di Wu Ming 1
0. Una premessa necessaria
Qui, ahimè, verrà usato il nome “Berlusconi”. Lo so, non ne potete più di sentirlo nominare. D’altronde, ritengo che il giochino di non nominarlo proprio mai, di usare solo l’iniziale “B.” o il pronome “Lui” (o addirittura nemmeno quelli), sia non solo snobistico e stucchevole ma, puntando i riflettori sulla sua assenza, finisca addirittura per ribadirne e amplificarne la presenza. Mi sembra sia quello che ha voluto dire Giovanni De Mauro sull’ultimo numero di Internazionale (n. 871, anno 18, 5/11 novembre 2010). Nell’editoriale Berlusconi non viene mai nominato… per dimostrare che è sempre con noi:
«Quel che è peggio è che ci ha colonizzato […] Ha colonizzato anni della nostra vita, ore e ore delle nostre conversazioni, delle nostre attenzioni, dei nostri interessi. Ha colonizzato perfino i sogni. Ha colonizzato la nostra vita privata e la nostra mente. I suoi guasti continueranno a farsi sentire a lungo, affioreranno nei tic, nei modi di dire, nei gesti. Anche per questo, prima ce ne liberiamo e meglio è.»
Tanto vale nominarlo, allora. E, nominandolo, dire che non si tratta dei “suoi” guasti, ma dei nostri.
Questa è la chiave per leggere quel che segue: “Berlusconi” non è solo Berlusconi, individuo in carne e ossa.
“Berlusconi” è una sineddoche, la parte-per-il-tutto. Userò “Berlusconi” nel senso del “berlusconismo”, tendenza sintomatica del capitalismo avanzato/avariato.
“Berlusconi” è una metonimia, l’effetto-per-la-causa. Userò “Berlusconi” per indicare l’Italia attuale, il Paese che ha prodotto il personaggio.
[Sì, sono tra quanti considerano l’attuale premier un prodotto, conseguenza di processi storici di lungo corso, non un satanico “battilocchio” sbucato chissà come da chissà dove.]
“Berlusconi” è, soprattutto, una metafora: Berlusconi-come-padre. Metafora strutturata su una funzione nell’ordine simbolico. O meglio: “Berlusconi” indica la fine del ricorso a tale metafora (cioè: Berlusconi non è il padre) in seguito alla scomparsa di quella funzione simbolica. “Berlusconi” è un vuoto circondato di vuoto, un buco nel grande buco lasciato dalla scomparsa dei genitori.
Da tempo abbiamo perso i genitori, quelli simbolici. Tante scosse ne hanno polverizzato la funzione, ma il primo responsabile è l’imperativo «Godi!» del capitalismo ipermoderno. Un «Godi!» che significa anche: «Perché sbattersi quando puoi prendere le scorciatoie?», e: «Perché rinunciare a un piacere immediato in cambio di un vantaggio in un futuro di cui non sai niente?». Goditela!
Questo imperativo fa di noi bambini capricciosi, incapaci di trovare un equilibrio tra legge e desiderio.
Sempre più inascoltati, i genitori simbolici sono svaniti. Nel discorso pubblico, li si identifica di volta in volta con vari soggetti, con la generazione di antifascisti che scrisse la Costituzione, con gli operai di una volta, coi partigiani etc. A volte li si identifica con persone precise, chessò, Berlinguer… addirittura Almirante… Ma non sono loro quelli che abbiamo perso. Si tratta di patetici tentativi di trovare in quei nomi propri il nome-del-padre, quella funzione, tutto quello che faceva da contrappeso all’imperativo «Godi!».
Sembriamo aver smarrito il significato e il valore del compiere atti fondativi. Barcolliamo nella perdita, nel lutto. Senza un’elaborazione del lutto, non si supera il dolore e non può esservi nuova assunzione di responsabilità.
Melancolia e paranoia. Da un punto di vista clinico, si ha melancolia quando il soggetto si identifica con l’oggetto perduto, e quindi con la perdita stessa. Questa identificazione impedisce la separazione da quest’ultimo. Ci sono esempi un po’ ovunque, ma i più evidenti li fornisce la smembrata sinistra di questo Paese: sovra-identificazione con la sconfitta; sovra-identificazione con la perdita di un mondo di riferimenti etc. “Sconfittismo” è un altro nome della melancolia.
Berlusconi è stato uno dei nomi dello sconfittismo (“Ormai non c’è niente da fare, non ce ne liberiamo più”). Ma è stato anche il nome della paranoia: il Problema-Più-Grande, il Pifferaio, l’Uomo-dei-Topi, tutto quanto è un suo complotto, controlla tutto, comanda tutti etc.
Anche la paranoia è un modo di non elaborare il lutto: si attribuisce a qualcuno la colpa della perdita, e così non si sconfigge il dolore. Quell’altro, il Mestatore, the Conniving Man, è sempre in cima ai nostri pensieri, sempre lì quando ci serve: possiamo biasimarlo, incolparlo, processarlo “in effigie” per tutto quel che ci capita.
Questi sono processi profondi, non si interrompono né si superano con la crisi di una coalizione o con la caduta di un governo. Il problema non è mai stato Berlusconi-in-senso-stretto. Quand’anche non fosse più premier, resterebbe il problema più generale del berlusconismo, del veleno che è già in circolo, dei dispositivi che producono i berlusconi, delle nostre melancolie e paranoie, delle nostre corse da topi al suonare di questo o quel pifferaio. Topi di governo o d’opposizione. Tutto questo deriva dal nostro ritrovarci orfani e vaganti senza meta.
Ho già provato a dirlo tempo fa: siamo noi a dover essere genitori. Dobbiamo smetterla di pensare da problem children, figli riottosi per giunta simbolicamente orfani. Né dobbiamo andare in cerca di un tecno-surrogato di padre simbolico che ci domini come massa acefala (l’ennesimo leader carismatico, l’ex-comico che trascina le folle, il candidato più fico etc.), ma essere noi fondatori, ripartendo dal nostro quotidiano.
Ma dovremmo procedere con più ordine. Facciamo qualche passo indietro, ripartiamo.
1. E’ evaporato il nome del padre
L’ultima ondata di pseudo-scandali e falsi eventi ha avuto un merito: ha reso ancor più esplicito il «Discorso di Berlusconi» e chiarito meglio il modo in cui ha funzionato in questi anni. Lo sentite il discorso? Tutti lo sentono! Fa così:
«Italiani che votate per me, ecco il messaggio: fate quel cazzo che volete! Fate come me! Volete guidare a 150 all’ora in autostrada? Abolirò i limiti di velocità! Volete evadere le tasse? Vedrete che condonerò tutto! Quando volevate “cucinare” i libri contabili delle vostre aziende, ho depenalizzato il falso in bilancio. Volete andare in giro con giovani puttane? Vengo anch’io! Volete bestemmiare, abbandonarvi al turpiloquio? Tutti insieme: MERDA, CAZZO, FICA, ORCO DIO! Fate qualunque cosa vi piaccia (purché non vada contro gli interessi dei ricchi) e anch’io farò quello che mi piace. Soprattutto, farò decreti che sono esclusivamente e platealmente (PLATEALMENTE, tanto posso permettermelo!) nel mio interesse. Voi lo sapete, io so che lo sapete, e VOI SAPETE CHE IO SO CHE SAPETE!»
Certo, ci sono ancora cose che Berlusconi deve ufficialmente negare di aver fatto, ma non sono molte e la smentita è solo ufficiale. Mentre smentisce, fa l’occhiolino ai suoi seguaci.
Può essere di qualche utilità riprendere un concetto di Jacques Lacan, quello di «Padre Simbolico». Va chiarito che questo Padre può anche essere una donna. Poiché sto solo traendo ispirazione da alcuni tratti del pensiero di Lacan senza sposare tutto delle sue teorie (non mi interessano cose come il Complesso di Edipo), per evitare fraintendimenti userò l’espressione – peraltro non nuova – «Genitore simbolico».
E’ noto che Lacan ricorse a un triplo gioco di parole: «Le nom du pére» (il nome del padre) / «Le non du pére» (il “no” del padre) / «Les non-dupes errent» (I non-stupidi vagano).
Il Genitore Simbolico garantisce l’equilibrio tra legge e desiderio, ovvero: ti insegna che non puoi sempre fare quel cazzo che ti pare (legge), e allo stesso tempo che devi conseguire l’auto-determinazione (desiderio). Chiunque eserciti questa funzione nella tua vita è il tuo Genitore Simbolico, e puoi anche averne più di uno, in diverse fasi della tua formazione.
La tensione tra il desiderio di ribellarsi al genitore (trasgredire la legge) e il bisogno di essere «messi sulla propria strada» (crescere e diventare a propria volta fondatori, genitori, originatori di qualcosa) è una spinta fondamentale nella vita di ciascuno. E’ parte di ciò che la psicanalisi chiamava «il Principio della Realtà».
Coloro che si credono più svegli – o più inclini a essere liberi – di tutti gli altri e pensano di poter fare a meno del Genitore Simbolico sono destinati a uscire di carreggiata in balìa del desiderio, condannati a errare, a vagare in tondo. Questo è il senso di «Les non-dupes errent».
A lungo il potere ha brandito come arma il nome-del-padre: monarchi, capi di religioni, capi di Stato, primi ministri, amministratori delegati, segretari di comitati centrali, tutti – consciamente, semi-consciamente o addirittura inconsciamente – attivavano una cornice metaforica “familistica” («family frame»: ne parlerò meglio tra poco) in cui essi stessi occupavano la posizione del Padre Simbolico, severo o comprensivo che fosse.
Ovviamente, il Presidente-come-Genitore non può essere davvero il tuo Genitore Simbolico: non ti conosce nemmeno, e con ogni probabilità lo hai visto solo in TV o sui giornali. Qui «Genitore Simbolico» è una metafora in cui un esponente del potere incarna immagini, fantasticherie e stereotipi di genitorialità (pensiamo a Sarah Palin nei panni di «Mama Grizzly») e imita una funzione tipica dell’ordine simbolico.
Per chi si trova a disagio con il lessico della psicanalisi (confesso di non amarlo nemmeno io), proviamo a passare alle scienze cognitive. L’essere genitori è la metafora alla base di quella che il linguista cognitivo George Lakoff ha chiamato la «cornice [frame] della nazione come famiglia».
«Non accade per caso che le nostre convinzioni politiche si strutturino su immagini idealizzate della famiglia. La nostra prima esperienza dell’essere governati la facciamo nelle nostre famiglie. I nostri genitori ci “governano”: ci proteggono, ci dicono cosa possiamo e non possiamo fare, si assicurano che abbiamo abbastanza soldi e risorse, ci educano, e ci fanno fare la nostra parte nel condurre la casa. Ragion per cui non è affatto sorprendente che molte nazioni siano viste metaforicamente in termini famigliari: Madre Russia, Madre India, la Patria (la terra dei padri). In America abbiamo i padri fondatori, le figlie della Rivoluzione, lo Zio Sam, e mandiamo in guerra i “nostri ragazzi e ragazze” […] Come accade per altri aspetti del framing, il ricorso a questa metafora avviene sotto il livello della coscienza. Tuttavia, a differenza di altre e più modeste cornici, la metafora della nazione-come-famiglia struttura intere visioni del mondo, organizzando vasti sistemi di cornici nei nostri cervelli […] la terra d’origine come casa, i cittadini come fratelli e sorelle, lo stato (o il capo dello stato) come genitore.» (G. Lakoff e Rockridge Institute, Thinking Points, Farrar, Strauss & Giroux, 2006, pp.48-50)
In questa cornice sono possibili due modelli mentali: il modello del «Padre Severo» e quello del «Genitore Comprensivo». Tutti noi conosciamo entrambi i modelli (spesso in una famiglia un genitore è severo e l’altro comprensivo), ma il primo modello plasma la visione del mondo di conservatori e persone di destra, il secondo quella di progressisti e persone di sinistra (e in questa sede mi interessa di meno). Nel modello del Padre Severo
«i figli nascono indisciplinati. Il padre insegna loro la disciplina e la differenza tra bene e male. Quando i figli disobbediscono, il padre è obbligato a punirli, fornendo loro un incentivo per evitare la punizione e aiutandoli a sviluppare l’autodisciplina necessaria a rigare diritto. Questo “amore da duri” è visto come l’unico modo di insegnare una moralità. I figli che sono abbastanza disciplinati da essere morali possono anche usare quella disciplina una volta divenuti adulti, per perseguire il proprio interesse sul mercato e così prosperare.» (Thinking Points, pp. 57-58)
Mi sembra che quasi tutte le teorie radicali/rivoluzionarie del XIX e XX secolo abbiano assunto le forme a noi note reagendo al modello del Padre Severo, entro la cornice della nazione-come-famiglia. Era quella la cornice che dovevano affrontare, così svilupparono una contro-retorica, quella del discorso libertario in tutte le sue versioni. Rivolta contro l’Autorità, disobbedienza alla legge, “armare il desiderio”, l’Eros contro la repressione e il Principio della Realtà, scatenare gli istinti, liberare il corpo, liberare il sesso, far esplodere le differenze e singolarità, Rizoma contro Albero, riconquistare la Ferinità.
Dall’Anarchismo a un certo Post-Strutturalismo passando per Reich, Marcuse, il Freudo-Marxismo, i Situazionisti e i femminismi radicali, tutte le correnti del pensiero radicale, anti-statale, anti-autoritario, anti-sciovinista, anti-capitalista hanno disposto la loro critica nella cornice metaforica del disordine creativo che si oppone all’ordine repressivo. Erano teorie di e per figli simbolici, nel senso che il potere come Padre Severo (si trattasse del governo, del padronato, della religione etc.) era il «correlativo oggettivo» dei loro discorsi e delle loro azioni.
In certi casi la metafora veniva rovesciata: non la nazione-come-famiglia e il padrone-come-padre, ma la famiglia-come-nazione e il padre-come-padrone. Questo è un rozzissimo riassuntino della posizione assunta da Guattari & Deleuze nei confronti dell’Edipo. Eppure, rovesciare un frame non significa disattivarlo, e infatti la teoria dell’AntiEdipo è a suo modo una summa dell’impostazione non-dupe (e l’erranza è esplicitamente proposta come strategia radicale).
Tutti questi filoni, se ben interrogati, possono ancora essere utili e ispiranti, darci spunti fecondi. Il problema è che parlano “fuori quadro”, contestano un frame che non è più il nostro. In Italia – e l’Italia è sempre stata un importante laboratorio sociale, ha spesso preavvertito il mondo di cosa lo attendesse dietro l’angolo – il loro «correlativo oggettivo» è stato demolito da tempo, e il potere abita lo spazio vuoto creato dalla scomparsa del Padre Simbolico.
Guardiamo Berlusconi. Non gliene potrebbe fregare di meno di atteggiarsi a Padre Severo. Sì, in passato ha attivato il frame della nazione-come-famiglia (le foto insieme ai suoi figli etc.), ma non gliene frega più un cazzo. Nessun equilibrio tra legge e desiderio. Va apertamente a caccia di gnocca, anche di gnocca giovanissima. Bestemmia in pubblico. Racconta senza alcuna vergogna barzellette razziste e sessiste. Più o meno, si presenta al mondo come un vecchio-ma-ancor-giovane satiro. Rifiuta l’invecchiamento. Si è fatto più lifting e trapianti di capelli di qualunque figura pubblica maschile in tutto l’occidente, e ci scherza sopra.
Mezza Italia lo ama non a dispetto di questo, ma proprio per questo, e lui lo sa bene. E’ proprio così che lo vogliono, vogliono sentirlo urlare il suo Discorso. Berlusconi è il re del laissez-faire etico. Di conseguenza, non c’è più legge a parte quelle «ad personam», quindi la situazione è di squilibrio, il desiderio non ha contrappesi.
Naturalmente, Berlusconi è solo la più avanzata antropomorfizzazione di una generale tendenza al godimento distruttivo. Oggigiorno il capitale/Super-ego ci dà un ordine preciso: «Godi!». Non sto dicendo nulla di nuovo, è una situazione ben nota.
Quali sono oggi i frame e i dispositivi che regolano le questioni di genere e il problema delle libertà sessuali? Qualcuno pensa ancora che, per quanto concerne la sfera istintuale, il problema principale in occidente (e specialmente in Italia) sia la censura dell’immaginario sessuale e la repressione sessuofobica dei corpi da parte dei poteri costituiti?
Il potere si è fatto pornocratico. Il porno è esondato dai confini che occupava come genere della cultura di massa. La televisione italiana controllata da Berlusconi è piena zeppa di corpi nudi, montagne di tette e culi. Documentari come Videocracy di Erik Gandini (2009) e ancor più Il corpo delle donne di Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi (2009) hanno mostrato agli spettatori di altri paesi fino a che punto il berlusconismo abbia fondato il proprio potere sull’ipersessualizzazione del mondo quotidiano. Nei prossimi appunti, che avranno forma pubblicabile non so quando, mi occuperò soprattutto di questo. Come in questa parte ho “sequestrato” Lacan per usarne dei concetti a modo mio (o meglio: ho trafugato il suo cervello, come Igor trafuga il cervello di “A. B. Normal” in Frankenstein Jr.), nella prossima “sequestrerò” Foucault e Pasolini.
[1 di ? / continua]
[…] This post was mentioned on Twitter by Elisabetta, Abcde eFFe. Abcde eFFe said: RT @Wu_Ming_Foundt: Note sul “Potere Pappone” in Italia, 1a parte: Berlusconi non è il padre: di Wu Ming 1 0. Una… http://goo.gl/fb/r55tu […]
Grandissimo pezzo WM1, davvero, complimenti! Non posso che apprezzare la tua lettura lacaniana del presente! E checché se ne dica, è un autore con cui bisogna fare i conti, nonostante la sua difficoltà. Al tuo testo gli si potrebbero fare le pulci, ma è chiaro che si tratta di una sintesi che deve necessariamente tagliare con l’accetta dei passaggi complessi. Per esempio, non sono d’accordo che il pensiero libertario (in alcune delle sue declinazioni, sia chiaro, non in tutte) protenda esclusivamente in una liberazione della sfera del desiderio a scapito della legge e dell’aderenza ad essa, ma anzi mi sembra che al centro degli interessi di alcuni autori (Kropotkin in primis) ci sia il tentativo di coniugare liberazione con responsabilità – un tentativo parziale, limitato, figlio del suo tempo, eppure presente.
Ma questo non è importante ora. E’ importante invece che la riflessione proceda su questo binario che hai così bene indicato. E qui mi sorgono due domande.
In primo luogo, se quello che dici è vero – come credo lo sia – ha davvero senso dire queste cose a chi è schiavo di quella che Lacan stesso definiva la “dittatura del godimento”? E’ immaginabile cioè un percorso di liberazione di quegli (per usare i tuoi esempi) elettori di Berlusconi che lo votano esattamente perchè egli li legittima nel perseguimento del proprio imperativo “godi!” ? Chi è schiavo o vittima di questa dittatura non farà invece di tutto – proprio come Berlusconi – per legittimare il suo desiderio agli occhi del mondo al fine di poterlo perseguire senza remore? Perchè mai chi ha trovato in Berlusconi un esempio, una legittimazione, una giustifica al proprio godimento (“se lo fa lui, perchè non posso farlo anch’io?”) deve invece imporsi una barriera di ordine morale?
In fondo, da una prospettiva psicoanalitica analitica, quel godimento si appoggia su ciò che tecnicamente si chiama un “disconoscimento feticistico”, o per dirla in parole povere (lacaniane) un “je sais bien, mais quand même…”: lo so bene, ma comunque… come il fumatore che sa che gli verrà il tumore eppure continua a fumare.
Io non ho davvero una risposta, ma ho comunque un enorme pessimismo.
In secondo luogo, da una prospettiva più teorica (qui metto le mani davanti, ne so ancora troppo poco) il tuo giusto affermare che bisogna diventare genitori di se stessi mi sembra davvero la sintesi di un percorso dialettico puramente hegeliano: per dirla molto rozzamente (a mo’ di manuale di filosofia delle medie) dopo aver subito l’autorità del padre (tesi) ed essercene liberati in un momento di orgiastico godimento (antitesi) è ora giunta l’ora di ritrovare in maniera sintetica (cioè con un superamento che è anche recupero) il giusto equilibrio tra desiderio e legge, tra godimento e responsabilità. Insomma un nuovo Aufheben. Tu sai che Zizek sta lavorando su questo ormai da un po’, e pare che il prossimo librone sarà proprio su Hegel, questo fantasma che ciclicamente ritorna…
Non ho ancora visto la conferenza di Recalcati, lo faccio ora, ma intanto mi permetto si suggerire quest’altra, sempre di lui, all’ultima edizione del Festival della Mente di Sarzana, delle durata di circa un’ora e destinata a un pubblico vasto, quindi forse un minimo più fruibile, che spiega bene cosa sia il desiderio e come funziona:
http://www.festivaldellamente.it/eventi_dettaglio.asp?id=271
Secondo me il discorso che fai tu in questa sede si deve riaccordare ad altri “brandelli” di discorsi disseminati qua e la su questo blog, in particolare nella lunga discussione sul tempo reale della tv (minatori cileni etc..). Anzitutto per la questione del “GODI” come imperativo assoluto: un “godi” che è quindi sì il motore principale di tutto un certo tipo di dinamica, ma che va anche indagato, nel senso che va sviscerato il meccanismo (eminentemente capitalistico secondo me) che sveli di quale “godimento” si tratta. Perchè altrimenti mi sembrerebbe affrettato identificare il “godimento” berlusconiano col “desiderio” di Deleuze e Guattari. Il “godimento” berlusconiano difatti mi sembra qualcosa che ha ben poco a che vedere con un desiderio reale: i corpi nudi in tv, o la depenalizzazione del falso in bilancio non corrispondono ad una liberalizzazione reale dei desideri e delle potenze dei soggetti, non foss’altro che si esplicano in maniera talmente atomizzata, egoistica, quasi masturbatoria, in netto contrasto con qualsivoglia pratica “collettiva” o collettivizzante.Di che cosa “godiamo” allora quando vediamo 10, 12, 14 chiappe al vento?? E’ davvero il nostro desiderio che si libera? Accresciamo davvero la nostra “potenza”? Io non lo penso, ma non penso neanche che questa sia la “rappresentazione della realtà” che la televisione distorcerebbe: qui si tratta di “fare qualcosa con la realtà” nel senso che quello che succede è che il reale è “agito” dalla televisione, che lo etichetta, lo “riasssume”.
Dire allora che “bisogna essere genitori” come già facevi (mi sembra di ricordare) nel NIE, è sicuramente una cosa giusta, così come dire che , per certi versi, non ci sono più un Padre o un Padrone, ma piuttosto una struttura che li produce e di volta in volta li sostituisce.
Però non ci dobbiamo dimenticare secondo me che il controllo, la centralizzazione, la “striatura” dello spazio, la censura, sono cose che esistono oggi più che mai, e che forse anche l’assoluta non-curanza con cui il berlusconismo evita ogni tipo di freno o di barriera (siano esse della decenza o di qualsiasi altra cosa) non rappresetna nient’altro che la più acuta strategia per far passare ogni discorso che si pretenda quantomeno “accurato” come “inutile”, bacchettone, pesante. In questo punto il discorso si ricollega davvero alle questioni televisive, in maniera molto pregnante: perchè che il capitalismo usi i modelli dell’entertainment per far mostra delle proprie struttre di potere è secondo un fatto da considerarsi conclamato. Pertanto tutto ciò che non intrattiene non ha più l’aria, lo spazio per sopravvivere: l’etichettatura, il marchio, il riassuntino, il titolo, sono diventati la caratteristica generalizzata del sapere; la degenrazione devastante della cultura da quiz. Nessun modo migliore di tenere a bada i mostri (Marx, il femminismo, la filosofia in generale) che etichettarli con due paroline.
Se Berlusconi allora non è il padre (e non lo è, è chiarissimo) non serve a niente aspettare che muoia: bisognerà pur far qualcosa
Infatti: non basta uccidere il Padre – la Legge – per diventare uomini: chi uccide suo padre diventa solo orfano, e in quanto tale rimane figlio. Chi vuole dirsi uomo, cioè adulto, deve allora anch’egli dirsi padre, diventare carne per i propri figli, lasciare che si cibino di sé come un tempo ci si nutrì del proprio padre. La paternità, metaforicamente, in questo consiste: una deliberata, auto-inflitta, condanna a morte.
Una sentenza capitale, però, che rappresenta l’unico atto che in un’unica volta ci fa adulti, dà un senso (significato e direzione) e una continuità alla nostra esistenza.
Chiedo scusa, sono di corsa, gli spunti offerti nei commenti sono tanti e, appropriatamente, toccano punti che affronterò nelle prossime note, ancora informi. Poche cose rapidissime, giusto una declaratio terminorum:
@ Antonio, non mi sogno nemmeno di identificare “desiderio” deleuzo-guattariano e imperativo “Godi!” del capitale. D&G usano la parola “desiderio” in un modo tutto loro, infatti non mi sono avventurato in quelle lande, questi sono solo appunti. Quel che si può dire è che D&G, come quasi tutti gli autori radicali della loro generazione, erano parte di un’atmosfera metaforica e concettuale che oggi è “espropriata” dal capitale. Il che non vuol dire, ci tengo a precisarlo, che tutti i loro concetti siano disinnescati.
@ eFFe,
Un lacaniano ti direbbe che la mia lettura non è affatto lacaniana, infatti ho detto che non mi interessano cosette come il Complesso di Edipo etc. :-) Un’altra cosa che della visione psicoanalitica non mi interessa è il mito dell’orda primigenia in cui il padre monopolizza il piacere e così i figli lo divorano e questo è l’atto fondativo della civiltà come repressione etc. Può aver avuto un’importanza poetica, ma è scientificamente nullo. Però per carità non mettiamoci a disquisire di questioni psicanalitiche, io ho usato solo alcuni concetti come leve per fare forza e sollevare la questione.
Certo, non tutto il pensiero radicale è riconducibile a quel frame che dicevo. Oltre a Kropotkin, faccio notare che non ho tirato in mezzo “l’altro” filone, quello più solidamente marxista. Che ha avuto tantissime magagne e ben le conosciamo, ma che meriterebbe un discorso a parte.
I testi più politici di Lakoff sono a prima vista spiazzanti proprio perché non si riesce ad applicarli al caso italiano. Il bipolarismo “Padre Severo” vs “Genitore Premuroso” da noi non funziona, proprio per la presenza di un frame “Berlusconi” che li scombina entrambi. Tuttavia, anche il “frame Berlusconi” si riconduce in realtà al modello del Padre Severo, e in particolare al concetto di conservatore di “libertà”. Secondo la morale del padre severo, ogni adulto ben educato ha in sé i giusti valori e la giusta disciplina, cosa che gli permette di autoregolarsi. Questa capacità si traduce nel libero mercato, dove ciascuno persegue il proprio interesse e in questo modo favorisce l’interesse di tutti. Questa visione del mondo, nelle particolari condizioni italiote, non ci mette molto a generare “il Popolo delle Libertà” dove si fa un po’ come cazzo ci pare. Credo insomma che il concetto che andrebbe analizzato meglio – e recuperato a sinistra – non sia soltanto quello di padre/genitore, ma quello, ad esso collegato, di libertà. Non a caso, proprio Lakoff ha scritto un testo – “La libertà di chi?” – sul quale bisognerebbe ritornare.
L’ altro giorno, mentre in tv passavano le immagini dell’ ennesima “battuta” di Berlusconi (quello in carne ed ossa, non il Berlusconi-sineddoche), ho pensato per l’ ennesima volta che Berlusconi NON FA ridere. Berlusconi fa paura. E’ come il joker di batman. Anzi, e’ come il commissario di polizia che ti interroga dopo averti fatto fare tre giorni di isolamento, e tu non sei piu’ tanto sicuro della tua innocenza, e ti aspetti che ti prenda per il collo, che ti minacci, e invece quello comincia a raccontare barzellette. E tu non sai cosa fare, perche’ sei pur sempre in questura. Ma forse lui vuole proprio che tu rida, e allora tu provi a ridere, e anche lui ride, poi smette di colpo. La sua faccia diventa minacciosa, e a quel punto sei fregato, perche’ non hai piu’ difese. Leggendo queste note di WuMing1 sto cominciando a capire da dove viene questa sensazione di paura. E mi chiedo anche se il “frame” di questo paese non sia quello della “famiglia disfunzionale”.
p.s. chiedo venia se il mio uso di certi termini e’ ingenuo. In vita mia mi occupo di tutt’altro, e non e’ facile inserirsi in una discussione tra esperti.
[…] dal post di Wu Ming Note sul “Potere Pappone” in Italia: 1 parte. Berlusconi non è il padre. Tags: Wu […]
@WM2
secondo me l’esito della “Casa delle Libertà dove facciamo come cazzo ci pare” (e questa Casa non è solo il centrodestra, è l’Italia), pur generato dall’estremizzazione di un tratto dell’ideologia di destra strutturata sul modello del Padre Severo, dissolve quest’ultimo modello. Se lo dissolva definitivamente è tutto da vedere. Il punto secondo me è: quest’esito è raggelantemente coerente con la natura del capitalismo odierno, che vuole bambini capricciosi, non adulti responsabili; e le “particolari condizioni italiote” sì, sono particolari, l’Italia è anomala, ma la sua è una… anomalia universale, che prefigura tendenze globali (la mafia, il fascismo etc.)
@ tuco
ma quali “esperti”, qui brancoliamo tutti! In questo post mi sono sforzato di “spiegare”, di essere comprensibile, e vorrei che si esprimessero tutti quelli che ne sentono il bisogno e hanno qualcosa da dire.
@ wuming1
ok, allora ci provo, con il timore di dire qualche cazzata o qualche banalita’. io sono un matematico, e qualche tempo fa ho letto qualcosa di bateson, perche’ mi incuriosiva il modo in cui usava la teoria dei tipi logici di russell per proporre un’ analisi logica dei disturbi cognitivi. quel che mi colpisce nell’ imperativo “fate quel che volete” e’ la contraddizione tra il contenuto e la forma. cioe’: la frase afferma una cosa, ma il modo in cui l’ affermazione viene fatta (si tratta pur sempre di un ordine) nega il contenuto stesso della frase. mi chiedo se questa contraddizione non stia alla base della patologia italiana, che a me sembra per certi aspetti universale, ma per altri molto particolare.
poi non so, butto giu’ idee a casaccio, ogni volta che vedo berlusconi, mi viene in mente “indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.
Mi pare che il fate-come-cazzo-vi-pare del Berlusconi lifestyle liberi gli aspetti sessuali e criminali legittimandoli e depenalizzandoli, purchè non si chieda la vera libertà. Quella dal consumismo, da una classe dirigente che pare un circo, da un sistema mediatico (specie la tv) ridicolo. WM1 parla di melancolia e paranoia, di non rompere il cazzo ai ricchi. Sì, godiamo tutto e ora, basta che non ci liberiamo dai problemi autentici del Paese. Tette e culi, scudi fiscali, evasione fiscale e falsi in bilancio, barzellette e minorenni, tutto in cambio di un consenso da topi, da adolescenti arrapati.
Grazie a tutt*, elaborerò questi s/punti (e quelli a venire) nei prossimi giorni. Oggi non riesco a seguire con costanza né tantomeno a rispondere. Sono un po’ “cotto”, dare una forma minimamente comprensibile al guazzabuglio che avevo in testa mi ha preso un sacco di energie mentali! :-/
In effetti nel momento in cui il verbo godere viene declinato all’imperativo si smette di godere o comunque godono in pochi a scapito di molti (penso ai quattro Signori di Salò o le 120 giornate di Sodoma).
Comunque non so perchè ma questo interessante post mi fa venire in mente l’ultima scena della prima parte del Che di Soderbergh (gran film!) in cui dopo la vittoria Guevara rimprovera due guerriglieri che hanno rubato una macchina di lusso.
Mi pare che dicesse “Fosse anche l’auto di Batista, riportatela dove l’avete trovata”
Complimenti a Wu Ming 1 per questo pezzo. Forse la migliore riflessione sul berlusconismo (e sul fenomeno più generale di cui lo stesso berlusconismo è il riflesso in salsa nazionale) che personalmente abbia mai letto.
Avanzo solo un modesto appunto.
Il fallimento della ribellione contro il simbolismo del “Padre Severo” secondo me viene compreso meglio se, oltre che sulla dimensione strettamente culturale, ci si concentra su quella economico-sociale.
Il motivo principale per cui quel simbolismo non è più attuale – e per cui, di conseguenza, non è più efficace la ribellione contro di esso – dopo tutto sta nel fatto che il nuovo immaginario “liberato”, e l’intero assetto sociale ed economico che sottintendeva, sono stati immediatamente colonizzati dalle forze del Mercato, nella loro variante più smaccatamente neoliberale, turbocapitalista, simbolicamente aggressiva (lifestyle marketing, branding ecc.).
Il caso italiano, forse, si distingue per una maggiore tendenza, da parte del nuovo credo individualista, a fondersi con un qualunquismo che ha radici storiche non trascurabili… però mi sembra che si tratti pur sempre del riflesso di qualcosa di più globale.
Di qui la domanda: qual è il modo migliore per reagire a tutto questo? Capisco l’appello a compiere l’atto fondativo, a “diventare noi stessi genitori”… ma ce lo possiamo davvero permettere? Con un lavoro sottoretribuito e precario che spesso frustra anni di studio e di formazione, senza un briciolo di visione coerente e realistica per il futuro? Con un contesto sociale e una mentalità comune che sembra impossibile scuotere dalla passività, dalla rassegnazione, dal pregiudizio?
Sarò melancolico… ma non riesco proprio a sentirmi “padre”. Né di me stesso, né di nessun altr*.
C’è un punto che mi sembra da chiarire. A chi si rivolge, nel discorso berlusconiano, l’imperativo “Godi”? Io direi che non si rivolge alla collettività, ma al singolo inteso come singolo individuo privilegiato rispetto ad una massa indistinta di sottoposti.
Voglio dire: non è che Berlusconi abbia abolito il discorso tradizionale del potere inteso come “legge & ordine”. E’ come se tale discorso tradizionale fosse ancora in vigore, ma sempre per qualcun altro. “Fai quel cazzo che ti pare, perché tu, mio seguace berlusconiano, sei più furbo degli altri, che invece sono una massa di coglioni. Imponiti, prevali, te ne do io la facoltà.” Ma ciò appunto presuppone che gli altri, i fessi, continuino a credere nella morale e a rispettare la legge. In Sade le vittime sono tanto più pie e candide quanto più i carnefici sono immorali e spietati.
Il berlusconiano tipico può alternare invocazioni all’ordine sociale e scatti di allegra insofferenza per le regole, senza minimamente sentirsi in contraddizione con se stesso.
