[Siamo tutti in partenza e ci portiamo dietro i compiti. Durante il mese di agosto Giap verrà aggiornato in maniera più sporadica. Ogni tanto ci collegheremo, sbloccheremo commenti in moderazione, risponderemo per quanto possibile, ma giocoforza saremo meno presenti.
.
Ci congediamo (si fa per dire) con un articolo di WM2 uscito sul n.1 della Nuova rivista letteraria, diretta dal vulcanico Stefano Tassinari (edizioni Alegre). La riflessione può risultare utile in questa estate di discussioni al calor bianco su letteratura e rete, scontri sugli e-book e ca$$i vari. WM2 elenca nove aspetti del lavoro culturale in rete: lavoro liquido, d’archivio, di strada, all’aperto, artigianale, mutante, sporco, diplomatico e sovversivo.
.
A questo proposito, avete visto quale vespaio ha suscitato l’uscita del nostro agente, el comandante Heriberto Cienfuegos, che con un affondo guerrillero sulle pagine di Repubblica ha fatto uscire allo scoperto muchos hidalgos editoriales?
.
Per ultima cosa, segnaliamo che sul sito ufficiale Einaudi c’è uno speciale sul successo di Manituana all’estero. Nell’ultimissimo numero di Giap formato newsletter (ottobre 2009), già ci eravamo interrogati sulla diversa accoglienza di quel romanzo in Italia e all’estero. Da allora, le cose sono andate avanti, e si può tranquillamente dire che, nel mondo anglosassone e in quello francofono, Manituana è il nostro più grande successo di pubblico e critica. Q è uscito in più paesi e ha avuto ottime recensioni, ma un “effetto” come quello ottenuto da Manituana non lo avevamo mai registrato. Per noi è un incoraggiamento a proseguire il Trittico Atlantico, e infatti stiamo studiando (i “compiti” di cui sopra). Oggi è il 216esimo anniversario della morte di Robespierre. Non fiori, ma opere di bene.]
..
L’Archivio e la strada
Il lavoro culturale attraverso la rete: una riflessione articolata in nove tendenze
In un primo momento, questa mia riflessione sul lavoro culturale attraverso la Rete doveva concentrarsi sugli strumenti: blog, social network, e-zine, mailing list, podcast… Poi mi sono reso conto che un elenco del genere avrebbe sviato l’attenzione dall’aspetto più interessante: non la cassetta degli attrezzi, ma la mentalità con la quale li usiamo. Capire la logica che sottende (e trascende) le attuali tecnologie, permette di cogliere caratteristiche, processi e linee di fuga che vanno ben oltre l’ambito del web.
L’utilizzo di Internet, in quest’ottica, determina e consente un lavoro culturale attraversato da nove tendenze.
Lavoro liquido
Pubblicato sulle pagine di una rivista cartacea, un articolo come questo partecipa alla costruzione di un determinato contesto. La sua natura è doppiamente collosa: da un lato perché tende a restare appiccicato alla sua cornice, dall’altro perché attira i lettori verso un prodotto culturale. Al contrario, un articolo “postato” su Internet ha fin da subito una vita propria: va in cerca di connessioni, risonanze, critiche. Viene copiato e linkato in nuovi contesti e acquisisce così nuovi significati. Il suo scopo principale è circolare, diffondersi, essere disponibile. Se fino a qualche anno fa la maggior parte dei siti erano studiati per appiccicare gli utenti alle proprie pagine, il cosiddetto web 2.0 ha diluito l’infosfera, rendendo i saperi ancora più fluidi. L’identità dei contenuti culturali si fa più liquida, autonoma, plasmata dagli utenti. Ogni atto linguistico si costruisce strada facendo uno sfondo concettuale, attraverso link, strani vicinati, citazioni, commenti. Ma affinché questa maggiore dispersione non si traduca in superficialità, perdita di coerenza e riferimenti chiave, è necessario puntellare la conoscenza con due sostegni fondamentali: l’archivio e la strada.
Lavoro d’archivio
Internet è una piazza, un mercato, una fotocopiatrice sempre accesa, un ufficio postale e una biblioteca di Babele. Immersi nel flusso di dati, si corre il rischio di dare per scontata l’archiviazione e la perenne accessibilità di qualsiasi materiale grazie all’onniscienza del Dio Google. Al contrario, perché una conoscenza cosi liquida non finisca per evaporare, bisogna metterne da parte sempre qualche bottiglia, tapparla con cura, piazzare le giuste etichette, riporre tutto in ordine sugli scaffali e soprattutto stappare al momento giusto, fare corsi da sommelier per imparare quando e come servire un vino d’annata, prima che il tempo lo trasformi in aceto.
