A un mese esatto dal primo “speciale congiunto” su Timira e Point Lenana, la disponibilità di nuovi materiali già consente – e richiede – la pubblicazione di un secondo. Ne prevediamo già un terzo a gennaio.
Iniziamo con una bella e puntuale recensione di Point Lenana apparsa sul blog del collettivo Militant.
Consigli per gli acquisti: Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara
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Se per Wu Ming 1 la storia narrata in questo libro si allontana dalla sua «zona di comfort», quell’insieme di letture, argomenti, narrazioni e percezioni vicine al mondo culturale che si frequenta, per noi questo libro è lontano anni luce da ogni possibile comfort culturale. Come potrebbe essere altrimenti, visto che si narrano, in una forma particolare che poi indagheremo, la vita e le esperienze di un prigioniero italiano di guerra nell’Africa coloniale, non convintamente fascista ma neanche antifascista, e dopo la guerra palesemente anticomunista nelle funzioni istituzionali che andò a ricoprire? Il tutto, poi, legato da un argomento centrale che attraversa il libro e che edifica il contesto in cui è calata tutta la narrazione: la montagna. Insomma, apparentemente, niente di più distante dai nostri interessi, tanto politici quanto personali. Questa è anche la ragione per cui questa recensione giunge in ritardo, a otto mesi dalla pubblicazione.
Come collettivo politico, l’obiettivo che ci poniamo nel consigliare determinati libri è sempre quello di renderli strumenti utili alla costruzione di un immaginario di classe, la riscoperta – o riproposizione – di una nostra possibile autonomia culturale. E questo libro si inserisce perfettamente in questo filo rosso, contribuisce a costruirlo, ad allacciare punti, andando a scandagliare uno dei più grandi rimossi della storia nazionale italiana, la sua vicenda coloniale. Per meglio dire, una storia non tanto rimossa nel senso di “nascosta”, quanto intossicata da una serie di narrazioni che, nel corso dei decenni, si sono imposte egemonizzando il discorso sulla nostra avventura coloniale. Ma andiamo con ordine.
Il libro si presenta immediatamente come ibrido tra la narrazione romanzata e il saggio storico-biografico. Un vero e proprio «oggetto narrativo non identificato», come lo definisce il collettivo Wu Ming. Ma in questo caso la sperimentazione degli autori è andata molto al di là dei loro precedenti tentativi. Il testo risente, a nostro avviso in maniera determinante, dell’evoluzione del rapporto fra il collettivo di scrittori e il loro blog, Giap! Per dirla altrimenti, e in un senso assolutamente non squalificante ma anzi virtuoso, il testo assomiglia ad un lunghissimo post di Giap! Una ricerca storica documentata mista ad una capacità narrativa attraente, sommata ulteriormente a una verve politica decisiva, contribuiscono alla costruzione di un nuovo genere letterario. Crediamo che tutto questo sia determinato dal lungo e proficuo scambio sociale tra autori e lettori, ma ancor di più fra autori e “giapster”. Non a caso, i post su Giap! costituiscono uno dei nostri riferimenti “metodologici” attraverso i quali cerchiamo di impostare il nostro blog. Proprio perché Wu Ming relaziona i diversi piani linguistici e analitici non sommandoli, ma moltiplicandoli. Sinteticamente, una semplice opera di narrativa avrebbe mancato l’obiettivo della concretezza storica in cui si situa tale vicenda. Allo stesso tempo, un lavoro esclusivamente accademico, un saggio storico, avrebbe privato l’opera sia di un suo reale interesse per un pubblico più vasto, sia di una sua possibilità di superare steccati mentali e ideali. Soprattutto, sarebbe stata molto poco affascinante.
