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[Il 19 marzo scorso, un sabato mattina, Enrico Manera, Mariano Tomatis e Wu Ming 1 erano nell’aula magna del liceo Gioberti di Torino, invitati dall’Unione Culturale e dagli studenti della 5a G vincitori del Premio Antonicelli 2015/2016.
Si tratta un premio per le scuole finanziato dalla regione Piemonte e intitolato a Franco Antonicelli, figura-chiave dell’antifascismo torinese e non solo. Il premio consiste nel sostegno organizzativo ed economico alla classe vincitrice per la realizzazione di un ciclo di incontri rivolto ai compagni di scuola. Il tema degli incontri al Gioberti è «La potente signora. La parola tra manipolazione ed emancipazione». Quello del 19/03 era il primo appuntamento.
Oggi pubblichiamo l’intervento di Mariano. Qui sopra c’è il video con la presentazione, 30 minuti di 100% pura wonder injection, e qui sotto il testo completo. Nei prossimi giorni pubblicheremo anche l’intervento di Enrico.
Ringraziamo le studentesse e gli studenti Cecilia d’Urso, Riccardo Mora, Michelle Girin, Giovanni Morlino, Sorina Pasat, Mia Vujovic, e la professoressa Marinella Fioretta. Grazie anche a Diego Guzzi, Leonard Mazzone e Manfredo Montagnana dell’Unione culturale. Buona visione/lettura.]
di Mariano Tomatis
La medicina ha a disposizione molti strumenti per misurare come stiamo. Quando il termometro supera i 37, abbiamo la febbre. Lo sfigmomanometro valuta la pressione sanguigna mentre lo stetoscopio rileva i nostri suoni interni. Per contro, nessuno strumento del genere può indovinare che oggi è una giornata sfigata o che siamo un po’ tristi. Lo strumento più sofisticato per accedere ai nostri stati emotivi è ancora la parola. Per farsi un’idea di come stiamo, amici e psicologi ci chiedono di raccontarci. Le parole che scegliamo per ricostruire la nostra vita rivelano chi siamo e portano a galla i nodi che ci impediscono di funzionare bene.
Secondo lo psicologo Michael White – padre della cosiddetta “terapia narrativa” – analizzare un paziente significa studiare e interagire con le sue storie. [1] Pensiamo a qualcuno che si rivolge a uno psicologo alla fine di un rapporto di coppia. Raccontando la vicenda, in che posizione colloca il suo personaggio? Si descrive come la vittima? Si attribuisce i sensi di colpa del carnefice? O vive il tutto con la freddezza di uno che passa di lì per caso? Quale ruolo ha il destino nella storia che racconta? O quanto sente, al contrario, di avere il controllo della situazione? Insomma, le parole sono lo strumento privilegiato per accedere alla nostra anima. Ma non basta. Ci sono parole che possono guarire.
Secondo White, l’obiettivo di una terapia psicologica è di curare le storie con cui i pazienti si raccontano. Uno psicologo non può cambiare il passato, ma può aiutare il paziente a ripercorrerlo con uno sguardo diverso. Per farlo deve usare parole in grado di ispirare creativamente una lettura alternativa di quello che è successo. Noi stiamo meglio quando abbiamo trovato espressioni più serene, elaborate e consapevoli per raccontare la stessa storia che ci aveva portati a chiedere aiuto.
Alain de Botton lo sintetizza bene scrivendo che
«La differenza tra speranza e disperazione si riduce all’abilità di elaborare storie diverse a partire dagli stessi fatti.» [2]
Ma che la parola sia uno strumento potente lo sappiamo sin dalla notte dei tempi. Nell’Antico Testamento il mondo viene creato attraverso le parole.
«Dio disse: “Sia la luce!” e la luce fu.»
Il Vangelo di Giovanni è ancora più radicale. Secondo l’Evangelista
«In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.»
