Perché uno speciale congiunto Timira / Point Lenana? Perché è tempo. Perché, come spiegato nei «Titoli di coda» di Point Lenana:
«Timira e Point Lenana vanno considerati libri “cugini di primo grado”. Sono entrambi “oggetti narrativi non-identificati”, creature anfibie tra narrativa e saggistica; entrambi parlano di Africa, fascismo e colonialismo italiano; entrambi sono stati scritti da un membro del collettivo Wu Ming e da un coautore; in ambedue i casi, la “scintilla” iniziale è partita dal coautore.
Point Lenana deve molto ad alcune scelte stilistiche e narrative compiute dai due autori di Timira, e di questo non possiamo che ringraziarli.»
Più volte nel corso del Point Lenana Tour de force sono emerse comunanze e risonanze tra i due libri. Forse sono più che “cugini di primo grado”: forse sono fratelli, anzi, gemelli. Gemelli eterozigoti: di primo acchito non si somigliano, ma si sono formati e sono nati insieme. Figli della stessa fase nella vita del collettivo Wu Ming, perché scritti nello stesso pugno di anni, e dopo il fatidico 2008. Figli della stessa esigenza di allargare, di estendere le collaborazioni, ibridare le scritture e creolizzare Wu Ming.
Gli sviluppi più recenti vengono da lì. La Wu Ming Foundation non coincide più con il solo collettivo Wu Ming ma raccoglie più insiemi che si intersecano: Wu Ming Contingent, Wu Ming Lab etc. Stiamo cambiando, andiamo oltre l’essere-scrittori. Soggetti narratori non-classificabili che producono oggetti narrativi non-identificati.
Il dittico Timira / Point Lenana può essere considerato la prima multi-opera della nuova epoca, proprio come il romanzo L’armata dei sonnambuli (uscita prevista per marzo) sarà il nostro congedo dall’epoca che abbiamo ormai alle spalle. E speriamo sia un congedo in grande stile.
Intanto «camminiamo domandando», scarpiniamo, per raggiungere il cuore che gettammo oltre l’ostacolo.
Che il Grande Altro ce la mandi buona.
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La mia guida Duncan Njoroge con #pointlenana Il libro in vetta lo ha emozionato, “because I love creative people!” pic.twitter.com/Ubht2NxhkQ— Gabriele Diamanti (@GabDiamanti) November 8, 2013
Prima o poi doveva succedere: Point Lenana è arrivato lassù, sulla vetta da cui ha preso il titolo.
Point Lenana su Point Lenana. Il primo a realizzare tale mise en abyme – che speriamo di vedere ancora – è stato il designer Gabriele Diamanti.
Gabriele ha approfittato di un viaggio di lavoro in Kenya per farsi la scarpinata decisamente fuori stagione, sfidando tormente di neve. Di quest’atto d’amore per il libro, che ha commosso entrambi gli autori, lo ringraziamo.
Gabriele ha scattato diverse foto e girato un breve video. Trovate tutto, insieme ad alcune riflessioni sul significato simbolico del gesto, in uno speciale sull’eccellente fan blog – «fan» come lo intende Henry Jenkins, naturalmente! – dedicato a Point Lenana. Insomma, trovate tutto qui.
[E già che ci andate, fateci un giro, nel blog. E’ pieno di materiali interessanti, grazie all’impegno dei giapster Mr. Mill, Lo.Fi e Vecio Baeordo. Segnaliamo, in particolare, la rubrica “Lost in Anobii”.]
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Fin dall’uscita di Razza Partigiana, le vicende dei fratelli Marincola hanno suscitato l’interesse di studenti, presidi e professori di scuola. Una storia di famiglia che permette di attraversare la storia d’Italia e indagarne i luoghi oscuri. Per questo siamo felici di annunciare l’uscita del nuovo numero di Educazione Interculturale (Edizioni Erickson), interamente dedicato all’eredità scomoda del colonialismo italiano.
L’indice della rivista è davvero ricco: nella sezione “Approfondimenti”, Gianluca Gabrielli analizza il ruolo del razzismo nell’impresa coloniale, mentre Isabella Pescamona riflette sulla rappresentazione del colonialismo nel discorso pubblico europeo, con particolare riferimento ai casi di Francia e Gran Bretagna. Nelle pagine dedicate ai “Progetti”, gli autori si interrogano su come studiare meglio questo periodo della nostra storia e propongono diversi percorsi didattici attraverso testi letterari, vignette satiriche d’antan, un’analisi diacronica delle politiche interraziali in colonia, e infine una bibliografia ragionata dove il nostro “progetto transmediale multiautore” sulla famiglia Marincola diventa una proposta di lettura dai 16 anni in su. Completano il volume due lunghe interviste ad Antar Mohamed e a Nicola Labanca.
Presenteremo il numero della rivista alla Biblioteca Cabral di Bologna, via San Mamolo 24, il 26 novembre alle 17:30.
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Proponiamo all’ascolto un estratto dalla presentazione di Point Lenana alla Casetta Rossa, Garbatella, Roma. Le voci sono quelle di WM1 e Giuliano Santoro, la data il 30 ottobre 2013. L’estratto dura un’ora spaccata. Si parte parlando di cielo stellato, poi ci si inoltra in una discussione approfondita sulla natura ibrida di Point Lenana, con diversi insight sulla direzione presa da Wu Ming.
En passant, WM1 dice un paio di cosette su costui.
Ricordiamo che, se volete scaricare l’mp3, dovete cliccare sulla freccia rivolta verso il basso. Per lo streaming, invece, basta cliccare su «→».
POINT LENANA ALLA CASETTA ROSSA – 30 OTTOBRE 2013
Il giorno dopo, Giuliano pubblicava sul suo blog gli appunti che aveva usato per la serata, ripartendo dalle stelle, che permettono di collegare una pisciata a una lezione di astronomia.
(RI)LEGGENDO POINT LENANA: NOTE A MARGINE
di Giuliano Santoro
Come inizia Point Lenana? Siamo nel gennaio del 2010, quando uno dei due autori guarda le stelle mentre svuota la vescica, nella notte africana della scalata al Monte Kenya, alla volta di Punta Lenana. L’altro giorno sulla torre dell’Istituto Svizzero di Roma Franco Piperno ha tenuto una delle sue lezioni di astronomia. Lo “spettacolo cosmico” del Pip. è un viaggio multidisciplinare nei miti, nella filosofia e nella storia della scienza. Ci ha spiegato che guardare le stelle e disegnare costellazioni significa affrontare la radice della conoscenza. La cultura è in fondo il modo in cui diamo un ordine alle cose che ci stanno intorno. Guardare le stelle, dunque, è il modo principale di stare con i piedi per terra. Come nel caso di chi unisce i puntini e traccia i disegni che compongono le costellazioni, le storie che inanella l’oggetto narrativo non identificato prescindono dalle distanze, spaziali e temporali, reali. Lo sguardo dei narratori si prende l’onere di disegnare costellazioni, tracciare connessioni e riannodare fili.
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…ma Giuliano, a Roma, aveva già presentato Timira insieme ad Antar e WM2. Era il 15 marzo 2013.
Roma? Di più: Tor Pignattara. E ancora di più: la scuola elementare Carlo Pisacane, la più creola della capitale (otto bimbi su dieci sono figli di stranieri), detestata dai fascisti, sempre al centro di controversie.
[Sulla Pisacane, qualche anno fa, è stato anche realizzato un documentario, Una scuola italiana. Puoi cliccare sull’immagine qui sopra per visitare il sito.]
Portarci Timira, “romanzo meticcio”, era sensato e importante. Per di più con due appuntamenti: il primo di mattina, con i bimbi e le bimbe di alcune classi, in un’aula strapiena di curiosità e di domande, grazie soprattutto al lavoro “preparatorio” delle maestre. Il secondo al pomeriggio, con gli adulti della scuola e del quartiere.
Ecco la registrazione della seconda chiacchierata. Dura un’ora e 24 minuti.
TIMIRA ALLA PISACANE, 15 MARZO 2013
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Quella che segue è una bella recensione di Point Lenana apparsa sulla rivista on line Magmazone:
POINT LENANA: NELL’ARMADIO DELLA STORIA
di Mario Francesco Simeone
Il corridoio è silenzioso. Le pareti sono strette e formano alcune zone di umidità. In fondo, superato un cancelletto solitamente chiuso a chiave, lo spazio è occupato da un armadio di ferro smaltato. Le cose non sono state disposte casualmente e, in effetti, ci sono tutti gli elementi per una dimenticabile scena anonima. L’errore è stato non seguire fino in fondo questa scelta, perché le ante sono rivolte alla parete e si percepisce immediatamente che c’è qualcosa di insolito. Nel 1994, i cardini cigolarono, quando il procuratore militare Antonino Intelisano aprì quello che sarebbe diventato “l’armadio della vergogna”.
Non è mai facile rintracciare la genesi di un romanzo ma Point Lenana potrebbe iniziare da qui. Non direttamente dai fascicoli sulle stragi naziste, nascosti o dimenticati per anni in uno sgabuzzino di Palazzo Cesi-Gaddi ma dalla pratica di rimozione che, quotidianamente, altera la memoria storica. L’ultima opera di Wu Ming 1, al secolo Roberto Bui, e Roberto Santachiara, nasce dall’incontro non fortuito tra una vicenda individuale, quella di Felice Benuzzi, e una vetta da scalare, la Punta Lenana, sul caotico tavolo della prima metà del Secolo Breve.
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Antar e WM2 hanno portato la storia di Giorgio e Isabella Marincola in molti licei della penisola, da Spezia a Verona, da Bolzano a Catanzaro Lido.
Di seguito potete ascoltare un esempio di questo genere di incontri, registrato il primo marzo 2013 nella palestra del Liceo Antonelli di Novara, di fronte a circa duecento studenti delle classi quarte e quinte. Dura un’ora e 30 minuti.
STORIA DELLA FAMIGLIA MARINCOLA – NOVARA, 1 MARZO 2013
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Una mini-selezione di ricadute transmediali di Point Lenana:
@Wu_Ming_Foundt un qrcode che porta al ‘corollario’ su pinterest di point lenana. magari si può usare nelle presentaz pic.twitter.com/TZhTPVdzzK
— figuredisfondo (@figuredisfondo) October 30, 2013
N.B. Il realizzatore del QRcode mostrato quissopra è lo stesso personaggio che, più di dieci anni fa, scaricò il file di Q, ridusse il font a dimensione minuscola, eliminò gli a capo, e così facendo riuscì a stamparsi l’intero romanzo su una T-Shirt, davanti e didietro. Tutto intero, dal prologo all’epilogo. Per gli scettici: il pdf si trova qui. Nel 2007 fece la stessa cosa con Manituana.
N.B.2 Per chi non lo sapesse, il “corollario su Pinterest” a cui fa riferimento l’eroico compagno è questo qui. E non c’è solo quello di Point Lenana, c’è anche quello di Timira.
@Wu_Ming_Foundt #PointLenana sul Monte Vettore con una dimostrazione pratica dei suoi poteri… – 20/07/2013 pic.twitter.com/jP2FwKFl2j
— In punta di sella (@inpuntadisella) November 9, 2013
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Da una scuola elementare di Tor Pignattara, a un liceo scientifico di Novara, all’università di Warwick…
Sempre a marzo 2013, WM2 è volato in Inghilterra su invito di Simone Brioni e Fabio Camilletti, per tenere due interventi distinti.
Il primo – The Historical Novel as a means of investigation – rivisto e ampliato in occasione delle Lectures on Memory dell’Università di San Marino, verrà pubblicato in e-book dall’editore Guaraldi, a gennaio 2014, con il titolo: L’utile per iscopo. La funzione del romanzo storico in una società di retromaniaci.
Il secondo – Somalia in Italians’ eyes. Questions of space in Timira – lo potete scaricare qui in formato pdf. Si parla delle diverse rappresentazioni di Mogadiscio nelle pagine del romanzo e del tentativo di ri/costruire la storia della città a partire da uno sguardo meticcio.
La versione inglese del testo è opera di Kate Willman, una ricercatrice che si sta occupando di Timira e più in generale di New Italian Epic.
Entrambi gli interventi – e non solo – si possono ascoltare sul sito dell’Istitute of Advanced Studies dell’Università di Warwick:
Nella fase di Domande & Risposte, nonché nella tavola rotonda finale, allo scopo di non torturare gli intervenuti con un orrido inglese, WM2 si è aggrappato alle doti da interprete di Serena Bassi.
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Sette mesi dopo Warwick, Timira ha visitato anche la Germania, nell’ambito del tour che abbiamo presentato qui.
