Speciale #PointLenana: Alto Adige, Trento e Trieste, Internazionale, video, recensioni

Point Lenana sullo Chaberton

Point Lenana sul Monte Chaberton, Alpi Cozie, 3131 mt. Grazie a Luigi per avercelo portato. Clicca per ingrandire.

Nuovo speciale su Point Lenana e tutto quel che lo circonda e accompagna.
Nella scorsa puntata abbiamo definito il tour (de force) “un’opera transmediale” che vive di vita propria e prosegue il libro con altri mezzi. Dov’è passato, il tour ha stimolato riflessioni, ed è così che Flavio Pintarelli, poco prima, durante e dopo la tappa bolzanina e il pellegrinaggio laico in Vallunga sulle orme di Emilio Comici, ha scritto il testo che vi proponiamo, una dérive nell’eredità architettonica fascista in Alto Adige, con interrogativi sull’uso pubblico della memoria che non riguardano solo quella zona ma tutto il Paese.
L’appena menzionata Vallunga compare in una delle fotografie che illustrano questo post e, come sempre, documentano la prassi di portare in montagna una copia di Point Lenana e fotografarla tra le rocce, per poi mettersi in posa come Fred Astaire e Ginger Rogers nella copertina.
Copertina senz’altro eterodossa, che a molti è piaciuta ma ha anche attirato critiche, come sentirete nell’audio della presentazione trentina del 6 settembre, una delle più dense e intense da quando WM1 si è messo in viaggio.
“Trento e Trieste”. La toponomastica irredentista ha giustapposto le due città in modo talmente insistente che ancora oggi qualcuno le crede vicine. Per la cronaca, distano l’una dall’altra 185 km in linea d’aria e 326 in automobile. Percorriamoli e spostiamoci nell’unico capoluogo di provincia italiano sito al di là dell’Adriatico. In questo speciale la storia triestina è molto presente:
– è al centro della discussione avvenuta in via Diaz, di fronte alla libreria “In Der Tat”, il 31 agosto scorso, della quale proponiamo un lungo stralcio audio (o meglio, ve lo propone Lo.Fi. sul tumblelog dedicato a Point Lenana);
– è la sostanza stessa del “videomessaggio” (ehm…) girato da WM1 al giardino Pubblico “Muzio de Tommasini” e pubblicato sul sito di Internazionale;
– infine, permea il report critico di Claudia Cernigoi appena apparso su Carmilla, riguardante l’ultima “novità” del panorama politico triestino: un movimento neoindipendentista di massa. Mettiamo “novità” tra virgolette perché, a Trieste più che altrove, nulla sembra mai accadere per la prima volta, persino quando non è mai accaduto prima. Segnaliamo l’articolo di Cernigoi, che sarà seguito da altri contributi, per mostrare come la storia narrata in Point Lenana continui a plasmare l’oggi a ogni livello, nutrendo un movimento che si dice “né-né” e ha appena uno o due gradi di separazione rispetto a soggetti che più bruni (nel senso del colore della camicia) di così non potrebbero essere. Il passato non è alle nostre spalle, ma sulle nostre spalle.
Chiudiamo lo speciale con un video quantomeno bizzarro: una cronaca dada-escursionistica dell’ascesa al Monte Vettore, nel gruppo dei Sibillini, organizzata dalla Cooperative Risorse feat. Wu Ming 1, con presentazione di Point Lenana al rifugio Forca di Presta. Rifugio che quel giorno, per una coincidenza, era pieno zeppo di alpinisti sloveni!
Buona lettura.
P.S. Ricordiamo che il tour prosegue, qui il calendario fino a fine ottobre.

Reading «Point Lenana» in Alto Adige: urbanistica, architettura e  colonialismo


di Flavio Pintarelli

«I muri fanno il nido nel cuore e nella testa: si ereditano come il dna e sono contagiosi.»

Maria Nadotti, Addio a Berlino 1

Se mi chiedessero di indicare la frase che meglio racchiude il senso del colonialismo fascista probabilmente non sceglierei un discorso del Duce e neppure la strofa di una delle molte marcette che accompagnarono le avventure coloniali del regime. Sceglierei invece questa frase scritta in lingua latina: “Hic patriae fines siste signa. Hinc ceteros excoluimus lingua, legibus, artibus”.

Che tradotta recita “In questo luogo abbiamo posto i confini della patria. In questo luogo abbiamo colonizzato gli altri con la lingua, le leggi e le arti”. Gli altri ovvero i barbari come suggeriscono gli strumenti della colonizzazione, ovvero “la lingua, le leggi e le arti”.

Ma chi sono questi altri? A chi è rivolta questa frase? E soprattutto da dove è tratta?