Lavoro di strada
La cultura telematica può apparire volatile finché non trova dimora in una situazione concreta, dove sedimentare un sapere pratico. Per questo, al contrario di quanto suggerisce il senso comune, il lavoro culturale in Rete dovrebbe avere come conseguenza un maggiore impegno sul campo, una verifica diretta della propria ricerca, la quale non può mai iniziare e finire sul web, ma pretende di essere messa alla prova, vissuta, dialogata, incontrata. Internet è un grande ufficio postale, ma non garantisce che le comunicazioni siano davvero efficaci. Postare contenuti spinge prima o poi ad alzare il culo dalla sedia e a mettersi in viaggio, per controllare che il pacco sia arrivato a destinazione, che qualcuno l’abbia aperto, usato, capito. Non ho mai percorso tanti chilometri e incontrato tanta gente da quando Internet è diventato un medium di uso comune, e la mia rubrica si è gonfiata fino a sembrare un dizionario.
Lavoro all’aperto
La piazza virtuale non è mai vuota, la conversazione pubblica è permanente. Per prendere parola non è più necessario piratare una frequenza, sabotare il sistema, aprire una falla. Tutto avviene in maniera molto naturale e questa apparente tranquillità può far credere che il conflitto sia evaporato. Si producono così due atteggiamenti opposti: i tecno-ottimisti si convincono che Internet sia uno strumento di per sé liberante e libertario, mentre i pessimisti rispondono delusi che anche la comunicazione telematica è funzionale al potere, senza via d’uscita. In entrambi i casi, come direbbe Henry Jenkins, ci si concentra soltanto su quello che la Rete fa alle persone, invece di domandarsi quello che le persone possono fare con la Rete. Rispondere al secondo quesito è uno degli obiettivi irrinunciabili della battaglia culturale, molto più di qualsiasi sabotaggio dimostrativo.
Lavoro artigianale
Non si tratta dunque di impersonare Robin Hood, ma di convocare a Sherwood quanta più gente possibile, per allenarsi insieme a tirare con l’arco e con la spada. Un uso consapevole della Rete come strumento per fare cultura, non può limitarsi al semplice produrre e diffondere messaggi. Occorre aprire la propria bottega, mostrare gli attrezzi del mestiere, socializzare il più possibile una riflessione sul mezzo, sui suoi strumenti, sulle competenze necessarie per utilizzarli in maniera efficace, sui rischi e sugli incidenti più comuni.
Lavoro mutante
In Rete spesso non hanno senso distinzioni che ancora si riescono a tracciare fuori dallo schermo. La liquidità dei contesti fa sì che i materiali risultino ibridi per natura, incerti per status. Saltano le barriere tra comunicazione commerciale, amatoriale, didattica, accademica, giornalistica, narrativa. Saltano gli steccati tra i diversi approcci degli utenti: gioco, intrattenimento, informazione, studio, lettura, chiacchiera da bar, dibattito elevato. E molto più difficile distinguere tra quel che si fa per divertimento e quel che si fa sul serio, tra il tempo libero e il lavoro, tra un articolo e un taccuino d’appunti, tra una bozza e una stesura definitiva.
Lavoro sporco
Quanto appena detto è all’origine di un timore ancora molto diffuso tra gli intellettuali italiani: in Rete ci si sporca le mani. La spazzatura è ovunque, forse ancora più abbondante di quel 90% che secondo la legge di Sturgeon sarebbe la dose di scarti presente in ogni cosa. Ma un’altra legge, il teorema di Via del Campo di Fabrizio De Andrè, ci avverte che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori. La quota di talento di una comunità non è fissata a priori (e dunque non si diluisce se aumenta la produzione creativa). Un’amministrazione cittadina che si propone di combattere le scritte sui muri, ma non i graffiti “artistici”, non ha capito nulla di come nasce un’opera d’arte, di quale humus la nutre. Chi vuole condurre in Rete una battaglia culturale deve sapere che la qualità dei prodotti è spesso meno importante della qualità sociale e politica dei processi di produzione. Dev’essere pronto a mettere in discussione i suoi criteri di buono e di bello. Un racconto “bello da scrivere” potrebbe non essere “bello da leggere”, ma questo non lo renderà “brutto in assoluto”. Distinguere tra il bambino e l’acqua sporca non sarà solo difficile: il più delle volte risulterà impossibile.
Lavoro diplomatico
Nel lavoro culturale offline ci si propone spesso come obiettivo la definizione di concetti, significati e parole chiave, ma non appena ci si connette il bersaglio si sposta: dalla definizione alla negoziazione. Si pensi a Wikipedia, dove nemmeno un esperto potrebbe scrivere una voce enciclopedica senza sottoporla alla discussione collettiva. Nel lavoro culturale on line imparare a negoziare è più importante che imparare a definire: un concetto sfumato può rivelarsi più utile di un’architettura precisa e dettagliata.
