Manca solo un mese all’uscita del nuovo libro dei Cantalamappa e per chi vuole farsi trovare pronto all’appuntamento, abbiamo già predisposto luoghi di ritrovo e rendez-vous.
Il primo è su Tumblr, e fin da ora ci trovate i titoli di tutti i racconti, le relative mappe, uno spazio per inviare i vostri contributi (disegni, suggerimenti, riscritture…) e il primissimo di una lunga serie di post quotidiani dove riveleremo indizi e dettagli sul contenuto del libro.
Il secondo è su Pinterest– come ai tempi di Timira e Point Lenana. Giorno dopo giorno diventerà una galleria di immagini, video, didascalie e commenti stimolati dal ritorno dei nostri giramondo.
Il terzo è per il 28 ottobre, ore 21, al festival Segni d’Infanzia di Mantova, dove racconteremo il nuovo libro al Teatro Bibiena.
Più a ridosso dell’uscita segnaleremo tutte le presentazioni già fissate fino alla fine dell’anno.
Infine, come primo assaggio, pubblichiamo qui La Teiera volante, ovvero il prologo del libro, il ponte aereo tra il primo volume e Il ritorno dei Cantalamappa.
La teiera volante
Era un pomeriggio di mezza primavera, di quelli che l’edera sul muro sembra allungarsi a vista d’occhio e dal ronzio delle api ti accorgi all’improvviso che il glicine scoppia di fiori.
Come ogni martedì, avevo lavorato in biblioteca solo di mattina, e dopo un pranzo indiano al chiosco di Amitabh, ero saltato sul traghetto e me n’ero tornato a casa per il caffè. Perché a Fessacchiopoli ci sono tre bar, ma nessuno che sappia preparare un espresso come si deve.
Sull’aia della cascina raggiava un sole gentile e per non lasciarmelo scappare mi sono seduto fuori dalla porta, sulla scala d’ingresso, con la mia tazzina fumante e il Librone dei Cantalamappa aperto sulle ginocchia. Da quando Guido e Adele sono partiti, non è passato giorno senza che lo sfogliassi. Mi piace esplorare il mondo accompagnato dai loro racconti di viaggio.
Prima che diventassimo amici, mi divertivo a leggere le guide turistiche dei posti più strani, ma nessuna guida è come il loro diario. Nessuna ti parla della Grande Isola di Plastica, del Verme Mongolo della Morte e dei Biechi Neri. Nessuna ti mette in testa altrettante domande. Anzi, una buona guida si sforza di darti un sacco di risposte: dove dormire, cosa mangiare, quale autobus prendere. Invece, grazie al loro Librone, durante l’assenza dei Cantalamappa ho accumulato dubbi e curiosità per almeno settordici serate di chiacchiere. Senza contare che ormai sono in giro da mesi e al ritorno avranno anche una sporta di nuovi racconti.
Mentre scaffettavo e sfogliavo di gusto, Glaston è comparso sull’aia con una pannocchia tra i denti ed è venuto a sgranocchiarla sul gradino sotto di me.
– E questa dove l’hai trovata? – gli ho domandato. Di sicuro, non poteva averla presa su una pianta dei dintorni. Primo, perché sulla nostra isola in mezzo al lago di Brenno nessuno coltiva il granturco e secondo, perché se anche ci fosse da qualche parte una piantina clandestina, non potrebbe dare frutti in questa stagione. Il granturco matura a settembre.
A regalargli la pannocchia, doveva esser stato il signor Chigi, o la signora Manna, o un altro degli abitanti di Borgata Pozzangherone, l’unico villaggio di tutta l’isola.
Quando i Cantalamappa erano qui, Glaston stava sempre con loro, non li mollava mai. Poi i suoi amici sono partiti per l’Australia e l’hanno affidato a me. Lui sulle prime sembrava timoroso, non si allontanava dalla cascina, ma dopo una settimana ha iniziato a perlustrare i dintorni, sempre più lontano, e allora sono stati gli abitanti della Borgata a mettersi paura. In Brasile sarà pure normale, ma qui non capita tutti i giorni di vedere un capibara che scorrazza per fossi e sentieri. D’accordo, somiglia a una nutria, e le nutrie – quelle specie di castori con la coda da topo – ce le abbiamo anche dalle nostre parti. Ma il capibara è molto più grosso. E’ il più grande roditore del mondo e anche solo per questo incute timore.
Dopo un’altra settimana e qualche spiegazione, Glaston è diventato il beniamino di tutti, e ora i miei compaesani fanno a gara a chi lo vizia di più. Una volta l’ho visto andare in giro con un pezzo di canna da zucchero, il suo cibo preferito, che però qui da noi non si trova neppure all’ipermegamercato. Penso che i Cantalamappa, quando ritorneranno, faranno fatica a riconoscerlo, il loro Glaston, e dovranno riabituarlo a mangiare la buona roba che cresce qui attorno, invece delle pannocchie tristi delle confezioni di plastica e della canna da zucchero fuoriposto.
