[Sul sito della “Compagnia del Libro”, trasmissione culturale in onda su TV2000 (il canale TV della Conferenza Episcopale Italiana), è apparsa una recensione de L’eroe imperfetto di Wu Ming 4, a firma del filologo, critico letterario e giornalista Saverio Simonelli. La riproponiamo qui, con un commento di WM4.]
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Parla il linguaggio raro dell’approfondimento e della competenza nella divulgazione questa ultima fatica saggistica di Wu Ming 4: solida preparazione filosofica, ampio ventaglio di letture e soprattutto una capacità di scantonare sia dalla consueta schiera di riferimenti canonici, sia dall’approccio effimero ai concetti di un web sempre più appiattito sulla contemporaneità e sulla petulanza.
L’Eroe Imperfetto (Bompiani, pagg.164, Euro 10) è un libro agile che raccoglie tre saggi realizzati in tempi differenti ma tutti accomunati dall’analisi della figura, delle caratteristiche, della storia, dell’evoluzione nelle concezioni dell’eroe: un archetipo – come si legge da subito – in crisi ma necessario, una figura che più si approfondisce nei suoi lati ambigui, meno ovvi e muscolari, più si rivela utile e fruttuosa proprio quando sembrava non essercene più, brechtianamente, bisogno.
Perché il bisogno, appunto, è diverso. Perché la necessità oggi è di decodificare e comprendere la stratificazione, l’apporto a più voci fornito dalle diverse culture nel corso dei secoli alla formazione di questa figura. Per capire che più eroi formano un eroismo composito e sfaccettato. E l’unico modo di comprenderlo e riutilizzarlo è proprio smontandolo nelle sue componenti.
In fondo, ci ricorda Wu Ming, «il mito si mette in crisi con un altro mito, intervenendo sulla trama», e forse smagliando, aggiungiamo noi, la rete dei riferimenti orizzontali – alla storia – e verticali – alle narrazioni fondative – per tesserne altre, nella consapevolezza che la validità di una vicenda e la propulsività propria del raccontarla sono in grado di generare essenze e colori come un cristallo attraversato dalla luce.
E la luce in questo caso è la fiducia nell’invenzione della narrazione, perché l’eroe non è tale senza un’epica che lo “inventa” per il suo pubblico e l’epica non è tale senza una poesia, una “poiesis”, cioè “fattura” della narrazione, la sua composizione a partire dalle unità minime del discorso, dalle strutture formulari, dagli elementi ricorrenti e riconoscibili che creano quindi consenso già all’atto dell’ascolto.
Come felicemente osserva l’autore, proprio un eroe moderno e ambiguo come Lawrence d’Arabia ci aiuta a comprendere questo crearsi dell’epica contribuendo alla creazione del suo personaggio attraverso un suo proprio scritto, I sette pilastri della saggezza, ma anche costruendo la sua figura grazie anche a citazioni letterali dei comportamenti di eroi antichi come Achille o Gilgamesh o addirittura scimmiottando nella sua narrazione delle tecniche canoniche: le lunghe nomenclature di capi arabi e ufficiali britannici rispecchiano lo stile iterativo degli elenchi degli eroi inaugurato proprio da Omero.
Lawrence dunque eroe epigono di altri eoi, ambiguo come Odisseo – Lawrence stesso, di formazione classica si era cimentato con la traduzione del poema omerico – caleidoscopico nel suo lasciare artatamente intravvedere modelli e caratteristiche che l’hanno preceduto.
