[Sono passati sei mesi dall’uscita di Point Lenana, sei mesi passati on the road. La fatica si fa sentire, il tour rallenta, ma prosegue e durerà fino a febbraio. Arriveremo a una settantina di presentazioni.
Il libro è alla seconda edizione in Italia e stiamo negoziando per un’edizione britannica. Un libraio ci ha detto: «Se il passaparola continua così, Point Lenana sarà uno dei rari casi di libro “natalizio” uscito ad aprile.» Forse esagerato, ma è vero che tante persone lo stanno scoprendo solo adesso, come molti articoli e recensioni escono solo adesso. «Point Lenana è un diesel», ha detto Paolo Repetti.
Non era scontata questa buona accoglienza, non lo era per niente. Si è dovuta perforare una sottile membrana di stupore e diffidenza. Si trattava di un’uscita molto spiazzante, anche perturbante. Bisognava accompagnare il libro in giro per l’Italia, far vedere e far sentire che ci credevamo e ci crediamo. Ora si è creato un circolo virtuoso tra sentieri di montagna e librerie, nonché tra carta e rete. Di questo circolo virtuoso beneficia anche la riedizione di Fuga sul Kenya di Felice Benuzzi, “classico sconosciuto” che sta finalmente uscendo dalla nicchia editoriale in cui era confinato da decenni.
Grazie a tutte e tutti, per averci creduto anche voi. Si va avanti. Ecco il nuovo speciale. C’è un sacco di roba. Buona lettura, buone visioni, buone scarpinate.]–
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Da Il Manifesto, 05/10/2013:
ASSALTO ALLE TRINCEE STORIOGRAFICHE
di Alberto Prunetti
Il collettivo di narratori Wu Ming ci ha abituati a salti improvvisi di paradigma. Spiazzano tutti anche stavolta, a parte forse i lettori più attenti che sul blog-comunità Giap li accompagnano nell’evoluzione delle loro scelte narrative. Nell’ultima fatica, Point Lenana (Einaudi, euro 20), frutto della collaborazione di Wu Ming 1 con Roberto Santachiara, ci sono almeno due elementi di discontinuità con il passato. Innanzitutto, la scelta della prima persona, a tratti autobiografica (una soluzione adottata di rado dal collettivo); in secondo luogo, il fatto di aver scelto come principale attore di questa nuova storia non un’icona della sinistra o un eroe – magari dimenticato – della memoria popolare ma un personaggio sfaccettato e a prima vista tutt’altro che attraente. Il protagonista di Point Lenana è infatti Felice Benuzzi, prigioniero di guerra italiano che evade nel gennaio 1943 da un campo di prigionia inglese in Kenia e compie con due sodali un’impresa memorabile: scalare una punta del Monte Kenia (che dà il nome al libro) per poi ritornare, con un gesto di fair play , al campo di detenzione. Una scalata che rappresenta un superamento del fascismo e il recupero della propria dignità, costretta in un contesto carcerario. Ma Point Lenana non è solo la storia di un’evasione né la biografia di un alpinista. Il libro, come ha dichiarato in un’intervista Wu Ming 1, diventa l’occasione «di una scorribanda nel Novecento italiano».
Gli autori di Point Lenana camminano sulla pista di Benuzzi («scrivendo con i piedi») e attivano varianti su quel cammino che li conducono a Trieste, con la persecuzione fascista delle minoranze slovene, poi nei Balcani, in Libia e in Etiopia, riportando alla luce le vergogne e i crimini del ventennio fascista e del colonialismo italiano, come l’uso di armi chimiche quali l’iprite per lo sterminio delle popolazioni civili praticato, prima che in Siria, dagli italiani in Libia: un crimine di guerra negato per anni da tanti storici e giornalisti, a cominciare da Indro Montanelli. Itinerari così poco lineari che si possono cartografare solo con un mezzo molto più duttile e versatile del saggio accademico o del romanzo di finzione. Stiamo parlando di un «meta-genere narrativo», un ibrido letterario tra fiction e no fiction, tra saggio, memoria di viaggio, inchiesta storica o giornalistica, che i Wu Ming chiamano «oggetto narrativo non identificato». Difficile da collocare nelle collane e negli scaffali delle librerie, Point Lenana vive infatti in un regno di mezzo tra saggio e narrativa, con l’esposizione nel racconto delle fonti della ricerca documentale, la citazione di materiali iconografici, il dialogo con le scritture testimoniali e la bibliografia che espande l’opera e compie connessioni e agganci.
La scelta di Wu Ming 1 e Santachiara non è comoda. Ci vuole coraggio per prendere come «eroe» un personaggio difficile, con un piede nello scetticismo verso il regime – che non è ancora antifascismo ma che gli basta a sposare un’ebrea berlinese a pochi giorni dall’approvazione delle leggi razziali – e un altro in una carriera diplomatica. Qualcosa di diverso da quel «disseppellire le asce di guerra» che già il collettivo di storyteller avevano messo in cantiere con la storia di Vitaliano Ravagli. Il nuovo progetto solista ha forse più debiti con un’altra scrittura «meticcia», Timira di Wu Ming 2 e Antar Mohamed, che ricostruisce magistralmente la vita di Isabella Marincola. Una scelta che all’inizio risulta spiazzante e che poi, per i miracoli delle macchine narrative dei Wu Ming, funziona alla perfezione e rischia di aprire falle devastanti nelle trincee storiografiche degli «italiani brava gente».
