so cos’è, non so come funziona, so che è lì e magicamente mi collega alla rete. Punto).
Ecco, il linguaggio tecnico è talmente efficace e “neutro” da nascondere la complessità che nasconde. E’ quindi perfetto per mascherare le peggio nefandezze.
[…] verifica dei fatti alla loro narrazione. La discussione nasce con un articolo di Mariano Tomatis su Giap, a cui risponde Massimo Sandal. In mezzo, due interventi del direttore della rivista Le Scienze, […]
Ritorno a più di un mese di distanza dal post originale per segnalare un articolo/lettera aperta che è secondo me molto legato alle questioni di neutralità della scienza e soprattutto di neutralità degli scienziati sollevate nel post e nei commenti.
La “rivista itinerante d’inchiesta critica sociale” Z (www.zite.fr) dedica il suo ultimo numero alle tecnopoli e a Tolosa in particolare. Celia Izoard, giornalista di Z, ha visitato il LAAS (Laboratorio di Analisi e di Architettura dei Sistemi), uno dei centri CNRS all’avanguardia nella ricerca robotica, e ha potuto discutere con i responsabili del progetto Gepetto (https://www.laas.fr/public/fr/gepetto). Uno dei progetti di questo gruppo di ricerca è la progettazione di robot umanoidi per l’assistenza agli anziani.
Partendo dalla sua esperienza e dalle sue interviste, Celia Izoard ha pubblicato sulla rivista Z una lettera aperta a Philippe Souères direttore di ricerca al CNRS e membro del gruppo Gepetto. Qui trovate la lettera:
http://blogs.mediapart.fr/blog/revue-z/260915/la-liberte-du-roboticien-n-etend-pas-celle-d-autrui-l-infini-lettre-ouverte-philippe-soueres-directeur
Mi permetto di tradurre la conclusione, perché la trovo molto legata a un concetto espresso nel post: per riprendere una frase di un mio antico commento “non solo ogni produzione discorsiva e testuale, ma anche un’analisi statistica o una produzione scientifica sono potenzialmente conflitto, resistenza, politica”. È su questo punto che la lettera Celia Izoard cerca di stimolare una (auto)critica dell’atteggiamento di Philippe Souères, concludendo:
Si dovrebbe condurre una riflessione sulla strumentalizzazione di questa forma di soggettivizzazione del ricercatore nella sua torre d’avorio, che gli dà l’impressione e la falsa coscienza di portare avanti un progetto intellettuale disinteressato, inquadrando efficacemente i programmi di ricerca a monte e a valle (sui programmi e sulle loro applicazioni), perché lo stesso scienziato, godendo di una libertà ridotta al diritto di spostarsi liberamente nel cortile della sua disciplina ultra-specializzata, non si rivolti contro il tipo di mondo che lui stesso produce.
Ciechi di fronte all’umanità? Christian Raimo torna prepotentemente sul cuore di questo post citando una potente immagine di Dietrich Bonhoeffer. La riprendo qui.
http://thevision.com/scienza/scienza-politica/
Ho appena letto questo. Che ne pensate?
Non so cosa scrivere per allungare il brodo e non essere filtrata e colpita dalla mannaia. È vero, pk è defunto, ma se ogni tanto sull’argomento arriva un guizzo, forse qualcosa cova sotto le braci.