Finito il caffè, chiuso il Librone, stavo rientrando in casa quando un brontolio da temporale ha tradito un branco di nuvolacce scure, che si affacciava cupo sopra le montagne, con l’intento di capriolarsi giù. Davanti a quelle, sul punto di farsi inghiottire, ho notato una macchia insolita nel cielo ancora azzurro.
Ho guardato meglio e ho pensato si trattasse di un oggetto volante. Poi, mentre il vento inchinava i pioppi, ho guardato ancora meglio, ma ho capito soltanto che l’oggetto diventava più grande, segno che volava verso di me.
Ero ancora lì con il naso all’insù, quando Glaston ha abbandonato la sua pannocchia, ha attraversato l’aia di corsa ed è salito, come uno scoiattolo goffo di soquanti chili, fin sopra il tettuccio dell’Autopesce.
–
L’Autopesce è l’automobile dei Cantalamappa: un vecchio scassone col muso da squalo, costruito in Francia nel secolo scorso, che loro hanno decorato con disegni di squame e sul tetto una pinna da mostro marino. Proprio la pinna che Glaston stava usando come appoggio per salire ancora più in alto, il naso teso verso il cielo e l’oggetto volante in avvicinamento.
A guardarlo così, pareva di vedere un cagnolone col pelo da cinghiale. Se avesse avuto la coda, si sarebbe messo a scodinzolare. Allora ho pensato che, a forza di frequentare i giardini di Borgata Pozzangherone, Glaston doveva essersi convinto di essere un cane. Oppure, gioca insieme oggi, gioca domani, aveva preso qualche atteggiamento cagnesco, come succede anche a me, quando vado a trovare i miei cugini di Rocotondo e dopo due giorni parlo già con l’accento del posto.
Che si credesse un cane o che lo stesse solo imitando, il comportamento di Glaston poteva voler dire una cosa soltanto: amici in arrivo.
Insospettito, sono entrato in casa, ho preso il binocolo e ho inquadrato l’oggetto volante.
Oltre le due lenti, contro lo sfondo nero delle nubi temporalesche, galleggiava una teiera verde, con tanto di manico, beccuccio e coperchio.
– Ho le traveggole – mi sono detto, ma siccome avevo bevuto soltanto un normalissimo caffè, mi sono stropicciato gli occhi ed ecco apparire un quadratino marrone, come sospeso, appena sotto la pancia della teiera e in mezzo tra i due, tre sagome umane e una fiamma ballerina.
Una mongolfiera.
I Cantalamappa stavano rientrando in mongolfiera.
Li ho osservati scendere di quota e farsi sempre più grandi, ma solo quando ho intravisto il primo lampo, mi sono ricordato del temporale in arrivo.
Pochi secondi e il tuono ha schiacciato le montagne.
Che dovevo fare? Io mica me ne intendo di palloni aerostatici.
Nel giro di dieci minuti, dopo altri due lampi e i rispettivi tuoni, il velivolo ha sorvolato Fessacchiopoli, il lago di Brenno, Borgata Pozzangherone e la cascina dei vicini, finché non è sbucato da sopra gli alberi, diretto verso il Monte Scrocchiazeppi, con una grossa fune a penzoloni dal cestello.
Allora, per quanto non me ne intenda di mongolfiere, ho capito che quella corda la dovevo afferrare e tirare giù.
Mi sono lanciato all’inseguimento, ma la teiera volante viaggiava piuttosto in fretta, a non meno di trenta metri da terra. Da lassù, le voci di Guido e Adele mi urlavano istruzioni, ma il vento e le vampate del bruciatore si mangiavano le parole.
– Prova…quando…la…forza…
Correndo con lo sguardo al cielo, c’è mancato poco che andassi a sbattere contro la casa dei Cantalamappa. La mongolfiera, invece, l’ha superata per un pelo, sfiorando le tegole col fondo della navicella.
Subito oltre, si spalanca un prato tutto piatto, ideale per il tiro con l’arco e l’avvistamento di lucciole. Mi sono detto che anche per l’atterraggio di oggetti volanti non c’era in tutta l’isola un posto migliore. Ho rallentato il passo, ho aggirato la casa con calma, ho saltato il fosso che gli scorre dietro.
Solo allora mi sono ricordato che, proprio al centro del grande prato, c’è un traliccio dell’alta tensione, coi fili elettrici sospesi a mezz’aria. Ce l’ho sempre sotto gli occhi, quel traliccio, ma siccome rovina la vista del bosco, preferisco non farci caso.
La teiera volante lo puntava inesorabile.
Ho ripreso a correre, anche se ormai la fune, la mongolfiera e i Cantalamappa erano troppo distanti per poterli raggiungere.
Troppo distanti per un bibliotecario con due gambe soltanto, non certo per un capibara. Glaston mi ha superato di slancio, filando sull’erba nuova. Forse adesso pensava di essere un capriolo.