Il libro vorrebbe essere una sorta di opera biografica aperta di Felice Benuzzi, un prigioniero di guerra che fugge dal campo inglese in cui era internato insieme a due suoi amici per scalare il Monte Kenya. Dopo la scalata, Felice e compagni tornano al campo di reclusione e si riconsegnano agli inglesi. La vicenda viene letta come tentativo di rivalutazione della propria condotta morale, politica, umana, dopo vent’anni di fascismo, cercando con un gesto forse disperato di recuperare almeno un proprio orgoglio, una propria personale redenzione rispetto ai troppi silenzi, ai troppi accomodamenti, che lui e tutta la sua generazione avevano dato a Mussolini. Un estremo tentativo di recuperare un minimo di dignità, e allo stesso tempo tornare a vivere da uomini liberi nell’atto di scalare la montagna. In tutto questo, l’impossibilità dichiarata di racchiudere un’intera vicenda umana in definizioni schematiche, precise, definitive. Ogni vita presenta molte sfaccettature, così come ogni episodio storico si presta a diversi piani di lettura. Wu Ming 1 sembra lasciarci questa come riflessione finale: possiamo davvero giudicare in senso univoco quella massa di italiani che tacitamente appoggiarono quel regime così come tacitamente se ne discostarono? E se si, come interpretare quei segnali, molte volte impliciti, di reazione “esistenziale” a un potere politico subìto più che avallato esplicitamente? E se è possibile tracciare queste problematiche in senso storico, come renderle strumento utile per interpretare il presente?
Ma il libro cessa immediatamente di essere una biografia, o “solo” una biografia, sin dal principio. Le vicende umane di Felice si tramutano nelle vicende sociali del suo contesto culturale, e queste evolvono in una sorta di contro storia sociale dell’Italia del ventennio. La biografia di Benuzzi diventa biografia dell’Italia liberale prima e fascista poi. Una biografia non autorizzata, una contro narrazione volta a espellere tutte quelle tossine depositate dalla retorica ufficiale. Compresa la “tossina madre” di tutte le retoriche nazionali sulle vicende italiane del ventennio: la narrazione dell’”italiano brava gente”, del “colonialismo dal volto umano”, del fascismo quale regime “all’acqua di rose” rispetto ai ben più autoritari regimi nazista e comunista. E’ qui che il libro sviluppa tutta la sua forza. Quantomeno, è in questo senso che noi, come collettivo, intravediamo tutto il suo potenziale. Attraverso una costruzione narrativa efficace come abbiamo appena accennato, Wu Ming 1 e Roberto Santachiara ripercorrono il vero volto del colonialismo italiano. Fatto di pulizie etniche, utilizzo massiccio dei gas contro la popolazione civile, campi di concentramento e politiche di sterminio delle popolazioni autoctone, violazioni di ogni diritto o convenzione internazionale, razzismo pervadente tutta l’esperienza coloniale e tutto il regime fascista sin dal suo esordio. In poche parole, l’embrione politico che farà da scuola a tutti i governi reazionari del novecento. Si dirà che cose del genere sono state già ampiamente analizzate da alcuni dei migliori storici che questo paese possa vantare, quali Angelo del Boca o Giorgio Rochat, ma è altrettanto vero che una certa cappa mediatico-culturale ha impedito a tali ricerche di raggiungere qualcosa di diverso della solita nicchia di eruditi o appassionati alla materia. Libri come questo contribuiscono invece alla rimozione di alcuni paletti radicati nel ventre dell’opinione pubblica, quali ad esempio il ruolo italiano nelle missioni militari, visto come costruttore di scuole e portatore di pace. Niente di più falso così come niente di più implicitamente accettato. Una forma ideologica pervasiva e difficilmente scalfibile. Un conto è dire che il fascismo è stato un pessimo regime politico. Un altro è dichiarare, provandola attraverso una mole di documenti, la sostanziale continuità politica e ideologica tra stato liberale, fascismo e Italia post-fascista. Un’operazione infatti sottaciuta anche dal PCI, alfiere di una rottura storica determinata dalla Repubblica nata dalla Resistenza che nei fatti non si produsse, o si produsse solo marginalmente e/o formalmente.