Tra le tante serate, vi proponiamo quella che si è tenuta all’Alte Feuerwache di Mannheim – un’antica caserma dei pompieri, oggi centro culturale – organizzata da Stephanie Neu ed Eva-Tabea Maineke, docenti di letteratura italiana all’università cittadina.
Durante l’incontro, Daniela Kopf ha letto alcune pagine del romanzo, tradotte in tedesco da Sabine Çorlu. Dura due ore e due minuti.
TIMIRA A MANNHEIM, 29 OTTOBRE 2013
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Nel prossimo speciale Timira / Point Lenana:
§ Estratto/rielaborazione della prima tesi di laurea su Point Lenana, scritta da Linda Bonacini. Corso di laurea in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali, Università di Bologna. Relatore: Giuliana Benvenuti. Titolo: «La letteratura italiana contemporanea oltre i confini. Regina di fiori e di perle e Point Lenana: riflettere sul colonialismo di ieri per rispondere al razzismo di oggi».
L’estratto riguarderà le tecniche utilizzate in Point Lenana.
§ Download della tesi di Luigi Franchi su Timira. Corso di laurea in Italianistica, culture letterarie europee, scienze linguistiche, Università di Bologna. Relatore: Fulvio Pezzarossa. Titolo: «”Cosa vogliamo fare della nostra amicizia?”. Timira, un romanzo in friendchise».
Un’esplorazione molto acuta del romanzo, in compagnia di Agamben, Foucault, De Certeau, Westphal, Negri/Hardt e del nuovo concetto di friendchise – un franchise amicale, dal basso, che integra e rilancia, con un nome più figo, la nostra idea di “progetto transmediale multiautore”.
§ RedReading #6 – Come Fratelli e Sorelle di e con Tamara Bartolini e Michele Baronio. Con la partecipazione di WM2, Antar Mohamed, Lorenzo Teodonio, Cristina Ali Farah, Eva Gilmore, PierPaolo Di Mino, Lorenzo Iervolino, Fiora Blasi, Fabrizio Spera, Luca Venitucci.
Nato il 31 maggio 2012, come lettura per voce e chitarra, per accompagnare la presentazione di Timira al Centro Sociale Strike di Roma, in seguito riproposto con alcune modifiche alla già citata Casetta Rossa (Roma) e in formato di radiodramma musicale sulle frequenze di Radio Onda Rossa (sempre de Roma), Come Fratelli e Sorelle – Vite profughe esistenze partigiane è andato in scena il 27 maggio 2013 al Teatro Argot Studio (sempre Roma): uno spettacolo meticcio, attraversato dalle testimonianze di molti ospiti e da un racconto di TerraNullius, scritto a sei mani e letto a due voci.
§ Una conversazione tra WM1 e Lello Voce sul mito degli Alpini, a partire da Point Lenana.
E tante altre cose stanno per uscire su entrambi i libri.
Ricordiamo che le date del tour di Point Lenana novembre 2013 – gennaio 2014 si trovano qui.
Tutte le aggiunte, modifiche etc. verranno fatte in quel post.
Buone prassi a tutte e tutti, ci si risente presto.
Non so se l’ho già scritto su Giap, sicuramente ne ho parlato almeno con WM1: penso che Timira e Point Lenana costituiscano una maturazione del collettivo, una presa di coscienza dell’età adulta. Non solo: penso che richiedano la stessa crescita e lo stesso impegno al lettore.
In occasione della presentazione di Point Lenana a Torre Pellice l’estate scorsa, durante la sessione delle domande ricordo di aver chiesto a WM1 qualcosa del tipo: dopo aver sperimentato le nuove forme narrative allargate in Timira e Point Lenana, come riuscirete a tornare indietro e scrivere ancora narrativa convenzionale in forma romanzo? Come potrete tornare a vivere allo stretto?
La risposta, che oggi sappiamo tutti perché sta scritta qui sopra, è stata: il prossimo romanzo di gruppo sarà l’ultimo prodotto “tradizionale” del collettivo a vedere la luce. Da lì in poi, anche nei lavori a quattro(?) mani, ci sposteremo inevitabilmente su nuove forme e formule. Come dire: ormai il guscio si è rotto, non si può tornarci dentro, nemmeno se volessimo.
Dopo aver letto quasi in cascata i due libri (Point Lenana praticamente tre volte, contando le quasi-due prima dell’uscita in qualità di fortunatissimo lettore-cavia) ho notato che lo stesso cambiamento di prospettiva descritto dagli autori in quanto scrittori mi capita sempre più spesso in quanto lettore. Nell’ultimo anno ho letto, tra altre cose, anche romanzi di epoche diverse: da cose appena uscite a Hugo. E quasi sempre mi ritrovo una sensazione subdola e strisciante di claustrofobia. Il racconto non basta più, manca l’ipertesto, mancano i link. Ma capita anche l’opposto: leggo la saggistica e spesso mi manca il racconto, la partecipazione dell’autore alla materia che sta esponendo, ho la sensazione che chi scrive il saggio cerchi frequentemente di far passare, molto probabilmente in buona fede, un punto di vista distaccato, impersonale, oggettivo, “scientifico”, escludendosi dal contesto; e anche questo ormai non mi quadra più.
Ormai il guscio si è rotto: niente sarà più come prima.
Vorrei sollevare un elemento di discussione sull’oggetto narrativo non identificato.
E’ un’osservazione che sembrerebbe contraddire almeno in parte la validità dell’innovazione-UNO rispetto alla vostra narrativa precedente.
Inutile dirlo, il mio punto di vista sull’argomento è talmente parziale che forse dirò cose di scarso interesse per i più.
Point Lenana è un ipertesto impazzito, e per questo motivo è stato fantastico leggerlo… non basta dire “leggerlo”, dovrei dire “studiarlo”. Mi ha chiesto di essere studiato, riletto, interiorizzato. Più volte ho messo la retro, e sono tornato a rileggere o a “controllare” dei dati emersi in precedenza, per poi tornare avanti e via così.
Al tempo stesso però ho quasi avuto l’impressione che il libro abbia detto troppo.
Mi viene da fare l’esempio dell’illusionista: se ti spiegano il trucco, la magia non ti intriga più.
Così Point Lenana, pur essendo un ipertesto spigoloso e non facile, che non ti prende per mano, per forza di cose è anche guidato e spiegato dagli autori. Il fatto che io cliccassi su un link è stato deciso a priori.
Purtroppo in alcune parti la spiegazione ha fatto abbassare di quota il volo della mente. E’ questa la sensazione che ho provato leggendo questo esperimento narrativo.
Che sia chiaro, mi è piaciuto tantissimo e soprattutto mi è rimasto dentro. Questo è quello che conta.
Comunque per spiegare meglio quel che voglio dire, vorrei fare un esempio “uguale e contrario”.
Si tratta di “Uh?” ;)
che non avevo mai letto fino a circa un anno fa.
Mi ha letteralmente mandato fuori di testa, in senso positivo s’intende. Non parlo della storia in sé, dico proprio a livello ipertestuale. Nella mia esperienza di lettura, Q è stato molto più ipertestuale di Point Lenana, perché dando per sottintesi molti elementi storici, mi ha costretto a studiarli da altre fonti.
Ero molto ignorante sulla storia di quel periodo, forse ero dell’umore giusto, sta di fatto che la consapevolezza che i personaggi, il pensiero, le idee citate nel libro fossero quasi sempre reali o verosimili, mi ha messo addosso una fregola di sapere, di approfondire, di verificare ogni singolo dettaglio. Il libro mi ha trasformato in un esploratore.
Il risultato è stata una lettura sincopata. Leggevo spesso davanti al pc acceso, saltando continuamente tra la storia narrata e la stessa storia cercata da tutte le fonti che ho potuto trovare (scoprendo così fatti molto interessanti). Per un’ora di lettura del libro, ne ho passata quasi un’altra ad approfondire altrove, partendo poi spesso per la tangente.
Ora, non penso che siano tutti malati di mente come me, quindi potrei essere l’unico pirla che ha letto Q in questo modo assurdo. Quindi avete ragione voi, e state percorrendo la strada giusta.
Però penso sia interessante questo tema: Q mi ha fatto sentire “in difetto”, facendo nascere in me la voglia di colmare la lacuna.
Point Lenana conteneva in sé tutti gli elementi necessari per colmarla.
Forse è questo che mi ha lasciato perplesso: mi è mancata la mancanza di qualcosa.
Per contro, mai nella vita sarei stato in grado di trovare le fonti che avete trovato voi. Non avrei mai fatto 4 anni di ricerche su questo tema, non avrei mai scoperto Stefania Benuzzi, e per questo e molto altro vi sono immensamente grato.
Quindi? Che voglio dire?
Non si può tornare nel guscio rotto, come giustamente ha detto Vecio Baeordo qui sopra, e di certo non vorrei che lo faceste!
No no no :)
Ma esplorando il mondo fuori da quel guscio, state attenti a non dimenticarvi che c’è almeno un lettore che vuole anche lui sporcarsi le mani con la storia, almeno un pochino. Insomma non fate proprio tutto il lavoro voi, sennò io non mi diverto più!! ;)
Penso che alla fine si tratti di calibrare al meglio l’equilibrio tra il saggista e il romanziere, è questa la sfida.
Che ne pensate?
p.s. forse ho scritto una marea di boiate. Potrei smentirmi da solo citando i titoli di coda di Point Lenana, o la “Point Lenana Experience” a cui io stesso ho preso parte con parecchio entusiasmo… come voi ben sapete
Ok, ora cancello tutto e vado a dormire… :)
Ritengo che tu abbia detto tutt’altro che boiate. Il fatto che una lunga fase della storia del collettivo si stia certamente chiudendo non significa – almeno dal mio punto di vista – che una nuova strada sia già bell’e tracciata. Non è nemmeno detto che la strada debba essere soltanto una (magari sarà un reticolo di sentieri). Bisognerà applicarsi.
Ci sono, ad esempio, lettori come te, che vogliono fare il lavoro di “scavo” ipertestuale da sé, e ci sono anche moltissimi lettori che, al contrario, chiedono di essere presi per mano e trascinati dentro la storia, non di essere informati sulla storia, se capisci cosa intendo. L’equilibrio a cui fai riferimento non è affatto una cosa scontata, né facile da trovare. Vedremo dove ci porterà la ricerca.
Grazie, Tave. Però, però… E’ strano: il modo in cui hai descritto l’esperienza di leggere Q è *esattamente* il modo in cui molti lettori incontrati in questi mesi hanno descritto l’esperienza di leggere Point Lenana! La fregola ipertestuale, la scoperta, la voglia di approfondire, e aggiungo, perché è importante, l’uso dei “Titoli di coda” (li hai citati anche tu per “smentirti” :-))) come successione di trampolini per fare nuovi tuffi.
Davvero a te sembra che abbiamo “guidato” e “predeterminato” l’ipertestualità? Come dice Giuliano Santoro nell’audio messo qui sopra, Point Lenana è un libro pieno di buchi, di vuoti, di domande senza risposta, di allusioni che possono solo rimanere tali, “di se e di ma”. Non è proprio a partire da questi “se” e “ma” che un lettore può spiccare voli tutti suoi, e approfondire lungo percorsi che i due autori hanno appena evocato, o che addirittura non hanno nemmeno immaginato?
Dopodiché, è chiaro che per te Q è stato una scoperta, e speriamo che tanti altri lettori continuino a scoprirlo. Speriamo che leggere romanzi storici fatti bene rimanga un’esperienza forte e vibrante. Siamo noi che, dopo quasi vent’anni – per la precisione diciannove dall’inizio della stesura di Q all’uscita de L’Armata dei sonnambuli – passati a scrivere romanzi storici collettivi, vogliamo decisamente passare ad altro, anzi, lo stiamo facendo. Il rischio è di insistere su una formula logorandone la residua efficacia, finendo per logorare noi stessi. Per noi Q fu una scoperta nel triennio 1995 – 1998, e poi in un altro senso quando uscì, e in un altro ancora quando iniziò a essere tradotto e pubblicato in altri paesi… Ma quell’epoca è lontana, e noi non siamo più gli stessi. Q non potrà mai più essere una scoperta, per noi.
@tave
mi è mancata la mancanza di qualcosa è perfetto :-)
Tuttavia.
A suo tempo ho condiviso (senza soddisfarla con altrettanta ferocia ;-) la fregola di conoscenza di Q. Ma mi è successo lo stesso per Manituana e in generale per altri *buoni* romanzi storici: è questo uno dei loro possibili compiti e significati. Ma è solo una possibilità. Si possono leggere anche senza la fregola, giusto per sapere come va a finire, come guardare un film.