Ma il rapporto tra la figura dell’eroe e “le parole per dirlo” raggiunge esemplarità in un poemetto semnisconosciuto ai più: La battaglia di Maldon, torso di 325 versi in antico inglese pervenutoci amputato di inizio e fine, delizia e tormento per gli studenti di filologia germanica, che Wu Ming ha anzitutto il merito di riesumare dalle sue brume medievali. La vicenda racconta lo scontro avvenuto nel sud dell’Inghilterra nell’anno 991 tra un’orda vichinga capitanata dal pirata Tryggvason e gli uomini del Conte Beorhtnoth difensore dell’Essex. Per orgoglio personale e per fedeltà agli ideali eroici germanici, il Conte concede ai vichinghi di attraversare il ponte che li separa dalla terra ferma per combattere la sfida ad armi pari senza considerare o meglio tralasciando il particolare dell’inferiorità numerica in cui si trovano i suoi soldati; particolare che si tradurrà fatalmente in una rovinosa e inevitabile sconfitta e con la morte del condottiero stesso. Wu Ming segue passo passo il racconto dello scontro evidenziando come le parole della narrazione e degli stessi contendenti contengano, nascondano e svelino quella specie di gioco di scacchi tra difensori e invasori. Tryggvason infatti offre a Beorhtnoth il combattimento a viso aperto e sul campo perché è convinto che l’anziano Conte, imbevuto di racconti di gesta eroiche, sappia fin troppo bene che per accedere alla gloria non potrà permettersi di difendere a oltranza l’istmo, una difesa troppo volgare e astuta per entrare di diritto nel novero degli eroi, ma dovrà affontare il nemico faccia a faccia anche se questo o forse proprio perché questo lo porterà alla bella morte sul campo.
«Il pirata Tryggvason» spiega Wu Ming «sta scommettendo sulla forza della letteratura, perché conosce il potere ammaliatore dell’epica e sta per incastrare il vecchio Beorhtnoth, offrendogli la possibilità di indossare un manto di gloria. Gli sta offrendo l’eternità della poesia.»
Questa interrelazione tra azioni e bagaglio di storie e valori oltre a mostrarci quanto di costruito e quindi di umanamente imperfetto ci sia nell’eroismo germanico si rivela una formidabuile sottolineatura del potere della parola, della sua capacità reale di cambiare le carte in tavola della storia e di redistribuirle secondo la capacità retorica di chi le usa meglio. Così conclude Wu Ming dopo aver passato in rassegna le due continuazioni della battaglia di Maldon scritte rispettivamente da Borges e Tolkien, ambedue favolosi artigiani della parola:
«Noi interagiamo con le narrazioni allo stesso modo in cui interagiamo con il mondo che ci circonda, consapevoli che per cambiarlo abbiamo innanzi tutto bisogno di raccontarlo diversamente.»
Molto riuscita nell’ultimo capitolo è anche l’analisi di un antieroe come il Sam del Signore degli Anelli che con la sua diversità dai canoni e l’autoironia tipica degli hobbit sovverte non solo le convenzioni ma la storia stessa della Terra di Mezzo. Altri personaggi chiamati in causa da Wu Ming sono il Galvano del poemetto medio inglese Sir Gawain e il Cavaliere verde, – anche lui un eroe molto imperfetto tra peccato e castità, fedeltà e paura – e la “Santa Rossa” di un giovane John Steinbeck.
Meno felice e puntuale è il frequente riferimento dell’autore alla declinazione delle diverse tipologie della cosiddetta figura archetipica della “Dea”, in omaggio al modello del Robert Graves de I Miti Greci. Probabilmente è anche un limite o forse un’idiosincrasia di chi scrive questa recensione, ma il ricondurre taluni aspetti, eventi e frasi di personaggi a figure primordiali, vaghe e opinabili, cercando rispondenze in culti ancestrali non ha la stessa convicente precisione dell’analisi che segue “dal basso” la storia delle parole e il suo puntuale utilizzo, e soprattutto rischia di rivestire di schematicità azioni e modi narrativi che sono stati assai meglio spiegati lasciandoli accadere di fronte al lettore come smaglianti ancorché imperfetti contenitori di eventi e storia. A noi questo sembra un sovrapporre a delle culture letterarie antichissime categorie di intrepretazione escogitate da moderni (come la psicanalisi) e proprio per questo troppo lontane dalla mens dei personaggi per poterle fedelmente spiegare.