Lavoro sovversivo
Il conflitto per la libertà d’espressione in Rete è tutt’altro che evaporato. Se prendere parola può sembrare banale, non altrettanto si può dire del prendere contenuti. O meglio: l’atto dell’appropriazione è altrettanto banale, ma le conseguenze sono ben più complesse, a causa delle varie leggi sul diritto d’autore, sulla pirateria, sulla proprietà intellettuale. Lo scontro tra l’interesse delle corporation e quello dei consumatori è ricco di contraddizioni, dal momento che le prime hanno sempre più bisogno di interagire con i secondi, ma allo stesso tempo devono cercare di porre dei limiti alla loro partecipazione. E’ ormai impossibile usare la Rete senza inciampare nei grovigli del copyright. Un lavoro culturale degno di tal nome dovrebbe assumersi la responsabilità di tagliare il nodo gordiano. Di abitare il conflitto, ma di sovvertirne le regole
@WM2,
se sei già in vacanza spero che te le stia godendo; in caso contrario spero che mi sappia dare qualche delucidazione, perchè ci sono alcune cose che non riesco a capire.
Il tuo testo è altamente condivisibile, e immagino che sia in buona misura il prodotto del vostro laboratorio collettivo e di tanti anni di pratiche , di lavoro culturale, tra sperimentazioni, successi e talvolta errori.
Ma ci sono alcune cose che non comprendo, forse per un mio limite di prospettiva, forse perchè ignoro quel retroterra di esperienza da cui scaturiscono le tue considerazioni. Vado al testo:
Chi vuole condurre in Rete una battaglia culturale deve sapere che la qualità dei prodotti è spesso meno importante della qualità sociale e politica dei processi di produzione.
Correggimi se sbaglio: i prodotti sarebbero gli strumenti, le armi, con cui combattere le battaglie culturali, giusto? Dunque linguaggi, concetti, canali di circolazione del sapere, come se fossero fucili, cannoni e nuove trincee. Se questo è vero, allora quello che conta è che nel processo di produzione siano intervenuti in tanti, abbiano appreso delle tecniche, acquisito saperi e consapevolezze. Poco conta che poi non li abbiano messi a frutto nel modo migliore: 100 fucilieri imprecisi sono meglio di 10 cecchini, se mi passi la boutade. Si farà meglio la prossima volta. Ho capito bene?
Distinguere tra il bambino e l’acqua sporca non sarà solo difficile: il più delle volte risulterà impossibile.
Se questo è vero, che alternativa possibile ci rimane? Sopportare il tanfo dell’acqua stagnante o commettere un infanticidio? Si riesce a scappare da questa logica binaria?
Nel lavoro culturale on line imparare a negoziare è più importante che imparare a definire: un concetto sfumato può rivelarsi più utile di un’architettura precisa e dettagliata.
Qua ti perdo. Per formazione sono abituato al rigore dei concetti, alla precisione delle definizioni operative, alla mappatura dettagliata dei territori. Dov’è il valore (culturale, sociale, politico, euristico) di un concetto sfumato? E soprattutto, qual è tale valore? Te lo chiedo davvero, perchè forse tu vedi qualcosa che io non riesco a vedere. Se negoziare significa dialogare, adattarsi al contesto e agli interlocutori nonchè alla specificità del mezzo informatico, sono assolutamente d’accordo; se negoziare significa adattare gli strumenti concettuali e le strategie di analisi e comprensione a una realtà fluida, anche. Ma è questo che intendi?
@ eFFe,
WM2 è in vacanza, io sono ancora qui, provo a chiarire io i punti che sollevi.
Credo che per “prodotti” WM2 intendesse le opere. Qui ripropone in formula quello che già scrivemmo in New Italian Epic:
«Un’obiezione tipica: che ne è del valore artistico, estetico, letterario? La maggior parte di questi “omaggi” transmediali amatoriali (video su YouTube, fumetti, racconti etc.) sono di scarso interesse e spessore.
E’ un errore giudicare l’interazione tra membri di una comunità solo in base alla qualità dei risultati (che tra l’altro è pure questione di gusti). Il premio è la virtù stessa, importante è che si collabori e comunichi. Altrimenti perché tutte le analisi sulla tessitura comunitaria dei quilt (coperte a patchwork) nella cultura rurale americana come momento determinante per la socializzazione e la riproduzione di una soggettività femminile? Porre l’accento soltanto sulla qualità della fanfiction è come sindacare sui colori scelti per un quilt senza guardare cosa succede intanto e intorno. Solo una volta riconosciuto il valore dell’interazione è possibile e lecito criticarne gli esiti.»
Quindi gli esiti sono importanti, ma va tenuto conto anche dei procedimenti.
***
Sulla questione bambino-acqua sporca, rileggendo l’intero paragrafetto mi sembra che WM2 volesse dire questo: quello che per me è l’acqua sporca, per un altro sarà il bambino, e viceversa. Dobbiamo abituarci a questo, e a differenziare gli strumenti. Dove un Cortellessa a occhio nudo vede solo acqua sporca, noi vediamo micro-organismi benigni, un intero ecosistema.