La differenza, nelle opere recenti, è che i vuoti e i buchi sono dichiarati, messi sulla mappa, le domande vengono fatte a te che leggi, i dubbi entrano nella tua testa anziché essere raccontati nella testa dei protagonisti. Lo scrittore e il lettore in un certo senso entrano nel libro come personaggi, il libro ci dà del noi.
Penso che questo approccio sia necessario e inevitabile, perché riflette (lo dico da ignorante) la mentalità diffusa nella nostra epoca: la scienza, la filosofia, la mentalità ambientalista convergono tutte nel constatare che l’osservatore (in questo caso sia chi scrive che chi legge) modifica sempre l’oggetto dell’osservazione, quindi entra a farne parte. Quindi,in particolare nell’ambito storico, il romanzo tradizionale non funziona più.
Trovo questa discussione molto interessante e spero che i giapster accorrano a frotte, come succede negli scambi di natura “più politica”.
Dire “il guscio è rotto” mi fa pensare a chi sostiene che “il romanzo è morto”. La realtà, per me, è molto meno apodittica.
Leggo “Lolita” nell’edizione Adelphi, e alla fine sono talmente rapito dall’invenzione romanzesca di Nabokov, che nemmeno leggo la postfazione scritta dall’autore “a proposito di un libro intitolato Lolita“. La mia esperienza di lettore non ha bisogno di altro. Leggo “Le Benevole” di Littell e vorrei un intero sito Internet di titoli di coda, da navigare tra una pagina e l’altra. Intendo dire che alcune storie hanno bisogno di stare dentro il guscio, mentre altre hanno bisogno di romperlo. È la storia che racconti a dettare le regole, non una certa vena artistica o l’aspettativa del tuo pubblico. Tutt’al più, come narratore, puoi prediligere “storie che si raccontino rompendo il guscio “, ma se rompi il guscio sempre e comunque, puoi fare grossi danni (anche come lettore).
Infatti: 1) Lo storytelling – al suo “grado zero” – è tutta questione di ORDINE. Raccontare un episodio prima di un altro può cambiare in maniera drastica la percezione del racconto, fino a rovinare del tutto l’esperienza. Tant’è vero che in alcuni casi diciamo: “occhio! Spoiler!”. Ma quando un romanzo diventa un ipertesto transmediale, allora è molto difficile, per l’autore, controllare l’ordine della sua storia. C’è chi legge “Razza Partigiana” prima di Timira e chi lo legge dopo. C’è chi si guarda le interviste a Stefania Benuzzi e poi legge Point Lenana e chi fa il contrario. Ci sono storie che reggono tutte queste inversioni e storie che vanno in pezzi (perché sono tenute insieme dal guscio e se rompi il guscio perdi anche quello che contiene). 2) Ne consegue che non tutte le “attivazioni dei lettori” sono positive per una narrazione. Prima di leggere Q non vorrei mai entrare in un forum dove si parla dell’identità dell’antagonista (che nel romanzo rimane misteriosa fino alla fine). Ci sono storie che hanno bisogno di autori autoritari, autori che mettono il bastone tra le ruote del lettore, e storie che devono essere il più possibile aperte, accoglienti, piene di porte su tutti i lati . 3) Tuttavia, è tramontato il tempo in cui l’autore poteva pattugliare con una certa efficacia i confini della sua storia. A prescindere dal suo senso estetico, i lettori prenderanno comunque d’assalto quei confini, e scriveranno reportage sulle battaglie combattute per attraversarli e allargarli. In questo senso, sì: “il guscio è rotto”. Mentre il fotografo che sceglie la sua inquadratura sa che la stragrande maggioranza del suo pubblico non vedrà cosa c’era fuori dai limiti dell’immagine, un narratore non può più inquadrare la sua storia in maniera altrettanto rigida ( non ha MAI potuto farlo, a dire il vero, ma oggi questa sua impotenza è del tutto dispiegata). Certo una narrazione continua ad avere un inizio, una fine e un sacco di buchi in mezzo (nessun resoconto può essere esaustivo – nei riferimenti e nelle interpretazioni). Ma questi elementi diventano, per forza di cose, meno determinanti sul piano estetico, perché per alcuni lettori l’inizio è davvero l’inizio, mentre per altri è già una “prosecuzione” della storia (magari con altri mezzi).
Concludo dicendo che, pur avendo scritto “Timira”, pur avendo letto “Point Lenana”, “Rivoluzionario di passaggio” e “HHhH”, io mi sto molto divertendo a scrivere “L’armata dei sonnambuli” – e già penso a cosa ci potrebbero fare i lettori, a cosa potremo offrire noi e a cosa tener nascosto. Mi sto divertendo perché forse non si tratta, alla fin fine, di un guscio rotto o di un guscio chiuso, ma di un diaframma più o meno aperto. Regolare quel diaframma è ormai parte di quel che intendo con “raccontare una storia”, e ogni storia ha la sua giusta regolazione.
Non lo so se è la storia a dettare le regole. In fondo, se si tratta di “regolare il diaframma” (e sono d’accordo su questo), il ruolo dell’autore/narratore resta importante.
Abbiamo un’infinità di storie potenzialmente da raccontare, tutte sono importanti, si sa, ma non tutte possono essere narrate. È necessario un lavoro faticoso di cernita, ricerca, ricucitura; un lavoro che richiede studio, applicazione, e una visione forte di quello che si sta facendo. Timira e Point Lenana non sono nati da uno sbocco emotivo in un pomeriggio di pioggia: hanno avuto inizi difficoltosi, e in qualsiasi momento “l’esperienza/avventura” avrebbe potuto interrompersi.
[A margine. Non mi convince chi dice che “le storie si scrivono da sé” né quelli che dicono che “l’importante è che ci sia la storia”… (mi sembra che così si rischi una deriva pericolosissima, da auto-fiction estrema)]
“Le passé est un œuf cassé, l’avenir est un œuf couvé” (Paul Eluard)
È vero che ci saranno sempre romanzi-romanzi, saggi-saggi e ibridi, ma per quanto riguarda il vostro collettivo mi par di capire che si sia passati definitivamente a covare l’uovo del futuro, e la cosa da lettrice, da un lato mi incuriosisce e da un altro mi spaventa. Per quanto abbia apprezzato moltissimo sia Timira che Point Lenana, i romanzoni storici sicuramente mi mancheranno e ammetto che questo post mi ha messo un po’ di tristezza. O è meglio dire di nostalgia. Ma mi fido delle vostre scelte :)
“i romanzoni storici sicuramente mi mancheranno”
Beh, intanto ce n’è ancora uno. Non provare nostalgia anticipata :-)
Alla Casetta Rossa non potei venire: stavo sulle tracce di Kant a Kaliningrad ;)
In quell’occasione avrei voluto dire due cose che scrivo su due similitudini che ho trovato nei libri: in forma, al solito, un pò paratattica.
La prima: il senso di lavorare fra l’archivio e la strada è anche nell’idea di presentare i libri. A cosa servono le presentazioni? Alla base sia di Timira, sia di Point Lenana sono due presentazioni: una che permesso il contatto wm2/Isabella Marincola e l’altra wm1/Stefania Benuzzi.
La seconda: la morte delle due donne. Ossia Isabella e’ morta poco prima del libro e Stefania subito dopo. Questa cosa (a prescindere dal rapporto personale che avevo con Isabella) mi ha colpito in maniera forte. Il legame fra la carta e la vita e il nostro lavoro (di storici/letterati/intellettuali) sempre un po’ “vampiresco”.
Magari su queste cose ci torneremo…
Il parallelo Isabella / #Timira – Stefania / #PointLenana ha colpito forte anche me. A dirla tutta, da quando Stefania è morta e ho assistito alle esequie in Trentino, ho pensato a lei quasi tutti i giorni. Ho ore di registrazioni della sua voce, con quell’ultima eco di accento tedesco che si insinuava in una parlata un po’ romana, un po’ non saprei dire cosa… Una parlata “cosmopolita”? Senz’altro.
Eppure Stefania si sentiva fortemente italiana. L’italianità se l’era scelta, al contrario di noialtri, che ce la siamo ritrovata tra capo e collo senza poter dire nulla al riguardo.
…che poi non era tanto l’italianità, era il vivere a Roma.
Tuttavia, più che a un certo “vampirismo” del narratore, le circostanze della doppia morte mi hanno fatto pensare al “rotto della cuffia”, all’avercela fatta “per un soffio” (a conoscerle, a provare stima per loro, a intervistarle, a raccontarne la vita).
Isabella e Stefania erano anziane, l’una poco meno che novantenne, l’altra poco meno che centenaria. “Appena in tempo” è una delle espressioni che mi vengono in mente quando ci penso.
Ed è incalcolabile, inimmaginabile, quante storie muoiano ogni giorno con chi le ha vissute, perché nessuno è arrivato “appena in tempo”.
Conosco tanti scrittori, storici, ricercatori che hanno scoperto una storia quando quasi tutte le fonti erano ormai disperse o distrutte. Quel che resta loro da raccontare, congettura dopo congettura, è soprattutto la voragine che si è creata. “La ricerca che non c’è”, come nel titolo di una rubrica della rivista Zapruder. La storia degli ostacoli che si incontrano e impediscono di sapere.
Noi siamo stati (anche) fortunati.
Aggiungo: sia #Timira sia #PointLenana hanno una sorta di “libro-ombra”, non nel senso che è oscuro, ma nel senso che li accompagna a ogni passo:
– Timira ha Razza partigiana;
– Point Lenana ha Fuga sul Kenya.
E in entrambi i casi il libro ha qualcosa di duplice, di doppio:
– Razza partigiana ha a sua volta due autori, e ha uno “sdoppiamento” nel libro-cd Basta uno sparo;
– Fuga sul Kenya ha un “doppelganger” in inglese, No Picnic on Mount Kenya, che al tempo stesso è e non è lo stesso libro.
Intervengo solo per registrare una coincidenza con ciò che state dicendo. Ho terminato da poco la lettura del libro *L’Aspra Stagione* (di T. De Lorenzis e M. Favale) che ripercorre la vita (brevissima) del giornalista Carlo Rivolta. Nei ringraziamenti finali gli autori fanno riferimento alla madre di C.R. intervistata come fonte orale per la stesura del libro. Anche in questo caso una situazione simile, una persona anziana che non ha avuto modo di leggere il testo finale. La frase (la riporto in calce) che allude a questa mancanza di tempo mi ha fatto pensare immediatamente a Timira e Point Lenana. Sono poche righe che esprimono bene la sensazione di un rammarico intensamente provato che la letteratura può lenire solo parzialmente.
“Nessun libro può pareggiare il saldo a perdere delle vite, ma resta il rimpianto di non avere fatto in tempo”.
È vero: a volte non si arriva “in tempo”. Ma è vero anche che ogni storia ha bisogno di qualcuno che la viva, di qualcuno che la ricordi, di qualcuno che la racconti, di qualcuno che la metta in circolo. A volte, questi “attori” coincidono, a volte sono distinti, a volte non si incontrano, o si incontrano nel momento sbagliato, nel modo sbagliato. Se pensiamo – dico i primi esempi che mi vengono – ai lunghi anni di silenzio dei sopravvissuti ai campi di concentramento, o alla difficoltà (per dire di cose che ci toccano molto da vicino) di raccontare Genova… Ci vuole pazienza, per mettersi in ascolto; e forse anche per aspettare che qualcuno venga a chiederci: mi racconti?
[La scena di Ogni cosa è illuminata (il film) con quell’immenso campo di girasoli, i panni stesi, una donna rimasta lì a fare memoria della sua gente (http://www.youtube.com/watch?v=3Arc0sKl7sI – comincia a 1:14), è una scena bellissima, emblematica di quello che per me è narrare]
Interessante l’analogia con la fotografia fatta da WM2: la larghezza dell’inquadratura la decide l’autore. Sgombrerei il campo dall’ennesimo necrologio del romanzo, una morte annunciata a cui ormai dovremmo avere imparato a non credere: il romanzo è vivo e vegeto e lotta insieme a noi o insieme ai nostri nemici. Qui si sta parlando di una fase nuova nella poetica dei Wu Ming e al tempo stesso di una fase nuova nell’attivismo culturale del loro collettivo e della galassia circostante. Gli altri continuano a esistere e a scrivere quel che vogliono, anche dei nuovi “Q” si spera, e fanno bene così.