La frase in questione campeggia sul frontone del Monumento alla Vittoria di Bolzano, propio ai piedi del bassorilievo raffigurante la “Vittoria saettante” realizzato dallo scultore Arturo Dazzi. Questo distillato dello spirito colonialista del Fascismo non si trova dunque nelle terre d’oltremare ma entro i confini d’Italia, quei confini che la Prima Guerra Mondiale disegno sulla cartina d’Europa dopo quattro interminabili anni di conflitto di posizione.

Hic Patriae Fines

Chi ha letto Point Lenana sa che uno dei piani che il libro di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara intreccia nella narrazione della vita di Felice Benuzzi è quello del colonialismo italiano che ebbe durante il Fascismo (ma non solo) una duplice declinazione: esterna e interna.

Il colonialismo interno – che ebbe luogo nelle terre irredente che l’Italia riuscì a strappare all’Austria dopo il voltafaccia nella Grande Guerra – vestì i panni dell’italianizzazione forzata delle popolazioni autoctone (sloveni nella Venezia Giulia e tirolesi in Alto Adige) e non fu meno violento del colonialismo esterno. Anzi si può tranquillamente dire che tra i due progetti coloniali ci fossero ampi e documentati tratti di continuità nei metodi e nelle finalità.

Che Trieste sia uno dei luoghi attorno a cui s’irradia la scrittura di Point Lenana non è un caso. Il primo motivo è semplice: proprio nel capoluogo giuliano crebbe e si affermò come uomo e alpinista Felice Benuzzi e non sarebbe possibile ricostruirne la vicenda senza metterne in luce il carattere. Un carattere fortemente influenzato dalla cultura cosmpolita dell’Impero Austrungarico nella quale Benuzzi era stato cresciuto ed educato.

Quella cultura che il Fascismo cercò di estirpare, inizialmente ricorrendo alla violenza squadrista e poi affiancandole, dopo la presa del potere, la gestione della vita delle persone attuata attraverso i sistemi legislativi, le ordinanze e i regolamenti: dispiegando perciò in questo modo l’ordine del discorso colonialista su quel territorio; e questo ovviamente è il secondo motivo.

Chi scrive è nato, cresciuto e attualmente vive in Alto Adige, per la precisione a Bolzano; una città e una regione che, come già ho avuto modo di dire sopra, condividono la condizione di colonie interne del Regime a cui anche Trieste e i territori limitrofi vennero destinati.

Il modo in cui Point Lenana inquadra il rapporto che il Fascismo ebbe nei confronti delle terre irredente annesse all’Italia è importante per capire quanto le dinamiche sociali e politiche in quel periodo fossero legate e connesse e non possano essere lette senza tenere conto di questi legami.

«L’Africa e Trieste. Colonialismo e irredentismo giuliano. La vicenda di Benuzzi è a cavallo tra due mondi che hanno molto a che fare l’uno con l’altro. anzi, sono l’uno il presupposto dell’altro.» [1]

È a partire dalla lettura di Point Lenana che ho cominciato a riflettere sul fatto che r ispetto a quanto il libro racconta del rapporto tra il Fascismo e Trieste il caso bolzanino presenti un aspetto che pur nella continuità di logiche e discorsi lo rende peculiare [2] .

Uno delle caratteristiche distintive del colonialismo si esprime nell’intervento sul territorio, sul paesaggio, sugli edifici e sui luoghi. Intervento che si traduce immediatamente in una “micro gestione del vivere quotidiano”. Basti pensare a Littoria (oggi Latina) la città sorta dalle paludi dell’Agro Pontino come immagine stessa del Regime, oppure alla narrazione tossica che vuole gli italiani in Africa alacri costruttori di strade e infrastrutture in genere. Brutalität in Stein, così i registi tedeschi Alexander Kluge e Peter Schamoni definiscono – con formula alquanto fortunata – questa caratteristica, usando la formula come titolo per il loro cortometraggio sulle architetture nazionalsocialiste.

La presenza fascista in Alto Adige si lega a doppio filo con la storia dello sviluppo urbanistico e architettonico della città di Bolzano che si rivela perciò essere una straordinaria lente attraverso cui leggere tanto il discorso colonialista, quanto quello fascista.

In questo post vorrei presentare un’analisi dei principali interventi urbanistici che il Fascismo ha operato a Bolzano tra il 1925 e il 1943 (anno in cui, in seguito alla destituzione di Mussolini, l’Alto Adige venne occupato militarmente dalle forze armate del Terzo Reich), soffermandomi con particolare attenzione su due monumenti dal respiro apertamente colonialista per poi concludere il ragionamento facendo riferimento al ruolo che questi monumenti ricoprono nel presente e alle problematiche che pongono a chi alla militanza antifascista affianca la tensione alla conservazione del patrimonio storico-artistico nazionale.

In questo modo spero di fornire strumenti utili alla comprensione di uno degli aspetti che più caratterizzano il discorso colonialista e la sua peculiare declinazione nell’idioma del Fascismo.