Oggi l’informatica ci offre la metafora perfetta per capire cosa intendesse Giovanni. Chi studia un linguaggio di programmazione sa quanto sia importante usare le parole giuste per creare e arredare i mondi virtuali dei videogiochi. Dio creò il cielo e la terra, mentre in Mario Bros fu Shigeru Miyamoto a creare il cielo e la terra. Magari i dejà-vu sono davvero dei bachi nel software della realtà, come suggeriva il film Matrix. E quando Aladino dice «Apriti sesamo!», che cosa sta facendo se non usare una password?
Ma restiamo al libro del Genesi, perché lì troviamo il primissimo esempio di uso persuasivo delle parole. È un serpente a parlare, e da secoli i teologi si interrogano sulla diabolica efficacia delle parole che ha usato per convincere Eva a mangiare il frutto proibito. Ovviamente oggi lavorerebbe come consulente di marketing della Apple perché la sua capacità di vendere il prodotto è straordinaria. Su una cosa siamo tutti d’accordo: quelle parole funzionarono perché convinsero Adamo ed Eva a disobbedire a Dio. Ma fu un bene o fu un male? Se dovessimo fare un sondaggio, ci divideremmo tra chi legge in chiave positiva la ribellione al Potere Supremo e chi, invece, la considera un malanno. Fu “manipolazione” o “emancipazione”? – per usare le espressioni scelte per questo ciclo di incontri.
Non a caso la locandina di questo evento presenta Biancaneve che sta per accettare la mela avvelenata dalla strega. È anch’esso un frutto ambivalente, perché – non so se lo sapete – la strega usa un trucco da prestigiatore per fregare la ragazza. Metà della mela non è avvelenata, dunque la strega può addentarla sul lato sano e nasconderne la natura letale. Biancaneve la mangia dal lato sbagliato e sappiamo cosa le succede.
Se ci pensiamo bene, è la stessa cosa che accade con le mele moderne, gli smartphone: per venderli bisogna celebrarne la metà performante, seducente, cool. Le pubblicità devono nascondere la metà avvelenata di questi oggetti, fatta di manodopera sottopagata, suicidi nelle fabbriche e condizioni di lavoro infernali. Il nostro pianeta è letteralmente sommerso da parole che raccontano la prima metà, mentre la parte avvelenata praticamente non ha voce. E quando leggo lo slogan di lancio dell’Iphone 6 – “È cambiata solo una cosa. Tutto.” – mi sembra di sentire i lavoratori che lo assemblano alla Foxconn, che replicano «Eh, magari. Per noi non è cambiato un c***o.» Parole sotto i riflettori che nascondono parole in ombra.
La prima indagine scientifica sul potere della parola risale alla Parigi del 1784. In quell’anno una commissione studia i presunti poteri paranormali di un medico tedesco, Franz Anton Mesmer. Il verbo “mesmerizzare” lo dobbiamo a lui: oggi diciamo che qualcosa ci ha “mesmerizzato” per dire che ci ha colpiti e sedotti. Mesmer è convinto di poter curare i malati con la sola imposizione delle mani. Come nella moderna pranoterapia, crede di proiettare dalle dita un fluido magnetico, in grado di sciogliere i nodi che impediscono al fluido vitale di scorrere liberamente nel corpo dei malati. La commissione scopre che il fluido non esiste ma deve ammettere che l’azione del medico ha una certa efficacia. Oggi conosciamo l’effetto placebo e sappiamo che la convinzione di venire curati ha effetti concreti sull’organismo. All’epoca la commissione ne intuisce l’esistenza attraverso un test molto ingegnoso. Uno dei commissari mette le mani a una certa distanza dal petto di un soggetto e costui sente una sensazione di calore. Spostando le mani lungo il corpo, l’impressione di caldo le segue. Poi il soggetto viene bendato, e questa volta le varie azioni gli vengono solo descritte. «Hai le mani vicino alle spalle, cosa senti? Ora le sto imponendo sui fianchi, cosa senti?» Non c’è nessuna imposizione delle mani, eppure le sole parole provocano le stesse sensazioni. La commissione conclude che non è il fluido di Mesmer ad agire sui malati ma le sue parole, che stimolano l’immaginazione e provocano vere e proprie reazioni fisiche. La moderna psicoterapia e l’ipnosi affondano le proprie radici in questa scoperta sensazionale.