Poi va detto che io sono ingegnere e un po’ ignorante di cose letterarie, quindi se penso alla scrittura la riconduco sempre all’attività semplice di qualsiasi essere umano a tavola con amici o parenti: raccontare (“affabulazione”). Io ti posso raccontare una barzelletta o ti posso spiegare una ricetta e nei due casi userò un approccio completamente diverso: per la barzelletta conta molto quello che non ti dico, per la ricetta conto molto quello che ti dico. Solo nella barzelletta c’è la tensione narrativa, contano il modo in cui sviluppo la trama e gli “effetti speciali”, usare un sinonimo sbagliato può cambiare completamente il risultato.
I due estremi letterari potrebbero essere un haiku e un’enciclopedia, e qui ci si sta muovendo nella direzione dell’enciclopedia. La differenza è che l’enciclopedia ha ambizione tuttologica, queste invece sono delle monografie romanzate: tutto quello che avreste sempre voluto sapere su Isabella Marincola e Felice Benuzzi (ma non avete mai avuto il coraggio di chiedere).
E questa rotta intrapresa è molto coerente con la parte “Unidentified Narrative Objects” di tutto il discorso sulla New Italian Epic: è multimediale, è incasinato, è ipertestuale, è collettivo in un modo più drastico di quanto sia collettivo scrivere un libro come “54” dove i confini dell’autore sono ben delineati, anche se sono i confini di quattro corpi (i sacri confini dell’Italia considerando solo le isole maggiori consistono in tre grandi contorni ma questo non li rende sfumati o ambigui). Il confine degli autori di “Timira” è il confine del Sahara Occidentale o della Repubblica Partigiana di Varzi, ti svegli una mattina e i tedeschi o i marocchini si sono ripresi una casetta (o è morta Isabella e non sai più se è argomento o coautrice). Avete trasformato la vostra fissazione dei titoli di coda nello stile di tutto il libro. Questo è anche coerente con l’idea di “apertura” del collettivo, l’enciclopedico da Diderot a Wikipedia è un’impresa plurale.
Al tempo stesso, mi sembra però (e un po’ temo) che in questa impostazione si perda per strada l’aspetto epico, su cui avevate costruito una riflessione che credo valida. Certo, anche i poemi epici antichi erano un po’ enciclopedici, magari facevano una digressione di mezz’oretta sulla composizione di una flotta o coglievano l’occasione per farci sciroppare un trattatello di genealogia (non so se la Bibbia sia proprio epica, ma assomiglia, e ditemi se a volte non sembra che abbia i box di approfondimenti e curiosità come le infografiche dei giornali). Umberto Eco si è costruito una fortuna su fare dei romanzi storici (che a me piacciono molto) dove ogni tanto contrabbanda dentro la storia un bestiario o un elenco di erbe medicinali. Anche in “Asce di guerra” ci avete ficcato quei pipponi sui prìncipi asiatici (posso dire che non sono proprio la mia parte preferita di quel libro? tanto lo so che siete d’accordo :-) ). Vabbe’, scherzi a parte fa parte del respiro epico l’approfondimento del contesto, la profondità della scena che non è soltanto un palchetto per permettere ai personaggi di dire le loro battute, ma è protagonista a sua volta, a volte addirittura è il vero tema di un romanzo.
Ma c’era una cosa che in “Point Lenana” quasi non c’è, e in “Timira” c’è appena appena, e cioè la fiction. Magari pure fiction verosimile, o inverosimile di proposito ma fatta con materiale vero (“54”), ma insomma una storia che in qualche modo vi siete inventati. Forse non è “fiction” la parola giusta, mi viene in mente solo un verbo: “romanzare”. Ovviamente c’è un legame tra com’è fatto il narratore e quanto “romanzato” ci si può mettere. Per romanzare molto servono “inquadratura stretta” secondo la metafora di WM2 e confini dell’autore ben definiti. Se posso girare dietro l’obiettivo e guardarmi attorno me ne accorgo che siete a Cinecittà. Dove c’è fiction c’è un po’ di disonestà a fin di bene da parte dell’autore, mi seduce e mi porta dove vuole, io poi ci penso su e costruisco le mie interpretazioni; mi devo fidare e lui si prende la responsabilità di farmi da guida, di mostrarmi le cose in un certo ordine, di non spiegarmi tutto.
Io mi chiedo, insomma, secondo voi quanto conti ancora “romanzare” e non solo “dire”, anche dire bene, dire bello, dire obliquo, dire come una storia… ma pur sempre dire senza romanzare più, senza creare dei mondi. Mi trovo nella situazione paradossale di trovare questa vostra svolta elettrizzante come lettore di Giap, ma di temere di rimpiangerla come lettore di Wu Ming.
Intanto vorrei chiarire una cosa: le possibilità espresse in #Timira e #PointLenana non sono le uniche possibilità che il collettivo esprimerà d’ora in avanti. E’ più la modalità di creazione, il “creolizzare Wu Ming” a fare del dittico, come scritto nel post, “la prima multi-opera della nuova fase”. Noi vogliamo muoverci in più direzioni.
Dopodiché, mi interessa molto la questione del “romanzare”.
Se per romanzare si intende la fiction, “inventare una vicenda”, in effetti le parti romanzate in Point Lenana sono poche, si riducono ad alcune scene ben precise, come il sogno di Badoglio (che addirittura è un inserto di romanzo fantastico in un libro super-documentato).
Se invece per “romanzare” si intende raccontare una storia usando le tecniche del romanzo, o meglio, le tecniche che siamo abituati a trovare nel romanzo e, più in generale, nella narrativa, allora la questione cambia: un buon 70% di Point Lenana è scritto utilizzando tali tecniche. Tecniche letterarie. Le più potenti a disposizione di uno scrittore, che la vicenda narrata sia storicamente accertata o meno.
C’è epos in Timira e Point Lenana?
Dipende da cos’ha in mente chi formula la domanda.
Secondo me sì, c’è epos, o quantomeno è respiro epico quello che abbiamo provato a metterci. Ovviamente, bisogna sempre chiarire cosa si intenda per “epos”, perché poi arrivano i tetrapilectomizzatori a dirti che “epica” vuol dire questa cosa e non quell’altra, gli ortodossi del bachtinismo secondo cui romanzo ed epica sono incompatibili perché l’epica è solo ed esclusivamente quella roba che è morta quand’è nato il romanzo etc. etc. Forse è meglio chiuderla qui…
…o usare un’altra parola :-)))
P.S. Tenete conto che tra le idee “orbitanti” intorno al collettivo risplendono i seguenti progetti: un romanzo collettivo “posadista”/kolosimiano sull’ufologia negli anni Settanta (più volte fantasticato alle riunioni); un mio UNO su vent’anni di movimento No Tav in Val di Susa (che a dire il vero sto già scrivendo e sarà idealmente collegato a Point Lenana) e una biografia narrativa di Peter Kolosimo (da scrivere chi ci sta, se la famiglia cede al pressing e scioglie alcune riserve) :-D
Con questo rispondi alla domanda che stavo per farvi :-)
Quando dite che L’armata dei sonnambuli è l’ultimo romanzo storico, e poi si parla di creolizzazione, può venire il dubbio che non scriverete più romanzi collettivi, ma solo UNO che entreranno nella “matassa” del collettivo. E invece (su questo sono fissata) la scrittura/voce collettiva di Wu Ming è necessaria alla letteratura italiana.
Certo che scriveremo ancora in gruppo. Ma non scriveremo più romanzi storici collettivi. “L’armata dei sonnambuli” è l’ultimo, a questo si devono le drastiche riscritture e tutto il tempo che ci stiamo mettendo. Per questo ci stiamo ammazzando di fatica: perché vogliamo chiudere *in grande stile*. Che poi ci si riesca, è un altro paio di maniche. Di certo, in questo libro facciamo scelte espressive e allegoriche radicali.
Ma dunque il “trittico atlantico” non andrà a compimento? #damn! (aggiungo queste poche parole per le note ragioni di concinnitas che non consentono la pubblicazione di commenti troppo brevi)
“L’armata dei sonnambuli” concluderà il Trittico Atlantico. Ti renderai conto di cosa significa quando ti ritroverai a soppesare mole del romanzo :-D
[A occhio e croce, è il più lungo che abbiamo mai scritto. Sono quattro atti, io sto correggendo i primi due, e da soli coprono 212 fogli A4.]
Diciamo la verità, su questo non è che abbiamo proprio le idee chiare. Dire che “L’armata dei sonnambuli” è talmente corposo da contenere secondo e terzo volume del Trittico è una buona scorciatoia, e tutto sommato non è nemmeno falso. Però non è escluso che ci vengano idee più brillanti. Magari il terzo volume del trittico non sarà esattamente un romanzone storico. Magari sarà…
…un libro sugli UFO? :-)))
Io nel frattempo “tifo Kolosimo”.
(il commento è troppo sintetico, per allungarlo aggiungo un’interiezione paracula a scopo preventivo: “viva Saint-Just!”)
Forse, Mauro, il fascino più forte che sento in questa nuova fase di Wu Ming è proprio il superamento di quella che ora ti sembra una dicotomia, e io invece vedo come una possibilità di avere qualcosa di nuovo nella letteratura.
“Vero” e “falso”, in letteratura, non esistono, secondo me. Sembra una battuta, eppure capita sempre così: a chi scrive un romanzo si chiede cosa c’è di vero; a chi scrive una biografia cosa c’è di inventato. E’ un gioco infinito, tra autore e lettore, un gioco di specchi che rimane irrisolto, e forse va bene così.
Se uno scrittore riesce a sedurti, come dici tu, la narrazione è efficace. E se è bravo, riesce a farlo anche raccontandoti cosa ha mangiato a pranzo.
Sulla questione del “sedurre” consiglio proprio l’ascolto della presentazione alla Casetta Rossa. Danae c’era e ricorda bene come è stata posta la questione: per me la sfida consiste nel far amare una storia senza che il narrare intossichi o comunque irretisca.
[Excursus: pensiamo alla deriva reazionaria e consolatoria che sta prendendo la voga del romanzo storico con la sua mutazione post-Dan Brown del “thriller storico-esoterico”. Quella merda (che è facilissima da scrivere, la scrivono autori-cottimisti) sta invadendo la grande distribuzione, e a volte contiene, in forma degradata, innovazioni portate da quello che Giuliana Benvenuti ha chiamato “romanzo neostorico italiano”. Alcuni autori di romanzoni storici a cazzo di cane (immaginarsi qui lo sventolare di mano di René Ferretti) sono addirittura partiti come *epigoni* del neostorico italiano.
Io voglio allontanarmi da quelle zone alla velocità della luce. Quella roba ci sputtana retroattivamente e per osmosi.]
Ora: non è impossibile affascinare con una bella storia e, al contempo e su un altro livello, mettere a disposizione di chi legge/ascolta gli strumenti utili a verificare, smontare, decodificare (come avviene nei nostri “Titoli di coda”, ma non solo). Narrazioni open source, tenere l’officina aperta. Certo, non a tutti interessa entrarci, nell’officina, a molti basta sapere che là dentro qualcuno lavora, ma intanto tu la tieni aperta, e se entra qualcuno, gli spieghi cosa stai facendo. A volte lo fai *dentro il libro*, a volte fuori (es. Wu Ming Lab).
Oggi ho scritto questa risposta, basata su commenti precedenti. Ma la attacco qui sotto perché mi pare in tema anche con gli ultimi.
Eccola
Nella narrativa tradizionale, al lettore piace come un certo autore vede e interpreta la realtà, altrimenti non leggerebbe i suoi libri. Ma allo stesso tempo il lettore sa che l’autore lo sta “ingannando”, esattamente come avviene per l’illusionista. L’accordo è: io mi lascio ingannare dalla tua storia, perché so che questo inganno seminerà in me qualcosa di buono.
Si potrebbe invece dire che nello schema della narrativa UNO, questo accordo salta.
Salta perché l’autore gioca a carte scoperte, e quindi salta quel meccanismo dell’inganno.
Che poi questo meccanismo della finzione è un po’ perverso se vogliamo ben guardare, ma ha sempre funzionato dai tempi delle storie narrate attorno a un fuoco, perché probabilmente ha molto a che fare con i meccanismi di funzionamento del cervello umano. Secondo me è davvero qualcosa di biochimico, oltre che culturale.
Cerco di rispondere a WM1.
Ci ho riflettuto un po’. Non era corretto dire che l’ipertesto fosse predeterminato, avrei dovuto dire “in chiaro”, cioè il suo intento è evidente e dichiarato.