Dal “piccone risanatore” all’“estetica regolatrice”: urbanistica fascista a Bolzano

Nel corso della sua storia la città di Bolzano ha conosciuto cinque importanti periodi di sviluppo cittadino che ancora oggi danno alla città il suo aspetto: il primo Medioevo, il tardo Medioevo, il periodo compreso tra il 1880 e il 1924, il periodo fascista dal 1925 al 1943 e infine gli anni sessanta e settanta.

È significativo notare come fino all’avvento del Fascismo la città non sia mai stata un centro di potere politico o spirituale. Stretta a ovest dai domini dei Conti di Tirolo, a sud e a est dalle sedi vescovili di Trento e Bressanone, Bolzano fu per secoli soltanto una città mercantile le cui fortune si alternarono nel corso del tempo. La via Portici, l’antico decumano, rappresenta ancora oggi il cuore della città ed è non a caso una via commerciale che con sempre maggiore fatica resiste alle logiche omologanti che molti altri centri storici stanno subendo da una ventina d’anni a questa parte.

L’attenzione del Fascismo nei confronti dell’Alto Adige fu estremamente precoce. Cominciò un anno e mezzo prima della Marcia su Roma, il 24 aprile del 1921. Quel giorno, conosciuto come Bozner Bluttsonttag (domenica di sangue bolzanina), squadristi da ogni parte d’Italia calarono su Bolzano terrorizzando la popolazione e uccidendo, tra le mura di palazzo Stillendorf, il maestro Franz Innerhofer.

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Poco dopo la presa del potere, «a partire dal 1923 risultano formalizzate le prime indicazioni per il controllo etnico e sociale, dirette ad arginare le espressioni più significative della tradizione tedesca e, al contempo, a legittimare l’associazione all’Italia come frutto di continuità storica» [3].

Non credo sia sbagliato notare che, probabilmente, uno dei motivi che spinsero il Regime a scegliere Bolzano come centro della propria presenza in Alto Adige sia stata la storica assenza di un centro di potere precedente. Il Potere e il suo discorso si esprimono sempre anche attraverso l’architettura e l’urbanistica, e non dover competere con altre simili espressioni di potere potrebbe aver rappresentato per il Fascismo un vantaggio strategico nell’attuare il proprio programma di italianizzazione dell’Alto Adige. Un programma che si espresse anche nell’articolato intervento di ampliamento di Bolzano

Tuttavia la città fu scelta anche per altri motivi, uno di questi è la sua romanità. Sebbene le fonti più attendibili facciano risalire la fondazione della città al 1180 la Tavola Peutingeriana del IV secolo riporta che nel 15 a.C. il generale Druso detto il Germanico, figlio della terza moglie di Augusto, mosse alla conquista della Alpi e costruì un accampamento detto Pons Drusi (il ponte di Druso) che “si ritiene possa collocarsi nell’attuale area bolzanina” (Wikipedia).

Il Fascismo non si fece scappare l’occasione di riprendere e tecnicizzare la vicenda del generale Druso a suo uso e consumo. Vennero lanciate numerose campagne di scavo archeologico per riportare alla luce resti che attestassero la presenza romana nella regione e, soprattutto, gli interventi architettonici monumentali vennero realizzati con uno stile anticheggiante per sottolineare questa continuità e la città di Bolzano venne soprannominata “sentinella d’Italia” in memoria del condottiero che aveva pacificato i confini.

Nella realizzazione della “Bolzano italiana”, progetto che ebbe inizio dopo l’assimilazione del comune di Gries al comune di Bolzano (progetto “Grande Bolzano”), il regime si trovò di fronte a due istanze. Innanzitutto doveva realizzare degli interventi che ne esprimessero l’immagine e che avessero la forza di cancellare le influenze che la cultura tedesca aveva espresso nel corso della Storia; con un particolare astio nei confronti del Gotico come “significazione di dominio straniero sulle anime e sulle coscienze” [4]. In questo modo avrebbe potuto affermare con la forza evidente delle Pietre il dominio italiano sulla regione. Dall’altra parte il Fascismo doveva dare vita a interventi di carattere funzionale che permettessero di portare la popolazione cittadina da 55.000 a 100.000 abitanti.

Ogni colonia ha infatti bisogno dei propri colonizzatori e per dare ulteriore impulso all’italianizzazione dell’Alto Adige il Regime decise di “favorire” l’immigrazione verso le nuove terre a partire dagli anni Venti e poi, con maggiore consistenza, dopo il 1935 in seguito all’industrializzazione.

Non si trattò di fenomeni spontanei e questi flussi migratori delineano un quadro di provenienze dagli spiccati tratti di classe. Il ceto medio impiegatizio e dei funzionari era caratterizzato da un quadro di provenienze piuttosto vario e da una coesione che si reggeva sulla “concordanza di orientamento politico e di modelli di comportamento”.