N.B. A proposito di Prunetti, del suo libro Amianto e degli “oggetti narrativi non-identificati”, si veda questa conversazione a tre con Prunetti, WM1 e De Michele. |
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POINT LENANA, UN LIBRO DI INCHIOSTRO E ROCCIA
La rivista on line Q Code Mag ha dedicato uno speciale non tanto e non solo al libro, ma a quella che un giapster ha scherzosamente definito la Point Lenana experience, formula che allude all’insieme di pratiche, viaggi, gesti, camminate, arrampicate, pellegrinaggi e performances fiorito intorno al tour di presentazioni – tour divenuto a sua volta, come abbiamo già scritto, un’opera transmediale. Tiziano “Occhiopesto” Colombi conclude così la sua riflessione (sottolineatura nostra):
«Quello che è successo a Point Lenana segna, forse, una via che va oltre la sperimentazione: nell’epoca digitale è l’oggetto libro, fatto di carta e inchiostro ad aver permesso un’integrazione innovativa tra il web e la polvere della strada.
Sono in molti ad aver camminato con una copia di Point Lenana nello zaino, gli scarponi nei piedi e in testa un mare di storie, e sembra che la scalata sia destinata a continuare.»
Occhiopesto è anche l’intervistatore di WM1 nel video di Umberto Diecinove incorporato sopra, girato durante un’escursione in Val Gravio (Val di Susa).
N.B. Se qualcuno, dopo avere visto il video, vuole approfondire gli spunti sulla “montagna ribelle”, come prima lettura consigliamo il libro di Marco Armiero Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX. |
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[Una delle presentazioni più belle – tanto da essere definita su Twitter “la madre di tutte le presentazioni”! :-D – si è svolta a Pavia l’1 ottobre scorso, con la presenza di entrambi gli autori presentati da Mauro Vanetti e Girolamo De Michele, con la collaborazione musicale di Luca Casarotti. Poco prima della serata, lo scrittore e blogger Angelo Ricci ha intervistato WM1. Ricci non usa il registratore ed è interessante il suo modo di prendere appunti: ciascuna domanda è scritta su un foglio A4, per il resto assolutamente bianco. Mentre l’intervistato risponde, Ricci riempie lo spazio vuoto, poi passa al foglio successivo. L’intervista è apparsa sul suo blog Notte di nebbia in pianura. La riportiamo anche qui.]
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Point Lenana. Come nasce questa collaborazione narrativa tra Wu Ming 1 e Roberto Santachiara?
Nasce da un’intuizione folle di Roberto Santachiara che mi fece leggere Fuga sul Kenya, di Felice Benuzzi e mi disse che, a questo proposito, mi doveva proporre una cosa. Ho letto quel libro e mi è piaciuto subito. Fuga sul Kenya era una sorta di ossessione che da tempo accompagnava Roberto. C’erano da scoprire e ricostruire accenni, punti di contatto, momenti nascosti e a volte criptici del passato di Benuzzi. Fuga sul Kenya rappresentava una specie di “evento matrice”, un evento che poteva aprirsi su altre storie, altre narrazioni. Roberto aveva bisogno quindi di un narratore che sapesse muoversi tra gli archivi, le storie, i documenti. E poi mi ha proposto di andare con lui sul monte Kenya. Da questi fatti nasce la collaborazione che ha portato alla stesura di Point Lenana.
Come avete collaborato, in senso propriamente tecnico, tu e Roberto Santachiara?
Roberto è stato il creatore, il portatore di questo “evento matrice”. Ha animato la volontà di giungere a questa narrazione. È stato sempre presente e sempre molto vicino a questa creazione. Ci siamo continuamente confrontati. Io mi sono fatto carico dell’onere dell’organizzazione e della stesura in senso narrativo.
Il collettivo Wu Ming, penso a quello che teorizzate da sempre, come per esempio nel vostro saggio New Italian Epic, interpreta il divenire storico trasfigurandolo in quello che definisce “sguardo obliquo”. Come si incardina Point Lenana in questa definizione?
Point Lenana è l’apoteosi dell’obliquità. È l’opera che inizialmente ha lasciato più perplessi diversi lettori “storici”, poteva sembrare una bizzarria. Una serie di storie incastonate le une nelle altre e che ha dovuto in qualche modo perforare la membrana, il feedback che c’è tra noi e la comunità dei nostri lettori. Point Lenana è il frutto di quattro anni di lavoro fitto. C’era la necessità di risolvere problemi di montaggio, di coordinamento tra le storie, tra i piani narrativi. Point Lenana rappresenta appunto quel nostro “sguardo obliquo” sul Novecento. Attraverso la storia di Felice Benuzzi raccontiamo l’irredentismo, il fascismo, il ruolo dell’Italia nella seconda guerra mondiale, la guerra fredda, il colonialismo.
Quanto per i Wu Ming è importante la ricerca dei punti sconosciuti, delle interzone, di quelle che si possono quasi definire fratture spaziotemporali del divenire storico?