Da sempre poeti e cantastorie sono consapevoli del potere che hanno le parole di stimolare – in chi ascolta – sensazioni di compassione, vendetta, tenerezza, rabbia, confusione, terrore… A lungo l’indagine di queste possibilità è stata di carattere pratico: sono stati elaborati miti e leggende, scritti romanzi e composte canzoni. Solo negli ultimi due secoli psicologi e neuroscienziati hanno iniziato a studiare gli effetti del linguaggio in maniera più rigorosa e quantitativa. Le scoperte che sono state fatte sono estremamente affascinanti.
Si è scoperto che le parole possono modificare la percezione. Nel 1968 Paul R. Wilson si presenta all’Università del Queensland con un collega, chiedendo agli studenti: «Secondo voi, quanto è alto questo signore?» Fa la stessa domanda a tre classi diverse, con una sola differenza. Alla prima classe dice che si tratta di un laureando; alla seconda, che è un assegnista di ricerca; alla terza, che è un professore a tempo pieno. Ogni studente misura con lo sguardo l’altezza dell’uomo e Wilson raccoglie le varie stime; scoprendo che le diverse classi hanno visto altezze diverse: man mano che la carica sale, aumenta anche l’altezza che gli viene attribuita. L’uomo è sempre lo stesso, ma chi crede di trovarsi davanti a un professore lo vede più alto di chi crede che si tratti di uno studente. [3]
Si è scoperto che le parole possono modificare i ricordi. Nel 1975 Elizabeth Loftus fa vedere ad alcuni soggetti le fotografie di un incidente stradale. A metà di loro viene chiesto di stimare a quale velocità andassero le auto quando si sono “toccate”, all’altra metà quanto andassero veloci quando si sono “scontrate”. Tutti vedono lo stesso set di immagini, ma i due verbi hanno influenzato in modo diverso l’immaginazione: chi ha sentito la parola “toccate” stima una velocità più bassa rispetto a chi ha sentito la parola “scontrate”. [4]
La cosa più subdola è che quelle parole sono nascoste in una domanda e quindi passano quasi inosservate a chi le ascolta. È per questo che in tribunale, durante gli interrogatori, non basta registrare le risposte ma bisogna tener traccia anche delle domande: le parole scelte, infatti, possono manipolare i ricordi di un testimone in favore o contro l’imputato. Noi maghi usiamo lo stesso meccanismo per cancellare – dal ricordo degli spettatori – ogni indizio del trucco usato; il nostro lavoro consiste nel lasciare l’impressione di aver assistito a qualcosa di totalmente inspiegabile.
L’altro aspetto che rende interessanti le parole, a noi illusionisti, è il loro potenziale sorprendente. Le parole possono stupire. Ve ne faccio qualche esempio.
Nel febbraio 2011 Giuliano Ferrara organizza a Milano un evento a sostegno di Silvio Berlusconi. Nel suo discorso fa riferimento al pensiero di un noto filosofo tedesco. Qualche giorno dopo, il sito satirico spinoza.it riporta la notizia in tre parole.
«Ferrara cita Kant.
I tre stadi dell’evoluzione.» [5]
Quando arriva, la battuta provoca una risata. A un tecnico dello stupore come me interessa studiarne il meccanismo. Se ci fermiamo ad analizzarla ci accorgiamo che il gioco sfrutta la “polisemia”, ovvero la possibilità – per una parola – di avere due significati distinti. Qui è l’oscillazione tra il verbo e la scimmia a creare l’effetto sorpresa. Una volta che si è ricostruito il meccanismo, viene voglia di riapplicarlo.