Riformulo: l’impegno che l’oggetto narrativo non identificato mi ha chiesto è stato quello di diventarne co-autore. Questo è fantastico! E’ fantastico un libro pensato per questo, con tutti i buchi, i trampolini, i “se” e i “ma” che possono tornarmi utili allo scopo.
Ma allo stesso tempo mi piace essere corteggiato, voglio che l’autore mi induca ad esplorare senza dirmelo troppo chiaramente, criptando in parte il messaggio. Un pizzico di inganno, con cui stare al gioco.
Ad ogni modo credo di aver capito che la differenza con cui ho accolto i due libri di cui parlavo ieri sera, è un esempio troppo estremo e con troppe variabili.
Ho trovato due elementi interessanti che potrebbero spiegare questa differenza di ricezione da un punto di vista completamente diverso da quello già espresso:
1) Il tempo. Nel senso del tempo necessario per assimilare la lettura. L’esempio di Q era troppo facile. Quella era una sostanza ad effetto istantaneo. Mi rendo conto invece che Point Lenana è a rilascio prolungato. Ecco che l’osservazione giusta che dovrei fare non riguarda l’esperienza della lettura, quella che fai con il libro in mano, ma quello che accade dalla lettura in poi e intorno ad essa. E’ l’esperienza della “ruminatio”, che un’opera UNO innesca in modo più lento ma anche più a lungo termine. E’ innegabile che Point Lenana mi ha portato in cima a Point Lenana con Point Lenana nello zaino, mi ha fatto acquistare Fuga su Kenya (che ancora mi devo gustare), mi ha trascinato in questo dialogo su giap facendomi perdere ore a pensare e a scrivere, ha fatto nascere tante altre piccole cose che stanno accadendo nella mia vita privata. Point Lenana sta accadendo ora, dopo che l’ho letto. Tra l’altro aveva inziato ad accadere anche prima che lo comprassi, ma non me n’ero accorto!
2) Il periodo storico. La storia vicina è più tridimensionale di quella lontana. Quindi un libro che parla di storia recente, necessariamente richiede più tempo per essere ruminato, perché le sue tracce, le tracce delle storie in esso contenute, sono ancora qui oggi intorno a me e ben visibili. Nella mia famiglia, nei luoghi che frequento, nelle storie di persone vicine. Quindi è molto più complicato da gestire, perché l’ipertesto che innesca non è solo questione di informazioni e di dati, ma anche di visioni, di esperienze e di sensazioni che puoi percepire tutti i giorni. Dunque è logico che io stia facendo più fatica. Un segno evidente che sono ancora in fase digestiva, è che non riesco ancora a leggere altri libri.
Basta, non voglio improvvisarmi né critico letterario né psicologo, anche perché non ne ho le competenze. Spero solo di non aver annoiato nessuno :)
@WM2 mi piace molto l’analogia fotografica del diaframma… sono d’accordo che forse la chiave è proprio quella. Calibrare quanta luce far entrare nella camera oscura del racconto. La fotografia che scatti è poi la stessa, ma quello che cambia drasticamente è la profondità di campo. Più il diaframma è aperto, più la storia va messa a fuoco esattamente nel punto che vuoi osservare, perché tutto il resto è sfocato. Più il diaframma è chiuso, più è facile vedere tutto ciò che l’inquadratura contiene perché tutto è a fuoco… il risultato però è più piatto.
E come il fotografo decide la profondità di campo in base alla foto che sta facendo, mi pare logico che anche lo scrittore faccia lo stesso in base alla storia che vuole raccontare.
@VecioBaeordo paradossalmente ritengo che un dubbio insinuato direttamente nella mia testa, una domanda fatta a me, mi lasci meno libero di agire rispetto allo stesso dubbio o domanda messa nella mente del personaggio. E’ paradossale davvero, ma per qualche ragione mi coinvolge di meno, forse perché mi sento smascherato nel gioco della finzione a cui ero comodamente abituato.
“Quella roba ci sputtana retroattivamente e per osmosi”.
Il romanzo storico al momento è inflazionatissimo, sta accadendo la stessa situazione verificatasi con la produzione giallo/noir: fase creativa e poi il declino; si pubblicano tonnellate di roba mediocre per spremere il più possibile il filone in voga al momento. Ai tempi di *Q* le circostanze erano differenti.
Quanta roba!
Per il momento vorrei concentrarmi sulle dosi di fiction contenute in Timira. Mauro dice che ce n’è appena appena. Vediamo.
Tutto dipende da come guardi. Se ti metti lontano, allora può sembrarti che l’invenzione sia poca (per es. rispetto a Q). Da lontano, dici che Timira racconta una storia vera, perché narra la vita di una donna reale, Isabella Marincola. Ma se ti avvicini, le cose si complicano.
Il romanzo si apre con una lettera, scritta post mortem da uno degli autori alla protagonista. La lettera riporta alcuni episodi realmente accaduti, però sono del tutto inventate le circostanze nelle quali viene scritta. Eventi reali, cornice d’invenzione.
Al cap. 5 c’è una lettera di Giuseppe Marincola, inventata di sana piana, mai scritta. La lettera ricostruisce le motivazioni di un gesto reale, trattando il padre di Isabella come il personaggio di un romanzo. Azione reale, scopo d’invenzione.
Al cap. 6, nell’ambientazione realistica della guerra civile a Mogadiscio, in mezzo a gesti che Isabella sosteneva di aver compiuto davvero, il fulcro del capitolo è un episodio del tutto inventato: quello delle faraone vulturine del dottor Farid. Cornice reale, scena madre inventata e aneddoti realmente raccontati (ma chissà se realmente accaduti: in fondo Isabella non è una semplice testimone, fa parte del collettivo di autori del romanzo…).
Il cap. 7 narra il viaggio di Isabella da Mogadiscio all’Italia. La protagonista all’epoca aveva meno di due anni, quindi i singoli eventi sono inventati, anche se ricostruiscono un episodio reale. Inoltre, la voce narrante è quella di una suora della Consolata che accompagna Isabella durante la traversata. Costei è un personaggio di fantasia. Dunque: episodi inventati che messi assieme danno conto di un episodio reale, attraverso il punto di vista di un personaggio fittizio.
Non vado avanti oltre – per ora… – anche perché molte di queste considerazioni si possono desumere dai Titoli di coda. Però faccio notare che se facessi la stessa operazione con Q o con Manituana, probabilmente otterrei risultati simili: un intreccio inestricabile di documento e fiction, con un effetto complessivo (da lontano) differente, ma ottenuto mescolando i due ingredienti in proporzioni e dosi tutto sommato identiche.
Condivido la conclusione di maurovanetti (“Mi trovo nella situazione paradossale di trovare questa vostra svolta elettrizzante come lettore di Giap, ma di temere di rimpiangerla come lettore di Wu Ming”). A me sono piaciuti sia Timira che Point Lenana, il secondo in più mi ha portato un unteresse a inseguire oltre le pagine del libro i collegamenti che lanciava verso l’esterno, peròmi sembra che questi oggetti rispondano a bisogni diversi da quelli del romanzo.
Quindi da una parte sarà bello leggerli, dall’altro temo che in questi libri mi mancherà qualcosa. Più che l’epos, per cui teme Mauro, e che invece io confido non mancherà. Calvino diceva “scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che poi venga ritrovato”, a me piace molto questo concetto, in un UNO come li pensate voi, riuscite a farcelo rientrare?
Insomma, come diceva Mauro, a me sembra che questi oggetti siano Giap, non Q (o Altai, o 54…), e a me piacerebbe averli entrambi.
Capisco il punto, però vedo il problema a rovescio.
Libri come Timira e Point Lenana, proprio perché mostrano molto, nascondono molto meglio. Anche l’effetto “guscio rotto” è un effetto letterario, un gioco di prestigio, un modo di raccontare. Il guscio sembra rotto, il contenuto sembra versarsi fuori, eppure… Eppure per chi vuol cercare ci sono ancora mille segreti e mille trucchi romanzeschi. Le espansioni e le tracce che il testo addita sono solo alcune possibilità.
Detto questo, il desiderio di andare oltre il romanzone storico non si traduce automaticamente nella scrittura di UNO a tutto spiano. La “creolizzazione” di Wu Ming consisterà proprio nel mescolare diverse tendenze: se WM1 e WM2 guardano alla docufiction, c’è pur sempre WM4 che ragiona sul fantastico e WM5 che inventa ucronìe. Andare oltre il romanzone storico e creolizzare Wu Ming, potrebbe voler dire scrivere un romanzo di fantascienza che si possa leggere anche come una nonfiction novel…
Scusate, mi sembra che ci sia un equivoco sulla natura “enciclopedica” di #Timira e #PointLenana.
Se davvero, come ha scritto Mauro, Point Lenana fosse “Tutto quello che avreste voluto sapere su Felice Benuzzi”, cioè se fosse una biografia di Benuzzi, non si spiegherebbe come mai tante cose, terminata la lettura, permangano *insondabili*, e – per fare l’esempio più eclatante – siamo lasciati con molte più domande che risposte sul fascismo di Felice. Quanto fu fascista Felice prima della guerra? In che misura aderì al regime? Non lo sappiamo. Non sappiamo se presenziò all’adunata di massa per la dichiarazione di guerra all’Etiopia. Non sappiamo cosa fece nei misteriosi sei mesi di tirocinio a Bengasi. Etc. etc.
Point Lenana è una composizione di frammenti, cerca di ottenere quella “conoscenza per composizione” di cui parlarono Benjamin e Jesi. Alcuni frammenti sono rivelatori, altri lasciano perplessi. Colleghiamo tra loro alcune scelte e prese di posizione di Benuzzi, ma sono scelte e prese di posizione distanti nel tempo. Quel che c’è in mezzo è avvolto nel mistero.
E questo non riguarda solo Felice: il libro, e ripeto la bella frase di Giuliano, è “un libro di se e di ma”. Di elementi nascosti, e probabilmente destinati a rimanere nascosti, ce ne sono parecchi.
D’altronde, se dicesse “tutto”, non si capirebbe l’impulso, testimoniato da molti lettori, a prolungare le linee, a cercare altre fonti, a sciogliere grovigli.
Ad ogni modo, ripeto: Timira e Point Lenana sono due esempi di – come diceva WM2 – “regolazione del diaframma”. Non fissano alcun canone, d’altronde come potrebbero? Sarebbe un’aporia, un’ibridazione di elementi fissi non sarebbe più ibridazione.
Sulla questione della nostalgia anticipata per i nostri romanzoni storici: posso comprenderla, anch’io rimpiango l’autentica gioia d’inventare che caratterizzò la stesura di 54, che pure fu terminato in un periodo concitato e per niente facile (l’immediato post-Genova).
Solo che uno scrittore non dovrebbe continuare a scrivere libri che non si sente più di scrivere. Di colleghi finiti così, condannati (o auto-condannatisi) al ripetersi, ce ne sono fin troppi.
La verità è che, riguardo al romanzo storico, il collettivo vive in perenne crisi fin dalla stesura di Manituana, che fu difficilissima, brigosa, a tappe forzate, fece emergere non-detti e problemi irrisolti, ci fece dire che così non potevamo andare avanti e – dulcis in fundo – si concluse con l’uscita di Luca. In Manituana si legge tutto questo, nel rapporto tra Joseph e Philip, nell’incertezza e negli scazzi tra gli irochesi. Ce ne siamo accorti dopo.
Quanto ad Altai, fu scritto in meno di un anno come autoterapia – lenire i traumi, affrontare l’origine e “seppellire” Q. L’allegoria profonda di Altai parla di noi intenti a capire dove stiamo andando dieci anni dopo Q.
Con Manituana avevamo annunciato un Trittico, quindi nel frattempo eravamo tornati a lavorare sul Settecento, perché avevamo idee che ci sembravano potenti e non era giusto accantonarle. Però mentre scrivevamo L’armata dei sonnambuli siamo giunti alla conclusione che la modalità “organico al completo che scrive romanzone storico” ci stava ormai stretta, rischiavamo il ripeterci, l’accrocchio di clichés, la maniera, il “wuminghismo”. Come scrivere un romanzo che fosse una *summa* del nostro lavoro sulla forma-romanzo storico senza che diventasse un autoscimmiottamento?
Da qui tutto il prolungato lavoro sull’AdS, molto accidentato, con tanto di eliminazione di due atti già scritti (cosa che era già successa con Manituana: a un certo punto buttammo nel cestino mezzo libro) e una proroga di sei mesi per scrivere il miglior romanzo possibile.