Per noi sono luoghi e momenti fondamentali ai fini di quello che definiamo lo “sguardo obliquo”. Raccontare la grande storia attraverso le piccole storie. A differenza dei romanzi ucronici, che presentano una realtà storica completamente alternativa, noi scriviamo romanzi ucronici potenziali. Raccontiamo vicende che si sviluppano in quei momenti storici nei quali tutto può ancora accadere, biforcazioni temporali in atto, dove potenzialità in divenire possono ancora evolversi verso differenti direzioni.
Nelle vostre opere trovano spazio contaminazioni e ibridazioni letterarie, storiche, narrative. È questo il traguardo a cui doveva arrivare il romanzo dal suo punto di partenza, quello cioè del romanzo dell’Otto e Novecento?
È difficile dirlo perché la definizione stessa di romanzo è diventata sempre più inclusiva. Nel Novecento, per esempio, vengono definiti romanzi opere che invece non sarebbero state definite tali nell’Ottocento. Il canone romanzo si è ampliato e oggi la definizione della sua struttura è molto sfuggente. La definizione di questa categoria è ancora aperta e in continua mutazione anche spaziotemporale. Pensiamo a un romanzo del Settecento come il Tristram Shandy di Sterne, che ha caratteristiche simili a certe avanguardie che sono apparse solo due secoli dopo. Io stesso non saprei come definire Point Lenana, non mi sentirei di etichettarlo, di inserirlo in una categoria. L’importante è comunque raccontare storie. Con qualunque mezzo.
Mi pare di ricordare che i Wu Ming lavorassero a un nuovo romanzo, un romanzo che prendeva le mosse da un’altra interzona storica, gravida di sviluppi e di sguardi obliqui: la rivoluzione francese. A che punto è questo progetto?
Lo consegneremo a dicembre e, se tutto va bene, uscirà ai primi di marzo del 2014. E’ un romanzo su ipnosi e Terrore (il Terrore robespierriano). Uscirà sempre per i tipi di Einaudi Stile Libero e si intitolerà L’armata dei sonnambuli.
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[L’ultimo numero della rivista bimestrale Pagina Uno contiene un bello speciale Point Lenana dal titolo bislacco e arguto. Recensione e intervista a cura dello scrittore (e alpinista) Massimo Vaggi. Buona lettura.]
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DALLE ALPI (QUELLE VERE) ALLE PIRAMIDI (METAFORA)
Conversazione con Wu Ming 1 a proposito di Point Lenana
di Massimo Vaggi
Felice Benuzzi fu scalatore, scrittore e funzionario diplomatico. Nell’ordine. Fu anche prigioniero di guerra: nel 1943 evase con due compagni di avventura dal campo Pow di Nanyuki per scalare il Monte Kenya, 4.985 metri sul livello del mare, respirare per qualche ora l’aria rarefatta di un quasi cinquemila e tornarsene dopo 17 giorni al campo di prigionia, dove si presentò a un ufficiale inglese che non fatichiamo a immaginare stupefatto, forse più di quanto non fosse imbestialito. Probabilmente, dunque, il nostro fu anche un visionario scriteriato.
Benuzzi avrebbe narrato l’impresa in Fuga sul Kenya , e nella sua versione inglese, No picnic on Mount Kenya, non del tutto identica a quella italiana, che ha conosciuto un grande successo internazionale
Non è difficile immaginare che ciò che di questa vicenda Roberto Santachiara e Wu Ming hanno ritenuto straordinario non è la storia, per quanto affascinante ma troppo densa di fascismo e nazionalismo, di un prigioniero di guerra che si fa beffe con un solo gesto degli inglesi e della montagna. Non vi riconoscono la truculenza della peggiore iconografia alpinistica, quella dell’uomo fotografato nell’atto di vincere la montagna dopo averla ingannata, per aver saputo scegliere quelle strade che il dio delle rocce ha dimenticato di disseminare di difficoltà insormontabili, per aver evitato valanghe e slavine, per aver affrontato i pericoli sino al limite, e a volte un poco oltre, delle sue possibilità. Non vi leggono la retorica dell’italianità e del riscatto, né l’esaltazione della forza fisica. Ciò che è sorprendente, nella vicenda di Benuzzi e dei sue due strampalati amici, è l’assenza di tutto questo, o forse, e meglio, l’indifferenza nei confronti di ciò che rappresenta.
Ma come? Non è l’orgoglio smisurato e la consapevolezza di aver vinto, vinto, vinto, che gonfia il petto di un alpinista e fa proporre il “saluto alla vetta” anche quando la vetta è poco più di una collina?
Nella lettura della vicenda di Benuzzi non c’è il senso della vittoria, pare ci sia invece una proposta di armonia e quasi dissoluzione nella perfetta potenza della montagna. Sensazione non nuova, per chi frequenta a diverso titolo l’alpinismo, e sensazione comune a tutti coloro hanno sperimentato l’assoluta nullità di qualunque io di fronte ai paesaggi infiniti di una savana al termine della quale possono alzarsi montagne o catene dai nomi evocativi come Kilimanjaro, Ruwenzori, Kenya…
A me piace immaginarlo così, Felice Benuzzi, e così lo lasciano immaginare Roberto Santachiara e Wu Ming 1: seduto sulla cima, felice di nome e di fatto, ma non certo pronto a urlare al mondo della sua vittoriosa impresa, ma invece a ridere della sua impresa (senza aggettivi), nella quale l’elemento umano e quello sportivo si dissolvono nella consapevolezza che è finita, siamo arrivati, torniamo. Senza sfida, con ironia e amore.