***
Sulla questione dello “sfumare”. Ludwig Wittgenstein (tra i filosofi prediletti da WM2) ha riflettuto molto su questo: molto spesso, nella vita quotidiana, ci riescono più utili le approssimazioni, le “famiglie” di significati e i concetti “sfumati” (nel senso che il loro confine non è una linea ma un alone) piuttosto che le definizioni millimetriche, i significati univoci e i concetti che non li puoi usare se prima non li hai definiti e compresi in ogni loro meandro e sfumatura.
Cito tre punti delle Ricerche filosofiche (Einaudi, 1967) che, proprio su suggerimento di WM2, avevo utilizzato nella mia risposta a Tiziano Scarpa:
«§71. Si può dire che il concetto di gioco è un concetto dai contorni sfumati. “Ma un concetto sfumato è davvero un concetto?” Una fotografia sfuocata è davvero il ritratto di una persona? E’ sempre possibile sostituire vantaggiosamente un’immagine sfuocata con una nitida? Spesso non è proprio l’immagine sfuocata ciò di cui abbiamo bisogno? Frege paragona il concetto a un’area e dice: un’area non chiaramente delimitata non può neppure chiamarsi un’area. Ma è davvero privo di senso dire: “Fermati più o meno lì”?»
«§77. Supponi di dover disegnare, avendo a modello una figura sfumata, una figura nitida “corrispondente” alla prima. In quella c’è un rettangolo rosso dai tratti imprecisi: al suo posto ne metti uno nitido. Se però nell’originale i colori sfumano senza traccia di confine, non sarà un compito disperato disegnare una figura nitida corrispondente a quella confusa? In questa situazione si trova chi, in estetica o in etica, va in cerca di definizioni che corrispondano ai nostri concetti. Quando ti trovi in questa difficoltà chiediti sempre: come abbiamo imparato il significato di questa parola? In base a quali esempi? In quali giochi linguistici? Allora vedrai più facilmente che la parola deve avere una famiglia di significati.»
«§88. Se dico a qualcuno: “Fermati pressappoco qui!” – non può darsi che questa spiegazione funzioni perfettamente? E non può anche darsi che ogni altra spiegazione fallisca? […] Ciò che è inesatto non raggiunge il suo scopo così perfettamente come ciò che è più esatto. Dunque tutto dipende da che cosa chiamiamo “lo scopo”. E’ inesatto non dare la distanza dal sole a noi fino al metro? E non dare al falegname la larghezza del tavolo fino al millimetro?»
Aggiungo: l’esempio dei graffiti che fa WM2 mi sembra quello più adatto a descrivere questa storia di bambino e acqua sporca. Negli ultimi mesi a Bologna buona parte del discorso pubblico ha riguardato il “problema” dei graffiti e delle scritte sui muri. Ennesimo segno che questa città è bella che finita. Con tutti i segnali di declino che ci sono, amministrazione commissariata, scandali, delirio, si salvi chi può, i writers sono diventati il capro espiatorio del “degrado”. Ora, come ricorda Giovanni, in diversi hanno detto: “Non ce la prendiamo con i pochi graffiti che sono vere opere d’arte, ma con quelli brutti, quelli che deturpano la città e sono solo atti di vandalismo. Bisogna selezionare i writers che sono veri artisti, distinguerli dagli altri e dare loro degli spazi regolati etc.”
Questo discorso è senza senso, sarebbe come dire: chiudiamo tutti i blog dove si parla di cose insignificanti, o che hanno una grafica dozzinale, e teniamo solo gli altri.
I graffiti belli e potenti possono esistere solo se esistono anche tutti gli altri. E’ la cultura/pratica diffusa del writing a garantire uno spazio collettivo d’espressione in cui, tentativo dopo tentativo, si possa fare qualcosa di toccante e memorabile. Lo stesso vale per la musica (se c’è un circuito di band vitale, l’esistenza di tante band scarse garantirà che ne esca qualcuna buona), per il cinema (non a caso in Italia la fine della vasta produzione “media” e medio-bassa ha tarpato le ali anche al cinema “d’autore”), per la letteratura, per le interazioni in rete. Quindi attenzione a dire “acqua sporca”.
grazie per questi compiti delle vacanze!
per festeggiare Robespierre, ecco la gogna alla quale sono stati sottoposti i giocatori della nazionale di calcio della corea dopo i mondiali:
http://www.lastampa.it/sport/cmsSezioni/calcio/201007articoli/28333girata.asp
che mondo!
La Corea del Nord sembra scritta dai Monty Python.