La teiera era ormai a cinque metri da terra, la corda fuoribordo strisciava sul campo. Glaston l’ha afferrata con i denti, ha puntato le quattro zampe e s’è messo a indietreggiare. Io l’ho raggiunto e con un salto mi sono aggrappato all’altro lato della navicella.
I fili dell’alta tensione e il traliccio non distavano più di una decina di passi. Dal cielo grigio cadevano i primi goccioloni.
I Cantalamappa sono scesi, con l’aria di chi arriva puntuale alla stazione dei treni. Guido aveva uno dei suoi soliti gilet multicolore, intonato con la gonna di Adele. Subito dietro s’è fatto largo un ragazzino e infine il pilota. Nemmeno loro sembravano impauriti, ma prima di dire qualsiasi cosa, ci siamo dati da fare per allontanare la mongolfiera dai fili elettrici, perché la teiera cominciava a sgonfiarsi e pendeva pericolosamente da quella parte.
Mentre si accasciava, ci siamo abbracciati, baciati, paccati sulle spalle e Glaston si è preso una meritata dose di complimenti e carezze.
– Siete arrivati dall’Australia con quella? – ho scherzato, indicando il pallone ormai floscio.
– Macché! – ha risposto Guido. – Siamo partiti stamattina da Haltgrenze.
– Haltgrenze? Il paese di là dal confine? Sono poco più di cinquanta chilometri. Non potevate prendere la corriera?
– No, – ha ribattuto Adele, indicando il ragazzino alle proprie spalle – Dovevamo dare un passaggio a Rajan.
Poi mi ha fatto l’occhiolino, come a dire: ci siamo capiti, ma io non avevo capito un bel niente.
Solo il giorno dopo, con calma, mi sono fatto spiegare tutta la faccenda.
– Abbiamo incontrato Rajan nel campeggio di là dalla frontiera – mi ha raccontato Guido apparecchiando la tavola. – Lui e la sua famiglia hanno dovuto lasciare il loro paese per via della guerra. Hanno fatto le valigie, ci hanno messo dentro l’indispensabile, ma ogni giorno rimandavano la partenza, perché avevano paura di abbandonare tutto. Alla fine, è stato un bombardamento a decidere per loro. Sono scappati in mezzo alle esplosioni e nella confusione si sono persi di vista. Così Rajan si è unito a un gruppo che andava verso Nord e il resto della famiglia verso Sud. Quando finalmente sono riusciti a parlarsi al telefono, ormai la distanza tra i due gruppi era troppo grande e nei giorni successivi si è allargata ancora. Nell’ultima telefonata, i genitori gli hanno detto che proveranno a raggiungere il nostro paese dal mare, mentre lui ci è arrivato dalla parte opposta, oltre le montagne, dove passa un confine che non si può attraversare. Ma siccome i confini, su per aria, sono più difficili da tenere sotto controllo, gli abbiamo dato una mano a superarlo.
– E la mongolfiera? Da dove l’avete tirata fuori?
– Quella è di Valerio – ha risposto Adele, appoggiando le mani sulle spalle dell’amico.
Valerio è un tipo magro, con le borse sotto gli occhi e i capelli grigi come quelli di Guido. Sono lunghi anche i suoi, ma li tiene legati in un codino, tutti stirati all’indietro. Porta la barba, sempre grigia, e gli occhiali con la cordicella intorno al collo. Quando parla, arrota le erre in fondo alla gola, come fanno i francesi.
– Non la usavo da quarant’anni, – dice alzando le sopracciglia – quando con Adele e Guido abbiamo lasciato l’Italia per un po’ di tempo. Poi loro sono tornati e io sono rimasto a vivere dall’altra parte del confine. Non avrei mai pensato di rimetterla in uso, la vecchia teiera volante! Ci ho messo due giorni solo per controllare che fosse tutto in ordine, che potesse ancora affrontare un viaggio oltre le montagne.
– Io non ci sarei mai salito, – confesso – E men che meno con un bambino a bordo.
– Lui era il più tranquillo di tutti – fa Guido, lanciando un’occhiata fuori dalla finestra, sull’aia, dove Rajan rincorre Glaston armato di una pistola ad acqua.
Adele si aggiusta la treccia grigia sulla spalla e la accarezza come la coda di un gatto.
– I bambini sono più coraggiosi degli adulti, in certi casi. E possono affrontare viaggi molto lunghi, se hanno un buon motivo per farlo. – Sorride, mentre versa il vino in quattro bicchieri – In Australia ci hanno raccontato una storia molto bella. Parla proprio di bambini e di un viaggio. Del viaggio di tre ragazzine, per l’esattezza. Si chiamavano Molly, Daisy e Gracie.
No ma scusate… una teiera volante che arriva dall’Australia…?
Saremo mica dalle parti dei Gong?
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