Una vicenda affascinante, tanto più se contestualizzata negli anni in cui l’alpinismo andava impregnandosi, anche per volontà feroce del CAI e del suo presidente Manaresi, delle parole e delle icone del fascismo. Erano fascisti gli scalatori dell’ambiente triestino dove Benuzzi si formò, anche i più famosi e controversi come Emilio Comici, ma – questa sembra essere la domanda – era necessariamente fascista anche il loro modo di intendere e proporre l’alpinismo, e cioè il rapporto con la montagna?
Molti anni più tardi Benuzzi avrebbe condiviso quest’affermazione:
«Per wilderness montana intendiamo quegli ambienti incontaminati di quota dove chiunque ne senta veramente il bisogno interiore può ancora sperimentare un incontro diretto con i grandi spazi e viverne in libertà la solitudine, i silenzi, i ritmi, le dimensioni, le leggi naturali, i pericoli.»
E dunque eccolo lì, il Felice felice, a sperimentare la solitudine di vetta.
Ma, una volta immaginatolo sulla cima del Monte Kenya, si comprende la decisione degli autori, che rifiutano di raccontare la storia di quella scalata cogliendo a piene mani dal libro del protagonista (di cui peraltro si parla ampiamente, ma del suo successo editoriale, delle sue due versioni, delle sue riduzioni cinematografiche…), e invece decidono di riviverla in prima persona. Come se nessuna scrittura fosse possibile se non dopo aver ripercorso gli stessi sentieri, e calpestato gli stessi sassi.
Un alpinista come Roberto Santachiara e un figlio della pianura totale, per dirla alla Piovene, come Wu Ming 1, arrancano (più il secondo che il primo) ad altezze desuete sino a raggiungere Point Lenana (e siamo solo all’inizio del libro). Perché lo fanno? Wu Ming 1 ha dichiarato a un intervistatore [Lorenzo Filipaz, N.d.R.] che
«Uno scrittore dovrebbe mettere alla prova la propria scrittura, favorirne l’evoluzione o addirittura forzarla, mettendola a contatto con esperienze che facciano da reagenti. Uso esperienze nel senso più pieno della parola, esperienze-limite che muovano il corpo come non si era mai mosso prima. Non ci si pensa mai, ma scrivere è un atto fisico, è un’azione del corpo. Quello che scrivi dipende dalla postura che assumi, da come il tuo corpo interagisce con lo spazio intorno. …. Per me è stato così: gli appunti che ho preso sul massiccio del Kenya, marciando a corto d’ossigeno, o in uno dei rifugi dove abbiamo dormito, o seduto su un lastrone di basalto, circondato da iraci che saltellavano sulle rocce, contengono concatenamenti di immagini che, riletti a mente fredda, hanno sorpreso anche me. Da quegli appunti ho sviluppato lo stile di scrittura della prima parte di Point Lenana, una lingua e un modo di passare da un tema all’altro, da un episodio all’altro, che non ritrovo in nessun altro libro uscito dalla fucina Wu Ming .»
Con questa precisazione, Wu Ming 1 risponde in modo implicito alla lettura più semplice di Point Lenana, secondo la quale sarebbe la traduzione narrativa delle tesi sviluppare in New Italian Epic. In quel saggio, che continua a rappresentare, per chi lo voglia e anche per chi non lo vuole assolutamente, un punto di vista e una lettura delle vicende della narrativa italiana recente da cui è difficile prescindere, il collettivo Wu Ming disegna e definisce le caratteristiche più feconde della migliore produzione nostrana: il mix di narrativa e saggistica, uno sguardo “obliquo”, la dimensione epica, che fanno di un romanzo un UNO (Unidentified Narrative Object).
Facile dunque ritenere che Point Lenana volesse costituire la logica conseguenza di una scelta teorica. Wu Ming 1 rifiuta però questa visione un poco meccanica, valorizzando al contrario il rapporto di consequenzialità con l’esperienza fisica (come se le tesi sviluppate in NIP fossero state da un lato “digerite” e ormai parte di una propria consapevolezza di scrittore e dall’altro fosse stata ribadita l’inesistenza di ogni velleità di costruire intorno a quelle tesi, così fortemente criticate e combattute, una corrente letteraria). Il collettivo Wu Ming d’altronde non ha mai fatto mistero di questa regola aurea: chi se ne frega dei critici e delle tesi. Ciò che importa è la prassi.
Prassi, sassi, piedi, fatica e appunti.
Eppure, se Point Lenana non è la rappresentazione narrativa delle tesi di NIP, ne costituisce in qualche modo una fotografia.
Come in ogni UNO che si rispetti, e forse al di là del prevedibile, gli autori approfittano della vicenda di Benuzzi per costruire una trama iperbolica di riflessioni storiche, di indagini, di giornalismo, connotate in modo quasi maniacale da quella che il romanzo definisce “acribia” della ricerca documentale. Una mole enorme di libri giornali riviste fotografie interviste film documentari. Tutto a bollire per restituire al lettore una visione piramidale dell’esistenza, dove la cuspide è costituita dalla vita del personaggio o dalla sua esperienza e la base da tutto il resto: in quale città nacque il nonno di Felice Benuzzi? E cosa accadeva in quella città e intorno a quella città? E alla Storia degli uomini e delle nazioni, in quei giorni? E alle società alpinistiche? E alla Libia e ai suoi guerriglieri, all’Etiopia e ai combattenti ustionati dall’iprite, al Negus Neghesti, agli inglesi, alla figlia di Benuzzi, a Emilio Comici, ai Gikuyu? E’ vero che per comprendere cosa fece Felice Benuzzi è indispensabile conoscere qualcosa dei Mau-Mau o di Omar Al-Mukthar?