C’è una questione, un passaggio, che non mi è chiaro (nell’articolo di WM2 e più in generale nella mia visione di ciò che è la rete). Il punto è questo: ci sono aspetti del lavoro culturale che sono propri della rete, o che comunque hanno trovato nella rete un terreno fertile, e sono quelli che WM2 chiama lavoro sporco, mutante, liquido; quando però si passa dalla rete alla strada, o dal discorso culturale alle pratiche, mi sembra che dello spessore di quel lavoro si tenda a perdere le tracce. Detto in altri termini ho l’impressione che l’aspetto cooperativo e di contaminazione (fra bambino e acqua sporca) del lavoro di rete tenda a sparire nel momento in cui si esce dalla rete stessa, e che prevalgano di nuovo gli aspetti identitari, la costruzione di steccati e confini.
Ripensando alle retoriche sulla rete di una decina di anni fa, quando molti tendevano a metterne in risalto le potenzialità liberatorie e “rivoluzionariamente democratiche” (à la Castoriadis), mi pare che sia successo quasi il contrario, ossia che le logiche preesistenti abbiano modellato il modo in cui la rete viene usata. Più che sulle connessioni mi sembra che l’accento sia spesso (troppo spesso) sui nodi, e questo forse è connesso anche alla facilità con cui ciascuno, singolo o piccolo gruppo, può accedere a strumenti comunicativi (aprire un sito, un blog o altro), e usarli come mezzo per rafforzare la propria identità in opposizione ad altre.
Insomma, mi chiedo se e quanto il lavoro “sporco, mutante, liquido” sia in grado di influenzare il lavoro “di strada”, e più in generale se la rete per come è usata oggi sia veramente capace di accrescere la dotazione di beni pubblici/comuni.
Io ho un amico che guarda a queste cose da una postazione “privilegiata”. E’ il mio ex-compagno di banco al liceo, che oggi si occupa, tra le altre cose, di re-inserire nella vita i “traumatizzati gravi” (paralizzati in seguito a incidenti o ictus, gente che ha perso l’uso degli arti etc.) grazie alle tecnologie e a Internet. Li dota di puntatori oculari e dispositivi vari, installa loro i software, segue il loro percorso, li “educa” nell’accezione etimologica del verbo, cioè tira fuori – maieuticamente – il loro meglio. Li incoraggia a scrivere, a navigare, a comunicare col mondo.
Le persone che fanno questo lavoro sono a loro volta collegate tra loro in rete, hanno i loro forum, i loro spazi di confronto, di assistenza psicologica reciproca (perché, ragazzi, è roba tosta, bisogna essere non solo preparati, ma anche forti).
Bene, questo è un esempio di lavoro “sul campo” in cui la rete e la strada (“strada” è una metafora, può essere la stanza di una clinica, può essere la sala ricreativa di una struttura dell’ASL) non solo si influenzano, ma diventano la stessa cosa. Per quelle persone, la Rete è un pezzo di strada, è parte della loro “forma di vita”. L’ausilio telematico è la salvezza. Anni fa, in epoca pre-digitale e pre-rete, costoro sarebbero diventati… larve. Dal momento del trauma in avanti, il loro destino ineluttabile sarebbe stato la perdita di ogni autonomia, interazione col mondo, soggettività. Oggi per fortuna non è così.
[…Oggi alcuni di loro possono addirittura usare la rete per scrivere *di propria iniziativa* all’associazione “Luca Coscioni”, informarsi *di propria iniziativa* su quali paesi abbiano normative umane e decenti su interruzione delle terapie, morte assistita e dignitosa, discuterne, avviare campagne in tal senso, farsi sentire etc. E’ cronaca degli ultimi anni, basta fare una ricerca in rete per rendersene conto.]
Infatti quel mio amico detesta i discorsi banali, generalizzanti o anche pseudo-apocalittici sulla rete.
Ho riportato quello che è apparentemente un caso-limite per due motivi:
1) spesso i casi-limite, avendo profili più netti, permettono di comprendere meglio i casi… non-limite;
2) la rete, aumentando le opportunità di esprimersi, ha consentito un’esplosione di singolarità. Con la rete, possiamo vedere meglio le peculiarità delle esperienze. A quel punto, possiamo constatare che *tutti* i casi sono “casi-limite”.
E capire che quei traumatizzati gravi sono anche metafore viventi, sono degli exempla, possiamo rispecchiarci in loro: tutti noi, prima della rete, avevamo meno strumenti, meno opportunità etc. Oggi diamo troppo per scontato ciò che un tempo nemmeno ci sognavamo.
@WM1
Negare che la rete abbia aumentato a dismisura le possibilità di esprimersi, di costruire relazioni, di attivare circoli virtuosi che hanno influenze anche determinanti sulla vita off-line, sarebbe semplicemente sciocco. Il dubbio che ho, specialmente per quanto riguarda il lavoro culturale (e anche quello politico), è sull’esistenza o meno di una capacità diffusa di fare proprie in senso profondo le potenzialità della rete, e dunque di riportarle sul piano delle pratiche.