Concludiamo qui le nostre riflessioni. Il testo ci sembra inaugurare un nuovo tipo di ricerca storica. Una ricerca che tenga insieme il momento “evasivo” del narratore a quello “rigoroso” del ricercatore. In questo senso, non possiamo che augurarci nuovi sviluppi in tal senso. Se l’evoluzione del collettivo Wu Ming sarà questa, non possiamo che attendere con interesse il prossimo oggetto narrativo non identificato a firma collettiva.
In calce al post, un commento «pavloviano» ha avviato una discussione interessante. E’ intervenuto anche Wu Ming 1. Proponiamo qui un estratto del suo commento più lungo e denso.
Su Point Lenana, Limonov e altre ibridazioni
di Wu Ming 1
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Esatto, il «contesto». Per tutto il libro, la narrazione impietosa del contesto problematizza, decostruisce, a volte contraddice e sempre «mette in tensione» quel che Benuzzi scrive – e non scrive – e quel che ci hanno raccontato la moglie e le figlie.
Questo avviene, mi sembra in tre modalità, in ordine di esplicitazione:
1) Avviene «di default»: descrivere con accuratezza la conquista delle colonie italiane in Nordafrica e in Africa orientale, e la legislazione razzista che ne derivò, serve a ricordare che la presenza di Benuzzi in Libia ed Etiopia fu ineluttabilmente parte della macchina di violenza coloniale, che è violenta sempre, anche nella normalità e in «stato di pace», perché è violento in sé il rapporto coloniale, e ciò prescinde dalla eventuale «buona fede» o «buona volontà» del singolo;
2) Avviene tramite un conflitto strisciante, continuo, abrasivo, tra testimonianze e voce degli autori. Per fare un esempio tra i tanti, Benuzzi parla bene del generale Nasi e ne scrive un obituary ossequioso e commosso, mentre noi dello stesso personaggio abbiamo già elencato – e continueremo a elencare – responsabilità, nefandezze e ipocrisie, anche nel contesto della prigionia in Kenya, proprio quello in cui Benuzzi lo colloca nel finale del suo articolo. Idem per quanto riguarda il mito del Duca d’Aosta.
3) Avviene tramite un conflitto diretto ed esplicito tra testimonianze e voce degli autori. L’esempio più eclatante è alle pagine 296-297: Stefania Benuzzi dice che Felice (almeno quando era con lei) era disinteressato alla guerra d’Etiopia e che addirittura non andò alla grande adunata sotto Palazzo Venezia del 2 ottobre 1935, e subito dopo noi mettiamo in questione la testimonianza, ed elenchiamo tutti i motivi per cui è logico supporre che invece Felice credesse nell’impresa etiope e fosse presente all’adunata.
E’ proprio tutto questo decostruire e mettere nel contesto, però, che permette di leggere in Fuga sul Kenya e in altri scritti (uno su tutti il racconto autobiografico «Quattro, quattordici o mai») allegorie del superamento di una soglia esistenziale e di un’epoca, racconti di una «iniziazione» oltre il fascismo. Un superamento che, come quello dell’Italia intera, rimase contraddittorio: Benuzzi e tanti come lui avevano un’idea evidentemente molto diversa dalla nostra sui confini tra bambino e acqua sporca. E noi questa contraddittorietà la esploriamo.
Resta che Fuga sul Kenya è un libro che nega, nella sua scrittura e nella storia che racconta, molti degli assunti della mentalità fascista, e a volte lo dice in modo chiaro, come quando Benuzzi critica con un tono nauseato il vitalismo forzoso, il culto dell’«azione concentrata» nel quale, crescendo dentro il regime, era stato indotto a credere.
E badate che da dove partiva Benuzzi – fascismo di confine, uno zio fiduciario dell’Ovra, il ramo austriaco della famiglia massicciamente filonazista – la distanza per arrivare a questo era molto, molto lunga.
Chiaramente, se uno il libro lo legge a cazzo di cane, con un preconcetto sulla scelta del tema e del personaggio, e magari nelle orecchie il giudizio a priori di qualcuno che «ne sa» e gli ha detto che il libro «fa l’apologia di un fascista», tutto questo non può che sfuggirgli.