Forse no, non è affatto indispensabile. Ma dalla vetta di un quasi cinquemila la prospettiva appare più ampia, e meno concentrata è la visione. Che sia per un’esperienza fisica o per una scelta consapevole, lo sguardo degli autori si propone come se venisse da lontano, sempre più da lontano, per questo motivo capace di abbracciare tutte le storie della Storia. La scommessa, in questi casi, è l’acutezza della visione.
Ebbene questa sì – direbbe Manaresi se fossimo nel ’40 e se gli autori fossero portati ad esempio di italico ingegno e fascistissima volontà – è scommessa vinta.
Perché le infinite trame che legano le vicende del duce a un’escursione nell’Antartide sono analizzate con la precisione dello storico: prova, questa, del fatto che la vita di chiunque può diventare un grimaldello per consentire la comprensione dei fatti della Storia, alla sola condizione che la lettura per quanto appassionata delle vicende non voglia prescindere dall’analisi rigorosa della documentazione. Eppure: se un elemento di collegamento deve essere immaginato, non lo vedo tanto nella vita di Benuzzi e nella possibilità che attraverso la sua cronologia possa essere rivista la storia italiana ed europea degli ultimi cento anni, quanto nel fatto che Benuzzi si è – per casualità – trovato ai confini di quella storia. Confini fisici, che accomunano Trieste, la Cirenaica e l’Africa Orientale Italiana nella cornice del delirio espansionistico del fascismo. Confini culturali, tracciati da un’idea di identità nazionale che nelle regioni che furono dell’Impero Asburgico vorrebbe contrapporre al multilinguismo e alla contaminazione l’imposizione di un’italianità fatta di cognomi storpiati e di repressioni durissime delle minoranze, e che in Libia e in Etiopia propone, senza peraltro ottenere successo plenario, il divieto della promiscuità razziale, la segregazione, l’apartheid. Figlie di un datato e profondissimo disprezzo: scriveva Ferdinando Martini, primo governatore civile dell’Eritrea (1897-1900) e Ministro delle Colonie (1915):
«Chi dice che s’ha da incivilire l’Etiopia dice una bugia o una sciocchezza. Bisogna sostituire razza a razza. Lo affermava il Munzinger trent’anni fa quando la schiettezza era lecita. All’opera nostra l’indigeno è un impiccio: ci toccherà dunque, volenti o nolenti, rincorrerlo, aiutarlo a sparire, come altrove le Pelli Rosse, con tutti i mezzi che la civiltà, odiata da lui per istinto, fornisce: il cannone intermittente e l’acquavite diurna… I colonizzatori sentimentali si facciano coraggio: fata trahunt, noi abbiamo cominciato, le generazioni a venire seguiteranno a spopolare l’Africa dei suoi abitanti antichi…»
Benuzzi, marito di un’ebrea, debitore della cultura austroungarica, amico di alpinisti sloveni, frequentatore di abissini, ha visto tutto questo. Non ha alzato la voce, non è diventato apologeta né brigante. Ha scalato il Monte Kenya, affermando nel modo a lui più congeniale un’idea di libertà.
Non è dunque la domanda che tutti sono tentati di fare e che gli stessi autori si pongono (“ che razza di libro è questo ?”) ma una diversa, alla quale vorrei una prima risposta:
Che razza di mondo ha visto, Benuzzi? Navi cariche di italiani brava gente che vanno a incivilire l’abissino?