Diverso il discorso per il proletariato la cui provenienza è circoscritta a livello regionale in particolare alla Lombardia e al Veneto.

Lo sviluppo dell’architettura urbana bolzanina seguì questa duplice composizione di classe della popolazione italiana immigrata. Per impiegati e funzionari vennero realizzati interventi abitativi ispirati al modello della “città giardino” e a colladuati moduli stilistici già sperimentati in area veneziana [5] una “ambientazione di colore veneto” che “si avvale di un disegno accurato di particolari decorativi in un assortimento di riferimenti bizantini, gotici, rinascimentali, derivati dalla tradizione popolare della città lagunare” [6].

Per gli operai, in particolare dopo l’industrializzazione del 1935, vennero realizzati quartieri di residenza popolare al servizio della neonata Zona Industriale . Decentrata rispetto alla citta istituzionale sorse una vasta edilizia ispirata al tipo della borgata semirurale che fondeva insieme un vernacolo architettonico di sapore padano e l’idealizzazione fascista dei modelli della “sana e operosa” vita contadina. Nel marginalità e nella distanza dalla città istituzionale dei luoghi in cui venne espressa questa tendenza regionalistica si deve leggere una chiara indicazione della segregazione sociale a cui il proletariato era stato destinato dal Fascismo nello sforzo coloniale delle terre irredente.

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Seppur tutti orientati allo sforzo di affermare il carattere d’italianità della nuova colonia, questi interventi diedero vita a un coro di voci contrastanti che raccolsero sotto l’attributo fascista termini usati in architettura secondo specifiche espressioni linguistiche come moderno , razionale , romano ma usati indifferentemente e ambiguamente.

L’artefice di questo progetto fu l’architetto Marcello Piacentini.

Iconografia colonialista: il monumento alla Vittoria e il fregio della Casa Littoria

A Marcello Piacentini non si deve soltanto la progettazione urbanistica della “Bolzano italiana”, l’architetto romano fu anche l’autore del Monumento alla Vittoria, il sacrario sul cui frontone campeggia la frase “Hic patriae fines siste signa. Hinc ceteros excoluimus lingua, legibus, artibus”, sormontata dalla minacciosa statua della “Vittoria saettante” che tende il suo arco verso nord, in direzione delle ostili Austria e Germania.

La prima pietra del Monumento venne posta nel 1926 [7] e il cantiere dell’opera ebbe termine due anni dopo, nel 1928. Pensata inizialmente come omaggio all’irredentista Cesare Battisti (fucilato dagli austriaci nel 1916) l’opera divenne ben presto l’affermazione simbolica della vittoria sul nemico d’oltralpe e fu progettata per essere il centro da cui si sarebbe dovuta irradiare la nuova città auspicata dal regime. Non a caso il Monumento è stato posto perpendicolarmente alla direttrice che attraversa da est a ovest l’antico centro storico da via dei Portici al ponte Talvera attraverso via Museo, quasi a volerne interrompere il corso, segnandone il confine.

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Il Monumento alla Vittoria è estremamente eloquente per quanto riguarda il discorso colonialista in Alto Adige ma dice molto anche sul rapporto tra il Fascismo e il passato. Lo stile infatti richiama gli antichi templi greci ma le colonne, trasformate in fasci littori, paiono voler affermare un quarto ordine architettonico; dopo il dorico, lo ionico e il corinzio apparve il littorio.

All’interno, al centro del colonnato, vi è una statua in bronzo che raffigura il Cristo Redentore mentre nei nicchioni simili a cappelle trovano posto i busti dei martiri Filzi, Chiesa e Battisti (quest’ultimo si irredentista, ma di fede socialista, la cui famiglia ebbe sempre in uggia l’appropriazione che il Fascismo operò della memoria del loro parente).

Nel Monumento alla Vittoria simbolismo religioso e simbolismo del potere convivono insieme alla tecnicizzazione del mito (la grecità) e della Storia recente (l’irredentismo) a cui si aggiunge la bellicosa dichiarazione che campeggia sul frontone.

Ne La Guerra del Peloponneso il padre della storiografia greca, Tucidide, racconta di come gli eserciti che si fronteggiavano sul campo di battaglia erano soliti erigere, dopo una vittoria, dei tempietti votivi detti trofei. Un trofeo poteva venire realizzato anche dopo una semplice battaglia o, addirittura, dopo la vittoria in uno scontro mentre nei dintorni ancora infuriava la battaglia.