Melancolia: un po’ me ne intendo. Brutta bestia. E’ da tempo che osservo il disastro italiano alla luce di una condizione personale. Forse non si tratta tanto di una scelta, condivisibile o meno, quanto di un non poter fare altrimenti.
Provo a venire al tema. Brancolando, come tutti. Alla ricerca di un lume di candela in lontananza, che possa individuare, se non una rotta, almeno un punto.
Di quale perdita stiamo parlando? Quale il lutto che non si riesce a elaborare? Chi, il genitore scomparso?
Butto lì una suggestione, senza troppe pretese analitiche e a rischio più che legittimo di smentite anche sonore e categoriche, frutto di una visione forse distorta, appunto, da una dimensione ripiegata dell’anima.
Dico: il Futuro. L’idea di futuro, il senso che la nostra cultura gli attribuiva, simbolico e non solo.
Può essere un “Padre”, il futuro. Secondo me, in qualche modo sì. La sua idea, intendo. Il senso, prospettico, che ciò che faccio oggi andrà anche a determinare quello che sarò domani. E in questo costituisce la necessaria mediazione tra desiderio e legge, e per di più con un ampio spazio concesso all’autodeterminazione, e alla condivisione.
E’ qualche tempo che vivo una sensazione paradossale. Che tra meno di due mesi, certo, finisce una decade. Ma quale? Gli anni Ottanta.
Un lungo, interminabile ’89. L’anno in cui, nostro malgrado, l’Italia diventa periferia, poco rilevante nel quadro geo-politico. Quando comincia a sbriciolarsi. Senza saperlo, senza accorgersene.
E quando il berlusconismo era già cominciato. Era già un lungo presente quello degli anni ottanta che stavano finendo, senza finire mai, che stavamo vivendo.
“Arricchitevi, se potete. Senza rompere il cazzo.” Era già lo slogan definitivo e dominante di quegli anni, e il Cavaliere ne era un pezzo essenziale. Forse le vere riforme le fece allora, Drive in e Beautiful e il Pranzo è servito, più il MegaMilan di Sacchi.
Poi la Storia veniva a presentare il conto. Avremmo dovuto ripensarci, reinventarci, e infatti crollava un sistema, un assetto, una classe politica. Ma il presente perpetuo affascinava, incollava, inchiodava, irretiva, e tutto sommato ci risparmiava una fatica molto grossa, e dall’esito incerto.
Cambiare, cambiare davvero.
E siamo ancora lì. Compresi gli incolpevoli che allora nemmeno erano nati. Al Drive In, a guardare un brutto film.
Su una certa idea di futuro, l’Occidente ha costruito la sua forza e la sua fortuna. Si badi bene, molto spesso criticabile, addirittura nociva. Perchè edificata a spese degli altri, che la subivano. Ma senza non è niente. Puro velleitarismo. Potere senza potenza. Arbitrio che ambisce al solo mantenimento di uno status quo, e per ottenerlo può solo provare l’incantesimo di un eterno presente.
«Ma scusi, noi, non siamo forse la dimostrazione vivente di che è realmente il Potere? L’unica vera, grande, assoluta Anarchia, è quella del potere. Infatti noi, qualsiasi cosa ci venga in mente, la più folle ed inaudita, la più priva di senso, possiamo scriverla in questo quadernetto, ed essa diviene immediatamente legale; se poi saltasse in mente di cancellarla, essa diverrebbe immediatamente illegale. Le leggi del Potere, non fanno altro che sancire questo potere anarchico,… e ciò vale per qualsiasi potere.»
L’ultima parte del post porta inevitabilmente alla mente l’idea di sesso e potere di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” . Sesso come mercificazione di corpi, privatizzazione delle idee, annullamento dello Stato.
Berlusconi rappresenta quel nuovo tipo di Rivoluzionario Anarchico che pratica il sovvertimento dell’idea di Stato in atto fin dai tempi del Craxismo, primo vagito esplicito e senza vergogna del “Godi!”, dopo anni di grigia e austera burocrazia partitica di stampo democristiano, retaggio del dopoguerra di un Paese comunque sconfitto e impoverito. Si appropria di figure, di linguaggi, perfino di liturgie un tempo appannaggio della Sinistra anche estrema (il culto del caro leader di stampo nordcoreano); comprende, impone e detta anche il linguaggio degli oppositori o supposti tali dirigendo con tempi giusti e azzeccati il dibattito in opportune “secche” dialettiche; riesce a essere campione di uno Stato d’emergenza e assistenzialista col tipico “ghe pensi mi” imprenditoriale brianzolo; passa per difensore del Liberalismo quando qualsiasi ente anti-trust imparziale lo bollerebbe per monopolista. Riesce ad essere sistema e anti-sistema, virus e anti-corpo. E, in ultimo, rappresenta un efficace para-fulmine per la nostra inazione e mediocrita’ diffusa. Difficile uscire da questo cul-de-sac berlusconiano; dovremmo rifondare un sacco di cose, ripensare a nuove strategie per ricreare prima di tutto un sistema di valori condiviso. L’unica via che mi viene in mente sta in una parola: Educazione. E per essa costituire nuclei, anche minimi, di resistenza. E per il momento, in mancanza di meglio: fare, dire, pensare tutto il contrario di quello che in un sistema siffatto ti verrebbe da fare, dire e pensare istintivamente.
Post molto intenso, carico di contenuti con cui sto lottando da un po’ ma che ancora faticano a prendere forma distinta. Provo a buttar fuori qualcosa di non troppo informe.
Sulla melancolia, oltre a ciò molto ben sopra esposto vi è un aspetto non trascurabile: l’aggressività verso l’oggetto perduto. Il volerlo al contempo preservare e distruggere da cui scaturiscono contemporaneamente senso di colpa e paranoia, un cane che si morde la coda senza tregua. Si vuole distruggere l’oggetto, lo si ama, ci si identifica in lui, lo si vuole manipolare. Ci si trova in sua balia.
Tanti modi diversi d’essere suoi schiavi, anche nella competizione.
Come è già stato detto qua: magari fosse Berlusconi, l’oggetto da temere. Ci sarebbe possibilità d’elaborazione. Mi sembra invece che sia la maschera che copre un oggetto non ben definito (come può essere il futuro o altro, per citare luca) e per questo ancor più agghiacciante.
Riguardo ai genitori: Lacan li utilizza tramite concetti linguistico-hegeliani. Entrambi portano allo sviluppo degli aspetti fondamentali, primo tra tutti il concetto di differenza, d’identificazione. Crescere senza una delle due figure (chiunque sia ad incarnarle) o con una delle due vuota o patologica porta al disastro interiore (di una persona o di una popolazione).
A livello sociale cosa incarna oggi possibili figure da accettare/assimilare e superare?
P. S.
Riguardo ai significati di Padre e Madre non vanno sottolvalutati i loro contenuti archetipici. Ma forse si rischia di andare OT e comunque sono concetti con cui ho appena iniziato a scornarmi, devo ancora finire di mangiare e digerire ;-)
@WM1, per l’amor di dio, lungi da me appiccicare etichette di sorta… mi faceva solo piacere vedere che un autore come Lacan – che reputo importante, alla stregua di tanti altri, ma meno studiato di tanti altri – fosse diventato un interlocutore delle tue riflessioni.
Le domande che ti facevo (che poi sono più o meno le stesse di Don Cave, con le cui considerazioni mi trovo molto d’accordo) derivano proprio dalla considerazione che l’imperativo “godi” è un imperativo rivolto al singolo, non alla collettività, come giustamente rileva Salvatore Talia. Ecco perchè allora la strumentazione psicoanalitica barra filosofica (…Lacan) può tornare davvero utile. Non si tratta di fare terapia, si tratta di andare a capire come funzionano certi meccanismi che trovano il loro quartier generale nell’individuo; e poi di vedere come agiscono/sono agiti quando situati nel mondo.
@tuco la contraddizione che rilevi è verissima e storicamente è uno dei due limiti di ogni declinazione del liberalismo. L’imperativo “sii libero” è una contraddizione in termini, è un “comando impossibile” (che è il titolo di un ottimo saggio dello storico Raffaele Romanelli sull’Italia liberale, edito da il Mulino). L’altro è la sua pretesa universalità, che non riesce invece a tener conto della jouissance (le forme del godimento) di chi non è bianco, occidentale e ricco (per farla breve); esempio banale ma immediato: se per me essere libero significa indossare il burqua, come la mettiamo? Lo spiega molto bene Zizek nel suo saggio sulla violenza. E infatti la questione che ne deriva è quella che pone WM2, cioè di che tipo di libertà stiamo parlando. O per dirla con Lenin: “libertà di chi? Per fare cosa?”
@Luca, secondo me hai colto nel segno quando affermi che il futuro può essere il Padre. Quando scrivevo (forse un po’ poeticamente?) che bisogna diventare a nostra volta padri e cioè farsi mangiare dai figli, volevo dir questo: bisogna provare a immaginare un futuro. Non so dove ho letto questa simpatica boutade: “non c’è più il futuro di una volta”. E non significa nostalgia per i bei tempi andati (chè lo sappiamo, non ci sono mai stati…:) ma una *nuova* difficoltà a immaginarsi il futuro. Questo è quel che ci fotte. E questa difficoltà, a mio modesto modo di vedere, è a un tempo congiunturale (leggi: precariato, smantellamento del welfare state, colonizzazione dell’immaginario da parte dei massmedia etc) e simbolica: deriva cioè dalla difficoltà di trovare le parole per narrarlo, il futuro. E’ un’idea questa, mi rendo conto, sicuramente embrionale e limitata, ci sto lavorando, anche io brancolo…
Scusate la prolissità, ma sono contento fino alla commozione di poter discutere queste cose in modo collettivo, di avere un luogo di confronto. Grazie davvero.
Faccio tesoro di tutto. Per ora dico solo: sì, la chiave è proprio il “futuro come Padre”. Col mio riflettere vorrei andare in quella direzione, da me già “balbettata” nel dibattito sul NIE e – soprattutto – in un intervento forse troppo visionario e impreciso (e infatti lì per lì non molto capito) fatto nel maggio 2009 a Officina Italia, Milano. Ecco, sto cercando di dare più sostanza a cose soltanto “balbettate” negli ultimi due, frenetici anni.
L’intervento lo linko qui sotto, si può scaricare e ascoltare con calma cliccando col destro (o CTRL + click per i mouse a un solo tasto) oppure ascoltare in streaming (dura 15 minuti esatti).
TUTTI I FUTURI SCONFITTI ESISTONO ACCANTO A NOI
Temo che la tua analisi ricca di riferimenti teorici così lontani e diversi presi a pezzi e semplificati (penso a Lacan, al godimento, al desideiro e alla legge) non solo non funzioni, ma incorra nel rischio che è oggi il rischio presente nell’analisi politica e culturale di sinistra del berlusconismo e della cultura che ad esso si associa (penso al terribile libro di Panarari): essere regressiva, trasformarsi in nostalgia per un orizzonte simbolico forte e per il nome del padre. Il nucleo del tuo discorso è, al fondo, quello di Zizek; ma, appunto, il tutto si traduce in un pericoloso desiderio di un nuovo ordine simbolico. E’ sintomatico, d’altra parte, che la metonimia di questo discorso regressivo di sinistra sia un discorso poverissimo e al fondo moralista sul corpo della donna come vittima da salvare.
Altra cosa che mi viene in mente. In molti film del genere “commedia all’italiana” ricorre una situazione tipica: il padre sgamato che cerca d’insegnare a vivere al figlio imbranato. Tognazzi ne “I mostri”, Sordi e Verdone “In viaggio con papà”, in senso lato Gassmann e Trintignant “Il sorpasso”, e via dicendo.
http://www.youtube.com/watch?v=bBAT4BWI75c
Qui ci troviamo di fronte ad un concetto di “padre” che è molto lontano da quello di Lacan e molto vicino a Berlusconi. Un concetto che credo sia peculiare del folklore italiano, dove si esprime nella figura di Bertoldo. Ecco, penso che questa accezione sia da tenere presente.
Molto condivido la lettura del berlusconismo e ancor più dell’eterogenesi dei fini che ha colpito certo erotismo marcusiano (tradottosi nell’imperativo al consumo e quindi difatto anticamera del berlusconismo medesimo), anche se c’è chi (Regazzoni) sembra rimpiangerlo accanitamente.
Essere padri fondatori significa tracciare confini, porre dei limiti, atto indisgiungibile da un atteggiamento simbolicamente ma anche storicamente ascetico. E la riprova della necessità per questa generazione di uscire dalla sindrome di Peter Pan e assumere quel ruolo, è che l’austerità è l’unica ricetta possibile rispetto alla condizione attuale del pianeta.
Il corpo (non della donna ma) della Terra è da custodire, preservare dalla rapacità del potere e dalla smoderatezza del desiderio che, a differenza del bisogno, reduplica se stesso senza soddisfazione. Assumere questa missione significa nello stesso tempo uscire dalla illusione dell’istante che basta a se stesso e dis-porre un futuro. Cosa che accade, precisamente quando si mette al centro dell’agire non il proprio ventre ma una prole.
Tanto per dire della confusione concettuale che si ingenera (in chi legge) quando si tirano in ballo senza ben distinguere “godimento” e “desiderio” (con Binaghi che addirittura vorrebbe tornare al bisogno: piccole ricette di austerità per l’osteria dell’avvenire). In merito al desiderio è Lacan che scrive (e sta parlando di etica): “l’unica cosa di cui si può essere colpevoli è di aver ceduto sul proprio desiderio”. Marcuse, fortunatamente, non c’entra nulla. Per Wu Ming 1: mi sembra che occorra fare un minimo di chiarezza concettuale. Mettere dentro Lacan-Foucault-Deleuze-Lakoff senza un orizzonte teorico chiaro che permetta di capire quale sia la cornice in cui materiali così disparati vengono usati mi pare indebolisca o al limite banalizzi il tuo discorso. Per non parlare dell’evocazione di “Videocracy”, roba buona per Gad Lerner.
I miei figli ventenni spesso, ascoltando musica contemporanea, cadono in una sorta di trappola “della memoria”: scambiano le cover per opere d’arte, ma, se gli faccio ascoltare gli originali, smettono quasi sempre di pensar bene della cover. Ecco perché se teniamo bene a mente il quadro storico che ha prodotto il nostro presente, scopriamo che anche il nano è una cover. E che il caimano è l’effetto e non la causa del malessere di questo paese. Ne consegue che se fossimo capaci di rimuover il bubbone, se mai ci riuscissimo in questa vita, dato che il nostro conta seriamente di campare fino a centocinquanta anni, spunterebbero come rucola selvatica dalle pietre altri “uomini del fare”. Giuseppe Baretti scriveva nel 1768: “[Gli italiani] naturalmente docili al giogo che loro impone il governo, soffrirebbero le più dure esazioni senza pensare a fare tumulto: credo che non vi sia nazione in Europa più sommessa, più pronta ad obbedire e più soggetta a’ suoi padroni. Non mi ricordo di aver inteso parlare di sedizione popolare in Italia”. Sismondi, svizzero ed economista, aggiungeva quasi cento anni dopo: “L’Italia è probabilmente il solo paese del mondo in cui l’infamia legale, invece di essere incompatibile con il potere, è una condizione richiesta per esercitare una data autorità”.
Berlusconi spunta fuori con le caratteristiche immaginifiche di un fungo da esposizione quando cadono i veti incrociati imposti dalla logica dei blocchi contrapposti, i magistrati sono finalmente liberi di perseguire la corruzione “genetica” del tessuto sociale senza più il rischio di intaccare le difese atlantiche contro il mostro comunista, e l’attenzione del capitale globale si allontana dalla penisola abbandonandola a una lunga deriva verso la periferia del pianeta. Dunque, secondo me, il 1989 segnò proprio una sorta di “liberi tutti” che premiava i più esperti frequentatori del primario carattere nazionale: attribuire meriti ai furbi e oneri ai fessi, tutti classificati sull’esclusiva base dell’abilità nell’infrangere regole già pensate a tavolino con il preciso scopo di fregare il prossimo. Ecco perché è corretto affermare che il berlusconismo esisteva prima di Berlusconi e che gli sopravvivrà ancora per molte lune. E questa consapevolezza aiuta anche a rispondere al quesito (secondo me) alquanto sterile che funge da salvagente a tutte le disamine catastrofiche sullo stato della nazione che giungono da sinistra: gli italiani sono meglio dei politici che li rappresentano? La risposta è ovvia: no. Gli italiani aspettavano dalla fine del ventennio un uomo come Silvio. Si sono calati come giunchi alla follia democratica della Costituente, hanno ricostruito sott’acqua le fila del familismo, della corruzione e dell’associazionismo mafioso ed eversivo durante gli anni del boom, delle lotte operaie e del terrorismo politico, e, infine, sono tornati allo scoperto quando gli occhi del mondo hanno distolto lo sguardo dallo scacchiere mediterraneo non più nevralgico grazie alla caduta del Muro. Berlusconi dunque è, come la cellulite o i brufoli, un’espressione di malessere manifestata da un organismo alimentato impropriamente con inconsce velleità autolesioniste. Giulio Bollati (da cui ho tratto le due citazioni precedenti) citava D’Annunzio per sottolineare, nel lontano 1983 (cioè sei anni prima dell’inizio della ricreazione), quanto contano, in questo scenario irredimibile di mistificazione, i prodromi concettuali con cui i governanti italiani guidano da sempre il loro popolo verso le paludi del terzo mondo, malgrado le potenzialità culturali, geografiche e demografiche che questa furbissima nazione continua a mettergli a disposizione: “Persuaso anche lui che <> , Mussolini intuisce ciò che i critici della cultura di massa ci insegneranno tanti anni dopo, cioè che il modo della finzione, il mezzo della sua comunicazione, costituisce il nucleo stesso del messaggio”. Gli italiani evasori, mafiosi, raccomandati, razzisti e omofobi acquisiscono con il latte materno questa verità e l’arte di professare a parole i valori del Nuovo Testamento. Essi sanno, senza bisogno di ulteriori razionalizzazioni, che un bravo padre può pure andare a scopare a pagamento dopo cena, se solo è attento a tenere i suoi familiari davanti alla TV e può convincerli che ha bisogno degli straordinari per smaltire il superlavoro necessario a garantire il loro benessere.
Sorry. Tra le due parentesi alla fine () mancano le parole di D’Annunzio
scusate ancora, ma non so perchè non accetta queste parole:
“se per me essere libero significa indossare il burqua, come la mettiamo?” effe
la mettiamo che sei libero di mettertelo purchè i tuoi figli siano liberi di rifiutarlo senza rischiare la pelle e purchè io sia libero di dire che quel simbolo non mi piace.
Scusate la digressione OT.
@ felleracqua
le parole tra queste << virgolette me sa che se le mangia. Puoi usare gli * <>
@Regazzoni
Parlare di cose senza citare tre autori in una riga no eh?
Il Marcuse che citavo era quello di Eros e civiltà, ovviamente, ma al diavolo se mi metto ancora a discutere con i professorini.
Certo, io sono per un orizzonte, una progettualità, un’idea di futuro, e penso che non si possa fare a meno del simbolico, di una visione del mondo, del mito, della narrazione collettiva; penso che “forte” non sia un insulto; penso che “bisogno” non sia una parolaccia; sono per mantenere il riferimento al comunismo e alla sua necessità; penso che la democrazia liberale non sia il traguardo definivo dell’homo sapiens; penso che il capitalismo sia un sistema distruttivo e sanguinario etc. etc.
Tutti i materiali sono “disparati”, perché il mondo è fatto di singolarità. E’ nostro dovere accostare materiali disparati, farli reagire tra loro e cercare di “far lavorare” concetti anziché limitarci a enunciarli.
E’ altresì nostro dovere non denunciare questa pratica negli altri, quando invece la mettiamo in campo tutti (con risultati alterni).
Ecco, evitiamo di alimentare quella retorica per cui i *nostri* accostamenti sono sempre rivitalizzanti, sono “schiusure”, segnalazioni di “aporìe”, di “lapsus che rivelano residui di metafisica” etc. mentre quelli *altrui*, sarebbero eclettismo fine a se stesso.
La stessa retorica per cui noi siamo legittimati a “sfumare” mentre agli altri chiediamo confini concettuali nettissimi, incisi nel marmo.
Un’esortazione a “chiarire” può talvolta assumere riverberi sinistri, specialmente se è polemicamente generica (chiarire in che direzione? cosa? perché?) e se sfonda la porta aperta di una discussione in cui ogni elemento è proposto come aperto a modifiche, ricalibrazioni etc. Un’esortazione così suona come una “scomunica” ex cathedra, un invito a lasciare che di queste cose se ne occupino gli “esperti”, dominatori dei concetti.
Tra l’altro, se c’è una cosa chiara, in queste mie note, è la cornice. Tanto che prima la si individua (“è la stessa di Zizek”), la si denuncia in quanto avente come riferimento un “orizzonte simbolico forte”… poi si dice che è assente.
Infine: ben vengano le accuse di “moralismo”. Non sono nulla di nuovo e sono, per così dire, di prammatica. Chiunque non accetti l’andazzo generale è regolarmente definito “moralista”.
Tra l’altro, sarebbe ora di riappropriarsi di questa parola, di “risemantizzarla”. Come sarebbe il caso di riprendersi la parola “ascetico”, senza vergogna, e arricchendola di connotazioni.
@ paolo1984 e eFFe
io penso che la liberta’ non consista nell’ essere liberi di mettersi il burqa, ma nell’ essere liberi di toglierselo in qualunque momento.
penso anche (ma non sono in grado di dimostrarlo) che l’ aspirazione alla liberta’ (intesa come possibilita’ di scegliere) sia qualcosa di universale.
@ felleracqua
non usare mai questi simboli “<" e ">“, sono quelli che racchiudono i comandi html. Tutto quello che sta in mezzo diventa invisibile.
@paolo1984, riportavo solo un esempio veloce per indicare un problema teorico del liberalismo e del multiculturalismo di stampo liberale. Ho tagliato con l’accetta, ma non esprimevo un’opinione.
Il multiculturalismo di stampo liberale infatti arriva a tollerare esattamente alcune pratiche abominevoli (persino violazioni di diritti umani) nel timore d’imporre la sua visione del mondo e i suoi valori. E’ questa la sua contraddizione interna. Slavoj Žižek rileva giustamente come il multiculturalismo sia caratterizzato da un circolo vizioso che allo stesso tempo concede troppo e troppo poco alla specificità culturale dell’Altro :
“Se il primo atteggiamento non è in grado di tenere conto della specifica jouissance culturale che persino la «vittima» può trovare nella pratica di un’altra cultura che a noi sembra crudele e barbara […] il secondo non riesce a percepire il fatto che l’Altro è di per sé scisso, cioè che chi appartiene a un’altra cultura, lungi dall’identificarsi del tutto con le proprie usanze, può allontanarsene e ribellarvisi”
(Slavoj Žižek, Difesa dell’intolleranza, Troina, Città Aperta, 2002, p. 71)
@simone regazzoni
non credo che videocracy sia così terribile, dovresti anche pensare per quale pubblico è stato pensato, cioè un pubblico straniero.
@ WU Ming 1: non voglio riaprire qui un discorso che abbiamo già fatto. Ti chiedevo di chiarire perché al di là del nucleo del tuo discorso sul godimento (Zizek), e ferma restando la libertà di ciascuno di argomentare come meglio crede il proprio discorso, l’uso di concetti così disparati senza una cornice che sia ben chiara (e la tua non è quella lacaniana di Zizek) rischia di condurre a un discorso meramente moralista da “Famiglia Cristiana”. Che tu voglia o meno risemantizzare il termine “moralismo” o rivalutare i bisogni e l’ascetismo cambia poco. Basterebbe vedere come semplifichi il discorso su Berlusconi. Tale discorso non è mai: fate quello che cazzo volete. E’ sempre doppio, come doppio è il corpo del capo, in cui legge e godimento perverso fanno uno. Per questo la Chiesa lo sostiene. Per il resto, non siamo d’accordo, non c’è dubbio. Dio mi scampi da un orizzonte simbolico forte che altri avranno deciso per me.
WM1, vai avanti così, please. Il pezzo sui fantasmi semiotici è interessantissimo! Credo che queste riflessioni coinvolgeranno il lavoro di tutto il gruppo, e dei solisti, c’entra l’eroe imperfetto, il sentiero degli dei, free karma food…
:-))
@elle: trovo asslutamente banale Videocracy perché ribadisce lo stereotipo del “la tv rende stupidi”, in particolare gli italiani. Dientro non c’è nessuna analisi, ma una sorta di storiella che ci continuiamo a raccontare sulla tv senza che nessuno si prenda la briga di analizzare cose tipo “Drive In” (amato da Fellini) e che ha rappresentato una rivoluzione nella storia della tv italiana.
“io penso che la liberta’ non consista nell’ essere liberi di mettersi il burqa, ma nell’ essere liberi di toglierselo in qualunque momento.
penso anche (ma non sono in grado di dimostrarlo) che l’ aspirazione alla liberta’ (intesa come possibilita’ di scegliere) sia qualcosa di universale.” Tuco
Sono assolutamente d’accordo.
@Simone,
che il discorso di Berlusconi sia “doppio”, anzi, molteplice, è evidente, tanto che l’ho scritto. Non è un semplice “fate quel che volete”, come dici tu banalizzando, bensì un: “fate quel che vi piace purché non colpisca gli interessi dei ricchi, e visto che vi lascio fare quel che vi piace, voi lasciatemi fare quel che mi pare. Questo patto è un io-so-che-tu-sai-che-io-so.” Ci sono vari livelli di complicità e di doppiezza.
Laddove due visioni del mondo sono inconciliabili, diventa infondata (o strumentale) anche una richiesta di “chiarire”. Perché è evidente che qualunque chiarimento andrà in una direzione che allontanerà ulteriormente gli interlocutori, generando così nuove (e sempre più astratte) richieste di “chiarire”.
Tra l’altro: la cornice mi pare evidente, non c’è bisogno di fare “name dropping” filosofico né di citare alcun sancta sanctorum la cui autorità dovrebbe “legittimare” la riflessione.
La cornice è quella di una critica al capitalismo ipermoderno che spinge a essere “smodati”, a non darsi limiti (e senza limiti scompare l’inventiva che sviluppiamo per aggirarli), a “godere” senza preoccuparci delle conseguenze, a perdere il futuro.
[E, no: non confondo desiderio, godimento e imperativo a godere. Dico che se non c’è equilibrio tra legge e desiderio si finisce in balia dell’imperativo a godere.]
Senza la comprensione di questa tendenza, non si capisce nemmeno l’emergenza ambientale (alla quale so che sei sensibile). “Berlusconi” incarna perfettamente la tendenza, tendenza che sta anche mettendo in crisi alcuni dei principali frame metaforici con cui il potere era solito rappresentarsi. Non solo: frame metaforici che *strutturavano l’ideologia dominante*.
Inoltre: io sto già chiarendo, o comunque mi sto ponendo il problema della chiarezza. Nel momento in cui uno sceglie di socializzare i propri appunti, sta avviando un processo di chiarimento aperto e collettivo.
Mi domando se esiste davvero “qualcuno” (sia esso un individuo o un’istituzione storicamente determinata) che abbia il potere di plasmare un orizzonte simbolico.
Forse sbaglio, ma penso che un orizzonte di questo tipo sia sempre il prodotto di dinamiche circolari in cui è difficile capire chi determina che cosa.
Da un certo punto di vista, “orizzonte forte” è quasi un ossimoro. Se di “orizzonte” in senso filosofico si tratta, stiamo parlando di un insieme di condizioni di possibilità, che, a meno che non si vogliano resuscitare le vecchie ambizioni kantiane, individua una nebulosa difficile da “fondare”, da raccogliere in un solo sguardo o, peggio, da delimitare con l’accetta.
Forse la “forza” di un orizzonte del genere deriva, più che dagli effettivi concetti, metafore e simboli che lo compongono, dalla forza del soggetto che “si fa carico” di tutto questo, più che plasmarlo o imporlo.
Cerco di esprimere la cosa in modo più chiaro.
Personalmente recepisco l’indicazione di WM1 in questi termini: c’è la necessità di un nuovo orizzonte simbolico, “forte” nella misura in cui è elaborato da una collettività autoconsapevole e responsabile, capace di farsi carico di un insieme di possibilità relative al suo stesso futuro, e di rendere operativo l’immaginario che ne sta alla base.
Ammessa però la bontà di questo presupposto filosofico, rimane aperto il solito vecchio problema… dove sta oggi, in concreto, una collettività del genere? Esistono i presupposti per trasformare un’astrazione teoretica in realtà storica?
Il marxismo c’è riuscito per un po’ servendosi del concetto di “classe” (con annessa abbuffata di “padri simbolici”). Oggi cosa ci resta? Da cosa possiamo ripartire, considerato che anche la “moltitudine” ormai sembra già un relitto teoretico di epoche passate (e non è comunque riuscita a reggere il duro confronto con la dimensione pratico-politica)?
Davvero… svolazzi filosofici a parte… da dove cavolo si riparte?
Premetto che sono molto felice che Wu Ming 1 abbia ripreso le fila del discorso iniziato a Londra, un discorso che aveva stupito, che aveva lasciato interdetti chi si aspettava il solito intervento descrittivo-compilativo che di norma si presenta in sede accademica e in istituzioni prestigiose, ambiente in cui pochissimi osano sfidare le aspettative dell’uditorio, e la ragione è che di solito si cerca di non sfigurare, o peggio irritare ponendosi come contro-corrente rispetto all’impostazione teorica dominante. Ho un ricordo vivido del senso di panico nel sentire che il discorso si discostava a tal punto da ciò che i presenti si aspettavano, e la grande emozione nell’intuire che si discostava in senso, appunto, fondativo.
Per questo motivo non sono per nulla d’accordo con Regazzoni quando sostiene che
«mettere dentro Lacan-Foucault-Deleuze-Lakoff senza un orizzonte teorico chiaro che permetta di capire quale sia la cornice in cui materiali così disparati vengono usati mi pare indebolisca o al limite banalizzi il tuo discorso. Per non parlare dell’evocazione di “Videocracy”, roba buona per Gad Lerner.»
Non mi sembra affatto che fosse l’intenzione del pezzo quella di fare un calderone di filosofi à la page, ma da quanto ho letto e compreso io, mi pare piuttosto che il progetto consista nel presentare la questione da diverse prospettive e impostazioni, in modo tale che nella conclusione (e anche nei lavori in corso) si riconosca e vi possa partecipare un ampio spettro di lettori provenendo da diverse scuole di pensiero. Sappiamo bene che nella discussione una questione si connota di tratti caratteristici a seconda dell’approccio che si adotta in partenza. L’analisi della narrazione di tipo storico, per fare un esempio, apre diverse problematiche a seconda che la si affronti a partire da Ricoeur, o da Bloch o addirittura – per problemi legati strettamente a caratteristiche del testo – da Auerbach. Nonostante il punto di arrivo possa essere lo stesso, arrivarci da strade diverse significa interrogarsi secondo il più ampio spettro di problematiche offerto dalla vasta scelta di teorici e di scuole. Mi sembra inoltre abbastanza miope da parte di Regazzoni stigmatizzare a tal punto l’utilizzo di Videocracy, in quanto qui mi sembra evidente che lo si usa in qualità di documento dell’esposizione esasperata del corpo femminile in atto oggi in Italia. Capisco – perché le ho incontrate altrove – che le posizioni di Regazzoni sulla pornografia siano diverse a tal punto da far apparire questo discorso qui come moralista. Mi chiedo però se davvero il tentativo di costruzione di senso di una realtà politica che ha perso qualsiasi connessione con la realtà vera (cioè quella che si esperisce nel quotidiano, e non quella che viene rappresentata) si possa fare equivalere a un atto di moralismo, nel momento in cui questa nostra realtà che viviamo nella precarizzazione esasperata del lavoro, nelle offerte lavorative subordinate alla “bella apparenza”, nell’esperienza di dissociazione che una donna oggi in Italia fa nel constatare l’assulta divergenza fra le proprie responsabilità quotidiane (che vanno dall’essere madre, all’essere insegnante, ad espletare qualsiasi funzione pubblica o privata che esponga allo sguardo e al giudizio altrui) e il paradigma femminile instauratosi nella comunicazione mediatica.
Per quanto riguarda invece la prima tranche di questi lavori in corso pubblicati oggi, trovo che l’indicare il rifiuto del Presidente del Consiglio di porsi come Padre Severo, e quindi l’impossibilità di instaurare da sinistra un discorso di contestazione di una destra credibile al governo, sia non solo il problema politico principale di questo Paese, la causa primigenia dell’impasse che vediamo ogni giorno ovunque, ma anche la radice del senso di sconfitta che prima o poi dovremo superare, interrogandoci proprio sull’opportunità di un atto fondativo, che si stacchi da ciò che è stato e che instauri un modo di fare politica consequenziale alle mutazioni importate al modo di relazionarsi con la realtà dall’esperienza di un governo corrotto oltre la soglia della tollerabilità, considerandole (queste mutazioni) come punto di partenza e non come aberrazione da dimenticare in una damnatio memoriae che può solo fare ulteriori danni. In questo mi pare non ci sia alcun moralismo. Al contrario: ci vedo molta fiducia nella possibilità che ciò possa ancora avvenire, che non è poco davvero.
Sulla doppiezza (e non solo) della retorica berlusconiana (e quindi di certo antiberlusconismo)…
http://www.carta.org/editoriali/19851
A me sembra che certa parte di questo discorso porti agli estremi un discorso iniziato da Boltanski, per il quale il nuovo capitalismo una decina di anni fa era una aberrazione dei valori del ’68 rieditati attraverso le griglie della produzione capitalistica (scusate, ho riassunto un libro spesso 10 cm in 15 parole). Gli stessi discorsi su Marchionne sembrano riadattabili. Il frame cognitivo in cui si pone il capitalismo è quello dell’ “attacco ai poteri forti”, del “porre in discussione i privilegi” ecc. Ci penso spesso: l’idea è quella che loro stessi utilizzino una retorica falsamente simile a quella usata dai gruppi antagonisti, privandoli dello spazio di lotta, che è prima di tutto linguistico, sintattico. Si assiste al saccheggio sistematico della controcultura: dei suoi dispositivi linguistici, dei suoi modi retorici, persino di alcuni concetti cardine. Li volgarizza fino a svuotarli: per esempio la distruzione sistematica dell’immagine femminile passa per una serie di rivendicazioni dal carattere dadaistico di alcune ex modelle da calendario che inorridiscono per chi vende il proprio corpo. In Forza Italia confluirono alcuni rappresentanti della redazione del Manifesto, per esempio, i quali hanno rielaborato i concetti in modo deteriore. Costringendo coloro che han sempre giocato la parte dei figli ribelli a responsabilizzarsi, a divenire padri a fare i conti con quel ruolo rifiutato.