Sto rimuginando su tutto il resto e trovo la discussione veramente interessante, anche in questo caso come nella multi-opera perché suscita un sacco di ipotesi e di voglia di approfondire. Vorrei però dire subito una cosa sulla faccenda dell’enciclopedicità, visto che l’ho tirata fuori io tagliando un po’ con l’accetta. WM1 dice che non c’è “tutto quello che vorreste sapere su Felice Benuzzi” perché per esempio “non sappiamo cosa fece nei misteriosi sei mesi di tirocinio a Bengasi”.
Giusto, però, appunto, “non sappiamo”. Il motivo per cui non c’è è quello, l’impressione magari sbagliata è che gli autori abbiano messo in “Point Lenana” (in una forma letteraria, chiaro, ma questo è il tema degli altri commenti nella diramazione subito qua sopra) tutte le cose rilevanti che sono riuscite a scoprire. Questo rende la biografia enigmatica e la sua interpretazione aperta, e poi in effetti non è una biografia classica perché è ipertestuale, nel senso che indugia nel seguire le tracce che trova anche quando queste tracce sembrano portare lontani dall’oggetto del discorso – forse questo è un altro modo per dare un “respiro epico”, spostando l’attenzione sul contesto ampio?
(Cosa che forse non c’entra niente o forse sì: in “54” vi siete infilati proprio in una zona d’ombra della biografia di Cary Grant, nei “sei mesi a Bengasi” di Cary Grant, di cui magicamente sapevate tutto, e avete parlato proprio di quel che gli è successo a “Bengasi”.)
L’ho detto anch’io alla presentazione di Pavia contro un’accusa poco circostanziata di faziosità: “Point Lenana” è soprattutto un libro di domande e non di risposte, ma credo che siano domande molto diverse da quelle che nascono da un romanzo vero e proprio di una certa complessità. In quest’ultimo caso, infatti, le domande in un certo senso ce le pone l’autore costruendo una storia-interrogativo. Con “Point Lenana” mi sono sentito come se i due Roberto mi rendessero partecipe dei loro stessi interrogativi, e che con onestà mi dicessero tutto quel che avevano imparato. Invece l’autore che crea un mondo romanzato è disonesto e di solito sa o ci dà l’impressione di sapere anche le cose che decide di non dirci.
Bellissima discussione, davvero. Bellissima. E molto utile a noialtri, per “regolare il diaframma” e mettere in cantiere i progetti dei prossimi mesi e anni.
C’è veramente molto su cui riflettere e da metabolizzare in questo cambio di marcia annunciato – ma non inaspettato – in questo post, soprattutto c’è da prepararsi allo stupore che i Wu Ming non ci fanno mai mancare quando ci si trova sotto agli occhi una loro nuova produzione.
Così il mio commento lo inserisco qua in fondo, perché non saprei bene a quale commento agganciarlo. Inizio riagganciandomi con quanto scritto da @VecioBaeordo nel primo commento al post, in cui scrive: “penso che Timira e Point Lenana costituiscano una maturazione del collettivo, una presa di coscienza dell’età adulta”. Lo penso anche io, credo che ciò derivi da molte variabili, ma è comunque una sensazione forte che ho provato nella lettura di entrambi i lavori, una sensazione che personalmente avevo già avvertito nella lettura di Altai, tanto che andandomi a ripescare quanto ne scrissi dopo la lettura ho trovato la conferma in questa frase: “Si fa spazio a mio parere un elemento di complessità generale dato dai processi di autoriflessività che investono i personaggi”. Non so se abbia senso andare a ricercare il punto d’origine di una tendenza – in particolar modo per un collettivo di scrittori come i Wu Ming, che mai si sono adagiati nella sicurezza di ciò che funziona perché già passato dalla prova della comunità di lettori – ma mi sembra che questo lavoro sui personaggi sia quello che ha segnato maggiormente ad oggi l’evoluzione della scrittura del collettivo. Leggerlo come “presa di coscienza dell’età adulta” rende, perché riflette anche la tribolazione del porsi “fuori dalla zona di comfort” che ha segnato sia Timira che Point Lenana, perché avere a che fare con persone in carne ed ossa come Isabella M. o Stefania B. – come scrive WM1 “a conoscerle, a provare stima per loro, a intervistarle, a raccontarne la vita” – mette in gioco non solo lo scrittore e la sua expertise, ma anche la sua umanità. Questo mettersi in gioco da parte dello scrittore – o del collettivo di scrittori – già in Altai lo conferma WM1 qui sopra quando scrive che “fu scritto in meno di un anno come autoterapia – lenire i traumi, affrontare l’origine e “seppellire” Q”. In Timira e in Point Lenana quello che mi ha particolarmente convinto è la compresenza di diversi spessori: l’equilibrio fra una dimensione orizzontale, rizomatica, da iper-testo, e una dimensione verticale, di profondità, che si confronta con ciò che significa essere e sentirsi esseri umani.
Da lettore – quello che semplicemente sono – mi trovo in sintonia con quanto scritto da @tave perché anche nel mio piccolo confrontarmi con un “oggetto narrativo non identificato” mi ha coinvolto oltre la consueta barriera che divide autore e fruitore, “come co-autore” (forse dire co-autore produce fraintendimenti, il lavoro fatto dall’autore è lì e segna comunque la differenza implicita fra i due soggetti scrittore/lettore). La presenza anche di una dimensione verticale, come scrivevo sopra, è l’elemento che finisce per definire la capacità dello scrittore di calarsi – e quindi calare i lettori, accompagnandoli – nell’altro diverso da sé. Così succede che il mio cervello lavora su più fronti, quello più libero di esplorare e decidere su quali tracce eventualmente continuare la ricerca imbastita dall’autore, quello più saldo del lavoro sui personaggi, fatti di carne sangue e stati d’animo e resi tali nel testo dallo scrittore.
Mi fermo, anche perché già mi sono allargato e ho dei dubbi sulla comprensibilità di quanto scritto… Nel caso non si capisse un H, chiedo venia.
Ah, visti i temi dei progetti futuri debbo proprio consigliarvi una futura gita in Val Camonica, avrei da portarvi un po’ in giro: ufologia e archeologia (“Certo che l’archeologia è affascinante, potrei stare a scavare in questa regione per tutta la vita e trovare un enigma al minuto…” WM1 – Prefazione a “Futuro Anteriore”), narrazioni tossiche intorno alla prima guerra mondiale (Wu Ming Lab che ho letto essere in preparazione)… :)
WM1: Solo che uno scrittore non dovrebbe continuare a scrivere libri che non si sente più di scrivere.
Già, però come vostri lettori, vorremmo continuare a leggere i libri che a voi piace(rebbe) leggere ;-)
e mi sa che saremo accontentati :-)
Un commentino finto-politico. Spero mi vengo perdonato dalla comunità, ma non vedo altri luoghi virtuali praticabili.
Il contenuto può essere rimosso.
Per il quarto anno consecutivo – dal 2010 – nei mesi tra settembre e dicembre viene operato un enorme prelievo di ricchezza pubblica e privata dal basso verso l’alto della scala socio-feudale.
In realtà gli anni sono almeno sette, e molti di più anche, ma le periodizzazioni parziali hanno un senso.
Dal 2007 il Paese ha ‘perso’ un quarto della produzione nazionale, visto un processo di deindustrializzazione radicale senza alcuna conversione produttiva. Triplicato il numero di povertà e famiglie sotto la soglia della mera sopravvivenza. Ampliato il numero dei non-occupati e della popolazione inattiva ben oltre il 50% di quella reale.
Questa ricchezza non è stata persa, è stata ‘monetizzata’ e trasferita altrove. Espropriata, nel 90% dei casi ai ceti medio-bassi.
Le banche detengono il debito, dunque lo controllano. Dunque controllano il resto della ricchezza residua. E tutto il resto che dicevo prima.
A noi toccano i costi, ovvero gli interessi, in termini di soldi, e i diritti, in termini di lavoro-cittadinanza-democrazia.
Dal 2010 è palese che questa operazione di prelievo e rapina deve essere fatta anche con la forza. Per ora da noi, e anche altrove in verità, basta l’inganno. Da quattro anni ogni estate viene allestito il palco dei burattini e si recita a soggetto commedie di quarta serie, mentre nel retro si portano via pure i bicchieri e le posate, e poi la mamma, i bambini, il nonno…
Il capocomico del Colle, oligarca per definizione, tratta per via diretta con cancellieri (!) e banche centrali, e ci propina l’ennesima replica del Goldone nazionale servo di due padroni o forse tre, stasera in onda con la DecaDance – annunciato anche il culo della minetti – mentre il malloppo, quello vero, è stato ingroppato stanotte, votato al buio, di fretta, senza guardare.
Così oggi buttiamo fuori il Caimano. Che figata.
Scusate. Viva il wu ming lab.
Statevi bene.
L.
Per ora basta l’inganno. Dall’anno prossimo abbiamo il pareggio di bilancio in costituzione (l’unica Grande Opera riuscita al Caimano) e l’inganno non basterà più. Che figata.
Grazie a @GillaFiume per questo bello speciale su #PointLenana (video con reading di WM1 + intervista). Colonialismo, fascismo, Alpi.
http://mag.studio28.tv/mag/intervista-a-wuming-1/
La mia salita a #PointLenana – di Virginia Fiume.
Mettiamola così: probabilmente con questa dichiarazione si apre un nuovo capitolo della vita della WM Foundation, abbiamo capito bene?
Quello che c’è finora si può periodizzare come segue:
1. Grosso modo fino a “Manituana”: tanti romanzi solisti, Giap-newsletter e Nandropausa;
2. Grosso modo fino al 2010: l’epoca di Giap blog e, quasi subito, della riduzione a quattro del collettivo, grande dibattito sul NIE, praticamente niente romanzi solisti,
3. a partire da “Il sentiero degli dei”: l’epoca del “nuovo corso”: i due grossi romanzi gemelli solisti-ma-con-esterno, ridefinizione continua della presenza sui social, nuove riflessioni sullo strumento blog e sullo strumento e-book.
Ebbene, non so se adesso si parla di ridefinizione e nuova precisazione del punto tre o se di nuovo periodo ancora, ma mi chiedo: che differenza c’è tra il periodo due e il periodo tre? Si potrebbero dire tante cose ma io ho da sollevare un aspetto su cui forse non avete soffermato la vostra attenzione (ma magari invece sì, è impossibile seguire sempre tutti i commenti di tutte le discussioni su Giap, e magari mi son perso qualcosa di importante): la presenza dell’audio. Io mi sono abituato a conoscere i WM soprattutto attraverso le loro voci (tutte le riflessioni sulle voci e i volti, ma anche un capo indiano con l’accento bolognese, WM1 e Baliani che parlano della voce di Tassinari, Wm1 che fa scoppiare la “bomba a tempo” rap del ragazzetto di New Thing tradotto in inglese), attraverso un sito ricchissimo di podcast, presentazioni, dibattiti, interviste.
Sentire adesso queste due presentazioni mi ha fatto tornare molto chiara l’immagine di me un po’ di anni fa, nella vecchia casa, che facevo lavori domestici ascoltando vostri podcast.
Che fine ha fatto tutto ciò? Se guardo l’Audioteca (“a cui teniamo quasi come alle pupille dei nostri occhi”), alla sezione “Le aggiunte più recenti”, la più nuova che trovo è del settembre 2010.
Certo, a ben guardare nei post del blog qualche documento audio non manca (ricordo degli interventi di WM2 con Santoro su Grillo, le canzoni del WM Contingent e il brano di WM3 con in sottofondo la Boldrini), ma la cosa mi sembra molto più episodica – e comunque bisogna andare a cercarseli apposta. Volete la prova? L’e-book su Giap, L’archivio e la strada, dove ovviamente si dà più spazio alla parola scritta che a quella parlata.
Si dirà: ma di raccolte di Giap questa non è certo la prima. Certo, rispondo, ma qui si è raggiunto un nuovo gradino: le conferenze sbobinate. Non so perché, ma mi fanno un po’ specie. Mi sembra che le vostre voci, proprio nella loro materialità, più se ne parli meno diventino il fulcro della cosa.
Solo per dire questo, e una delle cose da proporvi per questo nuovo punto di svolta è che torniate a farvi sentire con più sistematicità.
Non trovate?
Ehm, ehm… L’audioteca adesso si chiama “Radio Giap Rebelde” ed è qui (segnalata e linkata anche nella colonna qui a destra):
http://feeds.feedburner.com/RadioGiapRebelde
Quella che sei andato a vedere tu è la vecchia audioteca nel sito “fossile”, congelato nel 2010.
:-)
Come vedi, la nostra proposta di materiali audio è tutto fuorché “episodica”. Quasi tutti gli mp3 nell’audioteca sono stati proposti su Giap.