L’ha fatto qualche mese più tardi il suo autore, che si firma @milingopapa. All’epoca Angelino Alfano è ancora tra i fedelissimi dell’ex premier, e citando la notizia del giorno in tre parole, @milingopapa scrive:
«Berlusconi candida Alfano.
Quale delle tre è più fastidiosa?» [6]
Il gioco è talmente ingegnoso che ve lo lascio come esercizio: ora che avete capito come funziona, potete provare a raccontare qualche notizia di attualità sfruttando l’effetto sorpresa dovuto alla polisemia. Il punto è che se alleni lo sguardo alla meraviglia ne trovi esempi nei luoghi più impensati. Uno dei più curiosi l’ho trovato su un cartello nel parcheggio dell’IKEA ed è un esempio di polisemia che ha risvolti pratici inaspettati. Eccolo:
Qui dovete immaginare due clienti. La prima ha parcheggiato e sta cercando un carrello per mettervi gli articoli che acquisterà. La seconda è appena uscita dal negozio, ha svuotato il carrello in macchina e non sa a chi restituirlo.
La prima vede la fila di carrelli ed è tentata di prenderne uno, ma la scritta la dissuade: lascialo qui, ne troverai uno all’interno del negozio. Per lei “Lascia qui” significa “Non prenderlo ancora.”
La seconda non sa dove mettere il carrello e la stessa scritta le dà istruzioni diverse: lascialo qui, grazie! Per lei “Lascia qui” significa “Aggancialo agli altri e abbandonalo qui.”
Chi ha concepito questo cartello è riuscito a ragionare a due livelli e sfruttare la polisemia in un modo molto ingegnoso. Le stesse parole danno istruzioni diverse a persone diverse. Eppure la polisemia non è sfacciata: la frase non sembra ambigua, e ciascuna delle due clienti la sente rivolta a sé. Questa ambiguità è molto sfruttata da noi maghi.
Ne troviamo traccia dal 1784 – e se vi sembra di aver già sentito questo anno, non vi sbagliate: è lo stesso dell’indagine sui poteri di Mesmer. Siamo di nuovo a Parigi e il mago italiano Giuseppe Pinetti vende, dopo ogni spettacolo, un libretto che insegna dei giochi di prestigio. [7] Uno coinvolge due mazzetti di carte e un biglietto su cui il mago ha scritto qualcosa. Dopo aver scelto liberamente un mazzetto, lo spettatore apre il biglietto e scopre che la sua scelta era stata prevista correttamente.
Il trucco sfrutta la polisemia: il mago ha scritto la parola “sette” ed entrambi i mazzetti hanno a che fare con quel numero. Un mazzetto è composto da sette carte e l’altro da tre: se lo spettatore sceglie il primo, il numero “sette” descrive correttamente il numero di carte da cui esso è composto. Se invece lo spettatore sceglie il secondo, il mago sfrutta l’ambiguità della parola attribuendole un significato diverso: le tre carte sono altrettanti 7, mentre le sette carte sono figure sparse (re, regine e fanti); invece di contarle una per una, l’illusionista si limita a sventagliarle e far notare che lo spettatore ha scelto “i sette” e non le figure.
Mi piacerebbe farvi toccare con mano un esempio più subdolo di uso manipolatorio delle parole. Immaginate che il giornale di domani riporti questa notizia:
«Psicocineta al Gioberti. Con la forza del pensiero fa uscire testa o croce a richiesta. 100% di successi. Duecento testimoni lo confermano.»