@ Claudia B.
«…mi pare piuttosto che il progetto consista nel presentare la questione da diverse prospettive e impostazioni, in modo tale che nella conclusione (e anche nei lavori in corso) si riconosca e vi possa partecipare un ampio spettro di lettori provenendo da diverse scuole di pensiero. Sappiamo bene che nella discussione una questione si connota di tratti caratteristici a seconda dell’approccio che si adotta in partenza.»
Infatti! Io ho cercato di dimostrare che, la si prenda dal versante psicanalitico (Lacan) o dal versante delle scienze cognitive (Lakoff), la questione di fondo si presenta comunque in modi molto simili.
Mi ha fatto molto piacere quello che ha scritto Bardok (un commentatore che, incidentalmente, conosce molto meglio di tutti noi Lacan e Badiou) in un altro thread ma sempre a proposito di questi miei appunti:
«…soprattutto mi sembra interessante il tentativo di costruire una convergenza tra psicoanalisi e scienze cognitive (le posizioni che tu hai riportato di Zizek-Lacan e Lakoff), quando invece i protagonisti del dibattito si sono esplicitamente chiusi le porte in faccia. Mi sembra che le potenzialità di lettura politica da parte di una psicoanalisi in grado di guardare in faccia il lato “duro” della psicologia sperimentale siano ancora molte.»
Premetto che ho appena compiuto vent’anni e penso di avere ben poche competenze rispetto a chi scrive qui di solito; posso provare una lettura “di pancia” senza potermi concedere riferimenti colti.
Penso che la parola “futuro” oggi sia estranea a molti dei miei coetanei; siamo la generazione post ’89, e la nostra formazione culturale è avvenuta completamente all’interno del clima del “berlusconismo”, un clima in cui è stato completamente azzerato sia il futuro (penso al precariato, che pare destinato a chi entra adesso nel mondo del lavoro), sia il passato (scomparsa della memoria provocata dal sovraccarico di informazione, fuoriuscita dall’epoca dei “grandi eventi” che coinvolgevano in prima persona e ingresso definitivo nell’era degli “eventi digitali”).
I giovani sono completamente immersi in un “presente permanente”, termine che lessi nella introduzione al “Secolo breve” che conferma la lettura dell’89 come punto critico :”La maggior parte dei giovani,alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. ” Hobsbawn.
L’imperativo del “Godi” permette a chi ha la mia età, un’età che una volta era quella della responsabilità, di vivere l’età del “nulla permanente”. La perdita del passato e del futuro crea le condizione per l’apparizione dei “bamboccioni”, nel senso di personaggi che si trovano in un limbo creato dal clima di festa generale (il “futuro” risiede al massimo a una settimana di distanza, al prossimo week end e alla prossima serata in discoteca, il “passato” è cancellato dall’alcool del week end precedente e dal comodo intontimento televisivo) non sono responsabilizzati nè nei confronti della società nè nei confronti di se stessi.
Riguardo alla televisione, voglio ricordare un atteggiamento che ho purtroppo notato in molti amici e amiche. Una studentessa con cui condividevo l’alloggio, una volta rientrata a casa, per la “stanchezza” (d’accordo lo studio non è cosa da poco, ma stiamo parlando di una ragazza di vent’anni, una ragazza che continua a seguire il suo corso di laurea con un profitto perfetto), non riusciva a fare altro che mettersi sul divano e accendere la televisione e sorbirsi Soap su Soap, Marie su Marie, Fratelli su Fratelli. Io non me la potevo prendere e ogni volta che le domandavo che gusto provasse in quel genere di trasmissioni mi rispondeva che non aveva un interesse particolare, sì, lo sapeva anche lei che tutto è montato ad hoc, però trovava i programmi “divertenti” e in qualche modo degni della sua attenzione. Può essere che il mondo moderno non offra altre alternative ai giovani se non quella di sedersi su un divano, se va bene dopo aver compiuto il proprio dovere minimo, non offra modo di appassionarsi a qualcosa?
Noi non abbiamo colpa se la realtà ci è stata consegnata in questo modo; i “bamboccioni” forse sono diventati tali perché costretti da un certo tipo di sistema culturale. Le possibilità per uscire dalla scatola ci sono, ma l’intorpidimento alcolico è generale e cade, diffuso con ogni mezzo di comunicazione, su tutta la società come una doccia calda, sensuale, a partire dal Papi, dal “Padre”, dal sovrano orientale circondato da puttane e concubine.
“Personalmente recepisco l’indicazione di WM1 in questi termini: c’è la necessità di un nuovo orizzonte simbolico, “forte” nella misura in cui è elaborato da una collettività autoconsapevole e responsabile, capace di farsi carico di un insieme di possibilità relative al suo stesso futuro, e di rendere operativo l’immaginario che ne sta alla base.”
Sono d’accordo con Don Cave, è la stessa cosa che mi ha fatto pensare ieri sera Saviano con la bandiera italiana in mano che dava degli idioti ai leghisti.
Come prima cosa vorrei scusarmi, ero convinto di aver messo il mio post in bozza, dovevo assentarmi e volevo pensarci ancora un po’, non ero affatto sicuro sia della bontà che dell’utilità delle mie riflessioni, comunque assai incomplete. Ma è partito senza che me ne accorgessi, fa niente.
Poi, una cosa a Regazzoni devo proprio dirla.
Vede, non c’è alcun problema a non essere d’accordo, ci mancherebbe. Dove invece il problema c’è, mi creda senza astio, è quel tono saccente e ultimo, che mi riporta di colpo in aula, ultimo banco, sempre con la paranoia di essere interrogato, bacchettato, e rispedito indietro con un bel 4.
E’ del tutto evidente che lei ne sa a pacchi, è un prof, un filosofo professionista, tutto quanto. Ma altrettanto con sincerità le dico: a me non frega un cazzo. Tantomeno ritengo illuminante che Drive In piacesse a Fellini. E allora?
Se per caso gli piaceva pure la Nutella, quali conclusioni dovremmo trarne? A parte quella che avrebbe goduto dal leccarla dalle tette di Tinì Cansino?
Speriamo di scampare anche alla supponenza dei suoi ‘roba buona per gad lerner’ che di certo molto lontano non dovrebbero portarci.
L.
C’è un altra parola-cardine nel frame del Padre Severo che andrebbe risemantizzata: disciplina.
Il Padre Severo è l’autorità morale che sa distinguere il bene dal male e punire i figli che non gli obbediscono. Un figlio disciplinato può farsi strada nella vita ed ottenere la sua ricompensa, grazie alla libertà (il libero mercato). Dunque la disciplina è alla base della ricchezza e c’è un legame naturale tra morale, ricchezza e autorità. Le gerarchie del potere sono anche gerarchie morali.
Nel discorso di Berlusconi – se teniamo conto della sua intera parabola – questi ingredienti ci sono tutti (il presidente operaio, l’uomo che si è fatto da sé, l’instancabile lavoratore, il cattolico devoto). Ora ci accorgiamo in modo cristallino che l’anello debole di questo frame è proprio il legame tra ricchezza e disciplina, ma non perché, incidentalmente, il ricchissimo Berlusconi è in balia dell’imperativo a godere, ma perché il turbocapitalismo ha come sbocco inevitabile della sua libertà proprio quell’imperativo. Ecco perché non possiamo rovesciare il frame berlusconiano riproponendo la disciplina del Padre Severo (parte anche lui da lì), ma non possiamo nemmeno rovesciarlo senza disciplina (sarebbe un’arte marziale poco efficace…).
“Essere i genitori” non significa farci obbedire da figli disciplinati che ci riconoscono l’autorità di distinguere il bene dal male.
“Essere i genitori” significa testimoniare, raccontare ai figli un futuro possibile, e indicare loro i sentieri che, in base alla nostra esperienza, potrebbero aiutarli a raggiungerlo. “Disciplina” significa innamorarsi di quel futuro, essere capaci di perseverare, di “continuare!” lungo un cammino che si è solo intravisto.
@ Claudia (sottoscritta da Wu Ming 1): trovo che, al di là del nucleo ripreso da Zizek, il discorso di Wu Ming 1 manchi di una cornice teorica in cui inserire i materiali disparati.
“La cornice è quella di una critica al capitalismo ipermoderno che spinge a essere “smodati”, a non darsi limiti (e senza limiti scompare l’inventiva che sviluppiamo per aggirarli), a “godere” senza preoccuparci delle conseguenze, a perdere il futuro”, scrive Wu Ming 1.
Mi dispiace, non mi sembra una cornice teorica, ma una descrizione generica del capitalismo in cui innestare alcuni autori. (Qualcosa di analogo ha fatto Mauro Magatti, della Cattolica, in “Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista”, Feltrinelli). Il risultato è, ai miei occhi, una analisi debole di un fenomeno complesso: il fenomeno Berlusconi. Ad esempio io non concordo con le analisi di Zizek, ma la cornice teorica lacaniana (più o meno ortodossa) che usa gli permette di fare analisi più sofisticate. E io credo che oggi occorra essere molto sofisticati nell’analisi se non vogliamo continuare a esorcizzare (lo si può fare in molti modi) ciò che accade.
@Simone:
sinceramente penso che la cornice teorica sofisticata che invochi – che da una prospettiva accademica è ineludibile – rischierebbe di allontanare i lettori che l’analisi di Wu Ming 1 vuole invece avvicinare. Insomma, penso che si tratti di una questione di target più che di esibire cornici teoriche. Non credo che Wu Ming si rivolga ad una élite in grado di decodificare discorsi che richiedono una competenza da dottorato di ricerca, bensì un pubblico ampio, che ama leggere storie e riconoscersi in ciò che legge. Non penso neppure che nella scelta di un registro più alla mano si nasconda una debolezza concettuale. Penso, al contrario, che questa scelta (perché di scelta si tratta) sia calibrata, appunto, sulla necessità (diciamo pure urgenza) di ricezione ampia degli argomenti che vengono qui proposti.
Questo lo dico perché nel dibattito sul NIE – che si è poi sviluppato in sede accademica esistono di fatto due approcci: uno narrativo (Wu Ming) e uno accademico per specialisti (PolifoNIE). Questi due approcci hanno semplicemente due pubblici diversi, senza che l’uno possa ritenersi più sofisticato o genericamente “migliore” dell’altro.
@ Claudia: l’esigenza di rivolgersi a un pubblico ampio la condivido in toto. Trovo esemplare il modo in cui Wu Ming 1 ha dato forma al NIE; mi pare invece che nel caso specifico non si riesca a coniugare analisi sofisticata e capacità di arrivare a un vasto pubblico. Il discorso si arena, mi pare, nelle secche di un discorso critico che si fa a sinistra oggi su Berlusconi.
Simone, il tuo puntiglio mi produce un dejà vu, perché ricorda – e pure tanto – l’atteggiamento dei trombonazzi che definivano “boiata” il memorandum sul NIE perché non era scritto in teorichese marziano. Se poi gli chiedevi di sostanziare la critica, al massimo tiravano fuori due-tre frasi poverine sul fatto che “non esiste nessun NIE”, che “epica” è X e non Y etc.
E’ che la “cornice” bisogna anche essere disposti a vederla, anche e soprattutto dove non si mostra come ce la si aspetta. Se la si dichiara a priori inesistente (e si dichiarano non-problematici i problemi) hai voglia a pretendere chiarimenti: nulla potrebbe mai soddisfarti, continueresti a dire: no, non basta, questa non è davvero una cornice etc. etc. Col risultato che questo thread si ridurrebbe a un ping pong, e anziché parlare del “potere pappone” e del berlusconismo, staremmo tutti qui a gratificare il tuo ego, che però per noi sarebbe un super-ego con tanto di imperativo “Chiarisci!” :-)
@ Wu Ming: l’idea che tutti, anzi tutt*, gratifichiate il mio ego è allettante, ma per amore di ascetismo rinuncerò (il che, naturalmente, provocherà un surplus di godimento come ogni buon asceta o aspirante tale sa benissimo). Tu in realtà hai risposto alla mia richiesta di chiarimento. Quindi per me va bene così. Ti dico quali sono le mie perplessità. Credo che l’analisi di Berlusconi debba essere intesa come analisi di una fiction potentissima che riarticola, nell’epoca dei nuovi media, la dimensione fittizia che da sempre alberga nella sovranità. Ora questa fiction non solo ha diverse linee narrative ma ogni linea lavora su un genere diverso. C’è anche la commedia eroticomica, ma fare di questa linea narrativa-genere il tutto, significa rischiare di perdere di vista la complessità della narrazione. Ora, la critica di sinistra, e mi pare anche la tua, focalizzandosi solo su questo punto non coglie l’articolazione del potere berlusconiano perché scambia una linea-genere per il tutto: potere-pappone. Quasi ci trovassimo di fronte a “Eliogabalo o l’anarchico incoronato” di Artaud. Il terreno naturalmente si presta alla critica: anche perché produce godimento in chi critica. Penso al graphic novel dell’Unità sul caso Ruby. Penso a tutte le trasmissioni di Lerner sul corpo della donna. Ma occorre resistere da veri asceti alla tentazione di partecipare in modo subordianto alla fiction berlusconiana. Io in questo mi sento terribilmente ascetico.
.
.
” IL GOVERNO E’ IL PIU’ GRANDE PAPPONE ”
– 200 prostitute francesi occupano la Chiesa di St. Nizier, Lione 1975
” NESSUNO FOTTE PIU’ PROSTITUTE DEL GOVERNO ”
– E.C.P. English Collective of Prostitute, Londra 1982
Niente di nuovo sul fronte occidentale? Forse sì.
Con piacere, accolgo l’idea di accostare materiali disparati (molto disparati, rispetto a quello della Tenutaria del “Corpo delle Donne”) Metto perciò, anche qui come contributo”, questo link informativo con materiale video e di scrittura a proposito di quello che sembra essere il soggetto HOT, augurandomi che possa magari aiutare anche Wuming1 al prosieguo del suo articolo, suggerendo in particolare a lui, la storia di Norma Jean Almodovar. Ho l’impressione che potrebbe aiutarlo in corso d’opera.
POWER TOOL – (75′)
http://www.micropunta.it/powertothesisters/
Non saprei se “moralista” sia un parola su cui mettere energia, magari sì… di sicuro una da disinnescare alla svelta è “puttana” così poi vediamo dove si colloca “pappone”. A proposito di “potere pappone” la storia a Luci Rosse non fa mai eccezioni. Se c’è Il Pappone, cadrà per mano delle sue Puttane. Sempre.
“Il cliente è il lupo ma la puttana ha i denti più lunghi.” illustrava una volta Pia Covre.
Si aprono quindi anche narrazioni diverse? Speriamo. Abbiamo iniziato alla fine degli anni ’80, con la collaborazione di alcune Operaie del Sesso, di Squillo d’Alto Bordo, di alcuni Collettivi di Sex Workers, e con Donne che hanno fatto la storia della prostituzione.
La STRADA è lunga, ci vorrano anni e anni, forse non ci sarà il tempo, ma “l’implosione sistemica” comincia a rendere visibile la vastità del fenomeno, e non solo in Italia.
Ora che il soggetto è praticamente monotematico nei media italiani da più di un anno, ora che le contraddizioni finalmente vengono a galla esplodendo d’appertutto e in modo grottesco, vediamo se il paese (SPECIALMENTE QUESTO PAESE) continua a spalare l’acqua col forcone o se si mette in testa che la strada – SE VERAMENTE l’ intenzione è fare un passo avanti e non venti indietro – è dare DIRITTI CIVILI – gli stessi degli altri cittadini- a chi lavora nell’ Industria del Sesso, e poi dopo magari, ci mettiamo a discettare sulla “prostituzione”(non mi riferisco a Wuming).
Parafrasando il pioniere della PIMP Art Stickyboy: “PANDORA. Scoperchiamo stò cazzo di vaso.”
WORK In Progress.
xxx
Madame Anais
Istituto Micropunta
Prendendo spunto da micropunta: una buona risposta di sinistra alla linea narrativa eroticomica di Berlusconi per me sarebbe stata quella di proporre la regolarizzazione delle “sex workers” in Italia sul modello della legge tedesca.
Simone, questa è l’ultima, poi non ti defeco più:
“Ora, la critica di sinistra, e mi pare anche la tua, focalizzandosi solo su questo punto non coglie l’articolazione del potere berlusconiano perché scambia una linea-genere per il tutto: potere-pappone.”
Veramente, io il concetto di “Potere Pappone” non l’ho ancora spiegato, non ho spiegato cosa intendo, il concetto appare solo nel titolo generale delle note, me ne occuperò solo più avanti, come fai a sapere già di che si tratta? Leggi nel pensiero?
E in base a cosa dici che io mi starei focalizzando solo sul punto del sesso, quando invece introduco la tematica specifica solo nelle ultimissime righe del post, rinviando peraltro alla prossima puntata?
Inoltre, nella premessa mi sono fortemente differenziato dall’attitudine corrente a sinistra verso il berlusconismo, che trovo segnata dalla melancolia o dalla paranoia, critiche tutte “personalizzate”, inscritte in una temporalità che non può essere nostra. In diversi post, infatti, abbiamo descritto l’antiberlusconismo – badiouescamente – come una “corsa di topi”.
Io ho descritto Berlusconi come un *vuoto*, cosa che non mi pare sia molto solita.
Invece secondo te la mia impostazione non differirebbe in nulla da una non meglio precisata “critica di sinistra”.
Mi sembra evidente che in questo post hai voluto leggere quel che ti pareva. Dopo il DiaMat (cristalizzazione del materialismo dialettico) ecco a voi il CazDec (decostruzionismo alla cazzo).
Non ci credo. Davvero. Non ci credo che qualcuno pensi sul serio che per uscire da questo pantano ciò che serve sono “cornici teoriche che permettano analisi molto sofisticate”. In un paese analfabetizzato, anaffettivo, incapace di sollevare la testa e lo sguardo. Il discorso di wu ming 1 è già molto, molto al limite, già alza l’asticella di tanto, altro che secche del solito discorso su berlusconi. Regazzoni, lei se lo fa ogni tanto un giro in strada?, se le fa ogni tanto due chiacchiere con non dottori o dottorandi fuori da lezioni e seminari?
No, si tratta della posa per essere sicuri di riuscire in primo piano nella foto, per forza.
Questo non è un blog della Cattolica per fortuna. Ci sono ragazzi di vent’anni, che forse se ne sbattono i coglioni di Lacan e pure di Zizek, ma c’hanno voglia di capire, di interrogarsi, e anche di stare dentro un discorso in modo non contemplativo, portando quello che sentono, riflessioni su ciò che leggono, che vedono e che vivono. E ogni volta che li vedo qui sopra intervenire, io respiro.
Sono sconcertato.
L.
@ Wu Ming1: scusami davvero pensavo che il godimento superegoico con cui apri e su cui incardini il tuo ragionamento avesse a che fare con la sessualità! Non so davvero come sia potuto succedere: proiezioni, credo. Leggevo godimento e pensavo a sessualità, peggio a sessualità fallica. Devono essere residui di letture freudiane e lacaniane. Sì deve essere così. Ma naturalmente tu parlavi d’altro non è così? Quando qualcuno fa obiezioni nel merito se uno crede può rispondere oppure no. Ma le furbate di solito non pagano. Sono solo cadute di stile.
@ luca: scusami, sai è il vizio del vecchio barone. In strada non scendo mai. Contemplo tutto dai miei uffici con poltrone in pelle umana. Non ci credi?
E va bene: ti defeco ancora una volta, l’ultima. Gli esempi di imperativo “Godi!” e di godimento li ho fatti e sono lì nero-su-bianco: fare quel cazzo che si vuole, poter evadere le tasse impunemente, guidare senza limiti di velocità, poter falsificare i libri contabili, poter abbandonarsi al turpiloquio e anche alle bestemmie in pubblico, poter fare i bambini capricciosi tanto nessuno ti rimprovera, negare l’invecchiamento con ogni mezzo, “rifarsi” senza limiti, poter dire cose razziste e sessiste senza vergogna. Nero su bianco. Se secondo te qui stavo parlando “solo” di sesso, io dico solo: il libro sul porno l’hai finito. Comincia a pensare anche ad altro. Fine.
Quoto Luca: complimenti a giacomo m. per l’intervento qui sopra.
Dopoiché, al netto delle molte parole spese, mi pare di capire che la critica che si muove all’analisi fatta da Wu Ming 1 (a parte l’eccesso di eclettismo) è che la narrazione-Berlusconi non può essere ridotta a uno dei suoi aspetti. Questo è il punto. L’accusa quindi è di parzialità dell’analisi, di scegliere una parte per il tutto. Capisco bene? (E scusate se non citerò nessuno, ma io sono DAVVERO ignorante). Ma qual è questa parte tanto “parziale”? Non certo il discorso sul sesso. Quello che io leggo a chiare lettere nel pezzo di WM1 è una definizione di Berlusconi come grande assolutore, predicatore del lasciar fare etico. La questione non riguarda soltanto un certo modo di relazionarsi al femminile, il discorso è ben più ampio. Berlusconi non assolve soltanto il puttaniere, ma soprattutto l’evasore fiscale, l’edificatore abusivo, l’esportatore di capitali, il nepotista, il fedele ipocrita, etc. etc. In questo incarna un paradigma del potere diverso dal passato: tutti i suddetti comportamenti erano pratica diffusa anche prima, ma si tenevano celati, non erano manifesti e non diventavano qualità positive di cui il potere si facesse platealmente connivente.
Dunque forse bisognerebbe innanzi tutto chiarire se questa analisi di WM1 la si considera falsa oppure no. Io finora non ho letto una mezza riga che accenni a smontarla. Si fa una critica di metodo, ma non di merito e si passa direttamente a proporre una nuova battaglia alla sinistra: quella per i diritti delle lavoratrici del sesso. Ben venga qualunque battaglia sui diritti, ma la questione posta, era, come dire… un tantino più complessa.
Chiedo scusa, mi sono sovrapposto a WM1, scrivendo più o meno le stesse cose. Amen.
Il discorso, con tono diverso e sapendo di avere comunque di fronte un altro atteggiamento, lo faccio anche a Madame Anais:
capisco il coinvolgimento diretto e la passione per il tema; non solo capisco: apprezzo. Però dài, non va bene che ogni discussione sul godimento – qui come su altri blog – venga interpretata come una discussione sulla prostituzione, anzi, un pro o contro la prostituzione, come se fosse l’unica declinazione del tema, anche quando il focus è su tutt’altro. In questo post non parlo del soggetto sex worker, ma della figura del padre. Se anche in questo caso l’appiglio è sulla parola “Pappone”, ribadisco: non l’ho ancora argomentata, riponiamo la sfera di cristallo. Se invece è per la parola “puttane” che appare una volta dentro il “Discorso di Berlusconi”, quello è discorso libero indiretto, non vuol dire che il ragionamento sia su quello. Dopodiché, è vero che “tutto c’entra con tutto”, ma nel discutere bisogna mettere a fuoco aspetti specifici. Detto ciò: ben contento di discutere con te di sex workers, ma in un’altra occasione. Ti ringrazio dei suggerimenti.
P.S. sono d’accordissimo sul fatto che a liberarsi dei magnaccia devono essere le puttane (quelle che ce li hanno, ovviamente). Non sarà la Buoncostume a liberarle, e nemmeno qualche “benefattore”. E’ lo sfruttato che può negare lo sfruttamento, non soggetti estranei a quel rapporto.
Con un po’ di livore, ma confermi quello che ho scritto (e non potrebbe essere altrimenti): il godimento e i tuoi esempi sono naturalmente legati alla sessualità. Ti informo che in sé non c’è niente di male. Nemmeno nel guardare i porno, tranquillo, anche se per caso non ci dovessi scrivere un libro. Comincia a pensarci, così sarai più libero nell’analisi del potere berlusconiano. Meno ossessionato dal godimento di B.
@wm4:
io la lettura più grandiosa l’ho vista addosso a un manifestante tempo fa: una maschera con il volto di Berlusconi con scritto “specchio semiotico”. La non esauribilità dei punti di vista sta proprio lì: lui è tutto il contrario di tutto, è LA contraddizione. E’ stato a favore di mani pulite, poi contro. Giustizialista, poi garantista. A favore della famiglia e poi della prostituzione, in futuro antiproibizionista e prima il contrario. A ogni nuovo evento, lui è come deve essere per stare dove è. E’ stregato dall’anello, e fa di tutto per tenerselo. Somiglia a uno che ha iniziato la sua carriera politica come anticlericale e ha firmato patti lateranensi. Il discorso sul padre lo vedo dopo: prima vedo alcune antinomie tipiche di quello che Eco ha definito iil fascismo eterno, un testo incredibile che o scoperto grazie al dibattito sul NIE. Grazie, wuminghi.
cazzo, una i in più ho dimenticato una h!!!
*Tutto* è legato alla sessualità, di riffa o di raffa, dato che noi siamo esseri sessuati. Quindi sì, anche falsificare i libri contabili e raccontare barzellette sugli zingari, in qualche modo, per vie più o meno traverse, hanno a che fare con la sessualità. Ma ricorrere a quest’argomento è un ben misero escamotage, povero di senso e portatore di nessun contributo significativo. Principalmente perché non vuol dire che ogni godimento sia in senso stretto sessuale o che parlando di Berlusconi come “grande assolutore” si parli solo di sesso (e vai con l’accusa di “bacchettonismo”). Reich credeva agli orgoni, ma era una cazzata.
@ Wu Ming 4: va bene, diciamo pure ( se così vi piace), che il discorso (zizekiano-lacaniano) sul godimento non avrebbe a che fare con la sessualità. Bene. Resta il punto che è solo una delle linee narrative berlusconiane che nell’analisi vale per il tutto del potere perché dovrebbe spiegare il funzionamento del “Discorso berlusconiano”.
@Simone R.
Il discorso sul godimento ha a che fare con la sessualità, ci mancherebbe. Ma non SOLO con quella.
E poi: il discorso è parziale, ne sono convinto anch’io, ma sono convinto che le linee narrative berlusconiane si tengano l’una con l’altra (ad es: l’imperativo “Godi!”, secondo me, è una conseguenza prima o poi inevitabile del frame “Padre Severo”.). Quindi, se tutto si tiene, allora posso partire da un filo e piano piano riavvolgere tutto il gomitolo. Non a caso, questa è la prima parte di un’analisi più vasta. Non può che essere…parziale.
Inoltre: questa è la prima parte di un’analisi che nasce da un’esigenza narrativa. Come raccontare Berlusconi agli stranieri che non lo concepiscono. L’eclettismo teorico nasce anche da lì: siamo un collettivo di narratori, i concetti ci servono per costruire storie, e spesso capiamo i concetti solo attraverso la narrazione e la ricerca linguistica.
Mi rendo conto che per un filosofo questo è poco rigoroso, anche se una via letteraria alla filosofia è stata spesso tentata, da giganti molto più grandi di noi, con ottimi risultati.
@ Wu Ming 2: ora la smetto, non sono qui per accanimento, ci mancherebbe. Sono in parte d’accordo con quello che scrivi, benché tenderei ad articolare in un intreccio più complesso la narrazione berlusconiana. E’ questo ciò che mi sta a cuore. E’ vero, questa è solo la prima parte dell’analisi di Wu Ming 1. Mi è sembrato di cogliere, se sbaglio chiedo venia, una chiave di lettura del discorso berlusconiano in toto nel tema del “godimento”. Leggerò anche il resto.
Nessuno ha sostenuto che il godimento “non abbia a che fare con la sessualità”. Come nessuno ha preteso di spiegare in modo completo il fenomeno Berlusconi.
Inoltre, penso che si possa scrivere un commento anche senza infilare/rifilare sempre le parole “zizekiano” o “lacaniano” o “zizekiano-lacaniano”. A rigore, per impostare un discorso come quello sopra non sarebbe nemmeno necessario passare per Lacan o Zizek: la dinamica è intuibile e comprensibile anche senza “buone letture”, inoltre ho fatto vedere che ci si arriva anche passando per Lakoff, che con Lacan o Zizek non ha nulla a che fare. A volte un’interiorizzata muraglia di Nomi Importanti può ostacolare la comprensione di un testo anziché facilitarla.
@ Simone Regazzoni
Io non so se la parte possa valere per il tutto. L’analisi di WM1 è soltanto all’inizio, come è stato detto. Il punto è che quella parte (il fornire assoluzione, lo sdoganare certi comportamenti) mi sembra rappresentare una discontinuità evidente con il passato e inaugurare un cambiamento nel paradigma del potere, che in questa sua nuova veste abdica alla retorica e alla simbologia paterna e in un certo senso realizza propriamente il liberismo sbarazzandosi anche del freno etico. Credo che il reiterato successo politico di Berlusconi nasca da questo scarto, cioè dalla specifica funzione che ha saputo esercitare, dal coacervo di interessi che ha saputo incarnare, e non dalla sua abilità imbonitoria, come certa sinistra si ostina paternalisticamente e snobisticamente a credere. Questo è un punto fermo dell’analisi di WM1, mi pare. Ribadisco che se non si ritiene convincente tale considerazione, allora la si contesti esponendo argomentazioni diverse o contrarie.
@ Wu Ming 1:
Altroché se si può scrivere un commento senza tirare in ballo Zizek e Lacan. L’ho appena fatto.
–
–
@Wuming1
?????Ti ho solo suggerito materiale per il tuo prosieguo che mi pare vada in quella direzione. E ci va. Chi l’ha postato il Corpo delle Donne??
Aggiungo solo che sono convinta sia una parte rilevante di tutto il discorso. La “prostituzione” SE capita, è uno degli strumenti più importanti che abbiamo per capire molte altre cose che sembrano apparentemente lontane. Certo bisogna capire cos’è, prima, e senza offesa (sincera) mi sembra che non sia proprio il caso….(da cosa deve essere assolto un puttaniere? Qual’è l’associazione negativa esattamente e da dove viene? Su cosa si basa? interessante ma ne parliamo quando parleremo di “Sex Workers”, in una discussione a margine di questa.)
La trovi una coincidenza o un fatto non rilevante che il Tuo TITOLO sposi perfettamente gli slogan delle prostitute di 35 anni fa? Beh, Ti assicuro che non lo è. Fatti solo venire un dubbio e pensaci.
Sugli “altri blog” che citi …. pensa che scema…siccome leggo “puttana troia mignotte zoccole pappone puttaniere prostitute berlusconi” da un anno mezzo dappertutto pensavo che in qualche modo centrasse.
Ti saluto
xxx
Madame Anais
“Il corpo delle donne” non è un documentario sulla prostituzione, ma sulla rappresentazione della donna nell’intrattenimento televisivo italiano. Il motivo per cui l’ho postato l’ho scritto – mi sembra – in modo chiaro, ed è lo stesso per cui ho nominato “Videocracy”: sono due documentari che, anche all’estero, hanno mostrato come la televisione generalista italiana (medium e mondo di riferimento del berlusconismo) viva di un immaginario “iper-sessualizzato” che al momento non trova corrispettivi in alcuna altra tv generalista del mondo. Questo lo prendo come epitome del fatto che oggi “il problema non è la censura dell’immaginario sessuale”, ma un conclamato uso politico di tale immaginario (inteso proprio come “imagery”, insieme di immagini), che ci viene proposto ossessivamente, in un vero bombardamento a tappeto. Una prassi incentrata sulla lotta contro una presunta censura sessuofobica mancherebbe clamorosamente il bersaglio e somiglierebbe a una schermaglia contro fantasmi di quarant’anni fa.
“Ci sono ragazzi di vent’anni, che forse se ne sbattono i coglioni di Lacan e pure di Zizek, ma c’hanno voglia di capire, di interrogarsi”
spiacente, Luca, ma uno degli effetti dell’imperativo categorico del capitalismo del consumismo totalitario attuale “godi” è proprio il rifiuto della fatica a qualsiasi livello, in primo luogo a quello conoscitivo. Già i greci, che vivevano in un mondo molto meno complesso del nostro, avevano capito che imparare è fatica. Di più, è dolore. Se hai voglia di capire, DEVI avere voglia di studiare, e quindi NON PUOI sbattertene i coglioni nè di Lacan nè di Zizek. Piaccia o meno, viviamo in una società estremamente complessa, e la complessità la si affronta solo studiando, studiando e studiando ancora.
x Wu ming 4:
“la televisione generalista italiana (medium e mondo di riferimento del berlusconismo) viva di un immaginario “iper-sessualizzato” che al momento non trova corrispettivi in alcuna altra tv generalista del mondo”
ehm…hai provato a chiedere ai tuoi conoscenti in giro per l’Europa com’è l’edizione locale del Grande Fratello, solo per citare il programma più famoso? No, perchè a me risulta che siamo a livelli di film porno in presa diretta, almeno in Inghilterra, Olanda e Scandinavia….
“Questo lo prendo come epitome del fatto che oggi “il problema non è la censura dell’immaginario sessuale”,”
il problema è la censura del sesso come libera scelta, che non esiste laddove il sesso viene imposto come oggetto di consumo. Quando la sessualità è ridotta a imitare i film porno (la maggior parte dei miei compagni di classe delle superiori la pensava, e agiva di conseguenza, esattamente così), non è più niente. Il sesso consumistico è una schiavitù peggiore del sesso censurato, perchè nel secondo caso la repressione è evidente, e quindi la pulsione a liberartene è forte, nel primo, credi che la ginnastica sessuale sia sesso. Non esiste servo peggiore di chi si crede libero, ed è questo l’uovo di Colombo su cui si regge il capitalismo attuale. Già lo era per i consumi “normali”, con la “liberazione” del sesso il capitale ha trovato la quadratura del cerchio.
“Il Corpo delle Donne” non è un documentario. Ma una pericolosa rappresentazione monocorde che si appiattisce sulla voce, patetica, dell’autrice che manca clamorosamente il bersaglio.
Il discorso sulla lotta che fai dovresti ribaltarlo e farlo all’autrice del film, è la prima, che va a farfalle.
Anzi, ti assicuro che per come l’hai posto nell’articolo si potrebbe benissimo pensare che ce l’hai, giustamente, col film ;)
Non sono io a dire tutti i giorni che la televisone italiana assomiglia a un Peep Show. I Peep Show dove stanno?
Buonanotte
xxx
M.dme Anais
Il Potere Pappone…
Commento a questo post I miei figli ventenni spesso, ascoltando musica contemporanea, cadono in una sorta di trappola “della memoria”: scambiano le cover per opere d’arte, ma, se gli faccio ascoltare gli originali, smettono quasi sem…
@ micropunta:
Che il documentario della Zanardo non ti sia piaciuto è chiaro a tutti. Il perché invece no, ma evidentemente non reputi necessario o utile spiegarcelo. Più facile sputare sentenze. Chiunque può valutare da sé quanto siano utili alla discussione.
Buonanotte davvero. Ai suonatori.