Il trofeo era un modo per marchiare il territorio e affermarne l’apparteneza di una porzione all’esercito vincitore. Il Monumento alla Vittoria di Bolzano è un moderno trofeo eretto a immagine e somiglianza del regime fascista come simbolo di conquista. Non stupisce perciò che, dato il suo carattere apertamente colonialista, il sacario sia stato obiettivo di attentati dinamitardi durante la lunga e opaca stagione delle bombe (Bombenjahre).

Oltre al Monumento alla Vittoria c’è a Bolzano un’altra opera d’epoca fascista dal carattere apertamente colonialista: il fregio realizzato dalla scultore Giovanni Piffrader [8] sul frontone dell’allora Casa Littoria, oggi Palazzo degli Uffici Finanziari.

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Le figure del fregio rappresentano «la marcia ascensionale dell’Italia Fascista, dai tempi grigi e gloriosi della vigilia rivoluzionaria, alla conquista dell’Impero, alla guerra di Spagna, alla liberazione del Mare Nostrum» [9]. In pratica una narrazione dell’epopea fascista di 36 metri per 5,5 realizzata sullo stile della Colonna Traiana nel cui centro, al posto che l’iconografia storicamente riservava e sovrani e imperatori, torreggia la figura del Duce a cavallo. C’è chi si spinge a ipotizzare che questa figura del Duce a cavallo possa fare riferimento all’ episodio della spada dell’Islam:

«Il 18 marzo 1937 il duce sbarca a Tobruk dall’incrociatore Pola e inaugura la via Balbia, che attraversa tutta la costa libica. La visita dura fino al 21 e vede Mussolini percorrere la “sua” terra con l’aereo e l’auto, infaticabile anche se visibilmente appesantito. Alle porte di Tripoli, il giorno 20, il momento più solenne. Nell’oasi di Bugara il duce appare a cavallo dalla sommità di una duna, è accolto dal triplice grido di guerra dei combattenti musulmani, si erge sulle staffe del suo cavallo bianco, alza al cielo la spada con l’elsa in oro massiccio che il capo del contingente berbero gli ha appena consegnato e si proclama “protettore dell’Islam”. Intorno echeggiano le salve di cannone; dietro di lui è schierata una colonna di 2.600 cavalieri, con i quali entrerà a Tripoli. Il colpo d’occhio è suggestivo e pochi s’interrogano sul fatto che un cristiano “infedele” possa proclamarsi “protettore dell’Islam”.»

In che modo il Duce protesse la Libia negli anni a venire è storia che chi ha letto Point Lenana e legge questo blog conosce bene, qui basti dire che il ricordo lasciato dal “protettore” è lordo di sangue ma anche che la spada del Profeta ha, tempo dopo, avuto la sua meritata vendetta.

Tra politica ed esigenze di conservazione: cosa fare dei relitti del Fascismo?

Oggi a quasi settant’anni dalla caduta del regime la questione dei monumenti fascisti a Bolzano pone ancora numerosi problemi sia politici che di carattere storico e conservativo. Ciò che è accaduto tra la fine del 2010 e i primi mesi del 2011 è utile per capire quali sono le tensioni e le difficoltà nell’affrontare la npesante eredita di quelli che, con metafora fortunata, sono stati chiamati “relitti del Fascismo”.

Nel febbraio del 2011 all’allora ministro dei Beni Culturali del governo Berlusconi, Sandro Bondi, venne confermata la fiducia grazie ad una risicata maggioranza. Erano passati soltanto due mesi dalla giornata del 14 Dicembre, quando la rabbia giovanile aveva incendiato le strade della Capitale dopo che il governo Berlusconi era riuscito a ottenere la fiducia del Palamento grazie a quello che alcuni chiamarono il “mercato della vacche”.

Cruciale, nel salvataggio del vate toscano del PDL, fu l’astensione dei due senatori della Suedtirole Volks Partei (SVP) il principale partito di raccolta della minoranza tedesca dell’Alto Adige. Una scelta piuttosto inconsueta. Da anni l’SVP, pur avendo dinamiche interne trasversali, è alleata del PD e delle coalizioni di centrosinistra. Fin’ora il legame tra il PDL e gli esponenti ex MSI di Alleanza Nazionale ha reso compromettenete qualsiasi approccio tra la SVP e il centrodestra di lingua italiana.

Inoltre solo pochi giorni prima della votazione l’Obmann della SVP Richard Theiner aveva dichiarato sarebbe assurdo votare per un ministro che con il dispendioso restauro del Monumento alla Vittoria di Bolzano si è giocato ogni simpatia”.

Che cosa era successo nel frattempo di così importante da far cambiare idea ai deputati Zeller e Brugger? In cambio dell’astensione il ministro Bondi aveva promesso ai deputati SVP la rimozione del fregio con il Duce a Cavallo, descritto nel paragrafo precedente.