Per chiarire meglio cosa intendo provo a fare l’esempio dell’informazione. In linea teorica esiste la possibilità di dare vita a canali informativi nei quali i contenuti sono definiti da una fitta rete di utenti che sono al tempo stesso fornitori di notizie. Nella pratica in questi anni si è avuto da una parte la consunzione di piattaforme condivise per eccesso di rissosità, inaffidabilità delle fonti o altro (la parabola di Indymedia mi sembra in ciò paradigmatica), dall’altra parte un proliferare di iniziative singole o di piccoli gruppi (tendenzialmente sconnessi se non conflittuali fra di loro) che ha aumentato il rumore di fondo ma non mi pare abbia accresciuto altrettanto la qualità dell’informazione e la sua diffusione anche fra chi alla rete non è connesso. Insomma, mi sembra che i blog abbiano moltiplicato gli opinionisti e i battutisti (spesso di basso livello, e altrettanto sovente ricalcando il modello televisivo), non so con quale vantaggio per l’intelligenza collettiva.
[naturalmente faccio riferimento alla parte italiana della rete, e altrettanto ovviamente ci sono eccezioni anche rilevanti e un sacco di posti virtuali che sicuramente ignoro. Quello di cui parlo è il rumore di fondo, ciò che mi resta di una navigazione quotidiana fra siti d’informazione, blog e giornali italiani; mi è ben chiaro che questa visione è piena di limiti e soggettiva, ma credo che possa essere abbastanza condivisa – se non è così sono ben pronto a ricredermi]
Insomma, mi sembra che la rete sia un oceano ricco di isole anche floridissime, ma che sia ancora difficile, almeno in Italia, andare da una all’altra, e soprattutto trasportare ciò che si fa su quelle isole nella terraferma della nostra quotidianità (la metafora è orripilante, chiedo venia)
A proposito di anniversari. Segnalo che oltre al 216esimo anniversario della morte di Robespierre oggi è anche il 110imo anniversario del regicidio di Umberto I di Savoia da parte del buon Gaetano Bresci.
Con quel gesto Bresci intendeva vendicare la strage avvenuta a Milano nel 1898, quando l’esercito guidato dal generale Bava-Beccaris sparò su una folla di manifestanti…
Opera di bene? ;-)
@ Paolo, la tua impressione è fondata, almeno per quanto riguarda l’Italia. Che soffre in ogni comparto produttivo e ambito di vita, figurarsi se non soffre in rete. Infatti, noi crediamo che il lavoro culturale in rete consista anche nel costruire e mettere in mare traghetti, nel creare ponti di barche tra gli atolli più vicini, insomma, nel rendere più accessibile e vivibile l’arcipelago e rendere possibile, nella libertà di spostamento da un’isola all’altra, la “ricerca della felicità” (che per noi è un sinonimo di “lotta”). Più facile a dirsi che a farsi, certo. Ma non si parte da zero, le “buone pratiche” esistono già, si tratta di coordinarle meglio tra loro.
@ Mr Mills,
senz’altro opera di bene, ma riguardo a questo sai bene che, qui su Giap, la porta aperta è sfondata di default :-)
mi piacerebbe ospitare questo articolo sul nostro magazine online: “il bollettino dei moai” posso farlo?
saluti da http://www.ilrifugiodeimoai.it
@ Federico,
certo, nessun problema.
[…] emerse dai quotidiani e dal dibattito che ne è scaturito in rete qui , qui e qui. Ma anche qui e qui. Ci sarebbero altri “luoghi” molto interessanti, ma mi fermo. Dove? […]
“… come direbbe Henry Jenkins, ci si concentra soltanto su quello che la Rete fa alle persone, invece di domandarsi quello che le persone possono fare con la Rete. Rispondere al secondo quesito è uno degli obiettivi irrinunciabili della battaglia culturale, molto più di qualsiasi sabotaggio dimostrativo. (…) Non si tratta dunque di impersonare Robin Hood, ma di convocare a Sherwood quanta più gente possibile, per allenarsi insieme a tirare con l’arco e con la spada.”
Mi chiedo: sta in questo il passaggio da Luther Blissett a Wu Ming? Cioè da sabotatori del sistema informativo a collettivo più incentrato sulla narrazione? Certo, Q era firmato Luther Blissett, ma a quel tempo ne avete fatte di tutti i colori, per far sorgere crepe nell’infosfera, smontare meccanismi distorti nel modo di fare informazione. Niente più folk hero/Robin Hood, niente sabotaggi dimostrativi? Quel che conta è per voi ora costruire una comunità in modo positivo/propositivo piuttosto che metterla in guardia facendo scoppiare dinamite, in modo quindi “distruttivo”?