@ amaryllide
se non sbaglio, “Big Brother” è TV generalista (in chiaro e rivolta a una grande audience indifferenziata) solo una sera alla settimana, e durante quella sera tutto è molto più controllato e “nazional-popolare”. La trasmissione dalla casa è in diretta 24h su 24 solo per chi la segue in live streaming o su un canale satellitare tematico, e c’è un delay di dieci minuti, in realtà è una differita. Il ritardo serve proprio per censurare eventuali cose sgradite.
Detto questo, tutti gli osservatori stranieri constatano che nei loro paesi non c’è nulla di paragonabile a programmi “per famiglie” che vanno in onda di giorno sulla TV pubblica in cui si vedono tette, culi, riprese para-ginecologiche etc. Una cosa come “Buona domenica” è peculiarmente italiana. La seguente constatazione:
“On television, the Italian penchant for adorning soundstages with skimpily clad, surgically enhanced showgirls has radically metastasized, spilling over from game shows to all forms of entertainment, including the nightly news.”
l’ha pubblicata l’anno scorso il NYT. E osservazioni come quella si sono moltiplicate nel corso degli anni dopo il reportage di Tobias Jones “My Italian TV Hell”, uscito nel 2003 sul “Financial Times”.
“tutti gli osservatori stranieri constatano che nei loro paesi non c’è nulla di paragonabile a programmi “per famiglie” che vanno in onda di giorno sulla TV pubblica in cui si vedono tette, culi, riprese para-ginecologiche”
su questo non ci piove. Il problema è quando si dice che questo modello di tv è finalizzato al “tu godi” e contemporaneamente si dice che quello è l’imperativo categorico del capitalismo attuale (e quindi non solo italiano). Perchè allora, a parità di dominio capitalista, quell’imperativo non si traduce in una televisione identica in tutto i paesi a capitalismo avanzato? Evidentemente c’è qualcosa d’altro nel modello italiano, che è stato introdotto da Berlusconi. Perchè SOLO in Italia può regnare la pornocrazia , laddove altrove per un pompino rischi l’impeachment?
Bonsoir, wm.
Sono Christian Raimo. Sono contento di quest’intervento, perché va nella stessa direzione di ragionamento che con una serie di persone (tipo Giorgio Vasta, o Nicola Lagioia, o Stefano Laffi) provavo a fare, e in privato e in pubblico.
Proprio domani o dopodomani dovrebbe uscire sul manifesto un articolo che partiva dalle stesse premesse, in definitiva la lettura dell’Uomo senza inconscio di Recalcati, che fornisce una griglia interpretativa efficace (quella psicanalitica) rispetto alla figura simbolica e alla figura retorica Berlusconi. (Lo copio in calce qui sotto, l’articolo).
Recalcati (il piano psicanalitico) funziona soprattutto quando ci si accorge che non funzionano le altre strategie: il piano morale, quello politico, quello giudiziario, quello culturale, finanche quello linguistico (pare, se si prende giustamente per buono il disclaimer che viene messo all’inizio dell’articolo, e che per esempio è lo stesso che sta all’inizio di Spaesamento di Vasta, o di discorsi simili che da un anno in qua sta facendo Giulio Mozzi – Berlusconi come sostituto del soggetto sottinteso).
Se sul piano linguistico, forse occorre fare uno sforzo in più d’interpretazione e d’attacco. E un libro di riferimento per me è stato Parole che provocano di Judith Butler. L’analisi che credo manchi ancora è quella dell’esondazione del discorso performativo a scapito del dialettico. E mi piacerebbe per esempio analizzare questo fenomeno sconcertante non nella sua fenomenologia ostentata (la decostruzione del linguaggio pubblicitario che Berlusconi ha sdoganato) ma nella sua sistematizzazione teorica. Un esempio da analizzare? L’enorme diffusione dei libri della PNL oggi in Italia.
Sul piano del discorso psicanalitico sembra è vero che Recalcati (e Lacan quindi, attraverso anche il suo divulgatore Zizek) ci fornisca uno strumentario formidabile. Ma qui il rischio che abbiamo è di vedere, a mio avviso, in Berlusconi non la sineddoche ma l’epitome del fenomeno Italia. E quindi di non analizzare con sufficiente perizia, altre nuove figure di paternità che andrebbero a sostituire quel posto vuoto lasciato dall’evaporazione di un padre severo che invece si presenta trasgressivo, e inneggiante all’imperativo Godi!
Mi riferisco alla trasmissione così precisamente “paterna” andata in onda su Rai 3 ieri e alle retoriche paterne che ieri sono state messe al lavoro (Saviano e Fazio, in primis) e che vengono sempre più utilizzate.
Ossia, provo a spiegarmi. L’espressione wallaciana Dobbiamo essere i genitori non è neutra. E rischia di essere interpretata (come spesso accade nelle analisi di Wu ming) non come esortativa, ma come prescrittiva.
Questo tono, di prescrizione alla paternità, di assunzione di responsabilità, di presa in carico di un ruolo di garanzia morale che supplice quel vuoto super-egoico lasciato da Berlusconi, lo si comincia a ritrovare come una nuova e ambivalente retorica nei monologhi di Saviano, nei discorsi di Fini, in quelli di Bersani, in quelli dei rottamatori Renzi e Civati – non a caso, lo dico da maschio, tutti maschi.
E’ un discorso che non volendo, a mio avviso, toglie di nuovo la possibilità di dialettica che avevamo ritrovato. Il genitore che dovremmo essere, per dire, è un genitore che non ha fatto prima i conti con la SUA evaporazione del padre, ma soltanto con quella pubblica. Se non lo fa rischia di ritrovarsi di nuovo incapace di dinamica: di autocritica.
Per spiegarmi, Saviano riesce a mostrare ciò che manca all’Italia, ma allo stesso tempo mi mostra un suo lato patologico – un narcisismo da manuale – che ha a che fare proprio con quella che definirei la “questione maschile”.
In questo senso un piccolo libro da cui ripartire è forse Essere maschi di Stefano Ciccone.
Copio e incollo l’articolo ispirato alla lettura di Recalcati e metto anche tre link (http://www.minimaetmoralia.it/?p=3118 e http://www.nazioneindiana.com/2010/08/13/la-performativita-vuota-di-berlusconi-idee-per-un-nuovo-discorso-di-sinistra/e http://www.nazioneindiana.com/2010/08/14/il-vicolo-cieco-delle-icone/ )
ad altre cose che ho scritto (non per coazione verbigerante, spero, ma proprio perché questo discorso mi sembra molto urgente oggi e qui)
L’antiamore
Facciamo un’ipotesi. Immaginiamo che nei prossimi tempi venga fuori un video. Venti minuti che ritraggono un rapporto sessuale di Berlusconi con qualcuna delle sue ragazze pagate. Non si sa chi l’ha fatto, non si sa chi come è arrivato alla tale redazione, non si sa se c’è un ricatto dietro… Le reazioni sarebbero ovviamente clamorose. L’opposizione, i giudici, i giornali, l’opinione pubblica, la Chiesa, chiunque: quello che succede ogni volta elevato all’ennesima potenza.
E mettiamo che nel video si veda – come per uno qualsiasi dei tanti filmati che vengono caricati ogni giorno su youporn – un Berlusconi che goda e faccia godere questa ragazza, scherzi, mosse da macho, parolacce, sculacciate, pose erotiche: una scopata come tante. Ma mettiamo ancora che il giorno dopo, Berlusconi invece di dimettersi da ogni ruolo pubblico, di nascondersi sommerso dalla vergogna, di ammettere di avere avuto un comportamento dissoluto, di essere ormai incontenibile, o di essere malato addirittura; ancora una volta rilanci e dica: “Avete visto, ho settantacinque anni, e mi faccio minimo una donna al giorno”. Dichiarazioni indignate, manifestazioni in piazza, scomuniche.
Potrebbe esserci un rimpasto di governo. Un rimescolamento politico globale. Elezioni. Campagne moralizzatrici. Eccetera. E poi? Altri video. Dichiarazioni a gò gò. Sputtanamenti incrociati. Una sessuopoli che coinvolge politici e vari e eventuali. E poi?
Ossia. È davvero questo che stiamo aspettando? Una scena orgiastica terminale che ci faccia veramente dire basta a questo tardo impero prolungato oltre ogni limite? E se invece il sentimento di massa fosse l’opposto di quello che pensiamo ci accomuni? E se gli italiani non volessero (come auspicava Vendola nella sua videolettera) un paese più sobrio, e rispetto a un video del genere, alzassero invece le spalle, o provassero anche un po’ di arrapamento, o di invidia – come di fronte alle foto di Ruby o di Nadia Macrì postate con grande dovizia sui siti di Repubblica.it o del Corriere.it, dicessero: “Sorca questa”. Così, senza vergogna.
Dall’altra parte, in attesa del momento del crollo definitivo, del tempo di non ritorno, con queste crisi ormai cicliche del modello berlusconiano, ogni volta tentiamo di trovare quale sia il punto critico che, come in un sistema di leve instabili, faccia crollare tutto il moloch. C’è per esempio chi dice che a parte tutto la vera questione è quella della legalità (1): è un reato andare con le minorenni, è un reato l’abuso di potere, è un reato gestire palazzo Chigi come la propria garconniere. C’è chi non è d’accordo e ribatte che la vera questione è quella del declino del ruolo delle istituzioni (2): un presidente del consiglio puttaniere non è una bella immagine, chi ci dovrebbe rappresentare nel mondo ci fa vergognare e ridere dietro. Ma per altri il punto non è ancora centrato, per qualcuno si tratta piuttosto di una questione di sicurezza (3): abbiamo un premier ricattabile, in balia dei suoi ruffiani e delle marchette malintenzionate. O ancora, c’è chi replica che anche questo non c’entra nulla, il vero nodo è la questione morale (4): avete presente con che schifoso corruttore di ragazzine, rimestatore di ciarpame, abbiamo a che fare? avete presente quanto quest’uomo se ne frega delle regole, perfino quelle del più comune senso del pudore? E c’è pure chi non è d’accordo con nessuna di queste prospettive e sostiene che l’unico discorso che andrebbe sostenuto è quello politico (5): questo governo non sta facendo nulla per il bene del paese, paralizzato dall’infinito vortice delle beghe sessuali e giudiziarie del suo leader.
E potremmo continuare, o ricominciare da capo.
La cruda realtà però è che su nessuno di questi piani è stata possibile fino ad ora una sconfitta ultimativa di Berlusconi ipse e – soprattutto – della sua cultura. Ogni contrasto possibile, o anche tutte queste formule di denuncia messe insieme non hanno dato un risultato acquisito, e soprattutto ci lasciano con l’inquietante sensazione che – a Berlusconi sconfitto, uscito dall’agone, morto – lo scenario sociale e politico che si aprirebbe potrebbe essere anche peggiore.
Qual è forse allora il rimosso che non vogliamo considerare, cos’è che ci permetterebbe di capire quale è il volto del potere berlusconiano? Paradossalmente, la vera facies di Berlusconi è proprio quella che abbiamo di fronte agli occhi. Perché in fondo lui non fa altro che portare l’osceno (l’ob-sceno, quello che è fuori dalla scena) in primo piano. Gli affidi lampo delle igieniste dentali, le selezioni all’ingresso di Fede, le canzoni di Apicella, le barzellette su negri, troie & froci: vi sembra che tutto questo sia nascosto nel suo comportamento? vi sembra che Berlusconi occulti una parte del suo carattere e dei suoi modi di fare?
E allora domandiamoci piuttosto qual è la più profonda oscenità che ci mostra? Non l’illegalità, non l’immoralità, non la volgarità, non l’incompetenza politica. Ma una lesione più lacerante – perché è quella che ci attraversa. Una ferita che abbiamo difficoltà a riconoscere perché riguarda anche noi.
La verità è che le vicende sessuali del nostro presidente del consiglio mettono in evidenza il funzionamento del capitalismo nella sua versione più cristallina, e elementare, indifferente all’umano. L’osceno che ci viene spalancato non è quello di un capo di stato settantaquattrenne che va con le ragazzine infischiandosene della sua sicurezza personale e del buon nome delle istituzioni. No: l’osceno è il consumo dell’essere umano come gadget. Un cinismo abissale mescolato a un narcisismo patologico che ci fa pensare che gli esseri umani siano cose di basso valore. A questo sono state ridotte le Ruby e le Noemi. A puri oggetti. A piccole icone portatili. A nomi sulla bocca di tutti. E non solo perché prostitute, ragazze-immagine (come si dice in un neologismo accettato e aberrante), ma perché figure completamente svincolate dalla loro umanità.
La domanda allora diventa un’altra. Non è più Come far cadere Berlusconi?, ma Noi, sapremmo restituirgli questa umanità? Quando, per fare un esempio apparentemente moralista, clicchiamo sulle foto di Ruby sugli schermi dei nostri computer, quale differenza profonda c’è tra noi e Berlusconi che esamina i photo-book che gli procura Emilio Fede? Quale diversità sostanziale c’è tra il ballare il bunga bunga e lo scaricarsi il nuovo calendario di Maxim reclamizzato ieri dal Corriere in questo modo: Jihane senza veli – Marocchina (come Ruby) da calendario? Ogni volta, cos’è che stiamo pensando?
È forse in questo senso che potremmo comprendere perché il piano sul quale si può sconfiggere il berlusconismo è proprio quello sul quale lui e i suoi imitatori si dichiarano leader incontrastati. Ed è – sembra una boutade – quello dell’amore. Senza che ce ne accorgessimo, l’impoverimento umano del ventennio berlusconiano ha riguardato fino in fondo la sterilizzazione della forza erotica, ossia di quella possibilità che abbiamo, attraverso l’amore, di unire il desiderio al godimento. L’amore è questo, ed è insieme la capacità di riconoscere il proprio desiderio ma anche il suo limite, la sua incertezza. L’amore, mostrandoci la nostra profonda parzialità, ci rende intimamente umani. E ci libera da quel demonio del vedere gli altri come semplici oggetti o come creature inattingibili. L’amore è quella chance che abbiamo che di conoscere l’altro senza che questa relazione annulli noi o lui.
Il capitalismo cinico, di cui il berlusconismo è solo la versione più compiuta, ha invece svuotato e continua a svuotare l’amore di qualsiasi senso. Non esiste più referente per ciò che significa desiderio, mancanza, intimità, immaginazione. Si vede bene come il suo partito dell’amore è una delle tante ideologie mortifere che ha deturpato la simbolica amorosa. Il rapporto con l’altro (non solo l’altro sesso) nel suo universo di ville certose è ridotto a mero consumo. La seduzione è equiparata al ricatto dei soldi e dei braccialetti uguali per mille. La tenerezza è un’igienista dentale che ti viene a recuperare in questura e poi ti lascia nuovamente per strada. La fiducia è quello di un papi o un Brunetta che ti promette di aiutarti con i tuoi affari ma poi non si fa più sentire.
Berlusconi è l’antiamore. Solo allora se riuscissimo a pensare quanto il cinismo delle nostre vite ci faccia alle volte assomigliare a lui, forse potremmo cominciare a essere veramente diversi da questo tipo di uomo incapace di amare.
@WM1, Valter Binaghi aveva offerto alcuni spunti davvero interessanti, e per una volta era in sintonia con te :-)
Non solo un rinnovato interesse per il binomio bisogno-desiderio e soprattutto per il trattino che li divide, ma anche un (a mio parere) giusto richiamo a un’etica della misura, a un’austerità come vox media, come strategia necessaria, se ben comprendo quello che voleva dire.
A me frulla nella testa da un po’ l’idea – embrionale, forse nata abortita, chissà – di costruire un lessico dei bisogni, non un lessico chiuso, non un catalogo o un dizionario, ma come dite voi un risemantizzare dei concetti cardinali; non una decostruzione (btw, CazDec me la rigioco, è stupenda!) o una storia dei concetti, ma una sorta di prontuario di parole “ripassate” attraverso un nuovo processo di significazione, attraverso un lavoro collettivo, condiviso includente. Un processo che possa far riemergere dei rimossi (per es. comunismo); che possa mediare, attraverso nuove simboliche, tra desiderio e legge; che possa persino offrire parole non nuove ma rinnovate a chi il suo tempo non riesce a spiegarselo, e quindi a viverlo. Potrebbe essere un buon esercizio, chissà…
@ luca
scusa se te lo dico, ma una tua opera solista mi manca.
Sul Berlusconi assolutore, l’ho sentito dire anche da Severgnini, per dire uno che scrive non da sinistra. Quì l’intervista, più o meno dopo il minuto 13.
http://www.youtube.com/watch?v=0UmQO5AeSsI
Io aggiungerei oltre all’assoluzione dei comportamenti “negativi”, anche l’assolvimento da quelli “positivi”: cioè il ghé pensi mi. Una volta si diceva dell’amore per l’uomo che comanda, oggi sento che molti semplicemente si sono rotti le palle di dover pensare alla cosa pubblica. ti dò il voto, pensaci tu, non mi rompete. Questo lo collego anche al discorso sul futuro di giacomo m. Sogni di gloria a parte, il futuro non lo immagino proprio, e mi fece impressione sentire tempo fa wuming 5 che diceva che il loro no- future era qualcosa di tangibile. cioè io non temo che succederà qualcosa, mi pare che non debba succedere proprio niente, dopodiché non penso neanche a godermela come eseguirebbero a più voci Lacan e gli altri tesi, indi il senso di “che cazzo stiamo a fare?”
[…] queste considerazioni sono anteriori a quelle presenti in quest’ottimo thread di Giap, la newsletter dei Wu Ming, i quali sono davvero, si parva licet componere magna, dei fenomenali […]
Mi spiace vedere che su una questione totalmente laterale rispetto ai contenuti del lavoro di WM1 ci sia stata un’insistenza (non voglio dire accanimento, perché è lo stesso Regazzoni che lo nega) sul porre la questione in termini diversi, affrontare il discorso lasciando perdere il burlesque berlusconiano, come se il riferimento al documentario fosse un qualche modo compiacente con il modus operandi della critica (anzi dell’assenza di critica) della sinistra di oggi.
Vorrei raccontare un aneddoto minimo. Qualche giorno fa un mio alunno mentre controllavo i compiti (momento di terrore all’inizio della lezione) mi guarda e mi chiama “papi” invece che “prof”. Strabuzzo gli occhi e specifico che a) sono una donna b) mi pare che mi manchino i tratti connotanti del papi senza entrare in dettaglio. Risposta: sì, ma pensavo ad altro e mi è scappato. A cosa pensava questo ragazzino? Fino a che punto la mente di preadolescenti può essere inquinata dall’interiorizzazione di un lessico che porta con sé un sovraccarico di significato *anche* di natura sessuale. Spero che Regazzoni concordi se gli dico che nel rapportarsi a qualsiasi figura non di autorità ma autorevolezza nell’esercizio della sua funzione pubblica come è quella dell’educatore, una fascia di età che non ha mai visto il mondo senza Berlusconi non è in grado di mantenere quella distanza di sicurezza o di rispondere a chiamate all’ordine necessarie perché si formi per contro una personalità adulta. Al netto di tutte le fumosità sollevate qui, questo primo spezzone di un lavoro più lungo parla chiaro: si parla della figura del Padre.
Spunti molto interessanti e splendida la foto del post: l’espressione del Berlusca dice tutto :D
Io credo che il Berluskaiser abbia un grande merito (noi comunistacci estremisti glielo riconoscemmo subito, fin dal ’94), e cioè quello di mostrare senza maschere il volto becero e marcio del capitalismo. Che poi la stragrande maggioranza degli itaGliani non abbia colto questo aspetto, è un altro discorso. Anzi, parafrasando Bordiga, possiamo tranquillamente dire che il peggior prodotto del berlusonismo è l’anti-berlusconismo, ossia il ricondurre tutte le disgrazie nazionali – e sono tante – a “Cesare”, o a “papi”, se preferite.
Ma in realtà Berlusconi E’ il capitalismo senza maschere e senza limiti. Perché il capitalismo E’ “fa’ quel cazzo che ti pare”: è l’imperativo assoluto del nostro sistema economico e sociale che va sotto il nome di “libera impresa” e “libero mercato”. I vincoli al capitale sono sempre stati posti dalla controparte, dal movimento operaio, dalla mobilitazione della società civile, ecc. Ma il capitale, se sguinzagliato – e ora è sguinzagliato perché nessuna forza politica e sociale gli si oppone – ha la faccia di Berlusconi.
Questo la “sinistra” borghese (i partiti istituzionali, i popoli viola…) lo sa perfettamente, ed è per questo che cerca sempre di ricondurre tutto a Berlusconi: perché al di là del folklore, la loro politica sarebbe la stessa. Purtroppo la tv rincoglionisce anche il popolo di “sinistra” e gli fa perdere la memoria, facendogli dimenticare che i tagli alla spesa sociale, la precarietà, le leggi anti-immigrati, la guerra… sono retaggio anche dei governi di “sinistra”.
Cos’è l’imperativo “GODI! (e non pensare)” lanciato dai berlusconidi, se non una macabra danza sull’orlo del baratro che si sta spalancando sotto i colpi della crisi montante? E’ l’imperativo che deve scongiurare quello che la borghesia – TUTTA – teme, e che forse un giorno tuonerà nei bassifondi e nelle periferie: “LOTTA!”
@ Claudia: la mia critica del’analisi non era su una questione laterale, bensì, in sintesi, su due punti: 1. di contenuto, 2. di metodo.
1. Il discorso di Berlusconi è stato sintetizzato da Wu Ming 1 nella formula del “fate quel che cazzo volete”, “fate qualunque cosa vi piaccia”, ecc. e questo lo pone in assoluta conosonanza con l’imperativo del turbo-capitalismo che ingiunge: “Godi!”. L’analisi, secondo me, è debole. Perché non tiene conto della logica della trasgressione interna della legge all’opera nel discorso berlusconiano. Berlusconi al contempo legifera come un leader-padre, facendo ad esempio contenta la Chiesa e, al contemppo, ma senza che ciò metta in discussione la sua Legge, ci mostra il lato osceno del suo potere come potere di trasgredire la legge che pone. Dunque se si riduce il discorso di Berlusconi a un discorso contro o al di là della legge non si coglie la sua articolazione che è una riarticolazione della posizione padre. Perché Berlusconi è un padre e come tale è in conessione con la Legge ma è un padre che ci dà segni del suo godimento, che ci fa vedere che gode: un “papi”, se volete. Se disgiungiamo questi due aspetti non capiamo e rischiamo solo di guardare a una faccia di Berlusconi. Ora questo fatto, il padre che mentre ci dà la legge ci fa vedere che gode è qualcosa che noi per primi chiediamo al padre nell’epoca della dissoluzone del Nome-del-Padre. Non è un caso se l’unico leader possibile per la sinistra è qualcuno che non cancella nel suo corpo i segni del suo godimento e che rilascia interviste a Chi: Vendola con annesso orecchino. E per me questo è un bene. La conseguenza di questo tipo di analisi debole è altrettanto debole: dobbiamo costruire un nuovo ordine simbolico incardinato su un nuovo Nome-del-padre. Io direi piuttosto che si tratterebbe di lavorare da sinistra con la nuova posizione del padre-leader in cui giochi anche il godimento.
2. Per quanto riguarda il metodo, mi pare (ma come ho detto posso sbagliare, siamo solo all’inizio dell’analisi) che si guardi alla fiction berlusconiana come a una narrazione con una sola linea narrativa: quella del godimento (più o meno sessuale).
Alcuni spunti di analisi ulteriore.
Occorrerebbe misurare l’imperativo GODI! con la realtà della grande maggioranza della popolazione di questo paese (e di tutti gli altri, per la verità). La base popolare del berlusconismo non può -evidentemente- accedere ai sollazzi berlusconiani. Per questi – la gente- l’imperativo GODI! si riduce a un “guardami godere”, o meglio ancora “sappi per certo che io godo”. Il quotidiano di quasi tutti è invece segnato da un’inestricabile, persecutoria rete di leggi, regolamenti, vincoli, costrizioni. Per come sento io le cose del mondo è paradossale, ma sembra che il fatto che la persona più potente sia il trasgressore più evidente, più marchiano, più arrogante allevi in qualche modo la pressione disciplinare-legalitaria che costringe più o meno tutti – tutti tranne i ricchi. E’ come se il corpo semi-artificiale di Berlusconi godesse al posto loro, una sorta di Soggetto Deputato a Godere.
Occorrerebbe poi analizzare quale sia la base “filosofica” del quotidiano disciplinare odierno. Non si tratta di filosofie o ideologie propriamente politiche. E’ il discorso del management, è l’aziendalismo, l’efficientismo. Totalitarismo di produzione-e-consumo.
E’ chiaro che in un paese come il nostro tutto questo finisce per prendere una piega grottesca.
La vicenda berlusconiana ha avuto il merito di portare all’evidenza tutte le trasgressioni inerenti all’esercizio del potere, a partire da quelle sessuali, che un tempo qualcuno definiva “le più basse”. Ha avuto il merito di rendere evidente la povertà di una politica concepita come “confronto di opinioni”. Ha avuto infine il merito di de-liturgizzare, cioè proprio di svilire l’esercizio del potere in modo tale che ben pochi, in questo paese, continueranno a prendere sul serio i prossimi “rappresentanti” del popolo, se non cambierà il frame propriamente politico che li contiene, se non ci si chiederà collettivamente, tutti, che cosa è la rappresentanza e che senso ha.
@ amaryllide
l’Italia è, fin dagli anni Dieci del XX secolo, uno dei laboratori più avanzati del capitalismo. So che è un discorso contro-intuitivo, vista tutta la lamentela sulla nostra “arretratezza” etc. etc. Ma solo se si pensa che lo “sviluppo” sia lineare e uguale dappertutto si può credere che noi siamo arretrati. Qui ci sono reazioni chimiche (anzi, alchemiche!) che forniscono spunti per il capitalismo di tutto il globo (e per le resistenze al capitalismo).
Il che non vuol dire che quel che succede qui, presto o tardi, si ripeterà pari pari altrove. No: quel che succede qui in modo peculiare verrà “filtrato” e adattato ad altre condizioni, ma mantenendo un nocciolo riconoscibile, un riferimento “genealogico”, spesso rivelato dal lessico. Le parole “fascismo” – all’inizio appartenente al campo semantico dei movimenti di sinistra, i fasci siciliani del 1891 etc. – e “mafia” – mafia russa, mafia colombiana etc. – sono usate dappertutto. L’esempio del fascismo italiano ha ispirato i movimenti autoritari e reazionari di tutto il mondo. La forma-mafia è stata esportata ovunque. Le strategie repressive usate contro i movimenti degli anni ’70 hanno fatto scuola in altri paesi. Etc.
Sono tante le cause storiche di questa bizzarra singolarità universale, e del fatto che l’Italia sia – direbbe Badiou – il “sito” di molti eventi. Se dovessi individuare il “crinale”, il momento in cui inizia la lunga catena di eventi che porta a questo, tenderei a dire: il Biennio Rosso (1919-20). Il fascismo nasce dalla paura che si prendono in quel frangente le classi dominanti italiane.
[Non a caso il teorico italiano più studiato all’estero è Antonio Gramsci, il cui pensiero si forma tutto intorno alle riflessioni sul Biennio Rosso, sull’occupazione delle fabbriche, sullo scacco operaio in quel frangente, sul fascismo come reazione “sovversiva dall’alto” etc. Altro indizio del fatto che la nostra peculiare storia parla al mondo.]
Quindi, certo, “Berlusconi” è il nome della nostra anomalia più palese. Ma è un’anomalia che interpreta la tendenza generale, e in un modo che trova già riscontri altrove. Sarkozy è un Berlusconi “minore” (non come forza statale, ovviamente, ma come pervasività).
@ Tutti
mi tengo le pulci nelle orecchie, in attesa di poter lavorare su tutto il materiale che ho da parte (e su quello nuovo). Oggi, *davvero*, mi prendo un congedo. Ieri mi ha alquanto amareggiato vedere come una discussione potenzialmente feconda sia stata in parte dirottata – con un impuntarsi petulante e pedante – su questioni di pedigree teorico, peraltro derivate da una lettura semplicistica del post. Quando si è riusciti a tornare al punto, c’erano ormai 80 commenti e passa. Non so dire se la cosa sia stata intenzionale, ma secondo me questo ha impedito di cogliere l’attimo, il momento di massima “freschezza” ed entusiasmo. Adesso faremo più fatica, e il muro di commenti (anche poco pertinenti) giocoforza “screma”, seleziona i partecipanti. Non tutti hanno voglia di tuffarsi nel ginepraio. Spero che chi lo farà non abbia solo voglia di litigare su chi c’ha le balle filosofiche più grosse.
P.S. Vedo però che la semplificazione e banalizzazione della mia (vogliamo chiamarla così?) “tesi” continua a essere proposta tale e quale, con più o meno sapiente amputazione delle parti del discorso che non si prestano al trattamento. E allora questa precisazione valga per tutti:
“Italiani che mi votate: fate quel cazzo che volete purché non tocchiate gli interessi dei ricchi. Io autorizzo voi affinché voi autorizziate me, e voi sapete bene che funziona così”
Questa catena di ingiunzioni non significa affatto: “Fate tutti quello che vi piace!”.
Ci sono almeno quattro livelli:
1) una dimensione di accordo, complicità, negoziato tra Berlusconi e chi lo vota;
2) una spiegazione di quale sia il negoziato: voi votatemi, e con me manterrete al potere uno che ha la vostra stessa insofferenza per i limiti;
3) una condizione precisa, che nel capitalismo significa: vagate pure, ma non toccate il reale, cioè la proprietà, il privilegio, i padroni, la divisione in classi.
4) una preventiva chiamata di correo che, guardacaso, rovescia l’assunto di molti impianti accusatori nei confronti di Berlusconi: voi non potete non sapere. Voi sapete benissimo perché mi votate e mi tenete al potere. E io so che lo sapete. E voi sapete che io lo so.
*Questo* è il Discorso di Berlusconi secondo me. E’ questa foresta di “doppi legami” la particolare articolazione berlusconiana dell’imperativo “Godi!” del capitale.
Del resto, nemmeno “Godi!” significa semplicemente “Tranquillo, puoi godere”.
@ Wu Ming1: la discussione che è nata è figlia della tua analisi. Dei suoi spunti e delle sue debolezze. Confrontati con le critiche, che magari possono essere sbagliate, ma evita il tono da vittima amareggiata e lamentosa che protesta per essere stato travisato o semplificato, perché il discorso non va nella direzione auspicata dall’ “auctor”. Non è né giusto né serio. Davvero, non ti fa onore. Tanti cari saluti.
@ amaryllide
Non credo che Berlusconi abbia introdotto qualcosa ex abrupto nel modello italiano, quanto piuttosto che abbia portato alle estreme conseguenze qualcosa che latentemente era da tempo insito nell’anomalia italiana.
In altri paesi, come fai notare, a fronte di comportamenti diffusi non necessariamente più virtuosi o di una situazione politica altrettanto deprimente, certi exploit pubblici non sono pensabili né tollerati (e la tv non è la stessa cosa).
E’ vero che Clinton per un pompino rischiò l’impeachment, ma al netto della censura morale di stampo puritano, ciò che compromise il presidente degli Stati Uniti a livello istituzionale non fu tanto l’atto sessuale in sé o l’avere avuto una relazione extra-coniugale, quanto l’aver mentito: cioè non l’essersi fatto fare un pompino, ma averlo negato davanti all’opinione pubblica. Berlusconi mente in continuazione, smentisce ogni giorno quello che ha detto il giorno prima, senza che questo comporti alcuna delegittimazione.
In Francia, quando Sakozy ha tentato di nominare suo figlio ventiduenne a capo di un ente pubblico, è stato oggetto di un fuoco di fila da parte della stampa (anche e soprattutto quella di destra).
In Gran Bretagna i deputati che si erano pagati la piscina (o avevano noleggiato dvd) con soldi pubblici sono stati costretti alle dimissioni.
In Spagna, Aznar perse le elezioni dopo che aveva cercato di mentire agli spagnoli attribuendo gli attentati di Madrid all’ETA.
E’ evidente che, in questo senso, l’Italia è un’anomalia nel mondo occidentale. Questo è dovuto a ragioni storiche e culturali, evidentemente, ma non significa che l’Italia sia più “arretrata” rispetto agli altri paesi. Noi siamo il paese in cui la malavita organizzata ha le sue centrali decisionali, ma, come spiega Saviano in Gomorra, le grandi organizzazioni criminali non rappresentano un residuo del passato, quanto piuttosto incarnano il turbo-capitalismo allo stato puro, libero da ogni laccio e lacciuolo statale. Sono le nostre multinazionali. L’Italia può rappresentare un nuovo paradigma politico perché qui la modernità non si è mai realizzata compiutamente (assenza di una borghesia illuminata, potere secolare e politico della Chiesa, etc. etc.) e il liberismo non è costretto a scendere a patti con una cultura diffusa del diritto. Quando ha dovuto farlo, in passato, è stato grazie alle lotte operaie e alla contestazioni culturali degli anni Sessanta-Settanta. Se consideri che la nazione capitalista più forte del mondo è attualmente la Cina, dove appunto il modello economico capitalista è del tutto disgiunto dalla modernità borghese, capisci perché l’Italia – nell’epoca della crisi della modernità – può essere considerata all’avanguardia nello sviluppo di un futuro paradigma del potere, non già il fanalino di coda.
@ Simone Regazzoni
La maggior parte delle leggi fatte da Berlusconi sono ad personam, inerenti la sua figura onnivora, e non mi sembra affatto che i suoi favori alla Chiesa contrastino l’analisi di WM1, anzi, la integrano. Mentre si impone il godimento (o la contemplazione del godimento, come dice WM5, il godimento vouyeuristico per interposta persona), si dà anche un colpo alla botte agevolando economicamente la Chiesa. Si delega cioè a un’altra figura paterna, non il “Papi”, ma il Papa, il prete (“padre”) l’ambito etico-morale. L’ipocrisia clericale cattolica raggiunge qui la sua massima evidenza. La Chiesa ciurla nel manico e sorvola sulle malefatte del premier in cambio di soldi e libertà di manovra.
Detto questo, nessuno di noi è in cerca di “un nuovo ordine simbolico incardinato su un nuovo Nome-del-padre”. La nostalgia per i leader massimi, padri padroni dei tempi che furono, la lasciamo volentieri agli sconfittisti di cui sopra. Qui si afferma la necessità di un’assunzione di responsabilità anche etica rispetto al mondo, ovvero la necessità di essere “noi” i genitori (prima di tutto di noi stessi). Come scriveva WM2 in un commento di ieri: “Essere genitori” non significa farci obbedire da figli disciplinati che ci riconoscano acriticamente l’autorità di distinguere il bene dal male. Significa raccontare ai figli, agli altri, un futuro possibile, un’alterità possibile, e indicare loro i sentieri (non già il sentiero unico) che in base alla nostra limitata esperienza potrebbero aiutarli a raggiungerlo.