In una città in cui l’eredità del Fascismo non è fatta soltanto di urbanistica e architettura ma rappresenta anche una forte influenza culturale e politica (tanto che nel dopoguerra Bolzano fu, in proporzione, la città italiana dove il MSI riscuoteva tra le più alte percentuali di voto) una decisione di questo genere ha avuto subito un effetto esplosivo.

La destra italiana locale ha gridato immediatamente allo scandalo e in poco tempo Casa Pound ha chiamato a raccolta i suoi militanti per una manifestazione nazionale contro il ministro Bondi e per l’italianità di Bolzano. Manifestazione che ha avuto come corollario una sequela di dichiarazioni bellicose da parte della destra tedesca in un’escalation di revanchismo e nazionalismo tanto virulenta quanto di rapida risoluzione.

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Le questioni etniche in Alto Adige, quando vengono sollevate, hanno spesso un valore pratico pari allo zero assoluto, ma sono assai utili per compattare l’elettorato. Non è un caso che l’SVP abbia scelto di stuzzicare la questione dei monumento fascisti proprio in un periodo in cui il partito stava perdendo consensi alla propria destra.

La questione dei monumenti fascisti, per chi si pone al di fuori della logica dello scontro etnico e nella galassia antifascista, è estremamente problematica. Ancora più problematica se ci si occupa di conservazione dei beni storico artistici.

A mio avviso la rimozione dei relitti del fascismo è un atto pericoloso perché risveglia logiche di scontro etnico, logiche che sembravano sopite ma che i venti di crisi degli ultimi anni sembrano aver riattizzato. Inoltre agire in questo senso fornisce alla galassia neofascista l’opportunità di giocare il ruolo delle vittime, così com’è accaduto nella costruzione del discorso sulle foibe. Discorso che ha dato alla destra un forte elemento simbolico attorno a cui costruire la propria identità erodendo nel contempo il carattere fondativo della Resistenza per la Repubblica Italiana.

La rimozione di questi monumenti rischia di rafforzarne il potere trasformandoli in feticci da sventolare in tutte le occasioni in cui serve mobilitare le persone attorno ai simulacri dell’identità nazionale, gli stessi simulacri imposti dal fascismo nella sua colonizzazione dell’Alto Adige.

In un saggio uscito recentemente, Le pietre e il popolo, lo storico dell’arte Tomaso Montanari riflette sullo stretto rapporto che lega il carattere di un popolo e gli spazi che esso vive ed abita. È nel legame tra le persone e quella memoria concreta fatta di edifici, strade e piazze che risiede il valore e la funzione civile del nostro patrimonio.

Il Fascismo ha fatto parte della nostra storia e della nostra cultura nazionale. Ancora oggi, settant’anni dopo la caduta del regime, ne troviamo ovunque e con sempre maggiore frequenza i segni. Cicatrici che sembravano rimarginate tornano a pulsare e si gonfiano di pus. Questa contraddizione della nostra storia e della nostra cultura non può essere rimossa e musealizzata senza prima essere stata affrontata di petto.

Se noi oggi, nei monumenti, nell’architettura e nell’urbanistica fascista possiamo leggere i segni del regime, la tecnicizzazione del passato che operò e le palesi istanze colonialiste che ho cercato di mettere in luce in questo post, lo dobbiamo al fatto che “solo nelle idosincrasie e nelle rotture che questi relitti operano nello spazio circostante possiamo davvero intraprendere un dialogo con essi e intendere la delirante lingua che parlano: la lingua del totalitarismo” ( Recensione a Le pietre e il popolo ).

Come studiosi, antifascisti e internazionalisti il nostro compito è quello di togliere a questa lingua delirante e ai suoi discorsi ogni legittimità politca, sociale e storica con la forza delle argomentazioni e l’impegno nella militanza.

All’iconosclastia che trasforma la memoria in arma e feticcio dobbiamo opporre una costante azione di depotenziamento, decostruzione e critica del linguaggio e del discorso fascista. Così come hanno fatto gli artisti Arnold Holzkecht e Michele Bernardi, finalisti del concorso di idee per coprire il fregio con il Duce a cavallo, bandito pochi mesi dopo i fatti del febbraio 2011.

Holzknecht e Bernardi proponevano di proiettare sul bassorilievo una frase di Hanna Arendt “Nessuno ha il diritto di obbedire – Niemand hat das recht zu gehorchen”. Un intervento semplice che, con la forza del montaggio, agiva come un granello di sabbia nell’ingranaggio retorico del regime.

Purtroppo il concorso di idee non ha mai avuto un vincitore. Il Duce cavalca ancora e la nostra ferita pulsa, ma non abbiamo mai smesso di accettare la sua sfida.


[1] Wu Ming 1, R. Santachiara, Point Lenana , pag. 139.

[2] Ammetto in questo caso una conoscenza purtroppo superficiale delle vicende storiche triestine e se questa peculiarità bolzanina dovesse in seguito dimostrarsi infondata chiedo anticipatamente perdono per il mio campanilismo, che giustifico soltanto con la buona fede il rigore dell’analisi che verrà presentata in seguito.