Secondo me questa cosa del Luther Blissett “distruttivo”, “sabotatore” è solo una parte di realtà, ed è la più piccola. E’ stata esagerata nel mito (del resto, tale esagerazione era una delle tattiche utilizzate all’epoca). In realtà lo scopo del LBP era far funzionare una comunità aperta e informale.
Io non ci riesco più, a parlare di LB, è una fase che sento lontanissima, un progetto finito undici anni fa, e l’ultima volta che ho fatto – insieme a WM2 – un grosso sforzo di ricapitolazione è stata nel 2006, nella lunga intervista a Henry Jenkins:
http://www.carmillaonline.com/archives/2006/10/001964.html
L’anno prima, avevo detto queste cose a Luca Muchetti, autore del libro Storytelling. L’informazione secondo Luther Blissett (scaricabile in pdf qui):
«La critica che io faccio a gente come Adbusters – che pure lavora bene – è quella di porsi solo come pars destruens, momento negativo. Faccio la parodia della pubblicità, critico il consumismo. Blissett aveva una pars construens, la volontà di costruire una comunità intorno a un mito che per affermarsi poteva usare anche quel tipo di pratiche, ma non solo. L’aspetto più importante per Blissett non era il sabotaggio, ma il mito che nasceva dal sabotaggio. Questo fu uno straordinario veicolo di relazioni interpersonali, centinaia di persone in Italia utilizzarono il nome Luther Blissett, coordinandosi in qualche maniera e senza il bisogno di conoscersi, mandandosi dei “messaggi in bottiglia”. Era una comunità aperta e informale. I falsi orditi ai danni dell’informazione servivano a creare un alone di leggenda ancora più grande, perché sempre più gente si unisse alla comunità e si appropriasse del nome. Il culture-jamming mi è sempre sembrato qualcosa di diverso. “Jamming” è quando metti una chiave inglese negli ingranaggi della catena di montaggio, “traffic jam” è l’ingorgo, significa insomma bloccare, fermare una cosa. Questa è una azione, un momento fondamentale che viene messo in atto anche da Luther Blissett, ma è una fase subordinata al resto […]
La continuità tra Blissett e Wu Ming sta nella narrazione. Anche Luther raccontava storie. Creava e raccontava storie mettendole in scena sul palcoscenico del mondo, vale a dire che tutto il panorama massmediale era considerato teatro da occupare. Le narrazioni che abbiamo creato erano davvero forti, pensa alla scomparsa di Kipper a “Chi l’ha visto?”. Quello è un racconto vero e proprio che, anziché fissarlo su carta, abbiamo semplicemente messo “in giro”. Wu Ming invece vuole raccontare l’aspetto più specifico del raccontare storie. Recuperare la tradizione del cantastorie, dell’aedo, del bardo, dello sciamano. Parliamo del potere curativo del raccontare storie, valido tanto per chi le ascolta quanto per chi le racconta. È storytelling artigianale. Wu Ming cerca di studiare le tecniche del racconto.
Sembra un lavoro più tradizionale, in realtà io credo sia sottilmente più sperimentale: miriamo al legame molecolare del “cosa è” raccontare una storia: ci interessano le nanotecnologie della storia. Ai tempi di Blissett lavoravamo al contrario su un piano “macro”.»
@WM1,
Ieri sera leggevo il tuo amato Deleuze (!): “A proposito dei nuovi filosofi e di un problema più generale” in Due regimi di folli e altri scritti (Einaudi 2010, pag. 107). Un testo del 1977 per certi tratti profetico, in un periodo in cui internet non era nemmeno un sogno. Dice Deleuze, a proposito della preponderanza dei giornalisti e della TV sugli scrittori/intellettuali:
Gli intellettuali, gli scrittori e persino gli artisti sono perciò esortati a diventare giornalisti se vogliono conformarsi alle norme. E’ un nuovo tipo di pensiero, il pensiero-intervista, il pensiero-conversazione, il pensiero-espresso
Pur con tutti i distinguo e con la tara menzionata dell’importanza dei processi e delle socializzazioni, sembra di sentir parlare di internet; il problema della natura del pensiero – e quindi della produzione culturale – resta. E anzi, a mio modo di vedere, investe proprio il passaggio da internet alla piazza, come ha giustamente detto Paolo Z. Continua Deleuze:
Non sto dicendo che questo rovesciamento, questo addomesticamento dell’intellettuale, questa «giornalizzazione» siano una catastrofe. E’ successo che nel momento stesso in cui la scrittura e il pensiero tendevano ad abbandonare la funzione-autore, questa veniva ripresa dalla radio, dalla televisione, dal giornalismo
Però poi, poichè Gilles di cognome fa Deleuze e non Cortellessa, aggiunge:
Non c’è bisogno di una simile scelta: o il marketing o la vecchia maniera. E’ una falsa alternativa. Tutto ciò che è vivo, oggi, sfugge a un’alternativa di questo genere. […] Il primo aspetto sono gli incontri […] intersezioni effettive, incroci di linee.