Simone, io ti dico solo questo: c’è un’etica della lettura. Essa ingiunge di rispettare la complessità del testo e di sforzarsi di renderle giustizia. Il che non attenua la nostra libertà di interpretazione e riscrittura, ma ci impone di non semplificare, mai.
Ecco, cosa *davvero* non è né giusto né serio: questa semplificazione. Perché qui su Giap di critiche anche dure ne vengono espresse di continuo, ma sempre rispettando quell’etica della lettura di cui sopra.
Se poi dietro la semplificazione c’è pure, vistosamente, una certa voglia di regolare conti pregressi, buonasera!
“Tanti saluti” è la cosa più bella che ti ho visto scrivere da molto tempo a questa parte. Spero ne rispetterai il contenuto.
Quando perdi il controllo nelle discussioni (i blog in questo non aiutano, è vero), e le spari grosse, rischi di dare una brutta immagine di te. Ed è davvero un peccato. Come gesto di cortesia, e visto che ami i miei saluti, li porgo nuovamente. Cari saluti.
Sarà, ma a me sembra che il “controllo”, la “brutta immagine” etc. siano riflessi di “cattiva coscienza”. Cioè: uno rovescia sull’interlocutore quel che pensa di se stesso.
I saluti li ri-accolgo volentieri, a condizione però che tu li metta in pratica, senza continuare a porgerli per far vedere che li porgi.
@ Simone Regazzoni
Ego contro ego. Maschile contro maschile. Cazzo duro contro cazzo duro. A Bologna diciamo “Bona lé”. Se vuoi litigare con Wu Ming 1 consiglio di farlo in privato. Qui ci piacerebbe discutere nel merito delle questioni. Al netto di tutte le sentenze, l’unica controargomentazione di merito che hai presentato riguarda le concessioni di Berlusconi alla Chiesa, che secondo me, come ho scritto, non confuta ma integra l’analisi fatta nel post. Almeno quella, però, l’hai espressa. Se vuoi confrontarti davvero con noi, ti pregherei quindi di proseguire con quelle modalità. Io, come sai, sono tolkieniano e i troll non li digerisco proprio.
Ma no, dài, se ne stava andando… :-/
@Wu Ming 4
L’ipocrisia clericale cattolica raggiunge qui la sua massima evidenza. La Chiesa ciurla nel manico e sorvola sulle malefatte del premier in cambio di soldi e libertà di manovra.
E a molti di noi non va bene per niente e “tantissima gente si sta allontanando dalla vita della Chiesa”.
Un esempio molto bello di dissenso e fatica: questa lettera scritta da don Paolo Farinella, prete e biblista della diocesi di Genova al suo vescovo e cardinale Angelo Bagnasco.
Volevo tornare al post, mi pare fosse di giacomo m. che mi pare parlasse della sua compagna di università che guarda Uomini e Donne sapendo che è monnezza, ma è “divertente”, ecco io penso e spero che quella studentessa non stia sempre a guardare Mediaset, legga libri, vada al cinema, ascolti musica insomma abbia molti altri stimoli e interessi ed è questo ciò che conta.
Drive In l’ho guardato anch’io da piccolo e non sono diventato berlusconiano e puttaniere, la spazzatura televisiva ogni tanto la guardo anch’io, e magari a notte fonda non ho disdegnato qualche porno-soft (sono quelli che hanno una qualche trama di sia pure minimo spessore) ma non guardo solo quella roba e non m’interesso solo quella e sopratutto quando la guardo so sempre che è spazzatura.
C’è molto lo Zizek dell’epidemia dell’immaginario in questo pezzo con il suo concetto di stampo lacaniano di jouissance. Ma rispetto alla sessantottina abolizione dei padri, Berlusconi non è forse la massima realizzazione dell’ideale di quegli anni, in cui si diceva tra l’altro, l’immaginazione al potere? Berlusconi non ha forse colonizzato il potere con l’immaginazione e soprattutto l’immaginazione col potere?
@ fanzu (alis Christian Raimo):
Trovo molto interessante questo stralcio del tuo intervento, in merito alla questione maschile:
“L’espressione wallaciana Dobbiamo essere i genitori non è neutra. E rischia di essere interpretata (come spesso accade nelle analisi di Wu Ming) non come esortativa, ma come prescrittiva. Questo tono, di prescrizione alla paternità, di assunzione di responsabilità, di presa in carico di un ruolo di garanzia morale che supplice quel vuoto super-egoico lasciato da Berlusconi, lo si comincia a ritrovare come una nuova e ambivalente retorica nei monologhi di Saviano, nei discorsi di Fini, in quelli di Bersani, in quelli dei rottamatori Renzi e Civati – non a caso, lo dico da maschio, tutti maschi. E’ un discorso che non volendo, a mio avviso, toglie di nuovo la possibilità di dialettica che avevamo ritrovato. Il genitore che dovremmo essere, per dire, è un genitore che non ha fatto prima i conti con la SUA evaporazione del padre, ma soltanto con quella pubblica. Se non lo fa rischia di ritrovarsi di nuovo incapace di dinamica: di autocritica.”
La crisi di Berlusconi non coincide affatto con la crisi di una certa narrazione del maschile, almeno quanto sul piano politico non coincide con la crisi del berlusconismo. La ricerca di un padre alternativo infatti è già cominciata, tanto più che non c’è un movimento o partito politico che non si identifichi con la figura del proprio leader massimo (con l’unica eccezione, forse, della scatola vuota rappresentata dal PD). In certi casi la narrazione del maschile che tale figura mette in campo non è quella di Berlusconi – vedi Nichi Vendola -, ma sul culto della personalità mediatizzata del capo/padre a dispetto di un reale contenuto politico non si fa mezzo passo indietro. La post-modernizzazione della politica, in questo senso, è ormai compiuta e l’autocritica profonda, non quella posticcia, è di là da venire.
@ Giovanni Ridolfi:
Lo so bene che a molti cattolici certe astuzie non stanno bene. Ti dirò, tra l’altro, che non ho mai conosciuto cattolici più insofferenti nei confronti della Chiesa di quelli italiani… o più ipocriti. L’altra faccia della carenza di laicità in Italia è la carenza di fede (che appunto non coincide affatto con la carenza di religione… di quella ce n’è anche troppa).
@ Wu Ming 1:
Sì, se ne stava andando e non sono certo io a volerlo trattenere per la giacca. Ho soltanto chiesto di avere in futuro un interlocutore determinato a discutere e non a litigare per marcare una posizione personale. Lo dico soprattutto nell’interesse dell’interlocutore stesso, perché a forza di dibattere sul modo migliore di cucinare un nano viene l’alba e i troll rimangono pietrificati (criptico riferimento tolkieniano, chiedo scusa, ma mi viene dal cuore).
@WM4 e Luca: grazie per il benvenuto.
@WM4: “responsabilità” è una parola che mi piace molto. Io la sento come esemplare del senso di quello che in generale si sta perdendo e che a molte persone piacerebbe recuperare, declinata come responsabilità civile, ambientale, morale… L’esercizio della critica è la modalità di apprendimento autonomo di queste nuove qualità di cui sentiamo il bisogno ma che non ci (parlo per la mia classe di età) sono state insegnate dal “Padre” berlusconi, non ci sono state insegnate dal sistema scolastico, tantomeno dal catechismo. Il “Padre” Berlusconi è un padre che non insegna nulla, non istruisce, non forma la coscienza e, come hai giustamente notato, esclude le alterità (immigrati, rom, gay) e propone un univoco tipo di sviluppo della persona e della società che in questo senso potrebbe essere definita fascista, nella sua tendenza alla sostituzione dell’immagine al sè e alla eliminazione progressiva delle alternative di pensiero (chi non la pensa come me è “comunista”, un’unica neo-categoria calderone in cui si butta tutto e niente, la cui definizione televisiva è opposta a quella di teoria politica e deriva solo dalla sua alterità rispetto al Padre)
Scusate in anticipo se dico una cazzata o se vado OT: non è intenzionale. Penso che alle diverse linee narrative che descrivono il frame-berlusconi aggiungerei la finora lenta ma ormai sempre più veloce trasformazione -o rimascheramento- del capitalismo e il suo abbandono della vecchia classe borghese e dei suoi (dis)valori. Il capitalismo ormai globale e totale è maturato in qualcosa di diverso, in qualcosa che forse non ha ancora un nome preciso. Noto soltanto che ovunque fa capolino in molti discorsi (seri e comici) sul potere l’orizzonte culturale e simbolico della Rivoluzione Francese. La borghesia è stata abbandonata? Ha ancora senso parlare di capitalismo? Il recupero di valori e simboli “borghesi” da parte della “sinistra” può preludere a uno spostamento epocale del baricentro della lotta?
Lungi da me ridurre/estraniare il vostro ricco discorso ma vorrei sapere cosa ne pensate di questo mio punto di vista e se si possa intrecciare a quanto voi detto.
Riforma Prostituzionale e Igienista Mentale
Non ho niente contro le Sex Workers. Giuro. Sono favorevole, molto, al sacrosanto discorso fatto sopra sul riconoscimento dei Diritti Civili e non solo. Giuro. Mi piace molto, e ci spero pure, che il Potere Pappone cada per mano delle Puttane. Giuro. La puttana, come Emma, c’est moi. Siamo noi.
Ho invece qualche dubbio sul fatto che una delle poche cose di sinistra da fare sia, appunto, la riforma prostituzionale, che tra l’altro non era affatto l’oggetto in discussione. Ma vabbè.
Poi, c’è uno, che con dovizia di citazioni, autori e cornici impeccabili, ti ripete di continuo, a ogni argomentazione:
E’ debole! E’ debole! E’ debole!
Allora tu pensi: ah, cazzo questo qui pretende qualcosa di forte. E ti sbagli ancora, testone, perchè lui ti dice: alla larga da chi pretende qualcosa di forte per me!
Oh merda.
Seguono proposte fine di mondo. Suddetta riforma + cornice impeccabile per analisi molto sofisticata del rivoluzionario Drive In. Che piaceva tanto a Fellini.
Solo così possiamo uscire dalle solita secche della sinistra.
Ok. Speriamo bene.
Mal di testa. Forte bisogno di un’igienista mentale. Vado a letto solingo. Non godo un cazzo.
Risveglio. Solita merda. Caffè, un po’ di spesa, giornale. Italia sott’acqua, boccaglio per tutti. Solo quei sei pezzi di merda che stanno sopra alla gru a brescia avevano capito tutto. Bastardi. Altro che diritti e stronzate e permessi di soggiorno. Avevano avuto la soffiata e sono stati gli unici a salvarsi. I soldi a noi, no a Pompei. O era Bombay?
Idee confuse. Torno a dare un’occhiata.
Saviano patologico, wu ming prescrittivi. Più fantasia, please. Più Drive In, più cornici.
Mi dispiace, ti dicono, di Lacan e Zizek non si può fare a meno, bisogna studiare studiare e ancora studiare. E io apprezzo, certo, lo slancio, ma cazzo, e la matematica no?, la fisica, la meccanica quantistica, il Bosone di Higgs che facciamo, lo mandiamo a fare in culo? Sì, lui sì, anche perchè c’ha un nome ambiguo, da queste parti diventa subito quel busone di… Ma ingegneria, diritto, biologia, scienze naturali, medicina, non va bene? Certo, ma non basta, bisogna sapere tutto. Ok.
Vaste programme. Ci mancava solo De Gaulle.
E poi c’è il Papero, un grande, gli voglio bene e manco so chi è.
Mi manca il tuo solista. Dice.
Cazzo.
Manca pure a me.
Berlusconi, dicevamo.
Berlusconi chi?
L.
@ Wu Ming 4: al netto tu dici che propongo di integrare il modello di Wu Ming 1, piuttosto che confutarlo. Poiché ho parlato di critica, da parte mia, e non di confutazione, ammettiamo pure che questa critica possa valere come integrazione di un modello di analisi. E’ già un passo avanti rispetto al rifiuto dalla mia critica come semplificazione o peggio “resa dei conti”. E io i passi avanti li valuto bene.
In che cosa consiste la mia integrazione? Nel dire che la fiction berlusconiana mette in scena un padre che, mentre legifera, ci mostra il suo godimento. Non ci dice semplicemente: fate come me, fate ciò che volete. Ma ci dice ciò che non possiamo fare. “Voi non potete fare come me, ma ciò che non potete fare lo potete al contempo attraverso di me”. Qui le integrazioni di Wu Ming 5 sono importanti. Dalla ficiton Belrusconiana noi non veniamo “diseducati” nel senso che il messaggio che viene veicolato è quello “fate ciò che più vi piace come me”, bensì: fate ciò che più vi piace (e che non potete fare) attraverso di me. Ecco una nuova fuznione del padre. Per questo il suo popolo vuole sapere del suo godimento: è il modo che ha di godere fantasmaticamente attraverso l’altro. Se il discorso berlusconiano dicesse semplicemente “godi” fallirebbe perché io non potrei rispondere all’ingiunzione: come faccio a godere in queste condizioni? E la risposta è: attraverso di me, attraverso il racconto del mio godimento. Il corpo del leader è qui unito al corpo del popolo, si fa carico dei suoi peccati nel senso che pecca, gode, confessa ed espia al posto del popolo.
@ wuming1
“E’ questa foresta di “doppi legami” la particolare articolazione berlusconiana dell’imperativo “Godi!” del capitale.”
era quel che cercavo di dire una novantina di post fa. il “doppio legame” di bateson mi sembra una possibile chiave di lettura di alcuni aspetti del berlusconismo: berlusconi come padre schizofrenogeno.
@ giacomo.m
Io il fascismo nell’esperienza berlusconiana non ce lo vedo. Non ci sono tratti ideologicamente “totalitari” nel berlusconismo, per me è una paradossale “dittatura dell’uomo medio”, e l’uomo medio è un soggetto che, in questa non-epoca della storia del mondo, non riesce di sicuro a pensarla, la totalità.
Piuttosto è il rapporto che lega la figura, il corpo, il volto di Berlusconi al suo elettorato, alla “gente”, ad evocare spettri. Il meccanismo di acclamazione del leader tipico della così detta seconda repubblica ha più a che fare con il nazismo. Silvio-che-per-fortuna-c’è ricorda la definizione della Guida nella filosofia del diritto nazista, una persona che incarna “misticamente” il popolo. Chiaramente la torsione è, ripeto, grottesca. Il presidente operaio, imprenditore, pappone, tifoso di calcio, eccetera eccetera… c’ è il connotato trasformista, teatrale, della maschera Berlusconiana.
@ Luca
E come sai, anche a me manca il tuo solista
@ Simone Regazzoni
Dunque, sì, integrando il tutto con le osservazioni di WM5 e le tue il discorso si fa più articolato (vedi che se vuoi…). Però stai dimenticando qualcosa. Qualcosa che WM1 ha cercato di ribadire più volte nel post e in questo thread. Quel “Godi!” per alcuni vale davvero. C’è qualcuno che può permetterselo oggi in Italia, grazie a Berlusconi. I ricchi sono più ricchi di prima. Gli evasori sono più evasori di prima. I cattolici ipocriti sono più “assolti” di prima. I poveracci possono godere soltanto attraverso la figura del capo/padre, come dici, e questo transfert credo che sia qualcosa di reale. Il corpo del capo si fa spettacolarmente carico dei peccati e dei godimenti, confessa si assolve da solo (la Chiesa tace) ma… Non espia affatto al posto del popolo. L’espiazione è precisamente ciò che resta al di fuori dell’opzione berlusconiana. Nel messaggio “Godi!” è contenuto un sottotesto di classe (“Godi, purché non pretendi di cambiare le cose!”) e un sottotesto etico: “Godi! Ovvero fotti il prossimo tuo come te stesso, tanto nessuno te ne chiederà conto”.
@ Simone Regazzoni
oh Cristo, siamo quasi d’accordo! Ma questa integrazione al discorso di WM1 poteva essere fatta da te all’inizio, senza tanto casino, scusa.
@ WM4
Si, però il Berlusconi espia, nel senso che, perdio, lavora TANTISSIMO, di continuo, per il bene del paese… questa è una parte centrale del suo discorso. Poi certo, tutto il discorso si regge su “ognuno al suo posto”, sono d’accordo.
@ Wu Ming 4, sul rapporto “discorso di berlusconi” “ricchi” sospendo il giudizio, perché trovo che nella costruzione del suo popolo un’analisi del “ha fatto gli interessi della classe dominante”, sebbene possa cogliere degli elementi div erità, non sia cruciale. Ripeto: non cruciale, non sto dicendo che non ci sia. Dunque che qualcuno possa godere davvero non mi dice del nodo, dell’hard core del suo potere che invece, credo, sia fai ciò che non puoi fare attraverso di me, attraverso quella parte della mia narrazione in cui ti racconto il mio godimento. Quando dico che lui “espia” sto dicendo che mette in atto quella forma di godimento all’opera nella fiction in cui non partecipiamo al godimento dell’altro ma senza dover fare i conti anche con il lato più perturbante del godimento (che non è il piacere). Lui esperisce davvero il godimento (in questo è anche un martire, un testimone del godimento) il popolo invece ne fa un’esperienza in parte protetta: attraverso il suo corpo noi siamo protetti dall’eccesso mortifero del godimento. Non la voglio fare lunga, ma ecco credo che tutti questi passaggi siano essenziali.
@ Simone Regazzoni
No, questa integrazione poteva essere fatta DA TE all’inizio senza tanto casino e senza tante sentenze.
@ Wu Ming 5
Non è quello che intendo per espiazione. Berlusconi resta lì nonostante tutto, non trae mai le conclusioni delle proprie boutade o delle autoevidenti malefatte e invita gli altri a fare lo stesso. Ovvero, attraverso la conotemplazione della sua figura, gli altri si sentono autirzzati a fare lo stesso. Non è un caso che la strategia retorica messa in atto dai suoi scribacchini sia improntata all’indifferenzialismo. Siamo tutti marci, tutti corrotti, tutti papponi o puttane, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Questo discorso – fortissimo, quasi unico da quella parte politica – abolisce qualunque idea etica dell’agire. Quindi anche la possibilità di qualunque espiazione.
@ Wu Ming 5: non so, forse pecco in buone maniere, sai sono un troll…
@
WM4
Il mio dubbio è che davvero “inviti gli altri a fare lo stesso”. Intendo dire, il surplus di godimento è tutto suo proprio perchè è -legalmente!- legibus solutus. Il suo discorso secondo me è più simile al ricettacolo di proiezioni collettive che può fare tutto ciò che gli altri possono solo sognare di fare. La gente gode “attraverso il suo corpo”. Si comporta come se fosse possibile essere Berlusconi, ma sa benissimo che NON è possibile. E’ un rapporto feticistico, e come sappiamo è pressochè impossibile defeticizzare un feticista. Inutile spiegargli, guarda che Berlusconi ti sta pigliando per il culo. E’ probabile che ti risponda. e con questo? Lo so benissimo. Comunque, meglio Lui che gli altri. Questa cosa: MEGLIO LUI CHE GLI ALTRI è il centro del discorso di chia ammette, oggi, di averlo votato.
Tu e io invece alle leggi ci dobbiamo stare, eccome. Prova a non pagare per qualche anno la tassa del rusco, ad es. :-)
O ad organizzare una festa suonando dischi senza che la SIAE ti taglieggi, eccetera eccetera
@ Simone Regazzoni & WM5:
Non credo che Berlusconi abbia fatto solo gli interessi della classe dominante. Con la classe dominante lui flirta a tempi alterni. L’abusivismo edilizio, l’evasione fiscale, il far lavorare gli immigrati in nero (nonché l’andare a puttane), non sono affatto pratiche esclusive della classe dominante. Un sacco di gente non ricca e non potente gode del potenziale assolutorio berlusconiano. Questo elemento concreto, materialistico, non può essere sottovalutato. Altrimenti riduciamo tutto a termini più o meno psicologici, o lacaniani, etc. Infatti, come fate notare, non è già una crisi morale che sta abbattendo Berlusconi (al massimo ne intacca l’immagine). E’ la crisi economica che gli toglie l’appoggio proprio di quelle classi dirigenti che finora hanno approfittato della sua non-politica e della crisi per lucrare, ristrutturare, tagliare, erodere diritti, smobilitare capitali, etc. Ora che non c’è più niente da raccogliere, si pretende un cambio di passo che Berlusconi non è assolutamente in grado di fornire. E’ ancora la crisi economica che sta spostando i voti delle classi subalterne da lui alla Lega Nord, cioè a un modello di destra tanto estrema quanto austera. L’investimento libidico di cui parlate è reale, l’ho detto, ma sta anche mostrando la corda, perché a forza di non godere mai in prima persona si finisce per sviluppare delle nevrosi belle pese e si può pure schiodare.
@Wuming4
Mettetevi d’accordo. Wuming1 mi dice praticamente di essere OT e che ne parliamo un’ altra volta, grazie. Oltre al fatto di riporre “la sfera di cristallo” che non ha ancora finito l’articolo.
Aveva parlato però della necessità di lavorare su materiali disparati. Non ho criticato il suo articolo, ho solo portato la disponibilità di materiali diversi, eventualmente per IL FUTURO, appunto. Dopodichè visto quello che mi si diceva ho pensato di dover chiarire brevemente PERCHE’ e dove li ho collegati all’articolo e mi sono tolta di torno.
Ora invece mi si dice di “sputare sentenze” senza argomentare e di sparire. IO, sputo sentenze?
Ragazzi, non mi pare di avervi mancato di rispetto, ho portato un contributo, non vi piace? Non lo condividete? Ignoratelo anzi, cancellatelo pure. Va bene tutto.
Il Corpo delle Donne? Cosa vuoi sapere? Non è un “documentario”. Lavoro nei documentari, posso concedermi un opinione in merito.
Un “documentario” non spiega come venga tolta voce alle donne in Tv per sfruttarne il corpo, e poi lo fa a sua volta con una voce monocorde che schiaccia il discorso da un unico punto di vista , IL SUO, per altro molto discutibile. Su temi del genere fa altrettanto danni, diventa altrettanto pericoloso. Non è disinnescare, espandere, è benzina sul fuoco. Parte da un analisi anche condivisibile sotto certi aspetti e poi la distrugge con un voiceover moralista, perbenista (senza rielaborare i termini, proprio moralista e perbenista in senso stretto, quello vecchio di 40 anni fa).
Riesce ad aver torto avendo ragione. Sotto questo punto di vista è davvero FANTASTICO.
Un esempio, il primo che capita: togli il voicever lascia il montaggio. Cominicia a essere qualcosa che puoi chiamare tranquillamente documentario. Il montaggio è già visione, è già, opinione. Mi fermo ma potrei andare avanti, molto avanti..sulle implicazioni politiche.
Mi si dice che la televisione italiana è l’unica a ipersessualizzare il corpo come nessun altro paese fa (a parte che ci sarebbe da ridire, non è esattamente così…)
Ma forse ora che ci penso l’Italia, è l’unico paese che ha il Vaticano? Dove i preti sotto ugualmente presenti in televisione come tette e culi sotto ogni forma?
E a chi appartenevano i bordelli segretamente nel 1400 nel nostro paese? Toh, alla Chiesa.
E’ qual’è il posto con la più alta concentrazione di prostitute al mondo? Toh, LOURDES. Ma guarda un pò che Peep Show anche quello, e a volte le coincidenze…
Chissà che bel documentario sul “Corpo delle Donne” che verrebbe fuori….tirando in mezzo la Chiesa. Chissà..
Ma il vero problema è questo: Si usano termini, si associano immagini, discorsi, analisi, notizie, elucubrazioni con cose e fatti proprie al mondo della “prostituzione” (tralascio tutta la terminologia utilizzata da un anno e mezzo ovunque e anche qui, a cominiciare dal titolo). L’associazione “tv italiana=Peep Show” non è mia e neanche tutto il resto su… “Tutte le donne italiane sono raffigurate come prostitute” … “dove sono le donne reali non le mignotte….” “il corpo delle donne” (Tutte?)…..le donne divise in donne reali e puttane, dai media prima E DA GLI ALTRI dopo. PERO’ ogni volta che qualcuno chiede conto di quelle parole, oppure che porta materiale veramente relativo a tutta quella terminologia perchè si vada in fondo alla questione, alla radice alla causa e non agli effetti, allora è fantastico, la risposta è la stessa: “Ma io mica stò parlando di prostituzione” detto magari anche in buona fede, senza neanche rendersi conto della contraddizione e anche, con un briciolo di ipocrisia, che non guasta mai 8altro termine bello contemporaneo e solido, temperato). E’ l’incapacità di fare i conti con un tabù devastante e con la soluzione del ….. “problema”.
Faccio notare come Berlusconi per uscire dall’angolo abbia applicato alcune norme anti-prostituzione per recuperare qualche consenso, probabilmente qualche voto cattolico, MA NON SOLO.
Non è questione di diritti di sinistra, di destra, di sotto, di sopra, da dietro, davanti, tra linee temporali fino alle convergenze parallele. E’ questione che riconoscendo le puttane come donne e donne come le altre, reali quanto le altre, in televisione o meno, dando Diritti Civili si porta queste persone dai margini sociali e delle discussioni DENTRO e a far parte della società, il che vuol dire cominciare a lavorare sull’immaginario collettivo legato al “potere pappone” che sta in testa a troppe persone in questo paese, e quindi probabilmente, anche alla figura del padre.
Penso di avere detto abbastanza.
Grazie per l’ ospitalità.
xxx
Madame Anais
Molto denso questo post e tutta la discussione, sia per i temi che per le cornici; su questo credo davvero sia importante delineare una cornice teorica – una delle molte possibili – senza inibire le riflessioni di chi ne ha appunto di diverse o ritiene di non averne (alcuni post fa si diceva : STUDIARE! un ventenne non può fottersene di Lacan ecc., tutto vero, ciò non toglie che magari uno se le sta costruendo, le cornici possibili, e intanto prova in ogni caso a riflettere).
Dunque butto lì alcune idee un po’ alla rinfusa, precisando che la mia cornice è prevalentemente storica.
1) il corpo del capo: sul valore simbolico del corpo del leader molto si è detto, anche dal punto di vista della storiografia, e penso soprattutto alla ricerca di Sergio Luzzatto; la sovrapposizione, anzi, l‘intersecarsi tra il corpo del leader e il corpo del popolo ha naturalmente un esempio eclatante nell’italia fascista, fino al momento in cui quella sovrapposizione si frantuma drammaticamente: il corpo del leader diventa oggetto di oltraggio e distruzione – dopo che il popolo è stato distrutto e oltraggiato. Attenzione, richiamare l’esperienza dell’italia fascista sembra voler suggerire un parallelismo tra l’allora e l’oggi, una sovrapposizione che voglia parlare del fascismo come antropologicamente connaturato agli italiani; non è così, naturalmente, la riflessione mi veniva dalle parole di simone regazzoni :”fai ciò che non puoi fare attraverso di me, attraverso quella parte della mia narrazione in cui ti racconto il mio godimento. Quando dico che lui “espia” sto dicendo che mette in atto quella forma di godimento all’opera nella fiction in cui non partecipiamo al godimento dell’altro ma senza dover fare i conti anche con il lato più perturbante del godimento (che non è il piacere). Lui esperisce davvero il godimento (in questo è anche un martire, un testimone del godimento) il popolo invece ne fa un’esperienza in parte protetta: attraverso il suo corpo noi siamo protetti dall’eccesso mortifero del godimento.”. Ma la conclusione di questo processo cosa potrebbe essere? Piazzale Loreto?
2) corpo del leader/padre: il leader esercita il suo potere nei confronti della moltitudine popolare attraverso – sempre nell’italia fascista –la presenza ossessiva e i raduni di massa, laddove il popolo assume i connotati di entità per sempre legata ad uno stadio infantile e soprattutto femminile: la massa è interpellata con domande che prevedono come unica risposta l’obbedienza (vedi anche i plebisciti, unica esperienza “elettorale” del periodo fascista) nella convinzione che la massa sia appunto femmina e necessiti di una guida (paterna?)
3) la modernità/laboratorio dell’italia: si, per tutto il novecento l’italia ha avuto questo ruolo, di laboratorio in fieri, di processi che qui – per moltissimi motivi di carattere storico economico sociale – risultavano più “avanzati”, o forse più cristallini nella loro evidenza; su questo però si gioca anche un possibile equivoco, e cioè che l’italia sia l’avanguardia della modernizzazione; io credo che spesso l’italia sia stata ed è l’avanguardia delle contraddizioni della modernizzazione; su questo, inoltre, credo sia necessario richiamare un thread di parecchio tempo fa (ma mi pare che fosse su Nazione Indiana) a proposito del potere: Laddove si struttura un potere, si struttura un contropotere. Ecco, l’italia del novecento è anche il luogo in cui i “contropoteri” hanno un ruolo molto forte nel costruire identità alternative (non vorrei essere retorica, solo per richiamare il dato del più forte partito comunista del mondo occidentale: quello era un dato di fatto che costringeva il “potere” a fare i conti con una realtà molto presente nel paese).
4) il futuro come possibile padre: si, se superiamo lo stallo rappresentato da quello che molto efficacemente si diceva più sopra, cioè se usciamo – non come “generazione” – da questo eterno presente in cui tutto il passato è completamente appiattito e omologato; è assolutamente vero che per uno studente, oggi, che gli si parli della peste del 1348 o delle elezioni in Italia del 1948, la distanza tra sé e questi avvenimenti è esattamente la stessa, i sei secoli che li separano semplicemente non esistono; difficile immaginare “il” futuro, se non si ha una percezione del passato, il che implica che la consapevolezza che il futuro possa essere immaginato, agito e rivoluzionato è possibile se si intuiscono la “profondità” e i mutamenti che ci hanno attraversato come paese – dico questo perché a volte mi nasce il timore che a furia di richiamare i vizi antichi degli italiani, già descritti dai latini, dai rinascimentali, dai risorgimentali ecc.ecc., ci si dimentichi di tutta quella parte di italiani che non sono furbi, evasori, puttanieri, papponi, e via così. Cioè, accetto l’idea che berlusconi sia il sintomo e non il male, che esiste ed esisterà un berlusconismo dopo berlusconi, ma non mi piego all’idea che – poiché berlusconi è l’evidenza dei vizi del paese – nulla sarà mai possibile cambiare.
La metafora familiare del potere mi sembra molto interessante. E a questo proposito direi che Berlusconi non rappresenta una diversa figura di padre, ma quella di un fratello maggiore. Il padre è, di volta in volta, il Presidente della Repubblica che gli boccia le leggi, o la Comunità Europea che gliele impone, o la Costituzione. Lui subisce l’autorità, tant’è vero che la sua lamentela continua è che non ha il potere di fare nulla; però è abbastanza forte da ribellarsi e potersi permettere di fare quello che vuole. Per questo la sua figura esercita un fascino così forte: perchè nel rapporto padre-figlio che esiste tra potere e cittadini, lui riesce ad essere percepito come uno dei figli.
@ micropunta
Che il documentario in questione possa funzionare meglio senza audio è un punto di vista anche condivisibile. Anzi, forse è una pratica pure consigliabile: le immagini in effetti parlano da sé. Ed è a quelle immagini – cioè a quell’immaginario – infatti che si faceva riferimento qui.
Sul fatto che la soluzione del problema passi dal riconoscimento dei diritti delle sex workers, non saprei dire. A me sembra un tantino angusta e riduzionista come posizione, ma ben vengano i diritti dei lavoratori, chiunque essi/e siano.
@ Anais
nemmeno io ti ho mancato di rispetto, quindi siamo pari.
Il punto è che al rischio reale di non vedere la prostituzione per quel che è nella prassi concreta e nella vita di chi la esercita, non credo si risponda con efficacia tirando in ballo la prostituzione (*nel suo specifico* e nella sua accezione letterale) anche quando-e-dove il tirarla in ballo non può essere fecondo. Questo thread mi sembra un esempio di contesto in cui tirarla in ballo nel suo specifico non ha prodotto granché. Bada, non riguarda solo la prostituzione: è un rischio in cui incorrono *tutti* gli esperti e gli appassionati di una tematica, quello di infilarla sempre e comunque nei discorsi.
E un altro rischio in cui incorre chi è molto attaccato a un tema, è quello di “inchiodare le metafore” che usano gli altri.
Mi spiego, se io dico: “Questo Paese sta scivolando giù nel cesso”, non mi aspetto di veder intervenire un idraulico che mi dica: “Parlate di cessi ma non sapete come funzionano lo scarico e il carico, che parlate a fare? Ecco qui un link a un documentario che racconta esperienze di idraulici alle prese con water etc. etc.”
Detto ciò, ho detto che farò tesoro dei tuoi suggerimenti, e non ero ironico.
Ora, della mia ri-spiegazione del perché abbia incorporato il video nel post, tu hai tenuto solo una parola contenuta nella prima frase: “documentario”. La sostanza del mio discorso l’hai scartata per poter contestare la parola. E sia.
Sul fatto che un documentario non possa essere “iper-soggettivo” ed esprimere con forza il punto di vista di chi lo fa: mi sembra che tu confonda due piani, cioè un dover-essere del Documentario inteso quasi come idea normativa, e la parola “documentario” come viene usata normalmente per descrivere un lungometraggio o mediometraggio di non-fiction con determinate caratteristiche etc.
Che “Il corpo delle donne”, per quanto sui generis, sia un documentario mi pare assodato. Tutti accettano di definirlo così perché è la definizione che di solito si dà alle opere di quel genere.
Che poi questo non corrisponda alla tua idea di come-dovrebbe-essere un documentario, mi sembra un altro paio di maniche.
Se vogliamo restare nel campo semantico del giornalismo, “Il corpo delle donne” può essere definito un *editoriale*, oppure un *corsivo*, insomma: un articolo d’opinione anziché di cronaca. Se la Zanardo quelle cose le avesse scritte su un giornale, qualcuno avrebbe detto che… non era un articolo? Avresti scritto: “Siccome io di articoli ne scrivo, posso dire che quello non è un articolo?”
A me del presunto o reale perbenismo del voice-over frega poco o niente. Anche perché mi hanno rotto i coglioni quelli che danno del “perbenista” o del “moralista” a Tizio, Caio e Sempronio. Sospetto immediatamente di chiunque scagli simili epiteti. Quel montaggio di immagini sarà sempre meglio di qualunque faticosa descrizione di come viene usato il corpo della donna nella tv “leggera” italiana. Per questo l’ho nominato.
@ alexpardi
Sì, esatto. Anche in questo senso Berlusconi agisce le proiezioni della gente: è abbastanza “coraggioso” da “ribellarsi” ad autorità formalmente superiori alla sua. Così si spiega anche il desiderio dell’uomo di arrivare al Quirinale… qui la dinamica edipica è evidente.