[3] O. Zoeggeler, L. Ippolito, L’Architettura per una Bolzano Italiana 1922- 1942 , pag. 48 Tappeiner, Lana 1992

[4] G. Gerola, Architettura minore e rustica trentina , in “Architettura e arti decorative” VIII, marzo 1929; cit. in O. Zoeggeler, L. Ippolito, op. cit. , pag. 49

[5] Ibidem , pag. 60 “È dato registrare, comunque, ripetuti tentativi di avallare l’esistenza di una ininterrotta linea culturale comune ad Alto Adige e regione veneta; l’argomentazione, così come è espressa soprattutto dalla rivista di Tolomei, si fonda sulle prove di una secolare influenza della Repubblica Veneta, successiva nel tempo soltanto a quella della conquista romana. Ma dalla convinzione di questa continuità storica scaturiscono dalla stessa fonte per la città istituzionale soltanto proposte di carattere palesemente celebrativo”

[6] Ibidem. , pag. 58

[7] Nella lista dei finanziatori civili dell’opera, alla terza posizione, campeggiano due fratelli Pintarelli, probabilmente lontanti parenti della famiglia di mio padre.

[8] La figura di Piffrader come artista è del tutto particolare. Prima del fregio lo scultore realizzò il monumento ai Kaiserjäger sul Bergisel di Inssbruck e solo in seguito aderì al Fascismo. Dopo la guerra invece che essere epurato venne eletto presidente del neonato Künstlerbund (Associazione degli artisti), a riprova di come la Storia e la politica altoatesine seguano strade non sempre lineari.

[9] V. Passalaqua, descrizione contenuta nella Relazione del Segretario Federale, inviata alla Sovrintendenza della Mostra della Rivoluzione Fascista (Roma) in data 19. 9. 1942.

 

 

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TRENTO E TRIESTE

Point Lenana a Trento, Bookique, 6 settembre 2013 – 1h 47′ 44″
Point Lenana a Trento, Bookique, 6 settembre 2013 – 1h 47′ 44″

Con il giornalista Luca Barbieri e il sociologo Christian Arnoldi (la prima voce che si sente).

Da Q a Point Lenana. Tredici anni di asce di guerra.
Sul tumblr di Point Lenana, estratto di 57’ ultra lo-fi (con tanto di rumori del traffico della vicina via S. Giorgio e parlottamenti di Lo. Fi.) della presentazione tenutasi a Trieste, davanti alla Libreria In Der Tat, con il libraio Alberto Volpi e lo storico Piero Purini il 31 agosto scorso

Ed ecco il videomessaggio nel quale Wu Ming 1 annuncia la presentazione al festival di Internazionale, il 6 ottobre prossimo.

Point Lenana from Internazionale on Vimeo.

A proposito di Internazionale, due settimane fa è apparsa sulla rivista una seconda recensione di Point Lenana, a firma di Frederika Randall, più critica di quella scritta da Goffredo Fofi che vi abbiamo proposto due speciali fa.

"Il nostro porto è il vostro porto". Manifestazione di indipendentisti triestini a Vienna, 22 giugno 2013

“Il nostro porto è il vostro porto”. Manifestazione di indipendentisti triestini a Vienna, 22 giugno 2013.

Su Carmilla > TRIESTE LIBERA – di Claudia Cernigoi

A introduzione/integrazione dell’articolo qui linkato, e senza parlare specificamente del MTL, è importante dire che a Trieste ci sono sempre state, culturalmente parlando, due destre: una fascista e “italianissima”, l’altra austro-nostalgica.

La prima ha spadroneggiato a lungo, regalandoci pure alcuni politici nazionali il cui cavallo di battaglia erano le foibe, ma adesso sembra (ripetiamo: sembra) appannata e in perdita d’egemonia.
La seconda – non meno reazionaria – si è preservata soprattutto grazie a tradizioni private, lessici famigliari e una certa editoria locale, senza mai potersi esprimere esplicitamente sul piano politico.

Implicitamente, però, lo ha fatto: un certo indipendentismo – ma non quelli internazionalisti e antifascisti di cui racconta Andrea Olivieri – ha fatto leva sul sentimento “carsico” di nostalgia per l’Austria Felix. Sentimento fondato su dati storici reali (l’annessione all’Italia trasformò uno dei più importanti porti d’Europa in un porticciolo semi-abbandonato, con conseguente grave declino di tutta la zona), ma che nel dopoguerra ha assunto connotazioni ambigue, talvolta criptonaziste.
Una parte della borghesia triestina ha sempre rimpianto – con discrezione – l’occupazione tedesca. Come raccontato anche in Point Lenana, le SS si presentarono come eredi del Reich di Franz Joseph e promisero di far tornare la città agli antichi fasti (e profitti). Per gli austronostalgici l’indipendenza di Trieste, quando viene rivendicata, è una sorta di “ripiego”. Il vero sogno sarebbe la restaurazione dell’Impero, cosa ovviamente impossibile.