In Point Lenana, a pagina 38, l’io narrante che mi mette in scena dice:
«Cerco storie che siano scomode anche per me e per chi grosso modo condivide le mie idee. Sarebbe troppo facile raccontare cose scomode solo per gli altri, per chi la pensa diversamente da me. Non varrebbe la pena conoscere, se conoscere non ci mettesse in crisi. Un sapere rassicurante per chi lo coltiva non può nemmeno essere detto un sapere, è solo un girare intorno al non-voler-sapere.»
Mutatis mutandis, mi sembra che questa sia la «molla» di molte narrazioni ibride degli ultimi anni, libri a cavallo tra fiction e non-fiction che, proprio grazie a questa natura ambivalente e cangiante, riescono a esplorare un soggetto, un personaggio, da una molteplicità di angolature che la scelta di un genere più «fisso» non avrebbe forse consentito.
Si tratta di evoluzioni del romanzo, le tecniche utilizzate su materiali di diversa origine e su diverse tipologie di testo sono in fondo tecniche introdotte in letteratura dal grande romanzo realista dell’Ottocento, poi temprate nel fuoco del Novecento: alternanza tra autore «onnisciente», stile indiretto libero e flusso di coscienza; foreshadowing; attacchi in medias res; descrizioni, a volte ottenute con un cut-up, che mescolano diversi tempi dell’azione; storia-nella-storia etc.
Tutto quest’arsenale di tecniche viene usato, in genere, per incursioni fuori dalla «zona di comfort» di cui sopra.
Penso a un libro di cui molto si è parlato nell’ultimo anno, Limonov di Emmanuel Carrère. La narrazione ibridata permette all’autore di condurre un’esplorazione senza precedenti di una figura che presenta forti tratti di sgradevolezza, e con la quale Carrère è in esplicito dissenso sul piano politico: lo scrittore e politico russo Eduard Limonov, il «rossobruno» per eccellenza, fondatore del Partito Nazionalbolscevico, per anni amico e compare del guru di estrema destra Aleksandr Dugin (col quale poi ha rotto). Non solo Limonov è una lettura utilissima per capire la fase eltsiniana e putiniana della restaurazione neocapitalistica in Russia (della «privatizzazione» di tutto il privatizzabile, della depredazione legalizzata delle risorse da parte degli oligarchi etc.), ma è utilissima per capire la mentalità e le condizioni che rendono possibile il cedere alla «tentazione» rossobruna.
Solo che il libro non sarebbe così utile se si limitasse a fare un ritratto negativo di Limonov, se dicesse solo: Limonov è un narcisista che pur di brillare è diventato una merda fascistoide, uno che ha mescolato a cazzo di cane elementi di stalinismo e fascismo in un cocktail ultranazionalista, Evola e Dimitrov uniti nella lotta; insomma: uno sparacazzate. Tutto vero, intendiamoci, ma è una polemica politica che in rete si può trovare ovunque. Invece Carrère usa le armi della letteratura per farci entrare nel personaggio, o meglio: ci fa entrare e uscire, entrare e uscire, e ci porta in quella zona-limite dove siamo costretti ad ammettere che Limonov non è solo una merda e uno sparacazzate, che non tutto quel che dice e scrive può essere ritenuto folle o inaccettabile o sbagliato. Carrère, ad esempio, non nega mai che Limonov sia un grande scrittore, e dice che anche libri scritti nella fase più fascistoide sono inaspettatamente pieni di umanità, e in ogni caso utili a comprendere la situazione in Russia agli inizi del XXI secolo.
Però, dopo avere riconosciuto questo, Carrère trae una conclusione perturbante, che a detta di alcuni ha sorpreso e inquietato lo stesso Limonov: il fatto che oggi Limonov sia all’opposizione del regime putiniano è un incidente storico. In realtà, se fosse al potere, si comporterebbe esattamente come Putin.
Questa conclusione è tanto più tagliente per il fatto che Carrère – e nel corso del libro non lo ha mai negato – è affascinato da Limonov. Entrare e uscire dal personaggio. Entrare e uscire.