La filologia, cui Wu Ming per il resto ottimamente ricorre, questo non lo fa. La filologia guarda i mattoni che creano il senso, compulsando ma rispettando la letteralità di quanto legge, e quando inventa pone comunque un asterisco. Come disse una volta Tom Shippey, uno dei maggiori filologi germanici viventi “un importantissimo vantaggio della filologia (diversamente per quanto posso capire dalla psicologia junghiana) è rappresentato dal fatto che essa ci porta fuori da noi stessi, a guardare cose esterne alla nostra mente”.
Il nostro grazie va comunque a Wu Ming proprio perché quasi sempre in questo saggio ha veramente portato il lettore fuori da se stesso e dalle consuete letture, per territori quasi interamente sconosciuti.
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Robert Graves e la cassetta degli attrezzi
di Wu Ming 4
Questa bella e articolata recensione di Saverio Simonelli solleva un punto critico sul quale è doveroso spendere qualche parola.
Simonelli muove una critica forte al modo in cui tratto la relazione tra la figura dell’eroe e il divino femminile. Lo fa riferendosi alla vaghezza e opinabilità dei collegamenti tra la mia analisi testuale e certi “culti ancestrali” e “figure primordiali”, che caratterizzerebbero il mio terzo saggio: L’eroe e la dea.
«A noi questo sembra un sovrapporre a delle culture letterarie antichissime categorie di interpretazione escogitate da moderni (come la psicanalisi) e proprio per questo troppo lontane dalla mens dei personaggi per poterle fedelmente spiegare.»
In realtà io ne L’eroe imperfetto non faccio uso di categorie psicanalitiche. In un solo caso utilizzo l’espressione junghiana “inconscio collettivo” (ma nella sua accezione più limitata e circoscritta agli aspetti culturali) e quando parlo di “archetipi” lo faccio sempre in riferimento all’ambito mitico-narrativo. E’ vero che mi avvalgo spesso delle parole di due autori di formazione junghiana, cioè Joseph Campbell e Heinrich Zimmer (che di Campbell fu il maestro), ma lo faccio agganciandole alla teoria poetica di Robert Graves espressa ne La Dea Bianca, un testo il cui sottotitolo è: “Grammatica storica del mito poetico”, dove l’accento è posto sulla poesia e la storia letteraria, appunto.
Questa scelta è stata dettata non solo da un limite conoscitivo personale, ma soprattutto dalla mia scarsa convinzione che esistano connotati psichici universali dell’essere umano riscontrabili in un passato ancestrale. Questo però non mi impedisce di vedere le assonanze e i temi ricorsivi presenti nella tradizione mitico-letteraria, con particolare riferimento alla relazione tra l’eroe maschile e una figura femminile con poliedriche, ancorché determinate, caratteristiche.
Non essendo un archeologo né un antropologo, non sono in grado di dire quanto sia fondata sul piano storico l’ipotesi dell’esistenza di un forte culto del divino femminile precedente all’avvento del pantheon patriarcale pagano. Se assumo questa ipotesi è solo, gravesianamente, dietro suggerimento del mito, che rende conto di tale ingombrante presenza – la Dea -, e della letteratura, che la rielabora fino ai giorni nostri. Ma il mio discorso ritorna sempre all’ambito mitico-narrativo, appunto.
L’idiosincrasia onestamente dichiarata da Simonelli – che lo spinge a richiamarmi all’ordine filologico (sia detto scherzosamente) contro la sovrainterpretazione psicanalitica del mito – non lo aiuta forse a mettere a fuoco il punto che mi preme.
L’ipotesi gravesiana è per me affascinante perché mette in crisi la tradizionale rappresentazione della storia prodotta dal cristianesimo, basata sul passaggio di consegne tra paganesimo politeista e monoteismo ebraico-cristiano, introducendo una terza incomoda – la Dea – all’interno di una narrazione tutta patriarcale. Prendo quindi in esame questa presenza sul piano testuale, come riverbero di un’antica – e sopravvivente sottotraccia – tematizzazione del rapporto tra i generi.