Quando si attaccò l’Etiopia, c’era l’intenzione di fare tante cose all’abissino (e svariate cosette all’abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina), ma «incivilire» non fu mai una di queste. Il regime strombazzò un sacco di cazzate ipocrite, perché nemmeno un regime fascista o nazista può dire apertamente che sta sferrando una guerra puramente offensiva, motivata soltanto da odio, interessi, desiderio di conquista e profitti. La guerra va sempre presentata come difensiva, come reazione a un attacco altrui, come azione preventiva contro un pericolo. La verità la trovi nel «verbale nascosto», in quello che i potenti si dicono in camera caritatis. Si capisce da questo l’odio per soggetti come Wikileaks, Julian Assange, Bradley Manning, Edward Snowden… Hanno reso noti i verbali nascosti. Le comunicazioni tra il duce e i gerarchi del regime sono macabre, ciniche, intrise di un razzismo esplicitamente rivendicato. E’ gentaglia che si compiace dei massacri, del numero di negri sterminati e anche delle balle che sta raccontando all’opinione pubblica. Ad Addis Abeba Benuzzi era un mezzemaniche, parte di un team che cercava di riconquistare la fiducia dei nativi dopo il sanguinoso viceregno di Graziani (un proposito assurdo, puro wishful thinking). Considerato il suo background, partecipò all’impresa coloniale senza fanatismi né eccessivi entusiasmi. Consideriamo che era cresciuto in una famiglia irredentista, seppure «mista» (mezza italiana e mezza austriaca). Era stato educato all’amor di patria e al culto di una «italianità» che a Trieste – per ipercompensazione rispetto a un’identità «bastarda» e di confine – è sempre enunciata in modo parossistico, estremo, caricaturale. Del resto, nemmeno nel resto d’Italia si è mai capito cosa sia, di preciso, questa «italianità». E’ una di quelle «idee senza parole», di quei concetti dati per non spiegabili, che secondo Furio Jesi sono alla base della cultura di destra (secondo lui ben rappresentata anche tra chi si crede di sinistra, e io sono d’accordissimo). In Etiopia, per l’Italia fu un disastro. Benuzzi ne fu consapevole più di altri, tant’è che non fu particolarmente nostalgico di quell’esperienza, non si confuse nel novero livoroso dei «reduci» organizzati, fu netto nel distacco dal fascismo. Detto ciò, non se la sentiva di buttare a mare quell’intera fase della sua vita. Anche perché, va detto, non tutti quelli che si trasferirono nell’Africa Orientale Italiana lo fecero perché fascistissimi credenti nel mito dell’Impero… Molti andarono nelle colonie perché nell’Italietta fascista si soffocava. In Africa c’era meno conformismo, perché il controllo sociale era meno stringente. La faccenda è complessa. Le (poche) pagine che Benuzzi scrisse in vecchiaia per ricordare quei giorni sono piene di amarezza. Rievocare era lacerante.
Che funzione – sociale, politica, storica, culturale – immagini per un’operazione di riflessione sul colonialismo italiano e sulle politiche di segregazione razziale? In altre parole, quanto ha pesato, sulla scelta dell’argomento, la possibilità di contribuire a restituire una più seria opportunità di fare i conti con il nostro passato?
Nell’introduzione a un suo libro del 2003, La nostra Africa, Angelo Del Boca faceva riferimento a due romanzi sul colonialismo italiano – Una pioggia bruciante di Franca Cavagnoli e Debrà Libanòs di Luciano Marrocu – e scriveva:
«E’ confortante apprendere da questi due libri che crimini così gravi come quelli commessi a Debrà Libanòs e in cento località etiopiche con l’impiego dell’arma chimica abbiano trovato uno strumento di comunicazione così immediato ed efficace come quello del romanzo […] L’opera narrativa può contenere un messaggio più facilmente assimilabile e svolgere un’azione propedeutica, colmare lacune e sanare ingiustizie. Anche questo modo di fare storia, attraverso il romanzo, può riconciliarci con ‘la nostra Africa’, che attende da noi non soltanto sospiri di nostalgia, ma anche l’ammissione, se pur tardiva, dei nostri torti».
Praticamente, era un passaggio di consegne e un’investitura. Del resto, sai meglio di me che Del Boca iniziò come scrittore. Dal 2003 a oggi, svariati altri romanzi si sono occupati del nostro rimosso coloniale. Secondo noi, ciò che vale per i romanzi, a maggior ragione vale per quelli che chiamiamo «oggetti narrativi non-identificati». La «narrativa di non-fiction», la non-fiction con tecniche letterarie, è uno strumento potentissimo.
Il libro fa vivere di storia, di Africa e di alpinismo. Ne esce l’immagine di un rapporto nato troppo tardi, quello tra la montagna e il suo bacillo dei sassi con chi per alzarsi dal livello del mare saliva la torre degli Asinelli. O è virtù di quella montagna, nel mezzo di tutto ciò che c’è intorno, e dunque il Kenya?
Dimentichi di precisare che la maggior parte degli studenti universitari non sale sulla torre degli Asinelli perché, secondo una radicata leggenda, chi ci sale prima della laurea non si laurea più. Detto questo, in Point Lenana riportiamo una sorta di sentenza sommaria del camerata Angelo Manaresi, che guardacaso era di Bologna – di più: era il podestà di Bologna! – ed è stato l’unico presidente nazionale del CAI di estrazione appenninica anziché alpina. Questa sentenza sommaria dice:
«Un giornalista che scriva di montagna senza esserci mai stato o che si sia accorto dell’esistenza di essa a quaranta o a cinquant’anni, dopo avere fatto nella sua vita tutt’altro mestiere, scriverà forse cose letterariamente egregie, storicamente giuste, scientificamente esatte, ma non porterà mai, nella sua prosa, ardore, serenità e convincimento.»
Io rientro nella categoria: mi sono accorto dell’esistenza della montagna a quarant’anni. A trentanove, per essere precisi. E ne ho scritto. Ho scritto cose letterariamente egregie? Storicamente giuste? Scientificamente esatte? Spero di sì! Quanto ai tre valori enunciati, non credo che la serenità sia utile per fare letteratura, ma ardore e convincimento mi sembra di averli dimostrati. Adesso un po’ di bacillo dei sassi ce l’ho anch’io, sto andando in montagna, sto facendo escursioni etc. Merito del Monte Kenya, certamente, ma ogni montagna è un Monte Kenya, ogni montagna è un deposito di storie. Io vado in montagna per cercarle.
Un aspetto che affrontate direttamente in alcune occasioni, ma che è ragione e senso di molte altre pagine (a partire da quelle su Emilio Comici), è quello di ciò che viene definito “ antifascismo esistenziale ”.