Al netto di tutto, e basta leggere i due libri per capirlo, noi ci siamo lasciati affascinare da Benuzzi molto meno di quanto si sia fatto affascinare Carrère da Limonov. Non sto facendo un impossibile parallelismo tra due personaggi che non c’entrano un cazzo l’uno con l’altro: sto facendo un parallelismo tra due «oggetti narrativi non-identificati» scritti fuori dalle zone di comfort dei loro autori.
Noi siamo stati affascinati non da Benuzzi, ma da Fuga sul Kenya, una narrazione nella quale abbiamo trovato eccedenze, lapsus, non-detti più potenti di molti «detti». Ma anche in questo caso, abbiamo proceduto a entrare e uscire, entrare e uscire, entrare e uscire. […]
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Come fratelli e sorelle: vite profughe, esistenze partigiane
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Come fratelli e sorelle. Vite profughe, esistenze partigiane
§ RedReading #6 – Come Fratelli e Sorelle di e con Tamara Bartolini e Michele Baronio.
Con la partecipazione di Wu Ming 2, Antar Mohamed, Lorenzo Teodonio, Cristina Ali Farah, Eva Gilmore, PierPaolo Di Mino, Lorenzo Iervolino, Fiora Blasi, Fabrizio Spera, Luca Venitucci.
Nato il 31 maggio 2012, come lettura per voce e chitarra, per accompagnare la presentazione di Timira al Centro Sociale Strike di Roma, in seguito riproposto con alcune modifiche alla Casetta Rossa (Roma) e in formato di radiodramma musicale sulle frequenze di Radio Onda Rossa (sempre de Roma), Come Fratelli e Sorelle. Vite profughe esistenze partigiane è andato in scena il 27 maggio 2013 al Teatro Argot Studio (sempre Roma): uno spettacolo meticcio, attraversato dalle testimonianze di molti ospiti e da un racconto di TerraNullius, scritto a sei mani e letto a due voci.
Dura due ore e undici minuti. Buon ascolto.
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Razza partigiana a Pesaro, 24 aprile 2013
Razza Partigiana – Live in Pesaro, 24/04/2013
Wu Ming 2 e il supergruppo di Razza partigiana – Egle Sommacal e Stefano Pilia (chitarre), Paul Pieretto (basso, tastiere, elettronica) e Federico Oppi (batteria e percussioni) – continuano a consumare ruote e suole su chilometri di asfalto – e a volte strade sterrate – per raccontare a un paese smemorato la storia del partigiano italo-somalo Giorgio Marincola. In questo speciale proponiamo la registrazione del concerto/reading svoltosi al circolo ARCI Villa Fastiggi di Pesaro il 24 aprile scorso. Dura un’ora e otto minuti.
Molti di voi lo ricorderanno: nel 2010 uscì Basta uno sparo. Storia di un partigiano italo-somalo nella Resistenza italiana, pubblicato dalla collana Inaudita delle edizioni Transeuropa. Si trattava di un libro + CD, contenente i testi del reading Razza Partigiana, completi di note, e la registrazione in studio dello spettacolo – che gira ormai da cinque anni, ha subito modifiche ed è stato avvolto da un «progetto transmediale multiautore» sulla famiglia Marincola, di cui fanno parte anche Timira e Come fratelli e sorelle. Va sempre ricordato che tutto partì dalla seminale biografia scritta da Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, Razza Partigiana. Storia di Giorgio Marincola (1923 – 1944).
Basta uno sparo è sempre più difficile da trovare in libreria, ma da oggi chi se lo è perso può consolarsi: ecco il pdf.