Mi faccio piccolo piccolo e scompaio per un altro po’ di anni.
(Non leggete questa parentesi. Non so che altro dire ma se smetto di scrivere wordpress sostiene che il mio commento è troppo breve… diciamo che fa media con quello lungo e inutile di stanotte)
Andr.
Ma no, figurati, uno mica può seguire tutto e sempre. Proprio perchè a Radio Giap teniamo molto, fa piacere leggere richieste/perorazioni di lettori che apprezzano l’offerta di materiali audio. E ci hai offerto l’occasione per un reminder sul link.
Al termine della lettura di #PointLenana, mi sono più chiare le questioni di cui scrivete in questo post. Primo quesito per WM1: non credi che questo passaggio verso nuove forme “a minore densità di finzione” sia stato favorito dal tuo essere già uno scrittore di professione? Che, cioè, sia stata propria la tua produzione precedente a darti la possibilità di (l’autorità per) scrivere Point Lenana? Quesito numero 2: parlate di “nuove modalità”, ma credo in termini relativi (cioè riferite alla vostra produzione) o volete riferirvi a modalità nuove del tutto? Perché io, più leggevo Point Lenana, può pensavo a altre opere lette in questa prima metà della mia vita (per dire: Chatwin, va, ché è il più noto). Per finire, cosa che può non significare nulla, sempre per WM1: al termine della lettura mi sei risultato più umanamente simpatico che dopo anni di silenziosa frequentazione di Giap. Non so dirti perché, e, sul serio, può essere irrilevante, ma è una considerazione che ho fatto quasi subito, nelle prime cento pagine. Saluti.
Ciao Andreas,
alla domanda 1, chiaramente la risposta è sì.
Per quanto riguarda la domanda 2, ci è capitato più volte di dire che la nostra sperimentazione sugli UNO si inserisce in un lavoro di vasta scala che stanno facendo molti scrittori in diversi paesi, e inoltre si inserisce all’incrocio di diverse tradizioni, una delle quali è distintamente italiana (la non-fiction scritta con tecniche letterarie è nel nostro patrimonio, si va dal Manzoni della Colonna Infame a Primo Levi, da Emilio Lussu a Carlo Levi, da Sciascia a Camilleri). Per farmi capire meglio, copio qui sotto la scheda che ho scritto per un workshop che devo fare a Firenze nel 2014:
———
Non-fiction novel. Creative non-fiction. Reportage narrativo. Faction. Docufiction. Docudrama. Mockumentary.
E’ solo un piccolo campione di locuzioni – alcune ormai «storiche», altre più recenti – usate per indicare narrazioni ibride, costruite in una «terra di nessuno» tra i reticolati dei generi, dei macrogeneri e delle tipologie testuali. Terra di nessuno che attraversa tutto il mondo ed è frequentata da sempre più autori – scrittori, registi, videomaker, ma anche giornalisti, storici, antropologi etc. – che vogliono raccontare le loro storie con ogni mezzo necessario.
Se la «contaminazione tra i generi» è ormai faccenda pleonastica e ovvia, la distruzione delle cornici, premessa all’ibridazione delle tipologie testuali – saggio/romanzo, guida turistica/inchiesta militante, biografia/mappa, reportage/videogame and so on – può ancora avere effetti perturbanti e – grazie a numerosi slittamenti negli approcci e nei punti di vista – di (ri)scoperta di un mondo.
Buona parte dei libri che hanno fatto discutere negli ultimi anni vengono da quella terra di nessuno, dalla quale hanno preso le mosse seguendo ciascuno la propria peculiare traiettoria. Il «gradiente» di ibridazione è variabile, si va da Limonov di Emuanuel Carrère a HHhH di Laurent Binet, dagli iperrealistici e al tempo stesso visionari saggi di David Foster Wallace al nostrano Gomorra di Saviano.
Da anni, insieme ai miei soci e lungo tragitti più personali, mi interrogo sull’attitudine e le tecniche necessarie per produrre narrazioni ad alto o altissimo gradiente di ibridazione, quelle che noi Wu Ming abbiamo chiamato, transitoriamente, «oggetti narrativi non-identificati».
La chiave è proprio nel motto «con ogni mezzo necessario». «Necessario» esclude «superfluo» e «fine a se stesso». Necessario è ogni mezzo che consenta alla narrazione di rimanere tale, senza sbordare e diventare un mero cut-up o una poltiglia di sintagmi. L’ibridazione dev’essere al servizio della storia che si vuole raccontare, deve porsi come obiettivi l’efficacia, l’empatia, la condivisione, e illuminare l’esemplarità di una o più vicende umane.
Ho sperimentato intensamente nella terra di nessuno. Per il momento, il risultato più avanzato di questo sperimentare è il libro Point Lenana, che ho scritto insieme a Roberto Santachiara. Il lavoro è durato quattro anni, durante i quali abbiamo dovuto risolvere problemi di vario tipo, a volte veri e propri rompicapi: questioni di etica del raccontare, di montaggio, di stile, di registro, di chiarezza. Per risolverli, ho guardato a chi ne aveva risolti di simili prima di me. Sono «andato a scuola» dagli autori del New Journalism americano, dai migliori documentaristi, dai romanzieri letti nel corso degli anni, dagli storici più apprezzati per la loro chiarezza. Ne sono venuto fuori con qualche idea sull’arsenale di prassi e tecniche che si possono usare, e con alcuni spunti sul rapporto tra ibridazione e «infinitezza dell’archivio» nell’epoca dei cosiddetti Big Data.
Condividere queste idee e questi spunti, facendo esempi su esempi, mettendo al centro degli incontri questioni da risolvere insieme. Credo che tutto questo possa essere molto utile a chi, intenzionato a fare inchiesta, dispone di una vasta congerie di fatti e dati, ma ha dubbi su come «metterli in fila». La risposta comincia così: non è una fila.
Non è stato un libro facile. Leggerlo è stato arduo, un’arrampicata. Ho tenuto duro. Il lavoro che avete fatto è stato incredibile. Lo so, ne ho la precisa dimensione, data da come avete concentrato l’intero universo di Giovanni Balletto, il suo libro, in una manciata di pagine. Si vedono le cuciture, ha ragione il vostro collega scrittore citato nei titoli di coda. E non poteva che essere così. Non era facile scrivere una storia che era un ipertesto, una glossa di un libro, e a volte una glossa di glosse.
Quello che mi è piaciuto è stata la scelta di entrare nel testo, aprirsi al lettore e mettere le carte in tavola dicendo: “questa è una storia”. Mi ha ricordato il procedimento che mette in atto Foster Wallace ad esempio in Verso Occidente, ma con qualcosa in più. Non è un atteggiamento postmodernista alla Barth, che porta a far saltare la storia con incursioni degli autori. Non è neanche esattamente quello che fa Wallace, che spinge l’ironia postmoderna contro sé stessa, fino al paradosso, mostrandone i limiti. E’ il contrario: gli autori entrano nel magma di storie centrifughe e intavolano un patto col lettore, una cooperazione, basata sulla trasparenza – ammettendo da subito le difficoltà intrinseche della narrazione, i limiti, la finzione tecnica. E’ onestà letteraria. “Questa è una storia, sono molte storie, dateci una mano. Raccontiamole.” Una specie di friendchise con il lettore. La trovo una strategia grandiosa.
E’ forse il “vostro” (in senso ampio) libro più storico. Anche come andamento, sebbene si avvertano i cambi di registro. Pagine e pagine di narrazione storica pura. Anche questo inevitabile, visto che il contesto del libro di Benuzzi è la Storia, oltre che la somma delle storie. E’ anche il libro in cui vi confrontate direttamente con Benito Amilcare. Una sorta di regolamento di conti con Darth Farter (pun intended). Anche per questo non deve essere stato facile.
Salve ragazzi
Il libro è piaciuto anche a noi. Nel nostro piccolo e in ritardo, vi segnaliamo la nostra recensione
http://www.militant-blog.org/?p=9995
Un saluto e un abbraccio
Grazie mille, recensione molto acuta, e la definizione di #PointLenana come “lunghissimo post di Giap” è giustissima, tanto che alcune parti del libro (es. le “prodezze” di Graziani) le avevo “testate” come post di Giap! E’ davvero cruciale il ruolo di questo blog – ovvero del rapporto tra noi e i giapster – nel rimodellare costantemente il nostro approccio alla storia e la nostra scrittura. La vostra è la recensione che affronta questo snodo nel modo più esplicito.
Ma quanto è bella questa chiave di lettura, #PointLenana ha la stessa struttura di un mega thread di Giap, ci sono mille diramazioni, i richiami all’ordine, i momenti di riflessione, le ripartenze, i contributi esterni, le prese di posizione. era questo il senso di familiarita’ che mi ha accompagnato lungo tutta la lettura e che non riuscivo ad afferrare. l’oggetto narrativo non identificato e’ stato quasi identificato.
Nei commenti su Militant una sorta di [o preludio a un?] attacco politico a #PointLenana, con repliche, tra cui quella di WM1 in 9 punti numerati:
http://www.militant-blog.org/?p=9995&cpage=1#comment-27977
Ho ritrovato un file sul mio desktop: era l’intervento per questa discussione che stavo scrivendo e che poi, preso dal corso degli eventi, ho dimenticato lì.
Mi pare di averlo detto o scritto da qualche parte, parlando di Timira e/o di Point Lenana: a me questi due libri paiono una evoluzione coerente con la vostra storia e persino con la dichiarazione d’intenti (che in parte avete emendato) che scriveste alla nascita della Wu Ming Foundation.
Il filo conduttore è la capacità di rompere la gabbia del postmoderno senza rinnegarne l’esperienza, usandone alcuni strumenti suggestivi è parte della produzione wuminghiana fin dall’inizio.
Non sono un 54iano, lo confesso. La forza di “Q” (e di “Manituana”) non era soltanto quella di essere un ottimo romanzo storico, anche se per molti lettori questo è stato un elemento attrattivo determinante. In una fase in cui si parlava di “fine della storia” e dell’esigenza di “uscire dal Novecento” col rischio che questa uscita ci facesse dimenticare da dove venivamo, “Q” ci rimetteva dentro un percorso storico. Ci aiutava sì ad uscire dal Novecento, proiettandoci in avanti ma rassicurandoci sul fatto che avevamo secoli di storie alle spalle e non solo quelle belle e tragiche del secolo che stava per concludersi. Quell’operazione veniva compiuta, ancora una volta, giocando produttivamente con un’altra delle caratteristiche del postmoderno: la riscoperta dei “generi” si intreccia con le citazioni politiche. In “Q” c’è il romanzo storico, ci sono gli anni Settanta, ci sono gli spaghetti western, c’è il noir, c’è lo zapatismo dei senza volto e gli invisibili del precariato metropolitano e la spystory. Il “genere” in “Q” non si risolve solo nel gioco di citazioni all’insegna del “tutto è stato già detto, bisogna solo ricombinarlo” ma viene messo al servizio di una macchina narrativa potente, multilivello, piena di segni diversi.
In questi due libri succede infatti che due membri del collettivo si contaminino a due autori “esterni”, si mescolino all’oggetto della storia e dunque facciano un altro passo in avanti verso la sperimentazione di nuove forme narrative e di scrittura.
Mentre accade tutto ciò, i wuminghi prendono per le corna alcuni dei cliché del postmoderno e della cultura contemporanea: il ruolo dell’autore, la fine della storia (e delle storie), la narrativa di genere.
E c’è la mossa dell’autore che spunta dalle quinte, balza sul palcoscenico e si piazza davanti al pubblico. In questo caso, e qui arriviamo al meccanismo che “rompe il guscio” o che “apre il diaframma”, ciò avviene in perfetta coerenza con il meccanismo narrativo e gli scopi prefissati: è un’operazione di onestà intellettuale e di trasparenza e non un vezzo stilistico autocompiaciuto.
Sulla “svolta” del collettivo che qui è stata per la prima volta segnalata esplicitamente (ma poi, si svolta tante volte su un percorso lungo, non è che si fila via sempre dritti… diciamo che questa volta avete messo la freccia per segnalarlo, c’è uno svincolo in vista e avete intenzione di cambiare strada).
Oggi mi è venuto tra le mani un appunto che mi presi quando lessi Altai, una piccola citazione che mi sembra consonante con questo momento di cambio rotta; la riporto sotto.