Pochi di voi sarebbero disposti a crederci, ma tra qualche istante cambierete idea. Tra di voi, infatti, si nasconde una persona dotata di poteri psicocinetici, in grado di influenzare il lancio di una moneta. Io ho sviluppato un metodo infallibile per trovarla. Alzatevi tutti in piedi. Sto per lanciare una moneta. Dividerò l’aula in due settori: voi a destra cercherete di spingerla affinché cada sulla testa; voi a sinistra la spingerete perché esca “croce”. La lancio… è caduta sulla croce. Lo psicocineta si nasconde tra di voi a sinistra. Voi a destra sedetevi. Senza accorgervene, state partecipando al più grande “Indovina chi?” del mondo. Mi rivolgo a voi che siete rimasti in piedi: quelli davanti spingano perché la moneta cada sulla testa, quelli dietro spingano croce.
[Otto successivi lanci selezionano una sola persona che ha spinto correttamente tutte le volte.]
Tu che sei rimasta in piedi, come ti chiami? Te lo chiedo per avvertire i giornali. Che domani titoleranno come avevo annunciato. Tutto vero. Peccato che al lettore comune manchi un pezzo per interpretare correttamente il titolo. Se facessimo un semplice fact checking della notizia, ognuna delle frasi è vera. Eppure il loro accostamento produce un effetto chiaramente manipolatorio, buono per una puntata di Kazzenger. È necessaria la giusta cornice per farsi un’idea corretta di ciò che è avvenuto qui questa mattina.
Un gioco del genere può essere sfruttato per mettere a punto un’ingegnosa truffa finanziaria. Fatevi un indirizzario con un migliaio di email. A 500 persone scrivete un’email in cui vi presentate dicendo:
«Mi chiamo così e cosà, lavoro come consulente finanziario e ho sviluppato un metodo infallibile per prevedere l’andamento della borsa. Domani le azioni Unicredit saliranno.»
Alle altre 500 persone, mandate la stessa email scrivendo che le azioni scenderanno. Il giorno dopo verificate se le Unicredit sono salite o scese. Dimenticatevi dei 500 con cui avete sbagliato e mandate una seconda email alla metà giusta. A 250 dite che l’indomani Unicredit salirà, agli altri 250 che scenderà. Giorno dopo giorno, abbandonate quelli con cui vi siete sbagliati e continuate a scrivere a quelli con cui vi è andata bene. Il quinto giorno avrete selezionato 30 persone che per cinque giorni consecutivi hanno ricevuto da voi previsioni corrette. È ora di passare all’incasso. Mandate a costoro un’ultima email:
Nei giorni scorsi ti ho dato ampia prova delle mie doti previsionali. Con un curriculum del 100% di successi, e per la modica somma di 1000 euro, posso condividere con te le mie prossime visioni. Clicca qui per pagarmi via PayPal.
E poi sparite.
L’economista Nassim Taleb ritiene che buona parte dei cosiddetti “esperti” in ambito finanziario siano stati selezionati da un meccanismo di questo tipo, e dunque non abbiano alcuna reale conoscenza dei meccanismi del mercato. [8] Il fattore di cui sono dotati è un grande Cu.L.O. – acronimo di cui non ricordo esattamente il significato.
Vorrei chiudere sull’attualità. Da qualche giorno si parla di un intervento italiano in Libia ed è interessante analizzare le parole che vengono usate. Che cosa intende il nostro governo quando dice che l’Italia ha in programma una “missione di pace”. Qui la parola velenosa è “pace”. Ogni volta che qualcuno dice la parola “pace”, dobbiamo sempre chiederci: pace… per chi? Perché spesso, in occasioni come questa, la pace delle popolazioni locali non ci interessa minimamente: è la pace per gli italiani che hanno interessi in quei luoghi, sono le nostre aziende che vogliono essere lasciate in pace. Visto che nel titolo di questo incontro si parla di veleno ma anche di antidoto, il miglior modo per disattivare la forza manipolatoria di quella parola è studiare la storia. E io che sono un mago, naturalmente vi racconto la storia di un collega.