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Il n.6 della rivista on line S28Mag ospita uno speciale su Point Lenana, con un video girato da Wu Ming 1 nella sua consueta maniera «make it very grezz» e un’intervista. La curatrice, Virginia Fiume, ha raccontato sul suo blog come le è venuta l’idea:
La mia salita a Point Lenana
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Leggere Point Lenana, creatura uscita dalla penna e dalle ricerche di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, è come percorrere un sentiero di montagna: occorre la consapevolezza della necessità di un ritmo lento e costante, serve saper prestare attenzione ai dettagli, come le sfumature delle nuvole in cielo, che se sai osservarli con cura ti serviranno a metterti al riparo da acquazzoni che sembrano improvvisi, ma non lo sono mai. E quando in certi momenti ti sembra di arrancare o di esserti perso, basta recuperare la concentrazione per procedere. E arrivare al punto più alto, quello in cui dalla vetta assapori la visione di insieme.
Point Lenana l’ho vissuto con straniamento. Salsedine, vento e rumore di onde hanno dato sapore alle pagine che leggevo durante le vacanze estive. E mentre davanti a me si stendeva l’arcipelago delle isole Eolie, nella mia testa si componeva il puzzle della storia dell’alpinismo italiano, si aggiungevano dettagli sulla storia del colonialismo italiano, troppo spesso liquidato con l’eufemismo colonialismo buono.
Quando ho finito il libro ho capito che mi trovavo davanti a un frammento prezioso della storia del paese in cui sono nata. Uno di quei libri che non sarebbe affatto male se venissero inseriti nelle letture facoltative di una classe dell’ultimo anno delle superiori. In sostituzione, magari, di una carrellata troppo frettolosa sulla politica estera del regime fascista.
E allora ho pensato: «Che potere ho io per aumentare la diffusione di questo libro?». Sul volo di ritorno dalle vacanze mi è venuto in mente che il sesto numero di S28Mag, la rivista online di cui sono caporedattrice, sarebbe stato dedicato alla parola “confini”. E il mio personale puzzle si è composto nella testa: Point Lenana parla di confini individuali (il desiderio umano di superare i propri limiti, che si incarna nel corpo e nelle azioni degli alpinisti di cui si raccontano le vicende), racconta arbitrari confini etnici (il concetto di “altro” e di rappresentazione dell’ “altro” viene reso attraverso esempi concreti che solo la narrativa può rendere umanamente palpabili); Point Lenana è un libro che supera i confini del mezzo “pagina di carta” e diventa un’opera transmediale nella sua fase di promozione.
Sapevo che Wu Ming 1 non avrebbe mai messo la faccia per il video della rubrica BookMe, pensata per far leggere a un autore alcuni estratti del suo libro. Ma il video che ha creato per accompagnare la sua intervista è ancora più efficace di qualunque montaggio: è la storia che si fonde con la Storia.
Così è nato lo speciale Point Lenana di S28Mag, Wu Ming 1: patrie, montagne e colonizzatori
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Come promesso, ecco in download la tesi di Luigi Franchi su Timira. Corso di laurea magistrale in Italianistica, culture letterarie europee, scienze linguistiche. Relatore: Fulvio Pezzarossa. Titolo: «”Cosa vogliamo fare della nostra amicizia?”. Timira, un romanzo in friendchise».
Un’esplorazione molto acuta del romanzo, in compagnia di Agamben, Foucault, De Certeau, Westphal, Negri/Hardt e del nuovo concetto di friendchise – un franchise amicale, dal basso, che integra e rilancia, con un nome più figo, la nostra idea di «progetto transmediale multiautore».
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Concludiamo questo speciale di fine anno con una recensione di Point Lenana apparsa sul sito Filosofi precari:
Point Lenana di Wu Ming 1 e R. Santachiara, una Recensione
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Avvertenza. Ci sono molti modi di leggere un libro. Soprattutto alcuni libri. Questo punto di vista è solo uno dei tanti possibili.