Magari anche voi l’avete dimenticata, e comunque lo spirito di questo pensiero di Manuel Cardoso mi sembra propiziatorio e di forza nel momento del cambiamento ;)
Non possiamo sapere in anticipo quali accidenti ci porteranno a essere ciò che siamo, né possiamo sapere se i mezzi che scegliamo si riveleranno giusti. (Altai)
Orlando Santesidra recensisce #PointLenana su “Senza Soste”
http://www.senzasoste.it/letture/il-ribelle-della-montagna-wu-ming-sulla-vita-dell-alpinista-felice-benuzzi#.Uq25zoZumnI.twitter
Su #PointLenana, #Limonov e altre ibridazioni
[Un lungo commento ispirato dal dibattito in corso sul blog del collettivo Militant]
Esatto, il «contesto». Per tutto il libro, la narrazione impietosa del contesto problematizza, decostruisce, a volte contraddice e sempre «mette in tensione» quel che Benuzzi scrive – e non scrive – e quel che ci hanno raccontato la moglie e le figlie.
Questo avviene, mi sembra in tre modalità, in ordine di esplicitazione:
1) Avviene «di default»: descrivere con accuratezza la conquista delle colonie italiane in Nordafrica e in Africa orientale, e la legislazione razzista che ne derivò, serve a ricordare che la presenza di Benuzzi in Libia ed Etiopia fu ineluttabilmente parte della macchina di violenza coloniale, che è violenta sempre, anche nella normalità e in «stato di pace», perché è violento in sé il rapporto coloniale, e ciò prescinde dalla eventuale «buona fede» o «buona volontà» del singolo;
2) Avviene tramite un conflitto strisciante, continuo, abrasivo, tra testimonianze e voce degli autori. Per fare un esempio tra i tanti, Benuzzi parla bene del generale Nasi e ne scrive un obituary ossequioso e commosso, mentre noi dello stesso personaggio abbiamo già elencato – e continueremo a elencare – responsabilità, nefandezze e ipocrisie, anche nel contesto della prigionia in Kenya, proprio quello in cui Benuzzi lo colloca nel finale del suo articolo. Idem per quanto riguarda il mito del Duca d’Aosta.
3) Avviene tramite un conflitto diretto ed esplicito tra testimonianze e voce degli autori. L’esempio più eclatante è alle pagine 296-297: Stefania Benuzzi dice che Felice (almeno quando era con lei) era disinteressato alla guerra d’Etiopia e che addirittura non andò alla grande adunata sotto Palazzo Venezia del 2 ottobre 1935, e subito dopo noi mettiamo in questione la testimonianza, ed elenchiamo tutti i motivi per cui è logico supporre che invece Felice credesse nell’impresa etiope e fosse presente all’adunata.
E’ proprio tutto questo decostruire e mettere nel contesto, però, che permette di leggere in Fuga sul Kenya e in altri scritti (uno su tutti il racconto autobiografico «Quattro, quattordici o mai») allegorie del superamento di una soglia esistenziale e di un’epoca, racconti di una «iniziazione» oltre il fascismo. Un superamento che, come quello dell’Italia intera, rimase contraddittorio: Benuzzi e tanti come lui avevano un’idea evidentemente molto diversa dalla nostra sui confini tra bambino e acqua sporca. E noi questa contraddittorietà la esploriamo.
Resta che Fuga sul Kenya è un libro che nega, nella sua scrittura e nella storia che racconta, molti degli assunti della mentalità fascista, e a volte lo dice in modo chiaro, come quando Benuzzi critica con un tono nauseato il vitalismo forzoso, il culto dell’«azione concentrata» nel quale, crescendo dentro il regime, era stato indotto a credere.
E badate che da dove partiva Benuzzi – fascismo di confine, uno zio fiduciario dell’Ovra, il ramo austriaco della famiglia massicciamente filonazista – la distanza per arrivare a questo era molto, molto lunga.
Chiaramente, se uno il libro lo legge a cazzo di cane, con un preconcetto sulla scelta del tema e del personaggio, e magari nelle orecchie il giudizio a priori di qualcuno che «ne sa» e gli ha detto che il libro «fa l’apologia di un fascista», tutto questo non può che sfuggirgli.
In Point Lenana, a pagina 38, l’io narrante che mi mette in scena dice:
«Cerco storie che siano scomode anche per me e per chi grosso modo condivide le mie idee. Sarebbe troppo facile raccontare cose scomode solo per gli altri, per chi la pensa diversamente da me. Non varrebbe la pena conoscere, se conoscere non ci mettesse in crisi. Un sapere rassicurante per chi lo coltiva non può nemmeno essere detto un sapere, è solo un girare intorno al non-voler-sapere.»
Mutatis mutandis, mi sembra che questa sia la «molla» di molte narrazioni ibride degli ultimi anni, libri a cavallo tra fiction e non-fiction che, proprio grazie a questa natura ambivalente e cangiante, riescono a esplorare un soggetto, un personaggio, da una molteplicità di angolature che la scelta di un genere più «fisso» non avrebbe forse consentito.
Si tratta di evoluzioni del romanzo, le tecniche utilizzate su materiali di diversa origine e su diverse tipologie di testo sono in fondo tecniche introdotte in letteratura dal grande romanzo realista dell’Ottocento, poi temprate nel fuoco del Novecento: alternanza tra autore «onnisciente», stile indiretto libero e flusso di coscienza; foreshadowing; attacchi in medias res; descrizioni, a volte ottenute con un cut-up, che mescolano diversi tempi dell’azione; storia-nella-storia etc.
Tutto quest’arsenale di tecniche viene usato, in genere, per incursioni fuori dalla «zona di comfort» di cui sopra.
Penso a un libro di cui molto si è parlato nell’ultimo anno, Limonov di Emmanuel Carrère. La narrazione ibridata permette all’autore di condurre un’esplorazione senza precedenti di una figura che presenta forti tratti di sgradevolezza, e con la quale Carrère è in esplicito dissenso sul piano politico: lo scrittore e politico russo Eduard Limonov, il «rossobruno» per eccellenza, fondatore del Partito Nazionalbolscevico, per anni amico e compare del guru di estrema destra Aleksandr Dugin (col quale poi ha rotto). Non solo Limonov è una lettura utilissima per capire la fase eltsiniana e putiniana della restaurazione neocapitalistica in Russia (della «privatizzazione» di tutto il privatizzabile, della depredazione legalizzata delle risorse da parte degli oligarchi etc.), ma è utilissima per capire la mentalità e le condizioni che rendono possibile il cedere alla «tentazione» rossobruna.
Solo che il libro non sarebbe così utile se si limitasse a fare un ritratto negativo di Limonov, se dicesse solo: Limonov è un narcisista che pur di brillare è diventato una merda fascistoide, uno che ha mescolato a cazzo di cane elementi di stalinismo e fascismo in un cocktail ultranazionalista, Evola e Dimitrov uniti nella lotta; insomma: uno sparacazzate. Tutto vero, intendiamoci, ma è una polemica politica che in rete si può trovare ovunque. Invece Carrère usa le armi della letteratura per farci entrare nel personaggio, o meglio: ci fa entrare e uscire, entrare e uscire, e ci porta in quella zona-limite dove siamo costretti ad ammettere che Limonov non è solo una merda e uno sparacazzate, che non tutto quel che dice e scrive può essere ritenuto folle o inaccettabile o sbagliato. Carrère, ad esempio, non nega mai che Limonov sia un grande scrittore, e dice che anche libri scritti nella fase più fascistoide sono inaspettatamente pieni di umanità, e in ogni caso utili a comprendere la situazione in Russia agli inizi del XXI secolo.
Però, dopo avere riconosciuto questo, Carrère trae una conclusione perturbante, che a detta di alcuni ha sorpreso e inquietato lo stesso Limonov: il fatto che oggi Limonov sia all’opposizione del regime putiniano è un incidente storico. In realtà, se fosse al potere, si comporterebbe esattamente come Putin.
Questa conclusione è tanto più tagliente per il fatto che Carrère – e nel corso del libro non lo ha mai negato – è affascinato da Limonov. Entrare e uscire dal personaggio. Entrare e uscire.
Al netto di tutto, e basta leggere i due libri per capirlo, noi ci siamo lasciati affascinare da Benuzzi molto meno di quanto si sia fatto affascinare Carrère da Limonov. Non sto facendo un impossibile parallelismo tra due personaggi che non c’entrano un cazzo l’uno con l’altro: sto facendo un parallelismo tra due «oggetti narrativi non-identificati» scritti fuori dalle zone di comfort dei loro autori.
Noi siamo stati affascinati non da Benuzzi, ma da Fuga sul Kenya, una narrazione nella quale abbiamo trovato eccedenze, lapsus, non-detti più potenti di molti «detti». Ma anche in questo caso, abbiamo proceduto a entrare e uscire, entrare e uscire, entrare e uscire.
Termino questa lunga riflessione tornando al commento di Sorrento, che ringrazio per l’opportunità che ci ha dato per discutere di tutto questo partendo dalla recensione del collettivo Militant. Voglio solo fornire alcuni dettagli, non per scagionare Benuzzi da alcunché, ma per la precisione.
Negli anni della seconda guerra di Libia – la cosiddetta «riconquista» – Benuzzi rimase sempre in Italia. Fu a Trieste fino al 30 gennaio 1930, dopodiché fece il servizio militare a Palermo, dove raggiunse il grado di tenente di fanteria, e dal 1931 si trasferì a Roma, dove fece il servizio di prima nomina presso il I° reggimento granatieri di Sardegna. Nel frattempo, la guerra in Libia era terminata. Quando tornò civile, Benuzzi fece Giurisprudenza e intanto si diede al nuoto agonistico. Si laureò nel 1934 poi studiò per il concorso di funzionario coloniale. Per tutto il 1935 è documentata la sua presenza a Roma. Passò il concorso e lo mandarono in Libia per un periodo di prova di sei mesi che tutti i funzionari dovevano affrontare (cfr. anche Chiara Giorgi, L’Africa come carriera. Funzioni e funzionari del colonialismo italiano, 2012). Quindi il periodo libico è posteriore al 1935 (dunque è molto improbabile che colà sia stato coinvolto in «azioni di guerra») e anteriore al 1938, anno in cui lo troviamo in Etiopia con la qualifica di «Volontario coloniale nel ruolo di Governo del Ministero dell’Africa Italiana»… che però significa funzionario. Da qui il possibile equivoco sul fatto che «partì volontario per la Libia». Resta da capire questa storia del CCXIX Battaglione, che a me non risultava. In ogni caso «azioni di guerra» ne fece dopo, nel 1940, nel battaglione di ascari già menzionato nel mio commento precedente. Secondo me, chi ti ha informato deve aver fatto un po’ di confusione.
[…] Un percorso nell’arditismo rivoluzionario (e di “sinistra”) che incrocia in maniera problematica interventismo nella Prima Guerra mondiale e antifascismo resistente nei primi anni del Ventennio. Molto prima abbiamo discusso il libro L’Uniforme e l’Anima del collettivo Action30 che descrive in maniera organica un ritorno agli anni Trenta come ipotesi di ricerca sull’attualità. Pensando, a memoria, ad altre letture, sono interessanti anche i contributi di […]
Ciao a tutti,
comprato da poco il libro e ansioso di cominciarlo.
Nel frattempo, mi sento di dare un piccolo e modesto contributo: piccolo rispetto alla mole sia del libro che dello scambio di commenti, modesto rispetto alla qualità dei vari contributi, tra cui quelli in Pinterest.
Giorni fa ho trovato a Porta Portese, il famoso mercato delle pulci di Roma, un quaderno di dettati: anno scolastico 1938-1939, XVII, quinta elementare.
Ho deciso di mettere alcune immagini, tratte dalle pagini di questi dettati, on line su Pinterest. Mi scuso in anticipo per la scarsa qualità delle immagini che comunque permettono una facile lettura di quelle righe.
Penso che abbiano una certa utilità perché rendono conto di come questi dettati siano in realtà dei “dogmi” fatti ripetere come un mantra a dei bambini, in un’età in cui si è “spugne”.
http://www.pinterest.com/coffeeandteev/quaderno-di-dettati-fascisti/
Avere stampati in testa, come preghiere, i significati di Patria, Madre, Maestro…conoscere a memoria i discorsi di Mussolini o la “storia” di Vittorio Emanuele III e della nascita del fascismo era solo una delle prime fasi, per renderli “impazienti di dare la loro vita alla patria”.
Penso che anche (ma non solo) con le armi della razionalità ci si liberi del fascismo ma rimanga comunque l’eco di queste parole, instillate nella mente fin da piccoli: per fortuna qualcuno, più di qualcuno, è riuscito a fare di quell’eco un esempio da non seguire e da non permettere più.