Ecco. Nulla di nuovo, magari, la riflessione – e il conseguente lavoro culturale – oggi è più avanti, perchè ha tantissimi materiali su cui lavorare, ossia le esperienze della rete. Ma maledettamente importante se si considera che queste parole sono del 1977… :-)
Segnaliamo questa riflessione breve ma incisiva di Luca Castelli:
NEMO MANITUANA IN PATRIA
Per questioni riguardanti il mio lavoro (o meglio: le mie condizioni di lavoro), sto pensando molto in questi giorni a quanto scrive WM2 sul lavoro culturale in rete, che vorrei intendere nel doppio senso di lavoro culturale «portato avanti utilizzando le enormi possibilità offerte da internet» e «utilizzando le enormi potenzialità insite nel lavoro realizzato in comunità, in modo partecipato».
Credo che, per quanti giri possiamo fare, alla fine la conclusione è sempre la stessa: lavorare insieme ci fa lavorare meglio; camminare con gli altri ci fa scoprire nuove strade. È vero quanto scrive WM2: «L’identità dei contenuti culturali si fa più liquida, autonoma, plasmata dagli utenti». E sì, il concetto di *liquidità* è il più frequentato, ultimamente; e, soprattutto, l’aggettivo *liquido* è il più usato, accostato ai sostantivi più diversi. Per non perderne il significato più fecondo, però, per seguire il ragionamento di Bauman sulla liquidità, penso che sia utile porre come necessaria premessa il lavoro dello stesso Bauman sulla comunità (Voglia di comunità, Laterza 2007).
In questo senso trova posto il “concetto sfumato”, che (per come lo intendo):
A1) viene elaborato da una comunità che riflette insieme;
A2) per sua natura presuppone che lo si discuta. Di fronte a un concetto preciso, una mappatura dettagliata, che possiamo dire a chi l’ha elaborato? O: «Bravo, sei un genio!»; o: «Bé, no, non hai capito niente. Eccoti qua il mio concetto, la mia mappatura». Ma alla fine il pensiero non procede, si chiude in sterili discussioni retoriche.
B) Provoca (o è preceduto da) la perdita dell’autore inteso come individuo solo (lato ‘romanticismo’ e lato ‘umanesimo’: solo perché “disperato”, in preda alla tempesta delle sue indicibili, uniche emozioni; solo perché “uomo di genio”, che vive in luoghi elevati, inaccessibili al volgo).
In questo senso, è vero: il lavoro “attraverso” la Rete deve diventare lavoro “in” rete (= insieme ad altri). La difficoltà? Il rischio? Ritrovarsi nella famigerata “notte in cui tutte le mucche sono nere”: credere cioè che la semplice presenza della Rete ci autorizzi a prendere la parola. E invece – come abbiamo visto con la vicenda del boicottaggio della Mondadori –, se non studiamo, se non conosciamo, se non ci sforziamo di avvicinare le realtà su cui intendiamo intervenire, la Rete sarà solo un immenso bar da frequentare per dire ‘parole in libertà’ che dopo un attimo sono dimenticate, che rimangono “le mie”, “le tue”, “le sue”, mai “le nostre”, mai quelle di una comunità che agisce, insomma.
La disponibilità a conoscere, a pensare in modo attento e critico, a mettersi in discussione, a “partecipare” il proprio pensiero e le proprie idee consegnandole alla relazione con un altro pensiero, con altre idee, credo debba essere l’attitudine principale di chi vuole seriamente portare avanti il lavoro culturale (qualsiasi sia, ovunque lo si faccia).
@danae
Io sono convinto che comunque stiamo vivendo lo sviluppo di un territorio di possibilità davvero importanti. Certo essere “in rete” non è sufficiente e starci a dovere non è facile: il rischio dello sproloquio è dietro l’angolo. Personalmente cerco di prendere il meno possibile a cuor leggero la semplice pressione del tasto “invia commento” o “pubblica”. O almeno ci provo. Quindi dipende dallo spirito con il quale ognuno di noi si rapporta con questo tipo di cose che fa la qualità di una conversazione o di un blog. A me, devo ammettere, è capitato di partecipare a thread davvero notevoli o anche semplicemente di leggere articoli molto belli scritti da chi sa chi. Fino a pochi anni fa me lo sognavo.
Certi luoghi possono funzionare da ottimi aggregatori di senso e di questo credo ci sia un gran bisogno.
@ Sir Robin,
d’accordissimo con te!… E proprio per questo sono convinta, come te, che sia necessario lavorare in questa direzione: perché ci siano sempre più thread notevoli e utili, perché ci siano sempre più articoli interessanti, perché si riesca ad agire concretamente attraverso il lavoro di riflessione in rete/Rete.