Girolamo De Michele ha scritto che la vicenda umana di Emilio Comici, a dispetto di tutta la propaganda di regime sul suo conto, dimostra «il fallimento dell’antropologia fascista». Comici si credeva e si professava fascista, ma il suo coltivare relazioni, il suo andare in montagna, persino la sua depressione bipolare lo allontanavano dall’idealtipo del maschio guerriero fascista. Forse sarebbe eccessivo, nel suo caso, parlare di «antifascismo esistenziale», forse è più giusto parlare di afascismo. «Antifascismo esistenziale» va bene per descrivere gli operai delle fabbriche del Nord e, più in generale, chi portasse avanti nella vita quotidiana microstrategie di resistenza al conformismo, alla pervasività della propaganda, alle intrusioni del regime nelle condotte degli italiani. Il Benuzzi che sposa un’ebrea tedesca pochi giorni prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali e la porta con sé in Etiopia, dove nessuno saprà che è ebrea, compie una scelta radicale, di consapevole sfida alla sorte e al regime. In questo caso, sì, penso si possa parlare di antifascismo esistenziale. Discorso che, attenzione, non ha nulla a che vedere col ciarpame caramelloso sul «fascista buono» di turno (Perlasca, Palatucci o chi altri), soggetto le cui buone azioni (a volte totalmente inventate, come si è appena scoperto di Palatucci) vengono strombazzate per redimere almeno in parte il regime. La categoria di «antifascismo esistenziale» serve a tutt’altro. Per esempio, a far capire l’inanità del luogo comune qualunquista: «Prima erano tutti fascisti, poi tutti antifascisti». E’ falso che gli italiani fossero tutti fascisti. Senza l’antifascismo esistenziale della classe operaia, coltivato sottotraccia per vent’anni, non sarebbero spiegabili i giganteschi scioperi contro la guerra del marzo ’43.
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CALENDARIO DELLE PRESENTAZIONI DI POINT LENANA NOVEMBRE 2013 – GENNAIO 2014
4 novembre
BOLOGNA
h. 16:15 DAMS, via Barberia 4
Discussione sul libro nel corso di Storia e Media
tenuto dalla prof. Patrizia Dogliani
6 novembre
RAVENNA
h. 18.30, sala del Caffè Letterario
via Diaz 26
Nell’ambito della rassegna “Come gira il mondo”
29 novembre
GENOVA
h.19 Teatro dell’Archivolto
Sala Gustavo Modena
Reading da Point Lenana
e lettura in anteprima dell’ouverture del nuovo romanzo
L’armata dei sonnambuli
nell’ambito della “Notte degli scrittori”
12 dicembre
RONCHI DEI LEGIONARI (GO)
…anzi, RONCHI DEI PARTIGIANI
h.20:30 Auditorium comunale
c/o Villa Vicentini, via Cau de Mezo 24
Funambolique & Wu Ming 1 nel reading/concerto
EMILIO COMICI BLUES
14 dicembre
SCHIO (VI)
h. 21 C.S.A. Arcadia
via Lago di Tovel 18
Funambolique & Wu Ming 1 nel reading/concerto
EMILIO COMICI BLUES
9 gennaio
TORINO
Teatro Carignano
Reading da Point Lenana
e lettura in anteprima dell’ouverture del nuovo romanzo
L’armata dei sonnambuli
nell’ambito della “Notte degli scrittori”
18 gennaio
FIRENZE
h. 18 Caffè letterario – Le Murate
Piazza delle Murate
25 gennaio
PADOVA
h. 16:30, Capeeto, via Lago Dolfin (Salboro)
Nell’ambito della rassegna “Il libro nel bicchiere”
Con WM1 ci sarà lo storico Santo Peli.
26 gennaio
VENEZIA
Centro sociale “Morion”
Funambolique & Wu Ming 1 nel reading/concerto
EMILIO COMICI BLUES
Dettagli a seguire.
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Questa membrana “di stupore e diffidenza” che #PointLenana ha dovuto bucare, a mio parere, agisce e ha agito differentemente su due distinte tipologie di lettori, per ragioni differenti e quasi contrarie: da una parte chi già conosce i Wu Ming e i loro libri, che si è trovato a doversi confrontare con un punto di vista e una *tematica* specifica come quella dell’alpinismo e dell’andare per monti; dall’altra gli appasionati di alpinismo e di letteratura alpinistica che hanno dovuto fare i conti con lo straniamento che l’uso dello sguardo obliquo tipico dei Wu Ming può produrre rispetto al cliché della letteratura di montagna.
Seguendo le reazioni all’uscita di Point Lenana mi sono fatto l’idea che per la prima tipologia di lettori la difficoltà sia stata solo iniziale, vuoi per conoscenza e/o fiducia nella produzione del collettivo, per la spinta impressa dagli speciali su Giap (e il Pinterest, il tumblog, le decine di presentazioni), vuoi perché l’originalità del punto di vista da cui si narrano le vicende contenute in Point Lenana è compensata dalla familiarità con l’utilizzo dello *sguardo obliquo* peculiare dei Wu Ming.