La chiave del mio approccio è dichiarata peraltro in una nota, dove affermo che con l’espressione “divino femminile” mi riferisco «sempre all’insieme di immagini e temi poetici connessi alle figure femminili nella mitologia e nella letteratura, e al significato che possono ancora avere per noi, influenzando in profondità il nostro agire narrativo.» (L’eroe imperfetto, pag. 158).
E’ naturale che essendo io un romanziere e non un filologo ponga inevitabilmente l’accento sull’azione narrativa. Ovvero che mi ponga il problema di come rideclinare la figura eroica anche e soprattutto in riferimento all’altra metà del cielo e agli elementi di irriducibilità e di sovversione che la componente femminile incarna e porta all’interno del racconto. Perché evidentemente credo si tratti di un’urgenza che riguarda le attuali narrazioni, intese anche e soprattutto come narrazioni poetiche del mondo.
Se la filologia scava in profondità per restituirci il senso primo delle parole e dei concetti – dei mondi – di cui si fanno portatrici, la narrativa pretende di usare quelle parole per costruire nuovi edifici letterari, nuovi racconti. J.R.R. Tolkien, un autore che io e Simonelli amiamo molto, faceva entrambe le cose: sapeva distinguere le antiche pietre lessicali e concettuali riutilizzate in costruzioni più recenti, ma sapeva anche apprezzare i nuovi effetti poetici ottenuti attraverso quelle stratificazioni e cimentarsi lui stesso nell’impresa di tradurli nel presente.
In questo senso, nel suo piccolo – se vogliamo piccolissimo – L’Eroe imperfetto prova a offrire una cassetta degli attrezzi.
Quando ho letto il libro di Wu Ming 4 mi sono ripromesso di scrivere qui un commento sul tema, che ho il sospetto sia in qualche modo centrale, visto che negli ultimi anni la Grande Dea ha ripreso a fare capolino sempre più spesso: ad es. in Giuseppe Genna, poi in Manituana e in Altai, e ora esplicitamente ne L’eroe imperfetto (a proposito, non ne parla solo Jung: anche Freud scrisse una breve nota al riguardo). Solo che non ho affatto le idee chiare sull’argomento. Probabilmente l’attuale crisi del patriarcato doveva per forza preludere ad un ritorno in grande stile della Dea, e forse siamo in procinto di assistere ad una qualche possente epifania. Chi lo sa?
Il link non è andato. Ci riprovo: la nota di Freud è qui
Già nell’altra discussione dedicata a L’eroe imperfetto ho evocato la consonanza/eco di alcuni spunti delle pagine di WM4 con le pagine di Aldo Carotenuto su L’anima delle donne. Penso quindi che un certo versante della lettura junghiana sia utile per cogliere alcune linee narrative ricorrenti, che si muovono all’interno delle letterature (e tra una letteratura e l’altra) come fiumi carsici, o onde di risacca.
La storia delle parole, il loro utilizzo, può risultare manchevole se non si ricorda che quelle parole “servono” a stabilire connessioni tra persone, tra pensieri, tra visioni del mondo. Meglio: una filologia che sia mera critica testuale (= ricostruire a partire dalle varie versioni conservate quella che è più vicina all’originale scritto dall’autore) è quasi un assurdo. Per distinguere una lectio facilior da una difficilior (= se le varie copie di un testo presentano versioni differenti, la parola più “difficile” è quella più vicina all’originale) devo conoscere il contesto culturale che le ha prodotte e le ha usate. Insomma: una filologia astratta, che semplicemente «guarda i mattoni che creano il senso» non mi sembra granché utile (i mattoni, da soli, non *creano* il senso).