Nel 1850, lui è David Copperfield:
Il mago dei maghi. Si chiama Robert-Houdin e il generale Desvaux l’ha definito “l’uomo che più di tutti ha lavorato per la pace in Algeria.” Torna l’Africa, torna la parola magica “pace”. Che cosa vuol dire “lavorare per la pace”? All’epoca l’Algeria non è libera: è stata sottomessa dalla Francia, che ne ha fatto una propria colonia. Le popolazioni locali cercano di ribellarsi al giogo, ma le repressioni francesi sono violentissime. A guidare la battaglia per la liberazione sono i Marabutti, leader religiosi musulmani a cui si attribuiscono doti soprannaturali. Per stroncarli, Napoleone III coinvolge David Copperfield. Manda Robert-Houdin in Algeria con lo scopo di dimostrare che la magia europea è più potente di quella africana.
Sul suo diario, il mago francese scrive:
«Questi falsi profeti sono meno magici di me; nonostante questo riescono a infiammare il fanatismo dei loro adepti usando trucchi magici, roba primitiva quanto gli spettatori cui vengono presentati. Dobbiamo dimostrare che noi siamo superiori in tutto, anche e soprattutto nella magia.» [9]
Il 28 ottobre 1856 l’offensiva francese ha due fronti. Nella regione della Cabilia mira ad annientare i corpi degli algerini. Ad Algeri lo spettacolo di Robert-Houdin deve annientare il morale dei Marabutti. Guerra coloniale psicomagica. Ovviamente i musulmani, che non sono scemi, disertano il teatro. Sul suo diario, il mago se lo spiega così:
Si tratta di individui indolenti che preferiscono stendersi su un tappeto a fumare piuttosto che partecipare a uno spettacolo. [10]
Quando le milizie francesi si accorgono che il teatro è vuoto, vi trascinano a forza sessanta capi musulmani. Invece delle tute arancio di Guantanamo fanno loro indossare dei mantelli rossi, simbolo della sottomissione ai francesi. Lo spettacolo della pace ha inizio e Robert-Houdin prende un cappello e tira fuori… un coniglio? Macché, troppo tenero. Una colomba con un ramoscello d’ulivo nel becco? No, una palla di cannone.
Seguono vari numeri che dimostrano la grandeur della Francia e per il clou dello spettacolo il mago chiama un musulmano sul palco e lo invita a sollevare una valigia. L’uomo ci riesce facilmente. Poi, imponendo le mani, Robert-Houdin prosciuga lo spettatore da ogni forza e gli dice letteralmente:
«Ed eccoti qua, più debole di una femminuccia!» [11]
Il musulmano non sa che la base della valigia è metallica e sotto il palco c’è una potente elettrocalamita. Una volta accesa, alzare la valigia è impossibile. Ma il nostro portatore di pace è stato ancora più crudele, perché ha collegato alla valigia un generatore di corrente. Quello che succede lo possiamo leggere direttamente sul diario del mago, che scrive:
«Quell’Ercole fino ad allora così potente e orgoglioso deve piegare la testa. A un mio segnale, una scossa elettrica prodotta da un apparecchio a induzione viene inviata dal fondo del palco al manico dello scrigno. Il musulmano inizia a contorcersi. […] Aggrappate allo scrigno, le braccia cercano di avvicinarsi al petto con un violento spasmo muscolare; le gambe si piegano e l’uomo cade in ginocchio, reprimendo un urlo di dolore […] Prolungare troppo quello strazio sarebbe un atto di barbarie. A un secondo segnale il flusso di corrente si interrompe. Finalmente in grado di staccare le mani, l’uomo le solleva sopra la testa: “Allah! Allah!”, urla terrorizzato, poi si avvolge tra le pieghe del mantello pieno di vergogna e si precipita in sala, uscendo dal teatro di corsa.» [12]
La scena non può non ricordarci quanto è successo in Iraq nel 2003 ad Abu Ghraib, dove gli americani torturavano i musulmani con le scosse elettriche. Perché è questo che succede quando noi occidentali “portiamo la pace”.