Sui secondi credo che ci sia ancora ampio spazio di manovra, anche perché è evidente che un oggetto narrativo non identificato che parla di montagna e alpinisti può provocare non poca ritrosia e diffidenza in chi è abituato a confrontarsi con i canoni della letteratura di montagna. Credo che la sfida più impegnativa sia conquistare questi lettori – e prima ancora arrivare a questi lettori. In parte mi sembra che ce la si sia fatta; non è una cosa di per sé negativa che ce ne siano molti altri che ancora devono essere raggiunti. Il “diesel” Point Lenana dovrà camminare piano e, metro dopo metro, avanzare nel coinvolgimento di questa fetta di lettori, contribuendo anche a rinnovare e rendere maggiormente permeabile questa nicchia di produzione letteraria. Sicuramente il reading/concerto Emilio Comici Blues (che spero di vedere/sentire presto) è un ottimo strumento e personalmento spero si moltiplichino le date e i luoghi in cui verrà proposto…
Tutto questo per esprimere ancora una volta il mio apprezzamento per la Point Lenana Experience
:)
38. IL MORTO IN LIBIA
Quando si notava qualche assente alle esercitazioni premilitari fasciste, il silenzio che seguiva la chiamata di nome e cognome del renitente era rotto da un «morto in Libia!» gridato dal giovane più spiritoso della compagnia; e si trattava, in sostanza, di un’amara espressione popolare italiana della prima guerra mondiale, dove per morto in Libia, riferendosi al conflitto italo turco, s’intendeva persona di cui non si sa o non si vuol sapere nulla, o che non dà più notizie di sé: un poveraccio, in definitiva, che ha chiuso i conti col servizio militare e la guerra, non si sa bene per causa di morte o di diserzione.
da: Italo Marighelli, Parole della naia, Nuova Guaraldi, Firenze 1980. “L’Italia delle Italie”, collana diretta da Tullio De Mauro.
Per quelli che “i Wu Ming esagerano con questa storia del rimosso coloniale e dell’omertà sui nostri crimini in Africa”, ecco gli edificanti commenti sotto un’intervista allo storico Matteo Dominioni:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/04/tra-colonialismo-e-immigrazione-intervista-a-matteo-dominioni/765309/
E proprio in questi giorni, per difendere il business dei soliti noti, interveniamo di nuovo in Libia, nel silenzio di un’opinione pubblica dimentica e stordita:
http://mazzetta.wordpress.com/2013/11/04/accordo-tra-letta-e-obama-in-silenzio-ci-siamo-accollati-la-libia/
«Morto in Libia!»
Ieri, 4 novembre, ho letto vari status su facebook definire la Grande Guerra “l’unica vittoria conseguita dall’Italia”. Era già stato notato, su questo blog, che la rimozione del passato coloniale va a braccetto con la narrazione vittimistica della storia unitaria, ed entrambe sono sposate soprattutto dai militaristi, che sanno benissimo come le ha vinte, l’Italia, tutte le sue guerre coloniali. E anche la Grande Guerra, per altro, ma lì vale la solita scusante del “lo hanno fatto tutti”.
http://www.youtube.com/watch?v=je-NEPXV4Hg Italo Marighelli racconta, a fatica ma racconta… http://www.youtube.com/watch?v=bPu77YwJAuA (non è necessario pubblicarlo, se ho disturbato cancellate pure)
Subcom, scherzi? Italo Marighelli è un grandissimo, e in un thread su #PointLenana ci sta più che bene.
#PointLenana su Point Lenana
http://pointlenana.tumblr.com/post/66463770975/il-primo-pointlenana-riportato-a-casa-da-gabdiamanti
[…] che le date del tour di Point Lenana novembre 2013 – gennaio 2014 si trovano qui. Tutte le aggiunte, modifiche etc. verranno fatte in quel […]
Il reading/concerto «Emilio Comici Blues», tratto da #PointLenana ma non solo, sta prendendo forma, serata dopo serata. Aggiungiamo, riarrangiamo, riscriviamo, smontiamo e rimontiamo. Continueremo a “prendere appunti” dal vivo (vere e proprie prove aperte) anche nei primi mesi del 2014. Lo spettacolo completo debutterà alla fine di maggio al Festival del Camminare di Bolzano.
Nel prossimo speciale congiunto Timira / Point Lenana proporremo diversi lacerti audio dalle serate di Ronchi dei Partigiani (GO) e Schio (VI). Qui ne offriamo uno in anteprima.
CAMERATA EMILIO
FUNAMBOLIQUE & WU MING 1 – CAMERATA EMILIO
Lo strano, controverso, sfaccettato rapporto tra Emilio Comici e il regime fascista.
Live alla Biblioteca civica di Ronchi, 12 dicembre 2013. Durata: 9’14”
Registrazione ambientale dal lato sinistro del palco.
Ricordiamo che per contatti, date etc. bisogna scrivere a funambolique@yahoo.it
Seconda anteprima da Emilio Comici Blues in attesa dello speciale #PointLenana / #Timira:
FUNAMBOLIQUE & WU MING 1 – LE ALI DELL’ANGELO (PRIMA PARTE)
FUNAMBOLIQUE & WU MING 1 – LE ALI DELL’ANGELO (PRIMA PARTE)
Imprese alpinistiche e difficoltà esistenziali di Emilio Comici dal 1928 al 1932.
Live alla Biblioteca civica di Ronchi, 12 dicembre 2013. Durata: 10’18”
Registrazione ambientale dal lato sinistro del palco (normalmente la voce non “esce” così tanto).