C’è un rimosso fin troppo latente e violento nella travagliata Storia italiana (dall’impresa garibaldina a questi giorni di decadenza berlusconiana) che ritorna sempre con prepotenza maggiore nell’immaginario collettivo. Sono gli anni Venti e dintorni del nostro Novecento. Ce ne sarebbe un altro strettamente connesso, il Rimosso dell’unificazione dello stivale nel 1861 e della resistenza del Mezzogiorno alla colonizzazione piemontese, ma per il momento rimaniamo al materiale storico e narrativo presentato da Point Lenana. Per quanto riguarda il genere si può certamente dire che non sia più una questione di New Italian Epic di cui, proprio i creatori della cornice, hanno decretato il tramonto. C’è ben altro nella necessità collettiva di indagare e mostrare, utilizzando scenari differenti e punti di vista particolari, un periodo costituente di questo nostro vivere insieme che qualcuno chiama Stato, altri Costituzione e qualche stolto, addirittura, azzarda definire Repubblica.
Gli anni Venti e dintorni del Novecento sono un tema che ci impegna direttamente, quindi. Non solo per mimesis di un’ondata cinematografica che si diverte a mettere in scena film dal grande successo di botteghino come Il Grande Gatsby, Midnight in Paris, Hugo Cabret o fortunate SerieTV come Boardwalk Empire, Downton Abbey ed altre amenità di questo genere. Evidentemente questo accade perchè il pubblico mostra una certa curiosità e la curiosità diventa presto consumo nei “salotti buoni” del mercato e, di conseguenza, profitto per qualche fortunato. Come detto la sensazione è che ci sia ben altro e che questo “ben altro” possa divenire una tavola bandita attorno a cui sedersi e gozzovigliare allegramente. Per provare a tessere quel senso della Storia che abbiamo perso o che dovremmo ancora pienamente ritrovare. La Rimozione è un meccanismo. Un dispositivo che mettiamo in campo per allontanare dalla nostra intima Coscienza residui celati dalla Memoria che riteniamo più o meno intollerabili. Spiacevoli. Non desiderabili. Quando questo dispositivo dall’ambito individuale deborda in quello pubblico, parliamo di Politica. Così la Politica diventa la costruzione difensiva del Rimosso che giustifica il Governo. Un po’ come la retorica del “catenaccio” all’italiana nel giuoco del Calcio che nascondeva solo una notevole incapacità a vedere la porta avversaria. In questo caso il Rimosso era il senso del goal.
Point Lenana, un altro oggetto narrativo non identificato per Wu Ming 1 in collaborazione con Roberto Santachiara, si inserisce in questa genesi degli anni Venti e dintorni del Novecento. Attraverso filosofiprecari.it abbiamo già parlato di Roma combattente e Bastardi senza Storia di Valerio Gentili. Un percorso nell’arditismo rivoluzionario (e di “sinistra”) che incrocia in maniera problematica interventismo nella Prima Guerra mondiale e antifascismo resistente nei primi anni del Ventennio. Molto prima abbiamo discusso il libro L’Uniforme e l’Anima del collettivo Action30 che descrive in maniera organica un ritorno agli anni Trenta come ipotesi di ricerca sull’attualità. Pensando, a memoria, ad altre letture, sono interessanti anche i contributi di Paolo Buchignani La rivoluzione in camicia nera o Roberto Carocci Roma Sovversiva. Motivazioni e intenti differenti alla base di ogni progetto editoriale, naturalmente. Eppure di letteratura “militante” ce n’è diversa e non è il caso di prenderla tutta in considerazione qui ed ora. Basta abbozzarla per dimostrare come questa cornice risulti decisamente stimolante in termini di Genesi di immaginario necessario per ricostruire non solo una Storia ma anche un modus essendi dell’antagonismo nel nuovo millennio.
La narrazione di Wu Ming 1 e R. Santachiara ruota attorno ad una Esistenza, umana troppo umana. L’Esistenza è quella di Felice Benuzzi. Alpinista, scrittore e funzionario dello Stato, in ordine di “costituzione ontologica”. Almeno questo sembra venire fuori dalla strana biografia di Point Lenana. La narrazione di Wu Ming 1 ruota tutta intorno ad un altro racconto: Fuga sul Kenya dove F. Benuzzi ha raccontato la sua avventurosa scalata di Punta Lenana (appunto sul Monte Kenya) fuggendo, con altri due compagni di viaggio, da un Campo di Prigionia per italiani in africa (Campo POW) durante la seconda Guerra mondiale per poi ritornare dopo circa diciassette giorni (tra stupore ed ammirazione dei comandanti del Campo). Esperienza decisamente eroica, se di eroismo si può parlare, ma libera dalla vuota e stucchevole retorica della Patria con la P enorme che da circa vent’anni governava ogni “azione” dell’Essere italiano. Iniziativa molto poco fascista, non c’è nulla da dire. Finalmente l’azione, l’agire, si presentava nella sua dimensione singolare come scelta personale e non comando pubblico imposto da qualche autorità civile e morale.