Solo una cosa,
Che palle! Non so neanche come sono riuscito a scorrere 124 commenti di gente che sembra fare a gara, mo ci vuole proprio, a chi ce l’ha più lungo.
Ma ve li immaginate Spartaco e Cola a discutere in questo modo? Poi uno si chiede perché sto tizio sia li da 15 anni…
Sto Tizio sfrutta e incanala l’odio della piccola borghesia per qualunque cosa sappia di “difficile”. Sta lì da 15 anni proprio perché incarna il “facile”.
@ gogol_variation
Inesatto. Non è: “uno si chiede ecc…”. E’: “noi, che portiamo avanti questo thread, ci stiamo chiedendo perchè sto tizio è lì da quindici anni…”. Tu, action man (o woman) evidentemente hai risposte pronte. Del tipo: è colpa di voi segaioli, se quel tizio ecc. ecc. E comunque se non ti diverti, fatti tuoi :-)
–
–
@ wuming 4
Quelle immagini e quell’immaginario simbolico si alimentano dal fatto che le “puttane” (vedi donna) non hanno diritti, sono reiette della società con uno stigma così
forte e radicato che anche Papi ne Gode. Se togli lo stigma, se dai diritti quindi, il godimento Papi , l’immaginario “Godi” ridiventa desiderio persona, per questo i diritti sono una metafora che applicata a tutto cancella il problema di un “Padre Nostro”, dalla doppia morale.
@Wuming1
Tralascio le lezioni sul “documentario” … mi viene un pò da ridere ma fai come se fossi a casa tua….
invece rispetto al tuo: ” Tutti lo chiamano…”
Ma TUTTI chi? “Tutti” chiamavano pace la guerra in Iraq. “Tutti” te lo lascio, però ti segnalo che MOLTI sono i documentaristi, i filmakers i videomakers i critici, i giornalisti, le persone, che lo contestano come “documentario”, come documento, e non è solo la vecchia guardia che lo contesta, è sopratutto la nuova, sono le nuove generazioni, per fortuna.
Ecco bravo chiamalo “Editoriale”, tipo quelli di Scalfari su Repubblica, gli calza a pennello.
E fatti pure girare i coglioni tesoro, rimane moralista, perbenista, discriminante, e quindi pericoloso, per chi non ha gli strumenti per decifrarlo. E lo rimarrà nel tempo con buona pace delle tue palle che girano.
Per il resto stai offendendo la mia intelligenza, oltre alla tua. E a proposito di cesso cominincio a sentire puzza di merda. Quando hai finito tira la catena.
Prenditi pure l’ultima parola, te la meriti.
Madame Anais
Micropunta in blacklist. Un paio di narici sensibili in meno.
@ micropunta
Non farti mai più rivedere a queste latitudini. O almeno prima impara a comportarti e non insultare chi ospita i tuoi commenti nel suo blog.
Quanto al fatto che l’immaginario maschile e femminile italiano dipenda dall’assenza di diritti per le prostitute, facci il piacere, va là… Se questo non è prendere la parte per il tutto (l’accusa che ci era stata mossa all’inizio di questo thread) non so cosa lo sia.
@wuming1
La mia non era una critica alla complessità del discorso, era una critica alla futilità.
Ho trovato il tuo post, per quanto bozza di una bozza di appunti, interessante e altamente “godibile” (¡toma ya mademoiselle!).
Proprio per questo mi sono arrischiato a leggere i commenti, cosa che, per questioni di salute mentale, faccio sempre più di rado.
La discussione, inizialmente coinvolgente, con spunti aggiuntivi e suggerimenti d’analisi forse ancora più interessanti del post in quanto tale, è rapidamente degenerata. Duole dirlo, ma siete cascati con tutte le scarpe nella trappola dei troll di turno, tanto che alla fine non è stato più possibile distinguere spammatore da spammato.
La cosa peggiore, come succede sempre, alla fine tutti amici come prima, tutti che “non ci eravamo capiti ma tu…”, “non ti volevo offendere ma…” e via discorrendo.
L’unico risultato, dal mio punto di vista, è che i contenuti sono passati in secondo piano, ho perso il filo del discorso già di per se complesso (vabbé, ho perso pure due, ma sti cazzi, piuttosto che lavorare, questo e altro) e c’ho fatto pure la figura del cettolaqualunque, c’ho fatto!
@wuming5
tutto fuorché action man (o woman :) ).
Armi e bagagli, elogio della fuga e ora il Paese, con tutte le sue anomalie, me lo godo esclusivamente dalla finestrella privilegiata della rete.
Ah… e nessuna risposta pronta, sennó mica starei qua a leggermi tutte ste pippe mentali :P
Io sono due giorni e una notte che mi massacro gli occhi sullo schermo a leggere sto thread. Ce ne fossero, per dio. Benzina per la mente in piena crisi energetica. Grazie davvere ai WM tutti. E spero che WM1 abbia preso appunti, perchè tra uno scazzo e un altro sono uscite fuori delle belle cose comunque! A questo punto – e giusto per rilassarci un attimo – potremmo aprire il toto-citazioni: da chi sarà composta la “debole cornice teorica” dei prossimi interventi programmati da WM1? Ha già fatto capire che ci sarà Pasolini (quello di Porcile?) e Foucault (il primo, o l’ultimo?), e poi? Sicuramente il dinamico duo Lacan-Zizek, e il loro fantasma Freud (magari quello della psicologia delle masse?)…
Scherzi a parte, era solo per dirvi grazie. Questo che fate è davvero ossigeno per il cervello…
“La cosa peggiore, come succede sempre, alla fine tutti amici come prima, tutti che “non ci eravamo capiti ma tu…”, “non ti volevo offendere ma…” e via discorrendo.”
Ma non mi pare proprio. Se c’è gente a cui *non* si può imputare questo atteggiamento, siamo proprio noi. Quando si tratta di “bannare” qualcuno, lo facciamo, e stai sicuro che rimane bannato, perché le discussioni vanno protette da stalker e monopolizzatori.
Solo che onestamente Regazzoni, al di là delle spiacevolezze recenti, non può essere ridotto a questo, è uno con cui abbiamo collaborato, era sul palco con me a Genova in questo assurdo frangente… Un confronto, anche duro, era d’uopo. Gli dovevo almeno un sincero vaffanculo :-)
Diverso il caso della persona che abbiamo appena messo in blacklist.
Comunque fidati ché i tarallucci e il vino io non li servo. Mai. Niente inutili risentimenti, ma nemmeno buonismi paraculi.
Mi sembra che la discussione si sia ripresa e non possa essere ridotta a quel che dici tu. Ci sono stati un sacco di commenti ricchissimi di spunti, che infatti elaborerò nelle prossime puntate (ringraziando chi li ha forniti, nessuno escluso).
@ Wu Ming 4, 5, e Paola:
“Legibus solutus”: era una formula che avrei voluto usare, ma mi sono trattenuto. Però credo sia essenziale. La fiction berlusconiana, nella sua radicale novità, si innesta sulla struttura della sovranità per cui il sovrano è al contempo colui che fa la legge e fuori-legge. E’ all’interno di questa struttura che legge e godimento si annodano.
La peculiarità della fiction b. è di essere audio-visiva: la costruzione del corpo del leader, in termini di genealogia, rimanda dunque piuttosto a Hitler (parlo di genealogia) che non al corpo del duce analizzato da Luzzatto (certo dovrei dimostrare ciò che affermo…). Ora il leader qui non è una sorta di uomo medio al potere bensì uno “larger than life”, simile a certi grandi criminali: anche qui grande criminale e uomo di legge non sono in contraddizione. La questione delle leggi ad personam o delle leggi per quelli come lui credo debba essere riletta guardando a B. come a un corpo che incarna il suo popolo: sono dunque riduttive le letture di B. come privato che scende in politica per difeendere i suoi interessi o quelli dei “ricchi”. Lui in quanto “incarnazione” del suo popolo, permettetemi di dire, non fa mai nulla per sé. In questo senso non basta che i poteri forti lo abbandonino, secondo me.
Sempre per rimanere leggeri, nonchè vicini ai temi cari all’Amato Leader, trovo che dopo Tognazzi-Vianello e Gianni-Pinotto, il Duo Dinamico sarebbe perfetto per incipit di irresistibili barzellette.
Ci sono Lacan e Zizek che vanno a puttane…..
L.
Precisazione: come ho detto anche altrove, nel contesto di discussioni dure, pubbliche e private, da parte mia resta il riconoscimento del valore umano e intellettuale di Wu Ming1. Non starei qui a discutere altrimenti. Ciò non cancella né durezze, né scazzi, né altro, ci mancherebbe. E nemmeno la distanza delle posizioni. Sarebbe poco serio e ingiusto. Odio il “volemose bene”. Ma ci tengo al riconoscimento.
@ Simone Regazzoni
No, forse non basta. Tanto più che – come dicevo – bisognerà vedere da cosa sarà riempito il vuoto che lascerà.
L’Italia è in lutto per la scomparsa del Padre. Il Padre Severo turboliberista ha rivelato il suo vero volto: egocentrico, amorale, schiavista. Il Genitore Premuroso, d’altra parte, non ha idee, non disegna scenari futuri, balbetta. Bisogna elaborare il lutto, pena la melanconia, la paranoia e – peggio ancora – la coazione a ripetere, già in atto, ovunque ti volti, a destra e a sinistra.
E’ un lutto, quello della scomparsa del padre, di cui un po’ mi intendo, per ragioni biografiche, forse troppo personali.
Posso dire di averlo affrontato (superato non so), grazie a due ingredienti: mia madre – che mi ha fatto anche da padre, ma in un modo diverso – e mia moglie – che mi ha fatto diventare genitore.
Ora la madre, nel frame della nazione come famiglia proposto da Lakoff, rappresenta la comunità, il legame tra le persone.
Allora mi viene da dire che per elaborare il lutto, invece di cercare un altro Padre, dovremmo forse puntare gli occhi sulla comunità. Chiederci se davvero esiste, ad esempio, un popolo di sinistra. Che cosa lo tiene insieme. Dove sta il legame.
Secondo, mi viene da ripetere che “dobbiamo essere i genitori”, tutti quanti, e non, viceversa, proporci ciascuno come nuovo genitore, un altro Padre per tutti. “Essere i genitori” non è una prescrizione: io lo sono diventato ma certo non per dovere. Per scelta, per natura, per amore.
Poi mi sono accorto che, proprio quando diventi genitore, e pensi che ormai il gioco sia fatto, ecco che per la prima volta senti tornare il bisogno di un padre, tuo padre, col quale confrontarti, discutere, capire. Per fortuna, non sei l’unico, a essere genitore. Hai una compagna, hai degli amici. Ecco perché, per elaborare il lutto, bisogna essere genitori, sì, ma non da soli.
@eFFe
eh, io la vedo grigia! Ho da parte – o sto prendendo, quando riesco – appunti sulla situazione attuale dove vengono “messi al lavoro” (prevedibilmente) il Furio Jesi della macchina mitologica, il Pasolini di “Salò”, “Petrolio” e “Lettere luterane”, l’ultimo e ultimissimo Foucault (quello della “cura di sé”, del “dire la verità” etc. insomma, dell’entusiasmante ri-spostamento d’accento sul soggetto); poi riferimenti al “discorso del capitalista” secondo Lacan, a Badiou, a Tronti, e vari materiali del femminismo non differenzialista… Su suggerimento di Bardok, ho ordinato “On Populist Reason” di Laclau.
Sia chiaro che il ricorso a riflessioni di questi autori non implica da parte mia uno “sposalizio” di questa o quella teoria o quadro concettuale etc. Un concetto può essere chiamato in causa anche per verificarne la tenuta e poi discostarsene.
Tutto questo andrebbe sistemato (e in bella prosa!) tenendo conto delle cose uscite in questo thread e – ovviamente! – del sunto che WM2 trarrà dalla discussione sulle “storie tossiche”. E pure lui, nel suo lavoro, dovrà tener conto degli spunti venuti fuori nei thread sul “mito tecnicizzato”. E son cazzi, chi ce l’ha il tempo? E’ tutto lavoro gràtisse, almeno al momento :-( Stiamo anche studiando per il nuovo romanzo, impresa bella ambiziosa…
Insomma, siamo nella merda.
Dunque: ci stanno Lacan e Zizek che vanno a puttane e…
@ Wu Ming 1: ho qui daventi a me “La ragione populista” di Laclau. Testo importantissimo per me. Cito dall’introduzione di Tarrizzo: “Perché un politico deve farci vedere che gode, di questi tempi, se vuole restare dov’è? Perché per ‘noi’ che viviamo nel tempo di una crisi del Nome-del-Padre, un padre appare così: nelle spoglie di un padre vivo e vegeto che se la spassa […] E se questo padre non ci darà a vedere che gode, noi intuiremo, postuleremo comunque il suo godimento, ne origlieremo le telefonate, magari, oppure ne sbirceremo le fotografie strappate clandestinamente, perché è proprio questo il padre che ci aspetta, una volta entrato in crisi l’ordine simbolico”.
@Luca e WM1, io ora una storiella di Zizek e Lacan che vanno a puttane qui a Parigi la scrivo davvero, non sia mai che sia catartica… :-))
Su Pasolini, nel caso tu non l’abbia visto, trovi spunti in Porcile:
http://www.youtube.com/watch?v=K76YqYb6jso
Scusa, il link che volevo mettere è questo:
http://www.youtube.com/watch?v=3gDumAdj3as&feature=related
Consiglio bibliografico (se non è stato già dato): “L’AUTORITA’. Costruzione e corrosione” di Bruce Lincoln.
Bisogna ridare la parola a Tersite…
@ Simone
probabilmente il taglio “[…]” elimina un passaggio logico di Tarrizzo, perché mi sembra brusco il salto da “un politico” a “il padre”: i politici sono tanti, ce li danno a carriolate di mezze tacche, non tutti i politici sono il padre o l’assenza del padre. Per lo stesso motivo trovo inesatto che “un politico” debba “farci vedere che gode”: non tutti i politici possono permettersi questo. Però non c’è dubbio che metta i piedi nel piatto: “è proprio questo il padre che ci aspetta, entrato in crisi l’ordine simbolico”. Ci appare così. Non certo il genitore simbolico, e nemmeno il Padre Severo del frame di destra. Ci appare come un vecchio porco e ci ritroviamo a contemplarlo, spiarlo… Non fa anche questo parte del patto che dicevo, del sapere-che-lui-sa-che-sappiamo?
Più miseramente orfani di così non potremmo essere. Urge una dinamica che ci porti a separarci (appunto, divenendo noi genitori) e a *fottercene* del vecchio porco, di questa zavorra che solo per convenzionale rispetto di un gergo possiamo ritrovarci a chiamare “padre”.
@ Wu Ming 1: sì, ora integro il pezzo (“Questo padre non incardina più la sua particolarità a un simbolo universalizzante che tende a sublimarla in qualcosa di più alto – nella scrittura di un ideale che ne uccide il godimento -, questo padre è soddisfatto di sé e rivendica la propria particolarità, la propria felicità di fronte a un universale che tiene in vita solo con la beffa denigrante”).
Ti segnalavo la prefazione italiana di Tarizzo perché pone un problema che Laclau non tocca e che naturalmente ti interessa. Cito: “Mi colpisce che nella sua analisi del populismo non sia neppure sfiorata una questione importante (che certo rende indigeribile questo dato di cruda realtà agli esponenti del mainstream normativistitico). Parlo del paternialismo politico e della questione del padre […] La domanda è allora: quanti tipi di posizione paterna esistono?”.
Ecco una buona domanda. Credo però che la figura del vecchio porco non renda: questo padre è vitale e sempre giovane. Al limite (dovrei svilupparla ma è la mia idea) è quasi un figlio per i figli stessi, un padre-figlio che se la spassa e attraverso cui noi godiamo come orfani. Pensa a tutti quei film dove il padre è più vitale e giovane del figlio così che questi deve fargli da padre.
@Regazzoni
Quoto: “La fiction berlusconiana, nella sua radicale novità, si innesta sulla struttura della sovranità per cui il sovrano è al contempo colui che fa la legge e fuori-legge.”
Io non vedo tanto una contrapposizione tra i due ruoli di legislatore e fuorilegge, perché il “fare le leggi” di Berlusconi va in direzione opposta all'”imporre le regole” che ci si aspetterebbe da un padre; il suo legiferare è teso a liberare (se stesso e i cittadini) dalle regole, e quindi credo che assuma un ruolo diverso, come ho cercato di spiegare nell’intervento precedente.
Berlusconi non è il padre che impone ai figli divieti che lui per primo non osserva: nessun padre del genere sarebbe amato. E’ il fratello maggiore (o lo zio in visita, se per ragioni anagrafiche sembra più plusibile) che abolisce i divieti.
Ma nel caso di Berlusconi non rende: Berlusconi è ineluttabilmente *vecchio*. Tutti i “tagliandi”, i lifting, le blefaroplastiche, le iniezioni di acido ialuronico, i tacchi alti, l’enfasi perenne sulla prestanza fisica (subito prima di prendersi il Duomo in faccia, in una fredda serata d’inverno, aveva fatto vedere di essere a petto nudo sotto la camicia), i deliranti proclami sul vivere fino a 120 anni… Tutto questo lo rende solo un patetico vecchio che pateticamente cerca di ingannare l’invecchiamento. Un vecchio che fa il gradasso ma è *terrorizzato* dalla Grande Mietitrice. E infatti ogni tanto il suo corpo *dice la verità* e gli prende un coccolone, uno smalvino, sviene sul podio e devono portarlo via, oppure appare in pubblico tutto gonfio e giallo, o scompare per interi giorni – ma tendiamo a non accorgercene perché la sua immagine è sempre ovunque – e in quei frangenti si dice che abbia “un raffreddore” (come Andropov e Chernenko), un tumore, un qualcosa… No, non è giovane né vitale. Non è figlio nostro. E’ solo uno rimasto in giro troppo a lungo e che si deve levare di torno.
@ alexpardi: capisco il tuo punto di vista, ma non concordo con il nodo di fondo: Berlusconi che ci libera dalle regole, B. l’anarchico. Io ci vedo un doppio volto: l’unto del signore è Padre e figlio sregolato, Legge e fuori-legge.
@ Wu Ming 1: anche qui, credo io, proprio come nel caso della sovranità dobbiamo tenere presenti che ci sono due corpi del re, qui del leader. E che il corpo reale importa poco quando a incarnare la sovranità è il corpo audio-visivo che si narra e presenta come “giovane e vitale”. E’ vero qui o là abbiamo l’irruzione traumatica del reale, ma ciò non mina la narrazione, perché il corpo che conta è quello audio-visivo. Nel passato alla morte di un sovrano poteva farne le veci una effigie, nel momento del passaggio, perché da sempre il corpo che conta è fittizio. Dire che Berlusconi è vecchio è un po’ come dire che l’attore che interpreta superman (l’esempio è voluto) in realtà non vola. Non funziona secondo me.
@wuming1
alcuni giorni fa ho avuto con mio figlio (7 anni) questo dialogo:
-papa’, chi e’ berlusconi?
-e’ il capo del governo.
-e’ uno stronzo?
-si’.
-morira’?
-prima o poi, come tutti.
@Wu Ming2
“Poi mi sono accorto che, proprio quando diventi genitore, e pensi che ormai il gioco sia fatto, ecco che per la prima volta senti tornare il bisogno di un padre, tuo padre, col quale confrontarti, discutere, capire. Per fortuna, non sei l’unico, a essere genitore. Hai una compagna, hai degli amici. Ecco perché, per elaborare il lutto, bisogna essere genitori, sì, ma non da soli.”
Eccolo il principio di realtà.
Seppellire la logorrea francese degli ultimi quarant’anni e tornare a fare i conti con il vissuto.
cerco di farla breve a costo di ipersemplificare. credo anch’io che berlusconi sia (anche) un prodotto, e la sua data di produzione si colloca alla fine degli anni settanta. ovvero quando la sinistra italiana ha definitivamente rinunciato a rappresentare le istanze di liberazione, penso al 77 ma non solo. da quell’oggettiva partecipazione repressiva in poi l’ansia di catarsi dalle strutture paternalistiche viene intercettata da destra e la radice liber- conosce la degradazione di suffissi che ci ha condotti dove siamo adesso. finché si tenterà di combattere il berlusconismo sul terreno della moralità – e finché il discorso antiberlusconiano sarà in mano a repubblica, il fatto, saviano e tutta la genìa di censori-parassiti – questo nefasto scambio di ruoli continuerà a privarci di un orizzonte libertario. cioè di qualcosa per cui valga la pena di sopravvivere a berlusconi, sempre che si decida a crepare prima o poi.
Ma è proprio il suo corpo “mediatico” a essere vecchio e ridicolo, perché non può ignorare il decadimento del corpo reale. E’ sempre più gonfio, sempre più “piallato”. E poi mediatico e reale coincidono: io mica l’ho mai visto di persona, lo vedo nei media, e come me quasi tutti gli italiani. Ed è da come appare nei media che ricavo la sensazione di un decadimento sempre più veloce. La mascherata (è letteralmente una mascherata) del sempre-giovane e sempre-aitante e coetaneo-dei-propri-figli è destinata a entrare sempre più in crisi, perché l’invecchiamento non lo puoi ingannare davvero, il reale irrompe, e lo fa sempre più spesso.
Non sto dicendo: giovane = consenso, vecchio = impopolarità. Non è un processo automatico. Come ricordava WM5, non puoi de-feticizzare un feticista spiegandogli che il suo è un feticismo, perché lo sa benissimo. Per molti italiani anche nella sua versione più grottesca, bolsa e incipriata lui sarà ancora, alla peggio, quello-che-comunque-è-meglio-degli-altri.
Dialogo di ieri al Mercato delle Erbe di Bologna.
Anziana signora – Lui lì paga le donne migliaia di euro per farsi scopare. Io sono brutta, vecchia e grassa, ma non lo toccherei nemmeno con un cacciavite, neanche per un miliardo, brutto bavoso.
Anziano signore – Almeno lui chiava, signora. Lei, invece, non chiava più.
Signore più giovane – Perché, vecchio, tu chiavi ancora?
Anziano signore – Vabbe’, ma che c’entra…
Ecco come funziona. La chiavata per interposta persona. Berlusconi è un vecchio bavoso? Certo, ma non dimentichiamoci che questo è un paese di vecchi…
Ma anche un paese di vecchie come quella di cui hai ascoltato l’impeccabile dichiarazione :-)
Si ma cosa stiamo scoprendo?
Un antropologo colonialista di fine ottocento (Sir James Frazer- The golden bough) aveva già notato che nelle società primitive il corpo del capo incarna la proiezione vitale dell’intera comunità, tanto è vero che quando invecchia e s’indebolisce lo uccidono prima che muoia da solo, perchè l’eterna giovinezza della tribù non ne venga minacciata.
Questo è l’idolo del potere totemico, non il padre, che è inizio e fondazione, e che innanzitutto traccia i confini tra ciò che è legale e ciò che non lo è, e che si manifesta nella teologia jahvista in un modo che le società primitive non hanno conosciuto. Anche questo si espone alla perversione idolatrica, ma in qualche modo contiene in sè la possibilità di una ulteriore catarsi, come la storia delle società prodottesi dal pollone giudaico-cristiano hanno mostrato continuamente, sviluppando contraddizioni sociali e fenomeni rivoluzionari a differenza delle società “fredde”, immobilizzate nel sistema delle caste.
La minaccia peggiore per l’occidente è l’oblio del principio paterno (che non è maschile più che femminile ma è verticale più che orizzontale) e la dissoluzione dell’ordine simbolico da esso instaurato nell’uroboro che divora e rigenera se stesso, senza storia e senza memoria.
Il figlio senza padri, il narciso di massa, è l’esatto contrario del figlio della legge, colui che è circonciso non tanto nella carne quanto nello spirito, cioè salvato dalla selvatichezza e dall’oblio della condizione puramente naturale (che per l’uomo non è mai originaria ma sempre regressiva).
Berlusconi non è il padre, certo: è l’idolo totemico, il sempre giovane a botte di lifting e botulino. Ora che sta per tirare le cuoia, si andrà in cerca di un nuovo garante del godimento e del cannibalismo o si avrà il coraggio di ri-fondare, rompendo con le appartenenze equivoche che hanno distrutto il messianismo marxista e che anche qui dentro qualcuno rappresenta così bene?
Il pronostico è facile, Valter: in moltissimi andranno in cerca del nuovo capo (nuove corse di topi sono già al loro inizio), in pochissimi ci porremo il problema di fondamenta diverse su cui costruire.
@ Binaghi: eiste anche un padre primordiale che è all’opera in Berlusconi come padre. Cito da Zizek: “il padre primordiale freudiano – l’osceno padre-godimento che non è subordinato ad alcuna legge simbolica”. Anche questo è un padre. Ci sono più padri, o se preferite più funzioni paterne. E Berlusconi ne incarna più d’uno. Quanto al messianismo marxista, non ne ho nessuna nostalgia.
Recentemente ho affrontato un’esperienza nuova: i corsi di formazione obbligatori per cassaintegrati. Lì, circondata da persone così diverse da me per cultura, formazione, età (ho 27 anni e una laurea) mi sono resa conto dolorosamente di QUANTO Berlusconi (uso questo vocabolo col significato che gli ha dato WM1) abbia vinto. Mi trovavo in mezzo a persone di 30, 40, 50 anni, che con ogni probabilità stavano per perdere il lavoro. Certo erano arrabbiate, ma la loro rabbia non saliva in verticale contro chi senza difficoltà puo’ pagare una serata con una escort l’equivalente di 5-6 dei loro stipendi. La loro rabbia si espandeva in orizzontale contro bersagli insignificanti, i precari della scuola che dovevano cambiare lavoro prima, gli operai di pomigliano che si permettono di fare sciopero, gli autisti del trasporto pubblico che fanno gli scrutatori alle elezioni. Si espandeva in orizzontale e ovviamente si dissolveva nel nulla. Ha ragione WM2, la chiavata per interposta persona: certo io sono un cassaintegrato con 2 figli e moglie disoccupata, ma se avessi i soldi mi prenderei la escort pure io e quindi ammiro chi lo fa. Il successo di Berlusconi, me ne sono resa conto lucidamente in mezzo a quelle persone socialmente sfortunate, è la scomparsa non dico della coscienza di classe, ma semplicemente della solidarietà umana, per cui chi è nella merda come te non è altro che un tuo concorrente.
@Reguzzoni
Nemmeno io ho nostalgia di quello, ma della carica fondante che portava con sè e che andrebbe nuovamente declinata, perchè è trascendenza, futuro, garanzia di civiltà.
Quanto alla doppia funzione berlusconiana, padre e fuorilegge, è semplicemente la sua oscena capacità di interpretare la parte più civilizzata (moderata, cattolica) e quella più barbarica e smoderata della piccola borghesia italiana.
Zizek non lo conosco, ma ti ricordo che la saggezza della mitologia greca propone non due ma ben tre “funzioni” paterne. Urano, Crono e Zeus. Ovvero il cannibale uroborico, il ribelle titanico (terrorista?) e il legislatore, che corrispono evidentemente a tre stadi non cronologici ma ontologici della sovranità. Le caratteristiche uraniche con cui ultimamente berlusconi esibisce il suo potere assoluto ricevendone almeno parziale consenso la dicono tutta sul carattere regressivo del sociale in Italia.
@Regazzoni
Scusa se ti ho storpiato il nome. Doppie scuse perchè il Reguzzoni che conosco è un sociologo gesuita
:-)
Beh, ma qui stiamo parlando proprio dei “re guzzoni” :-) “Guzzare” (con doppia zeta dura) dalle mie parti significa chiavare.
non so se puo’ essere di qualche utilita’: questo e’ berlusconi che parla ai bambini di una scuola de l’ aquila.
http://www.youtube.com/watch?v=hqrf1AfSGFw
@ Wu Ming 1 e Binaghi: mi va tutto bene, ma “Reguzzoni” è anche il presidente dei deputati della Lega alla Camera :(
Minchia, i giochini di Lacan mi perseguitano.
:-)
@ tuco,
Dice due volte di fila: “Mi tocco qui e mi fa male”, mettendo enfasi sul “qui”, e chiede ai bambini quale possa essere la causa del dolore.
@ wuming1
infatti, allora secondo me ci sono due cose da dire:
1) sta creando un “doppio legame” (ok, il doppio legame e’ uno degli ingredienti dell’ umorismo, ma qui i bambini sono *obbligati* a ridere, perche’ berlusconi e’ il presidente, e questa e’ una forma di violenza)
2) forse e’ *vero* che toccandosi in quei punti gli fa male, perche’ il suo corpo e’ tenuto in piedi dalla chimica.
scusate se ritorno dalla cima di questa pagina andando un po’ OT, ma mi sembrava giusto rispondere a Paolo. Per il resto, mi sembra che si inizi a fare chiarezza su certi punti, grazie ai WM per ospitarla sul loro spazio telematico (:
@ Paolo1984
Purtroppo non è così e si tratta di una situazione generale, in cui il particolare, l’eccezione, è proprio chi legge, chi non ascolta/guarda solo mediaset/mtv, chi si fa una passeggiata in montagna la domenica. Guarda dove sto tentando di scarabocchiare qualche pensiero: mi piacerebbe poterlo fare con il collega seduto accanto a me in università. In quella in cui mi trovo si stanno svolgendo manifestazioni contro i tagli e il blocco delle assunzioni; per coinvolgere più persone i comitati degli studenti si sono sentiti costretti a organizzare feste con musica e djs (e a pagare la SIAE…) per coinvolgere più persone, e stiamo parlando dei diretti interessati di una manovra economica! Ben vengano le feste, ma è notevole che siano diventate il mezzo attraverso cui comunicare un messaggio perché alle assemblee il numero dei partecipanti è ridottio al minimo. Da qui, secondo me, la centralità di “responsabilità” e “futuro” come temi sviluppabili in un discorso per il post-b.
Bè, meno male che la discussione è ripresa su un binario di confronto e non solo di scontro. Mi faceva un po’ tristezza che si incistasse su questioni di metodo.
@Binaghi: molto bello il tuo spunto sulle tre funzioni paterne, e sulle caratteristiche uraniche del premier. Forse sarebbe meglio dire uraniane, perché uranico ha dopotutto una connotazione positiva. Rimanda al suo fare fuori i figli-concorrenti, e chissà quale Venere uscirebbe dai genitali tagliati, ovvero il giusto contrappasso per berlusconi. La qual cosa potrebbe anche rimandare (ma anche no) a Freud.
Non sono però d’accordo sul fatto che queste caratteristiche parlino di un regresso sociale. Se così fosse, l’avversione verso berlusconi sarebbe totale, invece è il parziale consenso che menzioni che rende la questione molto più complessa.
http://www.repubblica.it/scuola/2010/11/10/news/protesta_scuole_inglesi-8965913/?rss ecco una cosa che non vedremo qui.
Mi sono poi accorta di avere confuso “Videocracy” con “Il corpo delle donne”. Questo mi ha dato da pensare, perché i due documentari pongono – se non sbaglio – il problema da prospettive diverse, ma alla fine entrambi parlano della manipolazione che il televisivo esercita sull’immaginario, indipendentemente dal fatto che in uno si tratti dello narcosi causata dall’eccesso di esibizione del corpo femminile in TV e nell’altro dello strapotere di certi personaggi di corte. Le due cose sono due facce della stessa medaglia, in quanto l’obiettivo delle due operazioni (cioè svilimento del femminile e strapotere, anche politico, di chi procura le carne da macello) è il medesimo, cioè rincoglionire una nazione facendo leva sulla sua sempiterna natura sibaritica (leggi gnocca dipendente, scusate la finezza).
Terzo commento di fila, scusate, ma il link di giacomo chiede una risposta. Non è vero che qui non vedremo cose così. Ti ricordo l’ottobre di due anni fa a Roma, quando la protesta degenerò a causa dei fascisti. Inoltre, sinceramente, spero proprio che qui non si verifichi quello che sta succedendo in UK, dove i tagli all’istruzione sono diventati così drammatici che oramai l’università è esclusivo appannaggio dei ricchi, tanto è vero che diventato perfino ridicolo insegnarci: ci si trova, magari con un retroterra di estrema sinistra, ad avere come uditorio a lezione quattro cazzoni pieni di soldi fino al culo che pretendono di studiare l’italiano attraverso la moda e l’unica applicazione dei cultural studies (che è anche l’unica impostazione oramai accettata, perché fa molto cool) è quella relativa all’Italian style. Altro che fuga di cervelli. Davvero alla fine con tutte le contraddizioni e la fatica del caso, si inzia a stare meglio qui, almeno a scuola ci sono ancora tutte le classi sociali, e non solo una, e quella più odiosa.
” almeno a scuola ci sono ancora tutte le classi sociali, e non solo una, e quella più odiosa” . Claudia, è giusto il tuo chiarimento, anche perchè dietro ai ragazzi ci sono le famiglie, e lì alcuni si stanno vendendo l’anima al diavolo per assicurare ai figli certe scuole e poi certe università… Vabbè, scusate, questo è un altro discorso.
Al volo: non è un caso se alla “chiavata per procura” offerta da Berlusconi al suo popolo, faccia eco il desiderio di una “intifada per procura” da parte di certi gruppi antiberlusconiani: tira tu il sasso a quello stronzo, che io non glielo posso tirare, e comunque se glielo tirassi gli farei poco male.
“Atride, di che ti lamenti? Che brami ancora?
Piene di bronzo hai le tende, e molte donne
sono nelle tue tende, scelte, ché a te noi Achei
le diamo per primo, quando abbiam preso una rocca;
e ancora hai sete d’oro, che ti porti qualcuno
dei Teucri domatori di cavalli, riscatto pel figlio
preso e legato da me o da un altro dei Danai?
O vuoi giovane donna, per far con essa all’amore,
e che tu solo possieda in disparte? Ma non è giusto
che un capo immerga nei mali i figli degli Achei.
Ah, poltroni, brutti vigliacchi, Achee non Achei,
a casa, sì, sulle navi torniamo, lasciamo costui
qui, a Troia, a digerirsi i suoi onori, che veda
se tutti noi gli eravamo d’aiuto o no.”
(Discorso di Tersite contro Agamennone, Iliade)
“Dopo migliaia di anni, le lacrime, il dolore, la paura, l’umiliazione di questo maestro nell’arte del discorso corrosivo continuano a erodere il rispetto che si può provare per Odisseo, Agamennone, lo scettro d’oro o il sistema simbolico e sociopolitico in grado di investire uomini e oggetti di autorità. Ogni discorso può, con lentezza o rapidità, guadagnare o alterare la sua efficacia; e questo testo, come molti altri, continua a parlare; letto o ascoltato in nuovi modi da un nuovo pubblico, ha finito per portare vergogna a coloro che un tempo sono stati i suoi eroi.”