Inoltre, non mi convince, delle considerazioni di Simonelli, il fatto che non consideri possibile “sovrapporre a culture letterarie antichissime categorie di interpretazione escogitate dai moderni” (sintetizzo). Non mi tornano i conti, non riesco a capire. Se fosse vero, dovrebbe esistere solo la critica militante e dovremmo rinunciare a ogni ripensamento del passato, che rimarrebbe così, fissato in uno schema pensato secoli fa… A rigore, si dovrebbe eliminare dal ragionamento di WM4 La battaglia di Maldon. E invece proprio quel testo rende ben ragione di questa nuova categoria narrativa dell’eroe imperfetto.
Poi, la questione della Dea. E’ il punto-chiave dell’interpretazione. Può venire il dubbio di un’idiosincrasia che riguardi proprio la presenza del divino (potente) femminile, che *spariglia* le carte tra il paganesimo politeista e il monoteismo? Da questo punto di vista, quello che ho trovato personalmente più interessante della lettura di WM4 è la “collaborazione” tra l’eroe e l’elemento femminile, l’uscita cioè da una logica di contrapposizione e di esclusione tra elemento maschile ed elemento femminile.
La questione della Grande Dea è una delle grandi questioni dell’occidente. Dea abscondita in apparenza sconfitta dalle divinità olimpiche (inquadrate nell’ordine patriarcale) e nelle religioni monoteistiche, la grande Dea non ha mai smesso di proiettare la sua ombra sulla civiltà occidentale. Il folclore, il mito, la letteratura ne parlano in continuazione. Nel mito la dea esiliata e umiliata si vendica ritirandosi dalla terra, chiedendo sacrifici in grado di risarcirla della sconfitta, e gli dei o gli eroi maschili continuano a temerla e a combatterla, demonizzando la sua forza. E’ il conflitto Sole-Luna, al centro di culti in opposizione tra loro. Quelli dedicati alla Luna sono molto più antichi – a questo proposito io ho trovato bellissime le pagine dei primi tre episodi di “Sarum” di Edward Rutherfurd (facilmente le avete già lette).
Credo che il peggio sia venuto dall’età moderna, tra Riforma e Controriforma, che ha imbalsamato (o negato, come in certe correnti del mondo protestante) l’archetipo della Madre nella fredda forma della Vergine, casta , fredda e affidabile. Segue l’epoca della natura ridotta a res extensa. Distesa, scriveva Leopardi, su un tavolo da obitorio (ovviamente ho semplificato molto, anche perché nella cultura degli strati più umili della popolazione la Grande Madre vive eccome, assumendo le molte forme della “bona dea”. Le Madonne nere e del latte raffigurate nelle stalle credo lo dimostrino).
Se il tema viene sempre più sentito .e discusso in ambiti molto diversi (dalla psicologia analitica all’antropologia alla letteratura e alla critica) non è senza significato. Questo è un nodo che va sciolto. Ma sciogliere certi nodi è possibile solo all’interno di un grande cambiamento epocale, secondo me. I libri non bastano. Però credo che l’intuizione del rapporto esistente fra i due archetipi, dell’Eroe e della Dea Madre (che ha dentro tutti gli aspetti del femminile, simbolicamente rappresentabili con le fasi lunari), sia molto importante. E’ una via da seguire, anche se non è priva di insidie. La Dea è un personaggio scomodo (oltre che terza incomoda), tentare di addomesticarla o di farla rientrare negli schemi delle diverse ideologie significa perderla. Forse per questo molti personaggi femminili della letteratura del passato e del presente risultano poco convincenti. La figura della madre (benigna o maligna, fanciulla-giovane-vecchia) ha un ruolo fondamentale nelle fiabe, poiché segna l’inizio e la fine del percorso iniziatico intrapreso dall’eroe. Al di fuori della relazione l’eroe non può esistere.
Ma mi sono allontanata dalla questione del post.
Quoto Roberta: “La Dea è un personaggio scomodo (oltre che terza incomoda), tentare di addomesticarla o di farla rientrare negli schemi delle diverse ideologie significa perderla”.