La particolarità della costruzione narrativa di Wu Ming 1 e R. Santachiara è la capacità di intrecciare campi differenti, ma la cornice resta sempre quella dell’Essere umano F. Benuzzi come alpinista, scrittore e funzionario dello Stato nel contesto storico degli anni Venti e dintorni del Novecento. Della creazione del consenso al fascismo e del consolidamento del Regime burocratico. L’alpinismo, in modo particolare quello triestino, è utilizzato come cartina di tornasole per spiegare le solide basi “razziali” del Fascismo, in quello spazio particolare ed “irredento” contro l’umanità slava. Il “confine” generava violenza. Ed il fascismo, per tutti i suoi lunghi anni, non ha fatto altro che creare confini, per difendere una parte e rimuovere l’altra. Creando e governando Rimossi. Le Leggi Razziali del 1938, quindi, non sono una sorpresa. Non devono esserlo. Per nessuno. Non sono nate per imitazione del Nazismo ma erano (e lo sono ancora, purtroppo) alla base del fascismo e della stessa retorica italiana. La Civilità è un vallo. Il vallo della Ragione. Anche i riferimenti al nostro brutale colonialismo (che a definire colonialismo ci sarebbe da ridere), alle stragi al limite (forse spesso superato) del genocidio etnico raccontano una fenomenologia non imposta ma tragica conseguenza di un’indole ritenuta, con il Fascismo, “naturale”. L’Essere italiano quasi non aspettava altro che ostentare, ogni giorno o di tanto in tanto, la propria brutale paura di ogni cosa. Altro elemento molto interessante raccontato da Point Lenana sono le dinamiche di creazione del consenso al Regime. Un consenso quasi silenzioso. Il Fascismo non si è fatto massa ma si è disciolto in essa quasi come zucchero in un bicchiere di acqua. Diffondendosi velocemente e senza attendere troppo. Confondendosi con le strutture del Governo fino a comandarle. Si parla sempre di un consenso al limite della passività, ma è di fatto un consenso. Perchè quando non ci si oppone, si condivide. Nel bene o nel male. E così anche ipotizzare più o meno nobili condotte di “afascismo” o di “antifascismo esistenziale”, aprirebbe altre centinaia di pagine al confronto. Soprattutto in riferimento ai funzionari dello Stato ed ai professionisti nelle arti e nei mestieri. Esseri umani più o meno consapevoli di quanto stesse accadendo che hanno scelto di non fare grandi cose. Nella maggior parte dei casi si sono semplicemente organizzati, per adeguarsi e cercare di ingoiare qualche boccone più amaro. Allegoria di quella “continuità” degli apparati che dagli anni del Regime fascista, dell’esaltazione di Mussolini, si è innervata nella Costituzione antifascista dello Stato repubblicano. O, meglio, si è inverata nello Stato costituzionale un po’ dimenticandone la radice repubblicana ed antifascista. Come si suol dire, all’epoca dell’Armistizio bastava poco per passare da una parte o dall’altra. Bastava una parola, un gesto. Dibattito ancora aperto. Anche nel libro.
Questo è Point Lenana, nella lettura che ne abbiamo dato. Una narrazione aperta nella misura in cui riuscirà a creare un confronto realmente costituente sui Rimossi della nostra Repubblica.
A partire da #PointLenana, una conversazione sul lato oscuro degli Alpini
Su Autoanalfabeta / Global Project, con WM1, Lello Voce e Giuseppe Nava.