(Bruce Lincoln, “L’autorità”)
Basta con padrini, padroni e generali. Diamo la parola alla truppa, e andiamocene da Troia.
@ Wu Ming 1
Non so…
Condivido in pieno la tua analisi, eppure mi spaventa.
Tempo fa mio padre, che ha militato nel Pci fino allo scioglimento (e alla fine dei ’70 si opponeva alla linea del compromesso storico), cercò di giustificare il concetto berlingueriano di “austerità” con argomentazioni più o meno simili. Senza citare Lacan ovviamente.
Pensai, senza dirglielo, che messa così la cosa era più o meno accettabile.
Gli dissi invece, e ne ero convinto, che anche mettendo la questione in quei termini, la funzione reale che ebbe quella politica, quel concetto, fu di giustificare e far accettare “alle masse” i sacrifici per superare la crisi.
I proletari si sacrificarono al posto dei padroni, che invece continuarono a godere.
A spaventarmi è proprio questo: un’analisi del genere, nelle mani di un centro-sinistra di nuovo al governo, potrebbe avere la stessa funzione che l’austerità di Berlinguer ebbe per Lama quando, per esempio, si schierò per l’abolizione della scala mobile.
E la cosa mi fa paura: chi, nonostante l’imperativo “Godi!”, non ha goduto, se non accontentandosi di cieli stellati prodotti in serie , continuerà a sacrificarsi per gli interessi di chi invece se la gode da sempre.
Sarebbe una nuova sconfitta, un altro lutto da elaborare.
Credo (penso come te) che Berlusconi “nacque” alla fine degli anni ’70.
Si appropriò del godimento e lo declinò secondo i suoi interessi. Non c’era più nessuno a contrastarlo.
Certo, il processo era in atto già da tempo. Altrimenti mica Pasolini avrebbe rinnegato la “Trilogia della vita” rendendosi conto di contribuire alla mercificazione dei corpi, non a una loro liberazione.
Perciò, secondo me, a Pasolini e Foucault devi arrivarci il più presto possibile, anche se è un lavoro aggratis.
Credo serva a mettere i puntini sulle i, a evitare strumentalizzazioni di questa “tesi”.
@Luca
Credo tu abbia ragione, il Padre perso è il futuro.
O forse l’idea che il futuro possa essere diverso, che non siamo costretti a vivere in un eterno presente dove nulla cambia e, se cambia, è affinché non cambi niente.
“Un mondo diverso è possibile” gridavamo 10 anni fa.
Con gli occhi di oggi lo considero più un mantra per darci forza, per autoconvincerci, che una convinzione radicata.
E la “macchina del fango”, quella vera, lavora ogni giorno per indebolire sempre più questa convinzione.
Un mondo diverso non è possibile, se non entro i confini e le prescrizioni del capitale. Ce lo ripetono in continuazione.
Pure Saviano, anche se indirettamente, lo dice.
E siamo ormai in pochi a pensare che il problema sia il cavallo e non il cavaliere…
Mi torna in mente un vecchio libro che pescai in cantina ormai parecchio tempo fa.
Il titolo era a dir poco imbarazzante: “Chi siamo? Donde veniamo? Dove andiamo?”
Era di un sovietico, Juri Ostrovitianov.
Analizzava la “nuova sinistra” dell’Europa occidentale, soprattutto quella italiana, riconoscendogli grandi potenzialità.
L’unico limite lo vedeva nel concetto di potere che si andava diffondendo.
Un concetto che può essere riassunto in: “il potere è sempre merda, chiunque lo detenga”, minando alla base qualsiasi pulsione rivoluzionaria.
A che serve una rivoluzione se si è convinti che qualsiasi cosa verrà dopo sarà comunque merda, forse peggio di quello che c’era prima?
Meglio seguire chi ci impone: “Godi!”.
Almeno un sogno, una speranza, un modello ce lo dà.
In altri termini si è smesso di sperare che prima o poi “Adda venì Baffone”, perché ci hanno (ci siamo) convinti che “Baffone” è peggio di Berlusconi.
Chiunque sia “Baffone”, e “Baffone” non era uno, erano tanti, era un coindividuo.
“Baffone” erano i nomi che abbiamo pescato nel casellario politico fascista.
“Baffone” non era nostro Padre, erano i nostri nonni. Hanno perso i figli giovani, hanno avuto dei nipoti incapaci di sognare insieme.
C’è una connessione molto stretta tra futuro, educazione e genitorialità, per il semplice fatto che un padre/maestro non può educare un figlio/discepolo senza proporre un futuro. Perché comportarsi in un certo modo, seguire certi consigli, se non c’è una prospettiva? L’unica vera autorevolezza deriva da questo: ho fatto delle esperienze, testimonio delle scelte, posso indicarti dei percorsi. L’alternativa è l’educazione attraverso minacce, che non è vera educazione. Di fronte alle minacce del mondo, il figlio/discepolo indossa armature, abiti in ferro che gli stanno scomodi e prima o poi finirà per togliere. Di fronte a un futuro la pianta cresce, per provare ad afferrarlo, o magari per allontanarsene.
Non c’è educazione senza futuro e d’altra parte non c’è futuro senza educazione, senza sapere, senza studio.
“Ciò che sapremo del mondo cambierà il mondo” scrive Marc Augé nelle pagine finali di “Che fine ha fatto il futuro?”. Un testo stimolante, molto breve, che non a caso si conclude dichiarando che l’istruzione è la prima priorità, e l’educazione un’utopia possibile.
“Si tratta di governare in vista del sapere, di assegnarsi il sapere come fine individuale e collettivo”.
Ancora non mi è chiaro se sia davvero, come sostiene Augé, una “ragionevole scommessa”.
Qualche commento fa, a proposito di una conversazione captata da WM2 al mercato, WM1 faceva notare che questo “è anche un paese di vecchie come quella di cui hai ascoltato l’impeccabile dichiarazione”. Questo mi fa domandare se il discorso fatto fino ad ora sul godimento per interposta persona non stia eludendo qualcosa. E cioè: vale anche per le donne (vecchie o giovani che siano) o non stiamo generalizzando con troppa nonchalance una dinamica di identificazione maschile, perdendoci qualcosa per strada?
wu ming 1
Ma la metafora di Berlusconi come padre non potrebbe essere sostituita con la metafora spettatore-attore?.
In fin dei conti, il padre non è colui che ha abbandonato la superficiale erranza dello spettatore che vaga di spettacolo in spettacolo per assumere infine un ruolo solo ma da attore?
Burlesquoni e’ ancora Il padre pagliaccio, che magnetizza l’attenzione dei figli su di se’.
Che fa’ la battuta sporca per non far sentire ai figli la bestemmia, del nonno, ancor piu’ tremenda,
di la in Camera:
http://www.carmillaonline.com/archives/2010/10/003664.html#003664
Oppure quello che emette un sonoro scureggione per giustificare il puzzo di marcio.
Giu, al piano terra si e’ accumulata monnezza.
La soppressione della puzza prevede, spesso,
l’uso e abuso di deodoranti a volte irritanti.
Quindi e’ meglio distrarre i pupi.
Ci vuole bene in quel senso.
Ci vuole coprire gli occhi da cio’ che potrebbe (s)bloccarci lo sviluppo.
L’ennesima scopata del Prime Sinister diventa percio’ La Notizia.
Lo sfoggio di questa virilita’ chimica, e malata
genera pero’ soltanto qualche barzelletta e monnezza.
Altro che rabbia. Quale cambiamento di rotta, verso dove?
Quale famiglia parallela?
Probabilmente cio’ di cui ci accontenteremmo per il futuro e’ Una Barzelletta. La Barzelletta.
Da raccontarci per generazioni.
Tra Fratelli d’Italia.
Nelle sempre piu’ brevi, pause caffe’.
Per evidenziare un esempio dell’uso pratico ed efficace di questa metafora in politica, rimando a questo breve video:
http://www.youtube.com/watch?v=DoQhH9srELA
E’ una conferenza stampa del Presidente USA sul disastro ecologico nel golfo del messico. Ho cercato invano una versione sottotitolata. Chiedo venia a tutti quelli che no speak.
La mia impressione è che la dinamica di identificazione riguardi anche le donne, che si accontentano però non di godere per interposta persona ma semplicemente di potersi vendere per interposta persona. I maschi pensano “se fossi ricco anche io mi comprerei una Ruby”, le donne invece “se fossi giovane e bella anche io andrei ad Arcore”. E’ ancora peggio.
@ laura
Uhm. Non so perché, ma ho il presentimento che sul versante femminile ci sia dell’altro, cioè che la faccenda dell’identificazione non sia così lineare.
Nel caso non fossi stato chiaro; la metafora padre figlio può essere sostituita o affiancata con la metafora spettatore attore ricavandone un plus di conoscibilità?, laddove nello schematismo ( limitante certo, come tutti gli schematismi ) che propongo va confrontata la molteplicità, e quindi tutte le libertà post-moderne possibili ” facciamo come cazzo ci pare”, contro la realtà indubbiamente meno accattivante, molto più rigida, più faticosa ma sostanziale del ruolo dell’attore, cioè del padre?,cioè dell’assunzione di responsabilità?
@Wu Ming 4
Però, forse, per una donna è più difficile il processo di identificazione solo se “Godi!” lo interpretiamo come “Scopa!”.
Ma se lo intendiamo come “Arricchitevi! Pensate esclusivamente a voi stessi e al vostro interesse individuale! Non abbiate scrupoli!” ecc., magari anche per una donna è facile identificarsi…
Certo io ho voluto semplificare al massimo, però mi sembra che molte donne apprezzino la figura del Berlusconi seduttore, come si sentissero “corteggiate” a distanza. L’idea che una donna per avere successo possa e debba puntare sulla bellezza, mi sembra, è condivisa anche dalle donne. Quindi sì, il meccanismo non è così lineare, ma l’identificazione nel sistema c’è. Da un lato nell’avere come modello donne “da calendario” (soprattutto per le più giovani), dall’altro nell’accettare questo padre-corteggiatore, che a volte esagera un po’, ma è un uomo quindi va perdonato.
@ Punco
Già così mi convince di più. Ma sarebbe un’identificazione d’altro tipo rispetto a quella di cui parla Simone Regazzoni. Messa giù così assomiglierebbe piuttosto a un’adesione “ideologica”.
Il frame della nazione-come-famiglia vale per tutti, uomini e donne. Si basa su metafore primarie che tutti abbiamo nella mente. Il leader / Padre Severo è severo con tutti i figli / cittadini, anche con le femmine. E può anche essere una donna (la Thatcher, le varie donne che si presentano “con le palle”, Sarah Palin che scuoia un alce in cinque minuti etc.). Idem per il Genitore Comprensivo/Premuroso. Su questo versante, quello dell’approccio “cognitivista”, o anche semiotico etc., direi che la differenza di genere non intacca il meccanismo profondo di identificazione. Al fondo, c’è un genitore che provvede a noi, ci “governa”, ci educa, ci punisce, ci raddrizza, ci gratifica. A questo Genitore Severo ci siamo ribellati per generazioni. Oggi però quel frame è in crisi. Come diceva WM2, il Genitore Severo si è rivelato quel che sappiamo, mentre quello Premuroso ha zero idee per tracciare una rotta.
Quando manca il genitore, siamo orfani tutti, uomini e donne. Se poi questo genitore, come abbiamo detto, è l’idea stessa di futuro, davvero siamo sulla stessa barca, a prescindere dal genere.
@ Wu Ming 4
ma infatti la cosa che sto rimproverando a Regazzoni dall’inizio di questa discussione è proprio l’eccessiva attenzione per l’aspetto prettamente e strettamente sessuale (e fallico) del godimento a scapito di tutto il resto. Il “godimento” comprende anche il sesso, ma è qualcosa di ben più complesso e vasto. “Arricchitevi!” è un imperativo del godimento.
Aggiungo: io, l’ho detto, non ho *sposato* un approccio psicanalitico. Penso che limitarsi a quello sia una scelta angusta e ingeneri anche molti equivoci. Io volevo far vedere che da quella via *e anche da un’altra* si poteva arrivare a descrivere la stessa situazione di “vuoto lasciato dai genitori”. Segno che è una situazione che esiste al di là di “scuole”, teorie, approcci esclusivi, gabbie concettuali definite e rigide.
@Wu Ming 1 @Wu Ming4
Paradossalmente (?) “Arricchitevi!” lo disse Scalfari dalle colonne di Repubblica…
@ Wu Ming 1
Sì, ma non è soltanto “Arricchitevi!” ad essere un imperativo di godimento. C’è anche il “proteggi i tuoi figli” di mamma orsa (ne parlavano sul blog di Loredana Lipperini qualche giorno fa). “Proteggi e goditi quello che hai, difendilo con le unghie con i denti. Io te lo lascerò fare, non ti chiederò di istruirti, non ti chiederò di essere migliore di quello che sei, di sottrarti all’ipocrisia clericale o al conformismo. Anzi, ti dico che se ti trinceri in casa con la tua famiglia a guardare la tv, in un utero caldo che devi soltanto premunirti di difendere dalle minacce esterne, allora sei a posto”.
Io ho il presentimento che questo messaggio abbia molta presa sulle donne che contemplano Berlusconi, e che l’aspetto sessuale non c’entri proprio niente. E di questa parte del discorso, se vogliamo che l’analisi sia completa e non maschiocentrica, bisognerebbe tenere conto, appunto.
Lapsus freudiano: ho scritto “utero caldo” invece volevo scrivere “nido caldo”, cioè tana. Ma il concetto è quello.
Visto che si citava Tarizzo mi sembra interessante riportare qui una sua citazione da Left Wing:
“La messa in scena, ad esempio, ossia una teatralizzazione, una spettacolarizzazione degli intercorsi umani, volta a situarli in un registro di esplicita, assunta finzione. Qui il falso non si oppone al vero, al contrario: il finto è ricercato in quanto tale, per alleggerire il peso di una realtà insoddisfacente in nome di un godimento che, per quanto fittizio, non sia più procrastinato. La messa in scena è una sorta di pantomima frenetica della felicità, utile a spegnere la luce sulla proprietà mortificante del desiderio, votato all’insoddisfazione in un più tradizionale schema nevrotico. Donde una seconda caratteristica della perversione, quella del godimento ostentato, scaraventato in faccia all’altro, che ci spinge fuori dal porto della Legge e ci fa salpare per una nuova terra etica, la terra del Contratto. Nel gioco perverso, infatti, è il Contratto stipulato dai partecipanti, e non più la Legge ereditata, a regolare lo scambio di reciproca soddisfazione. Questo Contratto, con cui la scena del godimento è inquadrata in una cornice socialmente condivisa, non rispetta la Legge; ne sollecita invece una derisoria trasgressione. Tale è il modo in cui il perverso penetra in uno spazio collettivo, restando avvinghiato all’ordine, all’argine della Legge, da cui è confinato uno spazio condiviso. Il godimento perverso, per essere davvero sfrontato, deve di continuo graffiare, erodere un limite. Donde una terza caratteristica della perversione, il perenne e complice dileggio della Legge. Un perverso non è semplicemente un fuorilegge, è qualcuno che in realtà dimora nella Legge, ma vi dimora in un modo tutto suo: la tiene in piedi, e ne ha bisogno, ma può tenerla in piedi solo con lo sberleffo denigrante. Il suo godimento è tutto qui, esso trae alimento da uno scacco reiterato della Legge, approvato periodicamente da un Contratto coi partner, che non ne sono tratti in inganno a ben vedere, che ne sono consapevoli, che stanno al gioco, accettando una logica consociativa che li sgancia da ogni proiezione idealizzante.
“La messa in scena, ad esempio, ossia una teatralizzazione, una spettacolarizzazione degli intercorsi umani, volta a situarli in un registro di esplicita, assunta finzione. Qui il falso non si oppone al vero, al contrario: il finto è ricercato in quanto tale, per alleggerire il peso di una realtà insoddisfacente in nome di un godimento che, per quanto fittizio, non sia più procrastinato. La messa in scena è una sorta di pantomima frenetica della felicità, utile a spegnere la luce sulla proprietà mortificante del desiderio, votato all’insoddisfazione in un più tradizionale schema nevrotico. Donde una seconda caratteristica della perversione, quella del godimento ostentato, scaraventato in faccia all’altro, che ci spinge fuori dal porto della Legge e ci fa salpare per una nuova terra etica, la terra del Contratto. Nel gioco perverso, infatti, è il Contratto stipulato dai partecipanti, e non più la Legge ereditata, a regolare lo scambio di reciproca soddisfazione. Questo Contratto, con cui la scena del godimento è inquadrata in una cornice socialmente condivisa, non rispetta la Legge; ne sollecita invece una derisoria trasgressione. Tale è il modo in cui il perverso penetra in uno spazio collettivo, restando avvinghiato all’ordine, all’argine della Legge, da cui è confinato uno spazio condiviso. Il godimento perverso, per essere davvero sfrontato, deve di continuo graffiare, erodere un limite. Donde una terza caratteristica della perversione, il perenne e complice dileggio della Legge. Un perverso non è semplicemente un fuorilegge, è qualcuno che in realtà dimora nella Legge, ma vi dimora in un modo tutto suo: la tiene in piedi, e ne ha bisogno, ma può tenerla in piedi solo con lo sberleffo denigrante. Il suo godimento è tutto qui, esso trae alimento da uno scacco reiterato della Legge, approvato periodicamente da un Contratto coi partner, che non ne sono tratti in inganno a ben vedere, che ne sono consapevoli, che stanno al gioco, accettando una logica consociativa che li sgancia da ogni proiezione idealizzante.”
Questo passo mi sembra molto importante perché potrebbe chiarire la posizione delle diverse figure del Padre. Mi sembra che oltre al Padre godereccio non si possa ignorare quello severo ed autoritario. In Italia negli ultimi anni si è assistito ad un feroce inasprimento delle leggi che riguardano la vita dei singoli cittadini (quelle sull’uso di droghe e di alcol mi sembrano un buon esempio) in nome di una presunta sicurezza.
Il paradosso, o la perversione, risiede nella totale discrepanza tra queste leggi “biopolitiche” e quelle ad personam. Insomma, a me sembra che l’imperativo del premier sia quello del “io faccio quello che più mi pare, ma tutti gli altri no!”
Secondo quale logica perversa si può sottoscrivere un contratto del genere? Qual’è la magia (soltanto l’identificazione?) che tiene in piedi tutto questo?
Personalmente faccio un po’ di difficoltà a seguire ogni volta le discussioni che seguono i vostri post. Probabilmente è un problema di preparazione , forse di pigrizia , anche se molte volte anche impegnandomi a leggere e capire tutti gli interventi la sensazione che sento è di allontanamento dai punti veramente nevralgici nostri in quanto esseri umani.Dopo un po’ che sto lì a leggere i vari punti di vista contrapposti o meno, mi chiedo: ” ma sarà utile affinare un pensiero, per uscire da una situazione critica? In fondo non è comodo affrontare discorsi lontani da noi , discorsi che in fondo non vanno a mettere in discussione più di tanto le nostre contraddizioni interiori?” Mi rendo conto che è vago come discorso,però io penso che molti di noi non siano persone fatte , nel senso che parecchi di noi affrontano le proprie giornate vivendo relazioni che non si riescono a comprendere , che non funzionano e non si capisce bene perchè, difficoltà a trovare armonie interiori , praticamente almeno metà della musica rock parla di alienazione. Non so, è come se certi discorsi crollassero sopra ad un vuoto strutturale. Allora io dico, vabbè, voi siete più adulti, avete una grossa cultura umanistica alle spalle ,avete…non lo so… però, tutti gli altri più o meno confusi se non addirittura persi,come me, come fanno a trovare in questi discorsi qualcosa che metta in discussione loro stessi, le loro contraddizioni, i loro limiti. Io ho trovato interessante il post però automaticamente mi è venuto di ricondurre il problema alla mia sfera personale: “Come faccio ad essere genitore di me stesso?” mi sono chiesto. “Come faccio a trovare il giusto equilibrio tra desiderio e legge ?” e da qui non sono riuscito ad interessarmi a tutto ciò di cui si stava dibattendo.
@username
una possibile risposta alle tue giustissime – e condivise – considerazioni l’ha data proprio WM2, quando racconta:
“Allora mi viene da dire che per elaborare il lutto, invece di cercare un altro Padre, dovremmo forse puntare gli occhi sulla comunità. Chiederci se davvero esiste, ad esempio, un popolo di sinistra. Che cosa lo tiene insieme. Dove sta il legame.
Secondo, mi viene da ripetere che “dobbiamo essere i genitori”, tutti quanti, e non, viceversa, proporci ciascuno come nuovo genitore, un altro Padre per tutti. “Essere i genitori” non è una prescrizione: io lo sono diventato ma certo non per dovere. Per scelta, per natura, per amore.
Poi mi sono accorto che, proprio quando diventi genitore, e pensi che ormai il gioco sia fatto, ecco che per la prima volta senti tornare il bisogno di un padre, tuo padre, col quale confrontarti, discutere, capire. Per fortuna, non sei l’unico, a essere genitore. Hai una compagna, hai degli amici. Ecco perché, per elaborare il lutto, bisogna essere genitori, sì, ma non da soli.”
E’ su questo fare comunità che bisogna lavorare, io credo. Il come lo si può discutere, ma intanto questa strada ce l’abbiamo davanti, bisogna solo cominciare a camminare.
La questione di “genere” solelvata da Wu Ming 4 apre secondo me non tanto un problema ma un abisso. Per quanto riguarda l’analisi di B. sarei d’accordo (!) con Wu Ming 1 a dire che la differenza di genere non intacca il meccanismo di “godimento fallico” (a tutti i livelli che volete). Si è citata la Palin giustamente: anche lei ci parla del suo godimento, attenzione: non è la Thatcher, non è la donna di potere che cancella godimento e sessualità. Ecco uno strepitoso: “I’m gonna put on one of my push-up bras so I can get what I want tonight”. Per questo piace a Clint. E’ una donna tosta ma che non cancella il suo lato sessaule e il suo fattore di godimento. Ora la questione del femminile come abisso è: come introddurre in tutto ciò l’enigma del godimento femminile? Non è però una questione di genere qui, è questione di un tutt’altro godimento. In questo senso io non sono per cancellare il godimento come fattore politico: piuttosto di vedere se c’è spazio per un godimento che non sia solo quello fallico. E fin che si continua a parlare di padre, a mio avviso, non si esce da quell’orizzonte.
Mi scuso fin d’ora, ma ho avuto molte difficoltà a connettermi, quindi non ho potuto seguire la discussione “passo passo”: forse scriverò cose già dette. Chiedo venia anche perché ho scritto quanto segue ieri, off-line, quindi non ho potuto indicare i credits giusti. Ma vorrei comunque mettere il mio sassolino…
Intanto, grazie, WM1, per aver messo anche qui i tuoi appunti, e grazie soprattutto perché li hai condivisi. Parto da qui.
Non siamo in una scuola di retorica. Sarebbe bello: tutti allievi di Quintiliano, con la nostra tavoletta di cera e lo stilo, ogni giorno chiamati a dibattere su un argomento diverso. Siamo in trincea, su una barricata. Melanconici o no, dentro casa o in strada, in fabbrica, sulle gru, in aula, stiamo cercando non solo di capirci qualcosa, non solo di trovare un senso, ma di pensare cosa e come fare per dare avvio (o quanto meno riuscire a cogliere dei timidi, balbettanti segnali) a una rivoluzione, a un rivolgimento, a un cambiamento. E’ una battaglia culturale, antropologica; è dura, difficile, lo sappiamo. Sappiamo tutto, ma, ecco, io sento una certa urgenza a “fare” qualcosa. E’ vero: la realtà è così, ma questo non significa che sarà sempre così.
In fondo, il NIE, o comunque il nuovo modo di narrare che negli ultimi anni abbiamo in Italia, dice questo: ti narro (ti faccio vedere) che “il fatto che la realtà sia così, non significa che sarà sempre così”. Ci sono narratori che ci stanno narrando/mostrando che il rivolgimento è possibile. Lo rendono “visibile” al nostro cervello, stanno abituando le nostre categorie ad “accettarlo/comprenderlo”, in modo che possa essere messo in atto.
Quindi, abbiamo tempo, ma giusto per “imbastire” un ragionamento filosofico, non per cucirlo come si deve: in questo momento, ci servono strumenti per procedere rapidamente alla fine del discorso, cioè all’inizio di una prassi. Vanno bene gli appunti, quindi; va bene se non controlliamo le citazioni o i titoli dell’edizione originale. “Va bene”: mi pare sia chiaro in che senso lo sto dicendo.
Il Padre Severo: qui, posso solo alzare le mani, perché il mio super-io è talmente spropositato che non attraverso con il rosso del semaforo pedonale neppure morta! Eppure, chi mi aspetta dall’altra parte mi dice: “E dai, non passa nessuno! E dai, che questo rosso dura secoli! Sii morbida!”. Niente da fare. Non attraverso.
Sulla paternità, mi sembra che sia un argomento che sta diventando “di moda”, e questo mi dà pensiero (è tirato da un po’ troppe parti per non destare almeno qualche sospetto). Sono ben contenta, quindi, che qui il discorso venga portato su altri binari: dobbiamo cominciare a essere padri che mostrano (le modalità di) un (nuovo) futuro. Raccontare che un futuro c’è, fa capire ai figli che devono prepararsi, che non devono lasciarsi andare, o aspettare sdraiati sul divano, inebetiti dalla TV. È come mettere un bastoncino (seppur esile) a una pianticella che sta crescendo.
[Non per evocare fantasmi, ma riprendendo Jung mi sembra che sia più utile ragionare sulla figura paterna nel senso dell’Animus, cioè dell’elemento maschile che c’è in ognuno di noi (in coabitazione con l’Anima, l’elemento femminile). Vorrei cioè mantenere l’“orizzontalità” del ragionamento].
Per ragioni intimamente personali, questo discorso è per me, in questi giorni, molto pungente, pieno di interrogativi. Mi piace molto, quindi, quello che scrive WM2 a proposito della sua compagna. Non so se sono le donne in quanto tali o l’elemento femminile, ma comunque vedo anch’io nella comunità, nei legami, nelle relazioni, in tutto ciò che fa la madre, insomma, la possibilità di “superare”/integrare la perdita del padre.
Ecco, da donna, vi leggo, vi osservo mentre mostrate i muscoli, e alla fine mi sento totalmente in linea con la vecchia delle Erbe: neanche con un cacciavite! E lo dico a ragion veduta, perché io, purtroppo, Silvio l’ho incontrato: è una maschera, proprio come quelle di un tempo, di cuoio brunito. «Che brutta cosa, proprio brutta!», l’unico commento che ho detto a quella manaccia tesa per tentare di stringere la mia. Tu dimmi se uno così deve rovinarti una passeggiata in centro!!
Tendiamo a tagliar corto, noi donne, è vero…
Poi, come è già stato detto, non si tratta di cambiare il Nome-del-Padre, perché questo non risolverebbe il problema: la narrazione sarebbe sempre la stessa, e cambierebbero solo i nomi dei protagonisti. Una nuova narrazione porta con sé nuovi personaggi.
premesso che io di psicanalisi non ne so un kuraz (= cazzo in serbo-croato), una volta un mio amico psichiatra mi ha detto: vedi, la psicanalisi puo’ spiegare i motivi profondi per i quali un adulto continua a pisciare a letto. ma dopo che li avra’ capiti, quello continuera’ a pisciare a letto. perche’ smetta di pisciare a letto bisogna che qualcuno gli insegni una strategia per non pisciare a letto.
allora forse la cosa piu’ importante sarebbe capire quali sono i comportamenti sbagliati che noi assumiamo nel contesto del berlusconismo (cioe’ quelli che ci impediscono di uscirne), ed elaborare una strategia per modificarli.
Negli studi organizzativi si distinguono tre tipi di leadership. Autoritaria, democratica e laissez faire. Mi pare che “papi” incarni contemporaneamente il primo e il terzo tipo. Ed è quel che si è detto fin qui. E’ nel contempo molto autoritario con chi non accetta l’imperativo del godimento e molto laissez faire con tutti gli altri. E’ padre/padrone e insieme padre comprensivo, come si è detto. Due facce della stessa medaglia? Non mi avventuro in interpretazioni psicoanalitiche e lacaniane anche perché rispetto a Lacan e a Zizek credo poco al modo simbolico, e mi importa molto di più la componente dell’immaginario. E la psicoanalisi va bene secondo me quando non si fa affliggere da quella che Deleuze chiamerebbe una forma di interpretosi. Anche se apprezzo molto il tipo di interpretazione lacananiana messa in campo da Wu Ming 1 che non mi sembra affatto afflitta dalla malattia dell’interpretazione.
Non vorrei essere travisato su Sarah Palin: per me il suo godimento non è semplicemente fallico. Sta giocando una partita nuova, interessante (in termini di analisi) su cui vale la pena riflettere in termini di comparazione con B. per capire meglio il discorso berlusconiano e il limite di certe critiche “femministe” ad esso. Su questo Zizek e Miller hanno detto cose interessanti:. Zizek: “She has a “castrating” effect on her male opponents not by way of being more manly than them, but by using the ultimate feminine weapon, the sarcastic put-down of male authority — she knows that male “phallic” authority is a posture, a semblance to be exploited and mocked”. Che si può tradurre: non è un donna fallica (Miller lo dice chiaramente), questo è una delcinazione del potere femminile che decostruisce il potere fallico. Per Wu Ming 4: è un eroe declianto al femminile. Molto, molto potente, pericolosamente potente.
Forse però più che affermare cos’è Berlusconi sarebbe più efficacie porre delle domande (tentativo peraltro fatto con scarso successo da Repubblica) Ma domande socratiche. Più che dare risposte sul berlusconismo servono domande. Serve che ci interroghiamo (si noti che B. non risponde mai se non a domande programmate) Serve un Socrate che ponga delle domande. E sul filo di questo domandare avvenga lo smascheramento definitivo. Sempre che ci sia qualcosa al di là della maschera…
Vorrei dire una cosa inutile, che però sento. Gli interventi come quelli di username mi commuovono, ma davvero. Mi danno il senso reale di uno spazio come questo. Mi fanno venire i brividi e penso traccino una rotta, un tentativo, che andrebbe sempre tenuto a mente.
Una rotta alla quale Danae, ad esempio, secondo me dà un grande contributo.
L.
Scusatemi se ripropongo una domanda che avevo posto qualche secolo fa (nei tempi dei dibattiti via internet, due giorni è effettivamente “qualche secolo”, soprattutto quando ad un post seguono 203 commenti).
Ripropongo questa domanda perché, secondo me, è importante almeno quanto l’attinenza o meno delle tesi lacaniane e deleuziane con l’interpretazione del berlusconismo. E nei commenti che ho letto finora non ho trovato una risposta convincente, che vorrei provare ad elaborare per mio conto, sottoponendola al vostro giudizio.
La/e domanda/e è/sono:
Da dove ripartiamo per immaginare un Futuro? Quali concetti vogliamo integrare in un nuovo orizzonte di pensiero che abbia come scopo quello di superare le modalità discorsive del capitalismo neoliberale (di cui il berlusconismo è la declinazione in salsa nostrana)? Quale tipo di “quotidiano”, quali modi di “fare collettività” vanno promossi ed incoraggiati e quali invece vanno combattuti? Che ce ne facciamo, in concreto, di quel retaggio di istituzioni che oggi tentano disperatamente di tenere in vita la figura del “padre severo”?
La mia personale risposta parte da alcune considerazioni sulle istituzioni educative/formative.
Oggi la scuola e l’università pubblica sono sotto attacco come mai prima d’ora. Non solo in Italia, ma nel mondo intero, pur con tutte le differenze del caso.
In molti si schierano a difesa di queste istituzioni che, in fondo, sono il riflesso di quell’ordine fordista-keynesiano la cui crisi ha spalancato le porte al nuovo ordine neoliberale. E’ tutto uno stracciar di vesti per le politiche draconiane che vengono applicate in materia di istruzione, mentre politici, provveditori, rettori, presidi (meglio: dirigenti scolastici) si destreggiano non senza qualche imbarazzo fra “nobile” attaccamento al vecchio ordine e infatuazioni per il nuovo.
Bene, in tutto questo io mi domando: che fine ha fatto la riflessione, secondo me imprescindibile, sulla matrice AUTORITARIA del sistema educativo/formativo? E non è forse proprio questa matrice a produrre simili ambiguità nell’atteggiamento verso il nuovo?
Pensiamo solo alle università italiane, piene di “padri severi” autoinsediatisi da tempo ai vertici del sistema, e di giovani aspiranti figliuoli disposti a tutto pur di partecipare ad un ordine ormai marcescente, per giunta incapace di produrre critiche davvero significative e graffianti al nuovo ordine.
Pensiamo solo a quanto il morbo dell’accademismo finisce per infettare, a suon di puntigliosi riferimenti bibliografici e gare intellettuali all’ultimo sangue degne di una diatriba teologica medioevale, perfino dibattiti interessanti e rilevanti come questo.
Come sempre, chi ha il potere (e la sostanza economica) ci mette poco ad autopromuoversi al ruolo “padre”, anche solo come ombra, percepibile in lontananza ma forte abbastanza da imporre una certa modalità di discorso. E, lo si voglia o no, il “rigore” accademico è e rimane uno dei pochi modi per dare credibilità ad un discorso e ad una riflessione… sicché i suoi rigidi requisiti finiscono per essere sempre accettati, magari inconsapevolmente o controvoglia, anche da chi cerca di promuovere un discorso nuovo, proiettato verso altri obiettivi.
Per usare una metafora: il Padre Accademico viene tenuto in vita nonostante tutto e nonostante tutti. Nonostante siano arcinote le sue tendenze autoritarie, e nonostante sia palese la sua avversione a qualunque novità. Fa comodo, anche se intubato e in stato vegetativo, perché l’idea di una sua indiscutibile “venerabilità” è cresciuta come un’erbaccia nelle nostre teste.
Perché non ci liberiamo di lui una buona volta? Perché non dismettiamo il lessico da iniziati che ci impone nostro malgrado? Perché non ci educhiamo ad abbandonare gli atteggiamenti affettati che ci sentiamo in dovere di assumere per dare “credibilità” ai nostri discorsi?
Forse che l’uso di Lacan, o Deleuze o chiunque altro è inammissibile al di fuori di una “cornice di pensiero coerente”? Coerente secondo gli standard di chi, o di che cosa? Ed è giusto che, a dettare l’agenda del dibattito, sia la maggiore o minore attinenza del pensiero di certi autori nell’interpretazione di un fenomeno storico, e non piuttosto la domanda, secondo me sacrosanta, sul come uscirne IN CONCRETO?