A differenza degli “italianissimi”, gli “austro-criptonazisti” non ce l’hanno con gli sloveni. Le SS adottarono strumentalmente la causa degli sloveni perseguitati dall’Italia, e riaprirono le scuole slovene che il fascismo aveva chiuso. Lo stesso comandante superiore delle SS nella Trieste occupata, Odilo Globočnik, era di origine slovena.
Il rimpianto per l’antico Reich include di default il rimpianto per il suo multiculturalismo. Ma si tratta di quel multiculturalismo. Il multiculturalismo di cent’anni fa. Su quello di adesso, sembrano regnare vaghezze e non-detti.

Non si può prendere in esame l’ultima voga neoindipendentista se si ignora quest’agitarsi di pulsioni sullo sfondo.
Attenzione, ciò non equivale a bollare questo movimento tout court come nazista, e nemmeno Cernigoi fa una cosa del genere. Però serve a porre la domanda, anche ai compagni triestini che – magari per curiosità, o per… “panmovimentismo” – non disdegnano di partecipare a inizitive pro- TLT: è proprio tutto chiaro, a Trieste, in questi giorni? A cosa servono (a chi servono) i movimenti “né-né”? E ci sono gli anticorpi per le particelle virali che potrebbero diffondersi?

Avremo in modo di tornarci sopra, senza snobismi, ma anche senza confusionismi. [WM1]

Testimonianza video di un’escursione in montagna con Fred Astaire che, lamentandosene, canta di aver visto solo il mare!
(Prima canzone di Follow The Fleet, 1936 – film la cui visione “decritta” una delle sottotrame di Point Lenana).
E con questo, per questa volta, è tutto. Buone scarpinate.

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5 commenti su “Speciale #PointLenana: Alto Adige, Trento e Trieste, Internazionale, video, recensioni

  1. per dare un’idea del tipo di subcultura che si puo’ trovare in una certa trieste:

    “El Governator del TLT no pol esser cittadin ‘talian e nianche triestin, nè ex yugoslavo. Ma el devi volerghe sicuramente ben a Trieste, el devi anche conosserla, conosser la sua Storia e i fondamenti della sua economia e dei rapporti con el bacino naturale de utenza del porto.
    L’unico candidato con una ottima reputazion internazionale, esperto de politica, che ga tutte ste caratteristiche xe questo: [Karl Habsburg]
    E quando el riverà a Trieste, el vignerà annuncià cussì:
    Carlo d’Asburgo…. Arciduca d’Austria…Conte Principesco di Gorizia e Gradisca, Principe di Trento e Bressanone… Signore di Trieste e Governator del TLT… signore di Cattaro eccetera.”

    (da un forum triestino)

  2. appena chiuso le ultime pagine del libro e già mi manca….dopo il libro ispiratore , letto tempo fa su consiglio di amico straniero ( davvero qui è poco conosciuto…) questo è stato davvero una scorribanda nel passato italiano , in quello di Benuzzi ma anche un ritornare su molte delle cose che lungo la mia permanenza in africa e nelle ex-colonie italiane di qualche anno fa avevo tristemente appreso sulla storia occultata dell’italia colonizzatrice…
    ” E dunque, che razza di libro è questo ? ”
    un gran bel libro…. Lauretta

  3. Scusate l’invadenza, ma ho letto ora su le monde.fr che è morto il mitico generale Giap.
    Bisognerà mandargli un ricordo!

  4. Ebbene non applicherei mai a Point Lenana l’agettivo “eccessivo” adoperato da Randall. Tutto si può governare meglio, come lei auspica, ripulire, raffinare nei raccordi. Ma l’interesse del libro è proprio il ricco tessuto dei discorsi e delle suggestioni che fa, la complessità dell’inquadramento. Anche se a qualcuno darà sempre l’impressione di far fatica – ahi! beh, leggere è anche questo, pensare, collegare, proiettarsi in avanti sulle proprie idee e quant’altro, riflettere.
    Se non è “ipertestuale”, un’operazione ibrido-biografica non è neppure interessante ;-).

    P.S.: non per tirarvela, ma ho letto anche io di Giap. L’idea di un saluto alla Giap viene, indubbiamente.
    Grazie dell’ospitalità.

  5. Mi scuso per l’orrido refuso “agettivo”, e metto qui, per propiziarmi Saint-Just, il ringraziamento per il nuovo post sull’altro Giap.
    Ma ci sarà anche l’angelo coi boccoli nel vostro nuovo libro?