La guerra psicomagica è accaduta davvero, ma non dovete credermi sulla parola. Per la modica cifra di 2070 euro trovate il libro in cui Robert-Houdin la racconta in prima persona. Il prezzo non esattamente popolare mi fa tornare in mente tre parole, il cui effetto su di me è stato devastante. Nell’ottobre 2014 a Bologna, insieme ai Wu Ming, siamo andati a sentire Robert Darnton, il direttore della biblioteca di Harvard, custode di oltre 15 milioni di libri. Tema dell’incontro era l’importanza dell’accesso libero alla conoscenza. Darnton sta lavorando a un database per rendere disponibile pubblicamente un gigantesco patrimonio di volumi. Tra le varie slide ha proiettato una foto della facciata della biblioteca di Boston, sul cui frontone ci sono scritte tre parole.
A proposito di parole che agiscono, a me è preso un brivido. Sono tornato a Torino e mi sono detto: devo anch’io mettere in piedi un database del genere dedicato ai libri di magia. Qua e là sulla Rete li devo scovare tutti, a uno a uno. Da allora – insieme all’amico Mauro Ballesio – ne ho trovati più di 1700, tutti a libero accesso e catalogati per autore, titolo, anno, tipologia, editore… Il progetto si chiama Biblioteca Magica del Popolo, è nato grazie a quelle tre parole ed è sul mio sito personale all’indirizzo www.marianotomatis.it/biblioteca. Naturalmente vi trovate anche i due volumi dei diari di Robert-Houdin [13] , quindi scordatevi di pagare duemila euro: scaricateli sul cellulare e usateli per allenare il vostro francese.
Ci sarà sempre chi obietta che un progetto del genere è solo una goccia nel mare. Contro i nichilisti, capaci solo di smontare qualunque tentativo di resistenza alle leggi del mercato, io ho un antidoto. Non è proprio una formula magica, ma con me funziona. È un dialogo tratto da Q, il romanzo più noto dei Wu Ming. Ogni tanto lo rileggo, perché le sue parole mi aiutano a rimettere la barra al centro. Da una parte c’è Eloi, che cerca di proporre uno stile di vita alternativo a quello dei ricchi mercanti. Dall’altra c’è il protagonista, più cinico e rassegnato, che commenta:
«E tu vorresti convincere i mercanti giù al porto che è meglio per il loro spirito dare tutto a voi altri…?»
Eloi risponde: «Nient’affatto. Voglio convincerli che è più bella una vita libera dalla schiavitù del denaro e delle merci.»
«Scordatelo. Te lo dice uno che i ricchi li ha combattuti per tutta la vita.»
Eloi stringe gli occhi e alza il bicchiere.
«Noi non vogliamo combatterli, sono troppo forti. Vogliamo sedurli.»
1. Michael White, La terapia come narrazione. Proposte cliniche, Astrolabio Ubaldini, Roma 1992.
3. Paul R. Wilson, “Perceptual distortion of height as a function of ascribed academic status” in The Journal of Social Psychology, febbraio 1968; 74(1): 97-102.
4. Elizabeth F. Loftus e John C. Palmer, “Reconstruction of Automobile Destruction: An Example of the Interaction Between Language and Memory” in Journal of Verbal Learning and Verbal Behaviour, 1974, 13, 585-589.
7. “Chapitre XV. Déterminer la pensée de quelqu’un, en l’assurant que l’on écrira d’avance sur un papier ce que comportera le tas de cartes qu’elle choisira sur les deux qu’on aura placées sur la table” in Giuseppe Pinetti, Amusemens physiques et différentes expériences divertissantes, Hardouin, Paris 1784, pp. 39-41.
8. Nassim Nicholas Taleb, Giocati dal caso, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 158.
10. Robert-Houdin 1859, p. 257.
11. Robert-Houdin 1859, p. 267.
12. Robert-Houdin 1859, pp. 268-269.
13. I due volumi delle Confidences d’un prestidigitateur di Jean-Eugène Robert-Houdin sono qui: Vol. 1 | Vol. 2.
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