In effetti Robert Graves sosteneva proprio l’inafferrabilità della Dea. Secondo lui la Dea poteva solo essere amata e adorata come Musa, mai posseduta o compresa. Tuttavia Graves era un pessimista, non riteneva possibile che la società industriale contemporanea fosse più in grado di recuperare l’antico amore per il divino femminile e quindi per la natura, il pianeta, la poesia. Tanto è vero che si ritirò a vivere su un’isola delle Baleari, seguendo il ritmo e lo stile di vita agreste, pur guardandosi bene dal proporre questa come scelta o soluzione collettiva. Sosteneva anche che non poteva esistere una precettistica per adorare la Dea, dato che “nel suo servizio è la perfetta libertà”. Non aveva quindi indicazioni generali da dare per agevolare il ritorno in auge della Dea. Di una sola cosa si diceva certo: “Quanto più si continua a posporre la sua ora, e pertanto quanto più le risorse naturali del mare e del suolo vengono esaurite dall’empia sconsideratezza dell’uomo, tanto meno pietosa sarà la sua quintuplice maschera e tanto più angusto l’ambito d’azione che essa concede al semidio da lei scelto come suo temporaneo consorte nella divinità.” (La Dea Bianca)
Non è solo la torsione ecologica del discorso di Graves che mi sembra importante, ma anche e soprattutto il collegamento diretto che lui traccia tra il recupero della centralità del femminile e le conseguenti potenzialità del maschile. Questo colloca già la questione femminile – intesa nel senso più lato possibile, come relazione tra i generi e come recupero di una narrazione che riconsegni alla Dea il porprio posto – nel cuore di ogni progetto di cambiamento del mondo.
Bisognerà dunque mettersi in viaggio e andare in cerca della Dea.
E purtroppo temo non starà lì ad attenderci come l’Infanta Imperatrice.
Mi chiedo se a qualcuno di voi è capitato di veder “The Antichrist” di Lars von Trier. E’ un film di un paio di anni fa. Lo dico perché leggendo le considerazioni di Robert Graves riportate da Wu Ming 4 le immagini di quel film mi sono passate davanti agli occhi, curiosamente:
“Secondo lui la Dea poteva solo essere amata e adorata come Musa, mai posseduta o compresa.”
Non sto a raccontarne la trama, ma con un linguaggio ellittico e bè, anche un po’ ruvido, vi si racconta un tentativo impossibile di comprensione da parte dell’archetipo maschile – razionale – dell’universo femminile – umorale. Marito e moglie rappresentano due principi, si va per grandi linee. I due subiscono un trauma e lui, psico-terapeuta, cerca di riportare l’”Ordine”. Ma, suo malgrado, viene trascinato (da lei) in un universo delirante e dissennato, la casa nel bosco, dove la Natura prende letteralmente la parola.
Il film è avvolto in una coperta narrativa di cupa depressione autodistruttiva (non mancano momenti di raccapriccio autentico), è certamente un’esperienza forte, un incubo. Tanto che alcuni critici hanno accusato il regista di aver fatto un film il cui solo scopo è disgustare e provocare il suo pubblico. Secondo me questa è però una lettura frettolosa e inadeguata, pur riconoscendo che il buon (?) Lars non è certo una linea retta.
Spero di non essere andato troppo OT, ma mi è sembrato sensato citare questo film in questo contesto dal momento che, mi ricordo, lo lessi come un tentativo di declinare in maniera diciamo così, di conflitto performato e per nulla risolto, il rapporto problematico che la nostra civiltà ha vissuto e vive nei rispetti, come dice WM4, della questione femminile. Insomma della Dea, diciamocelo. Ricordo che uscendo dal cinema il film ci rimase appiccicato addosso, a me e alla mia ragazza (nostro malgrado), per un bel po’. Ma, che io sappia, “in giro” non se è parlato quasi per nulla, se non incidentalmente. Suppongo che il tema sia percepito come coriaceo e allo stesso tempo autenticamente centrale.
Non ho visto il film, e adesso sono piuttosto incuriosita. Ma è vero che mito e folclore prevedono la rappresentazione di queste spaventose tragedie del femminile. Sono generalmente scatenate da ferite infilitte dal maschile e davanti alle quali il femminile “impazzisce” letteralmente, trascinando il mondo nel caos.
Penso a Demetra, Medea, e a certe vicende macabre: Progne serve in tavola le carni dei figlio Iti al marito Tereo che le ha violentato e mutilato (della lingua) la sorella…
Varrebbe la pena di riflettere sulle ragioni di questa follia. Quali sono cioè le offese che il femminile non può assolutamente tollerare, davanti alle quali si trova perfino costretto a negare la sua stessa natura, disintegrando i principi minimi dell’ordine universale?
Mi vengono in mente tante cose, per esempio che nella propaganda nazista la rappresentazione della Grande Madre Germania umiliata e ferita e perciò assetata di vendetta si rivelò uno strumento molto efficace.
@ Roberta
la prima metà dei tuoi commenti è sempre composta da geroglifici, noi li cancelliamo quando possiamo, ma se risolvi la cosa a monte è meglio. A quanto pare, i commenti li scrivi prima in un programma tipo Word e poi, copiandoli, raccogli anche dei “caratteri di controllo” invisibili. Puoi mantenere questa procedura, ma prima di copiarli e incollarli, salvali in “solo testo”, e vediamo se così va bene.
grazie, scriverò direttamente (ma i caratteri sono così piccoli e io sono diventata così presbite!)
@ roberta b.
Neanch’io ho visto il film di cui parla Sir Robin (per altro non sono un grande estimatore del cinema di Lars Von Trier), ma solo per chiarire che il mio angolo di visuale è un po’ diverso dal tuo. Personalmente non saprei che significato attribuire a espressioni come “natura del femminile” e “principi minimi dell’ordine universale”. Quindi per seguirti avrei bisogno di riformulare i quesiti che poni.
Quanto alla Grande Madre Germania evocata dai nazisti, direi che è puro mito tecnicizzato, per dirla con Furio Jesi.
Adesso il problema dei caratteri troppo piccoli (inteso: troppo piccoli mentre si scrive il commento) dovrebbe essere risolto.
Il plugin “MCEcomments” permetteva di vedere in cima alla finestrella una barra di comandi html (grassetto, corsivo etc.), ma aveva il difetto di mostrare caratteri microscopici. Quindi l’incomodo era superiore al vantaggio.
Disattivato il plugin, si torna alla finestrella commenti “nuda” e senza fronzoli.
La Grande Madre che si “rimangia” i figli o arresta i processi di crescita e di rigenerazione (Demetra) non è giunta forse a negare la sua stessa natura?
Per principi minimi dell’ ordine universale intendo quei principi
senza i quali
– non c’è nessuna possibilità di dare “forma” al caos (per ordine intendo in questo caso quello che i greci chiamavano cosmo). So che la parola “ordine” non piace a molti, per me è una parola come un’altra: il suo significato dipende dal contesto. So anche che per alcuni la forma è sostanzialmente maschile e la materia, le tenebra il caos femminili. Ma la tessitura, la trama, il destino, la storia…non presuppongono un concetto di forma ( e quindi di ordine) femminile?
– non c’è più l’umano ma la bestia
Quello che dici sulla Grande Madre Germania mi trova ovviamente d’accordo. Resta il fatto che il sostrato mitico dell’immagine finalizzata al controllo ideologico funziona.
[…] è stato per la recensione di Saverio Simonelli de L’eroe imperfetto, è giusto dialogare con quella di Claudio Antonio Testi, membro fondatore dell’Istituto […]
[…] Ad ogni modo, qualcuno il libro lo lesse, e lo commentò pure. Ecco alcuni stralci di recensioni apparse all’epoca: […]