In ambito formativo ed educativo, non meno che in mille altri ambiti (lavoro, relazioni… perfino fede religiosa, per chi ce l’ha), ciò di cui c’è bisogno come l’aria, secondo me, sono NUOVE ISTITUZIONI, create dal basso, gestite dal basso, capaci di promuovere davvero una nuova immagine del futuro… se necessario, FOTTENDOSENE ALLEGRAMENTE di una rispettabilità accademica che puzza di stantio.
Quindi un ambito da cui cominciare è questo, secondo me: riappropriarsi della pratica del pensiero e della formazione, AL DI FUORI DELLE ISTITUZIONI, CREANDONE DI NUOVE.
Non abbiamo bisogno – non DOVREMMO più aver bisogno – di borse di dottorato, assegni di ricerca, cattedre o riconoscimenti accademici per rivoluzionare pensiero, mentalità e modalità discorsive. Abbiamo bisogno solo ed esclusivamente di un pensiero, una mentalità e modalità discorsive RIVOLUZIONARIE. E i ricatti di quel vecchio apparato sono un freno a tutto questo.
Per cui non lasciamo ai profeti del nuovo ordine del “fa quel cazzo che ti pare” il monopolio sullo smantellamento del vecchio sistema. Non lasciamo che a trionfare sia uno smantellamento nel nome dell’anti-intellettualismo. Riappropriamoci di quel vecchio discorso, riproponiamolo, rivitalizziamolo. Anziché difendere a spada tratta quel vecchio ordine, e lasciarci irretire dalle sue lusinghe, torniamo di nuovo a denunciarne l’autoritarismo di fondo… magari cominciando da una sana auto-terapia di linguaggio.
Scusate per la lunghezza e la durezza dello “sfogo”, ma la critica contro il sistema educativo e accademico è uno dei miei crucci… a volte, quando mi capita di parlarne, mi sembra di scontrarmi con un tabù.
@don cave
parzialmente d’accordo sull’accademia, ma a questo punto ti rilancio la domanda a costo di essere OT: e concretamente? cosa intendi per nuove istituzioni dal basso? Cioè ti seguo sul bisogno di liberarci del Padre Accademico, e poi in concreto?
Aggiungo solo piccola postilla: la difesa a spada tratta della scuola pubblica però non è vecchiume, attraverso la scuola – anche questa scuola – è passata e passa una possibilità di far viaggiare il pensiero
@paola
Ovviamente non ho una ricetta generale, né un’idea chiara per queste nuove istituzioni. Per giunta, un individuo che si proponesse da solo di immaginare nuove istituzioni del genere sarebbe francamente preoccupante… verrebbe infatti tradito lo spirito della riformulazione “dal basso”, del rifacimento creativo e divergente, che per essere tale, secondo me, deve avere natura collettiva.
Io mi fermo un gradino prima: a costo di farlo in modo ruvido, pongo la necessità di “predisporsi” a questa svolta. In altre parole: non ha senso prospettare la costruzione di una nuova idea di futuro se, con la testa, si è ancora fermi al passato.
Il fatto è che i segni di una possibile alternativa ci sono, ma faticano ad essere colti, e l’avversione, lo scetticismo, la rassegnazione finiscono per prevalere.
L’attività di Wu Ming, e la “filosofia” che la ispira (per come la colgo dal mio parziale punto di vista, senza pretese di esaustività), è il perfetto corrispettivo in ambito editoriale e culturale di quel tipo di attività che mi piacerebbe veder sorgere in ambito accademico. Ma gli esperimenti di lavoro collettivo e di circuitazione attraverso canali “obliqui” di solito durano poco, nel mondo studentesco universitario… nella maggior parte dei casi si finisce per frammentarsi, ognuno a caccia della sua piccola enclave (lo dico perché ci sono passato, per un esperimento del genere, e sono ancora qui a “bastonarmi” per i miei errori e per le mancate occasioni).
Quando poi parlo delle insidie autoritario del “padre accademico” mi riferisco non solo a questioni profonde, legate alla storia e alla struttura di quelle istituzioni, ma anche ad apparenti stupidaggini.
Faccio un esempio: quello di giovani studentesse e ricercatrici che vengono avvicinate a suon di complimenti per il loro lavoro da baroni bavosi a caccia di cene in compagnia con ammazzacaffè a base di “sesso soft” (tanto per citare uno di questi personaggi).
O un altro esempio: quello di uno studente che, pur di accattivarsi la simpatia di un docente, è disposto ad inseguirlo senza fiatare fra un ricevimento e l’altro (al quale il docente puntualmente non si presenta), solo per verbalizzare un esame… con quali esiti? Esame registrato un anno (!) dopo, e una sincero outing da parte del docente medesimo: “se vuoi fare la tesi con me, devi farla su quello che dico io”.
Da queste piccole “sciocchezze” alle questioni più universali, sfido chiunque a dirmi che il mondo accademico, con il suo carico di tromboni e ipocriti è poi tanto migliore del “potere pappone” berlusconiano insediato ai veritici dello Stato.
La cosa che mi lascia sgomento è che molti studenti, dottorandi e ricercatori, tanto infervorati a condannare le iniquità del mondo e l’atteggiamento del governo nei confronti di istruzione e ricerca, non applicano poi lo stesso metro di misura alle ingiustizie e ai soprusi che subiscono quotidianamente in quel mondo… figuriamoci poi quale potrà essere la loro disponibilità a riflettere sul carattere sottilmente autoritario di un intero apparato.
Insomma, il senso del mio intervento era questo: il “potere pappone” si è affermato anche grazie all’esistenza di un panorama istituzionale marcio, che non solo non ha né saputo, né voluto arginarlo; ma che, magari indirettamente e dietro le mille foglie di fico della “venerabilità” e del “prestigio”, nella sostanza lo rispecchia abbastanza fedelmente.
E la scuola – già, proprio “questa scuola” – non è da meno.
@don cave
condivido la necessità di affronatre l’argomento istruzione/scuola/accademia, anche in parte dentro questo thread perchè è uno dei modi di costruire futuro e anche genitorialità nel senso inteso più sopra. Solo che adesso devo abbandonare perchè..devo andare a recuperare i figli a scuola!
anch’io mi associo però al moto d’affetto verso tutti per poter avere spaziidi discussione eragionamento come questo!
@ Don Cave @ Paola Signorino @username
quando ho letto il lungo commento di Don Cave ho detto ad alta voce: “Sì!” Sì, perché è la direzione in cui proseguirà la riflessione, ed è anche una direzione coerente con tutto il percorso di Wu Ming, con la riflessione sulle narrazioni, sul mito, sulla genesi sociale delle storie, su come trasformare le storie (penso a “La salvezza di Euridice” di WM2, ma non solo), sul futuro da tornare a immaginare etc.
Questi miei “appunti presi in pubblico”, dopo qualche puntata, arriveranno a toccare da un lato le “tecniche del sé”, cioè a interrogarsi su etica, auto-disciplina, amore per il proprio fare, insomma quello che il singolo può mettere in campo per sfuggire a certi condizionamenti e resistere all’imperativo “Godi!”, e dall’altro lato le possibili “buone pratiche” collettive, che per me includono tanto i momenti di socializzazione, di creazione comunitaria, quanto le lotte che vengono portate avanti tutti i giorni.
Nuove istituzioni dal basso, in rete sul territorio. Infatti io penso che si debbano ripensare e rideclinare esperienze come i seminari autogestiti, le “università popolari”, tutti i momenti di auto-formazione (non solo umanistica) che i movimenti hanno sperimentato nel passato, e che oggi, in nuove forme, dovrebbero incrociare la via (e accompagnare le pratiche) di tutti i comitati, associazioni, coordinamenti di lotta che ci sono nel Paese, i soggetti attivi nella difesa dei beni comuni (l’acqua pubblica, il suolo etc. ma anche la scuola pubblica! Paola ha perfettamente ragione), i gruppi che si riconoscono in reti come Nuovo Municipio, Democrazia Km. 0 etc.
Attenzione: non si tratta di “aderire a linee” o fare gli “intellettuali organici” di questo o quel movimento. Abbiamo già dato a suo tempo e non è finita bene! Si tratta di congiungere saperi e lotte. Cercare di accompagnare lotte che per necessità sono più difensive che “fondative” con una ricerca di senso fondativo. Questa è la ricerca di senso, oggi, ed è questo l’essere genitori: cercare di fondare qualcosa.
Comunque, Don, io sono sicuro che su questo è d’accordo anche Regazzoni, perché la sua proposta di una “pop filosofia” si inserisce naturalmente in questo quadro. E’ solo che ogni tanto – come diciamo da queste parti – “gli prende uno schioppone” e, per deformazione professionale, fa risuonare nei propri discorsi la nota del “Lei non sa quanto so io!” :-) Sono sicuro che, calato in un contesto “terapeutico”, orizzontalmente accudito da tante persone amorevoli, guarirebbe rapidamente da questa tara che ogni tanto tende a “intrombonirlo” :-D
A mo’ di chiosa…
All’inizio pensavo che l’ipocrisia, le raccomandazioni, le faide fra “fazioni” dentro i dipartimenti, gli “interessi di cazzetto”… che tutte queste cose fossero semplicemente delle perversioni locali e temporanee di un sistema che, se fatto funzionare in modo corretto, avrebbe potuto invece produrre grandi cose.
Ora ho cambiato idea: tutto ciò è ORGANICO a quel tipo di apparato, esattamente come il “potere pappone” in salsa berlusconiana è, stringi stringi, il vero volto del potere politico, che forse si rivela nell’essenza proprio nelle sue manifestazioni più parossistiche.
Suonerà come una considerazione banale agli occhi di chi è abituato a servirsi di categorie molto più sottili e sofisticate per interpretare i fenomeni storici… ma secondo me il “nuovo ordine” neoliberale ha avuto un grande merito: mettere a nudo il vero volto del Potere. E ciò è potuto accadere perché questo stesso Potere, ad un certo punto, ha capito che nascondersi dietro il velo della “rispettabilità” tutto sommato non aveva più tanto senso.
Anzi: sputtanandosi e lasciando cadere i vecchi tabù (si legga: decapitando i fantocci dei vecchi “padri simbolici”) le possibilità di identificazione degli individui con le dinamiche del Potere ne uscivano moltiplicate.
@ WM1
Per carità, non ce l’avevo con Regazzoni, ci mancherebbe! Avevo semplicemente preso un suo occasionale “intrombonimento” a titolo di esempio, senza alcuna volontà di colpirlo personalmente o di innescare una guerra.
Sul merito: niente di più bello che intravedere una simile prospettiva di sviluppo per questa riflessione! Anch’io avevo pensato più o meno alle stesse cose (reti civiche, seminari autogestiti ecc.), sempre però con una riserva di fondo: che questi esperimenti si evolvano fino a riconoscersi in un immaginario condiviso, riempiendo lo spazio vuoto lasciato dalla sparizione dei vecchi schemi di riferimento.
In assenza di questo, secondo me, c’è il rischio che a sostenere questi esperimenti rimangano infine i soliti, proverbiali e litigiosi “quattro gatti”… mentre intorno il nuovo ordine neoliberale continua a mietere vittime.
@ Wu Ming 1: grazie per le parole dolcissime… Comunque, sì è evidente che sono d’accordo, più che d’accordo. L’accademia è morta. Dobbiamo riportare il sapere nello spazio pubblico. Se ogni tanto eccedo in “filosofia” è per eccesso di amore verso i concetti, perché nutro verso di essi un rispetto infinito: insieme alle parole, sono le nostre armi, e vorrei che fossero perfetti. E vi assicuro che questo amore non è roba accademica: me lo ha insegnato mio padre (!), operaio con la terza media, sindacalista, che ha sempre comprato libri. Avevo 18 anni, mi regalò un libro di un tal Derrida, “Spettri di Marx” (aveva visto il nome Marx, e aveva intuito che era roba importante) con una dedica, che non scriverò qui per pudore. Ho iniziato a leggere. Non ci ho capito un cazzo. Mi sono detto: studiare, studiare, studiare.
tutto bene, ma.
non per fare il guastafeste, ma tutto questo in che modo tocca i “rapporti di produzione”?
(“compagni, parliamo dei rapporti di produzione”)
per esempio: cosa abbiamo da dire agli immigrati che stanno in cima alla gru a brescia? in che modo riusciamo a far nascere in noi un’ empatia (l’ orizzonte comune forse viene dopo, come conseguenza) con chi vive veramente sulla propria pelle la violenza dei rapporti di produzione?
@ Don Cave
quella che va superata è quella che la mia compagna chiama la “visione a mosaico”, cioè quel culto delle differenze in quanto tali che ha prodotto più che altro particolarismi e incapacità di vedere che *tutte le lotte*, anche quelle in apparenza molto diverse per obiettivi immediati e modus operandi, sono momenti della stessa lotta. Quello che è venuto a mancare è l’universale. Manca la narrazione che accomuni, perché per decenni si è portata avanti solo la narrazione che divideva. C’è chi si lamenta dicendo che in Italia non ci sono le lotte, ma l’Italia è *piena* di lotte, c’è conflitto dappertutto, ma queste lotte non vengono mai messe in collegamento da chi le racconta. Ieri sera il TG3 ha parlato delle contestazioni a Berlusconi nei luoghi dell’alluvione veneta, della protesta dei vigili del fuoco siciliani a cui non vengono pagati gli straordinari dell’ultimo anno e mezzo, dei comitati contro le discariche in Campania, ma erano tutti momenti disgiunti del TG, e l’impressione era di cose che non c’entravano niente l’una con l’altra, mentre *E’ LA STESSA LOTTA*, è la lotta contro chi cerca di far pagare solo ai deboli il costo del *ritorno del rimosso ambientale e sociale*. Ecco, noi dobbiamo ritrovare la narrazione che accomuni.
@ tuco
senza aver letto il tuo commento, ho appena risposto! :-)
Il capitalismo si è smascherato in Burlesquoni. Ma può il capitalismo sopravvivere a lungo senza maschera? Prima di decidere “che fare” dovremmo forse tentare di prevedere quale sarà la prossima maschera.
Secondo me il capitalismo è ormai assoluto e non ha più bisogno di mantenere il ceto medio eretto contro i suoi nemici storici ormai sconfitti (in luoghi dov’era storicamente assente e culturalmente improbabile). Vuole smantellare l’investimento “ceto medio”, vuole “i soldi indietro”. Se li è ripresi dalla Grecia e se li riprenderà dall’Italia. Bisogna riorganizzare le difese. E tirar dentro anche i delusi e i reietti del capitalismo.
@ wuming1
il problema pero’ e’ quello di avere ben chiaro quali lotte sono in realta’ la stessa lotta. faccio un esempio: tra i mille comitati contro rigassificatori, oleodotti, ecc. si nascondono facilmente gruppi che magari condividono la mia lotta specifica, ma per motivi di fondo completamente diversi dai miei. ci ficcano dentro la tradizione, il protezionismo culturale, e compagnia bella. conosco persone “di sinistra” che in nome della comune lotta al capitalismo non disdegnano di mescolarsi con gente di quel tipo. altri, piu’ ingenui, nemmeno si accorgono del problema. per questo e’ veramente urgentissimo ritrovare i fili della narrazione. altrimenti da questa crisi usciremo in fondo a destra.
cosa super-urgente: far passare il dato *reale* che se l’ immigrato viene pagato di meno e’ perche’ e’ ricattabile, non perche e’ mona. e che quindi e’ interesse degli operai italiani che gli immigrati non siano ricattabili, e che le leggi sull’ immigrazione siano meno restrittive. la lega campa su questo: far credere agli operai che gli immigrati accettino di lavorare in nero perche’ sono stupidi. cosi’ gli operai italiani chiedono che l’ immigrazione venga resa illegale, e questo produce un ulteriore aumento del lavoro in nero. questo circolo va spezzato, ma veramente non saprei come. ogni volta che mi capita di parlare con qualche operaio, questo tipo di discorso non lo vuole nemmeno ascoltare.
ma forse sono troppo ot, e me ne scuso
@ Wu Ming 1: quello che dice la tua compagna è importante. Un autore che non citerò (sic) dice che la costituzione di un popolo (tu diresti forse comunità) parte dall’unificazione di una pluralità di domande diverse in una catena di equivalenza. Che poi dovrà essere organizzata in un discorso o meglio in una narrazione che non ne sacrifichi la plurivocità. Io che non vado pazzo per la parola comunità amo molto questa formula e il discorso che sta dietro di essa perché permette di pensare a qualcosa come un popolo senza sacrificare a una unità la logica delle differenze.
@Don Cave
Dici: “All’inizio pensavo che l’ipocrisia, le raccomandazioni, le faide fra “fazioni” dentro i dipartimenti, gli “interessi di cazzetto”… che tutte queste cose fossero semplicemente delle perversioni locali e temporanee di un sistema che, se fatto funzionare in modo corretto, avrebbe potuto invece produrre grandi cose.
Ora ho cambiato idea: tutto ciò è ORGANICO a quel tipo di apparato, esattamente come il “potere pappone” in salsa berlusconiana è, stringi stringi, il vero volto del potere politico”.
Io temo che tutto ciò sia organico a qualunque tipo di potere. L’unico anello, per fare da sponda alle citazioni di WM4, corrompe chiunque.
@uomoinpolvere
C’è solo da sperare che i delusi e i reietti (immagino tu ti riferisca al ceto medio “tradito” dalla fine delle vecchie sicurezze economiche e sociali) si convincano prima o poi a riconoscersi “in massa” in una nuova visione unitaria, come quella prospettata da WM1.
Io lo spero, ma la cosa che mi preoccupa è proprio questa, più ancora dei problemi “filosofici” che nasceranno inevitabilmente non appena questa nuova visione comincerà a prendere forma (se ciò accadrà, intesi… ma mi sforzo di essere fiducioso).
Personalmente sono cresciuto in una famiglia di “ceto medio”. Ora che sto “combattendo” per conservare l’autonomia economica, mi rendo conto che la mia condizione, come quella di moltissimi altri (che se la passano anche molto peggio), non soddisfa minimamente gli standard di vita tipici del ceto medio… del quale invece, mediamente, permane intatta la mentalità.
La conclusione alla quale vorrei arrivare è questa: per moltissime persone il problema di appartenere/non appartenere al ceto medio non si pone neppure.
Io non posso definirmi un “deluso” o un “reietto”, a meno che non commettessi l’errore di considerare il periodo in cui sono cresciuto in famiglia come parte integrante della mia vita da persona autonoma. Nel momento in cui sono “uscito di casa” e mi sono scontrato con mondo del lavoro, necessità di trovare casa ecc. ero già da subito FUORI dal grembo del “ceto medio”.
Per i miei genitori, e per persone di generazioni precedenti la mia il problema di una possibile “uscita” si pone… magari collegato al rischio di trovarsi disoccupati e senza un futuro a 40-50 anni, o di non percepire una pensione dignitosa. Per me, invece, le cose stanno diversamente, per il semplice fatto che in quel segmento sociale non sono davvero mai entrato.
Eppure, il fatto di essere cresciuto immerso nelle sicurezze di quel segmento sociale plasma in modo inevitabile la mia mentalità. E, naturalmente, quella di moltissimi altri come me, frenando in modo non trascurabile la predisposizione ad emanciparsi da vecchi schemi di pensiero e a trovare lo slancio verso una nuova visione del futuro.
La differenza fra i “mai entrati” e i “potenziali reietti” in fondo sta tutta qui: nei sacrifici sul piano materiale che dovrebbero affrontare per proiettarsi verso questa nuova visione. I primi avrebbero pochissimo da perdere; i secondi molto.
Sul piano mentale, però, essi convergono in modo preoccupante verso un esito dannoso per entrambi: l’attaccamento ad una visione del mondo che li condanna ad accontentarsi, a cedere, a piegare la testa.
Che sia questo il punto di partenza, il fulcro su cui fare leva per costruire una nuova visione unificatrice?
visto che proprio ieri sera li stavo rileggendo intervallandoli a questa discussione, appaio solo per segnalare, a proposito del commento di wm1 delle 5:56 sulle narrazioni da trovare per accomunare lotte diverse che sono la stessa lotta ma non sanno di esserlo, il facile accostamento con le parole degli ultimi comunicati (http://www.ipsnet.it/Chiapas/comunic.htm) che ancora arrivano dal chiapas, nonostante l’attenzione verso quella lotta che tanto veniva presa a modello sia ormai quasi scomparsa, e non solo dai media mainstream purtroppo.
Per il resto, ringrazio, rifletto e non credo di avere molto di interessante da aggiungere.
>Tuco: “il problema pero’ e’ quello di avere ben chiaro quali lotte sono in realta’ la stessa lotta.”
Secondo voi è possibile stabilire dei punti che definiscano un tipo di “lotta tossica” così come si è fatto tempo fa per descrivere la “storia tossica”?
@ Don Cave
Mi hai tolto le parole di bocca, la tua storia è praticamente la mia. Anche io ho vissuto la mia infanzia e la prima adolescenza nel “ceto medio” per quanto “di sinistra” (raggiunto con estremi sacrifici dalle 2 generazioni precedenti) e appena uscito di casa (presto) mi sono scontrato subito con l’impossibilità di continuare a farvi parte.
Il rischio di cui parli lo vivo, lo vedo in quasi tutti i coetanei che conosco. Eppure come te credo che proprio questa situazione di crisi e di “uscita forzata” dal ceto medio potrebbe essere un fulcro, un nuovo punto di unione. Molto sta nel riuscire a organizzare, a costruire le leve con cui agire su questo fulcro.
@ uomoinpolvere
a questo andrebbe dedicato un post (e un thread) a parte. Io posso dire che è una “lotta tossica” quella che *non tocca il reale*, avviene su un piano che non avrà alcuna ricaduta degna di nota sulle nostre vite, e svia inutilmente l’attenzione da dimensioni del conflitto più importanti. Una “lotta tossica” è sempre un *falso evento*.
Un’altra caratteristica di una “lotta tossica” è quella di esasperare la differenza di una soggettività (singolo o gruppo che sia) in modo che tutti gli altri se ne sentano più distanti che vicini.
“Lotta tossica”, per fare un esempio, fu la partecipazione di Vladimir Luxuria all’Isola dei famosi. Sansonetti e compagnia, cioè la gente che all’epoca portava avanti “Liberazione”, cercò di far passare quel falso evento come una lotta importantissima, il cui buon esito avrebbe esteso la sfera delle libertà, perché se una trans avesse vinto un reality lo avrebbe vinto per tutto il movimento GLBTQ, alleluja!, avremmo visto cieli nuovi e terre nuove, sarebbe stata una vittoria per la democrazia, un riconoscimento delle differenze… Qualcuno glielo fece notare, che stavano sparando cazzate a vanvera; che, al contrario, la TV ha bisogno di gay e/o trans da trasformare in macchiette e caricature viventi (Luxuria sull’isola, Signorini, Platinette, Malgioglio e chi più ne ha più ne metta) in modo da marcare una distanza dai “normali”; che *nulla* di interessante sarebbe potuto venire da quell’esito, a parte qualche brindisi al “Mucca assassina” e un po’ di effimero entusiasmo in alcune cerchie di radical-sciocch romani.
E ‘nfatti…
[Sansonetti poi ha preso tutte le derive che ha preso, con “aperture” di dialoghi con l’ultradestra in nome di un democraticismo invornito, presenzialismo in programmi-fogna televisivi dove fa la parte di “quello di sinistra con cui si può ragionare” etc. etc.]
Giustissimo denunciare le narrazioni a mosaico che ci hanno corporativizzati e sfiniti tutti quanti. Butto lì due cose.
Provare a superare il livello di conflittualità tra il maschile e il femminile con una narrazione che metta la famiglia al centro non solo della socialità ma dell’economia (servizi, riconoscimento economico del “lavoro ombra”, cioè del lavoro che maschi e soprattutto femmine fanno per accedere a merci consumabili ma che nessuno paga).
Provare a superare la conflittualità tra generazioni cominciando a parlare di occupazione e previdenza in modo concertato e indisgiungibile.
Provare a superare la conflittualità tra autoctoni e immigrati, localismo e globalismo, mettendo in chiaro che la politica deve tornare a governare la redditività del capitale e non il contrario.
Troppo?
Vorrei tornare su uno spunto di Pigna che trovo interessante, quello sullo zapatismo, che tanto entusiasmo ha suscitato nelle sinistre europee. In quell’esperienza si trova un modello da cui molto si può imparare (non sto dicendo imitare pedissequamente, ma solo imparare) sul problema di come costruire una narrazione unificante e condivisa.
Cosa fa lo zapatismo dal momento in cui appare sulla scena politica messicana? Esso riunisce in un unico discorso, di cui Marcos è la voce, le condizioni di esistenza dei popoli indigeni del Chiapas e del Messico, caratterizzandole come una condizione di soggiogamento e sfruttamento che affonda le sue radici nella secolare storia di dominio del potente (sia esso spagnolo, creolo o ‘bianco’) sul debole (indigeno); da qui una concezione, di alto valore retorico, della storia che procede per dicotomie (soprattutto quella memoria/oblio, ma anche sfruttamento/resistenza, morte/vita etc.); che sfuma le differenze cronologiche sia attraverso l’uso di un linguaggio mitico (se non a volte favolistico) che attraverso un’idea ciclica, ripetitiva del tempo; che non analizza i fatti storici ma li fonde in un calderone narrativo dal quale immancabilmente viene fuori una morale conclusiva; che, soprattutto, non si distacca mai dalla storia nazionale “ufficiale” ma anzi tende a (ri)assegnare agli indigeni il posto da protagonista che spetta loro nelle vicende della costruzione della patria comune.
Lo zapatismo, dunque, attinge da un lato alla memoria dei popoli indigeni e dall’altro alla storia ufficiale della nazione messicana, operando un ribaltamento dialettico rispetto ai tradizionali movimenti di sinitra, grazie al quale agli indios viene restituito un ruolo di protagonisti. Così facendo, esso riscuote il sostegno non
solo di molti altri movimenti indigeni e contadini, ma anche di ampli settori marginalizzati della società messicana che indios non sono, e ne diventa il referente politico e culturale. Lo zapatismo, cioè, inizia a rappresentare.
Esso cioè, comincia, sin dai primi giorni della sua esistenza mediatica, a diventare una rappresentazione. Etimologicamente, “mette davanti agli occhi” del mondo da una parte le insostenibili condizioni di vita degli indios messicani e l’assenza o addirittura la violazione dei più elementari diritti civili e politici, dall’altra un modo nuovo, almeno per la cultura politica messicana, di concepire la democrazia e i rapporti tra governanti e governati. Strategicamente, fa un utilizzo sorprendentemente innovativo dei mezzi di comunicazione di massa, che diventano il teatro dove il Subcomandante Marcos sfoggia una molteplicità di linguaggi, a seconda dell’interlocutore di turno a cui rivolge di volta in volta i suoi comunicati. Politicamente, lo zapatismo, inteso come progetto politico di aggregazione di anime diverse della società civile nel medio‐lungo periodo, diventa il rappresentante d’istanze e rivendicazioni che sono lontane e differenti nei contenuti, nelle forme, negli spazi e soprattutto che provengono da settori e gruppi che con le vicende degli indios del Chiapas hanno poco o nulla a che fare.
In poche parole, nel linguaggio zapatista, così come nella loro concreta esperienza di lotta, è la fusione di esperienze diverse che caratterizza la produzione di significati e di conseguenza l’indicazione di possibili percorsi politici. Gli zapatisti, mi piace dire, inventano una nuova semantica della questione indigena.
Che la strada anche per noi oggi sia simile?
Regazzoni,
molto bello il posto su suo padre. Parole molto significative, che le fanno onore. Glielo devo.
Questo thread è fenomenale. Ci sono stati sbandamenti, scazzi, derive, ma si rigenera e produce di continuo spunti di riflessione e argomenti sempre a fuoco.
Questo è un dialogo. Una discussione aperta, capace di separarsi e ricongiungersi, produrre rivoli di senso già singolarmente notevoli, ma ancora di più nella composizione di un quadro d’insieme.
Venire a dare un’occhiata qui fa sentire meglio.
La questione del “comune” delle lotte è cruciale, chiaro. Ho la sensazione che ci vorrà molto tempo prima che il tessuto connettivo riesca davvero a prendere una consistenza capace di ribaltare la frammentazione, lo smembramento sociale. Penso che una generazione non basterà. Però tentare è fondamentale, fin da subito. Un aspetto che mi sembra importante, che riprende forse le parti migliori dei movimenti ormai antichi, è quello della raccolta e della socializzazione dei “saperi” delle lotte.
Mi colpiva molto, un po’ di giorni fa, l’intervista a un signore di Terzigno, che in un italiano molto stentato, ma comprensibile, si dichiarava un esperto “di prima” su ogni aspetto del ciclo dei rifiuti.
Ne parliamo ogni giorno, in continuazione, a casa e per strada, da anni, diceva. Gli ho creduto subito, penso sarebbe il miglior Commissario possibile. E’ solo un esempio, ovvio, ma dentro il potenziale di connessione reticolare delle specificità delle singole lotte, dentro quel farsi esperti per forza, ci sta molto della possibilità fondativa di nuove istituzioni.
L.
Grazie, Luca (e ti prego di usare il tu). Sono cose che, per quanto mi riguarda, credo debbano sempre essere dette a bassa voce. Perché importanti, personali, vitali. Ma qui è uno spazio in cui ci si ascolta. Anche quando la distanza sembra non metterci più a portata di voce.
istituzionalizzare il DIY in ogni campo possibile (:
@ Wu Ming 1
Anch’io penso che quello sulla “lotta tossica” sia un discorso molto più lungo ma le tue parole a me dicono già tanto e soprattutto “sfondano” molte pareti e lasciano intravedere molti altre questioni su cui riflettere. Mi viene in mente ad esempio la questione del cosiddetto “consenso”, concetto spesso tanto mal chiarito quanto abbondante nei discorsi più illogici e più lontani dal “reale” di cui parli.
Grazie per l’inizio di risposta!
@ eFFe
Molto interessante il tuo discorso sullo zapatismo. In Italia e in Europa in generale negli ultimi anni lo spazio (la difesa e la partecipazione alle risorse e al territorio) che lo zapatismo potrebbe occupare nell’immaginario politico è purtroppo usurpato da movimenti centralisti (spesso nazisti in qualche modo) mascherati da localismi “anti-sistema” proprio grazie alle chiusure identitarie costruite ad arte.
@ effe
Con noi sullo zapatismo sfondi una porta aperta. Però come fai notare, quell’esperienza si incardina sull’identificazione di un soggetto (gli indios) che diventa metafora di tutti i diseredati e i discriminati della terra (“somos todos indios del mundo”) e inscrive la lotta territoriale chiapaneca nel solco della storia “patria” e nella lotta globale contro il neoliberismo. Sono d’accordo con te sul fatto che su quell’esperienza si è smesso troppo presto di riflettere (oggi sembra passata di moda…), ma è evidente che oggi, in Occidente, trovare un soggetto che possa svolgere la stessa funzione, che possa diventare metafora, racchiudendo in sé storia, territorio, mondo, non è per niente facile. I tentativi in questa direzione mi paiono fallimentari (il “precario”, il “cognitario”, etc.). Qualche tempo fa, su questo blog si discuteva proprio della ineluttabile molteplicità dei soggetti, degli “eroi” della futura narrazione di lotta, ma è chiaro che questo aumenta le difficoltà per i “narratori”. Ad ogni modo sì, analizzare meglio la costruzione linguistica zapatista è una cosa che potrebbe fare solo bene. Tra l’altro il nostro percorso di narratori in buona parte si origina proprio da lì…
Va affermato in modo deciso: senza gli zapatisti non ci sarebbe stato nemmeno Wu Ming.
Perché senza gli zapatisti il Luther Blissett Project avrebbe avuto meno carne e meno sangue.
E anche se, nel gennaio 2000, il collettivo fosse nato lo stesso, senza gli zapatisti sarebbe stato un’altra cosa. Il dialogo a distanza tra zapatisti e movimenti europei ha plasmato la nostra soggettività, nel bene e… nel meno bene (ma di questo “meno bene” non fu colpevole chi lottava in Chiapas).
Ma il riconoscimento economico per il lavoro domestico di cui, mi pare, parlasse Binaghi mi suscita perplessità: da una parte mi sembra giusto, dall’altra non vorrei che disincentivasse le persone a trovarsi un’occupazione fuori dalle mura di casa, fuori di casa sia in senso fisico che in senso mentale (come uno scrittore che lavora in casa ma mentre scrive non “è” in casa). Spero sia una preoccupazione infondata.
Poi sono d’accordo che ci vogliono servizi che aiutino a conciliare impegni lavorativi e familiari e anche almeno in Italia un cambio di mentalità di uomini e donne che spinga ad una maggior condivisione del lavoro domestico e di cura.
Scusate se sono OT.
@WM4,
lo so, infatti quando lessi “Spettri di Müntzer all’alba” immaginai i retroscena e ne rimasi felicemente impressionato.
Sull’identificazione del soggetto-metafora, sono d’accordo, è una questione difficile, e infatti con WM1 la cosa era stata toccata in un altro thread, ma poi la discussione prese un’altra piega. Lui infatti diceva giustamente che la prima domanda era “chi?” – cioè chi è il soggetto rivoluzionario? Io ho dato un abbozzo di risposta, usando però la parola generazione; solo che non la intendevo anagrafica, ma epistemologica; e più in generale parlavo di un “sentimento di appartenenza”, che è un contenitore vasto, me ne rendo conto.
Ma è proprio l’esperienza zapatista che m’insegna che questi concetti vasti (“identità” essendo il più vasto, ma anche quello analiticamente meno utile) creano consenso e comunanza. Forse analiticamante sono poco utili, anzi, di sicuro; ma politicamente hanno tutt’altra rilevanza. Essi cioè consentono alle differenze di coesistere all’interno di una cornice rivendicativa comune (che era un po’ la preoccupazione di Regazzoni se non sbaglio). E’ chiaro che si tratta in primo luogo di un problema linguistico e quindi narrativo: la connotazione funziona meglio della denotazione, da un punto di vista politico (e la tua riflessione sull’eroe mi sembra un’ottimo modo per affrontare il problema usando un case study). E, per inciso, questo è molto lacaniano… :)
.
@ WM4 in effetti è difficile pescare l’indio in Italia. Ci siamo auto-colonizzati?
Se mi guardo intorno i soggetti la cui funzione è più simile agli indios mi sembrano i clandestini, quelli che paradossalmente sono appena arrivati. Colonizzazione al contrario: i colonizzati vanno di persona a farsi colonizzare a casa dei coloni, dopo che le loro terre sono state derubate…
Qui c’è un buon commento a questo post, dove si chiama (abbastanza appropriatamente) in causa “Brave New World” di Huxley e si esplicitano i riferimenti alla mossa di ju-jitsu con cui il capitale ha allo stesso tempo respinto e accolto le istanze di movimenti come quello del ’77:
http://comese.wordpress.com/2010/11/10/papi-silvio-in-un-paese-senza-genitori/
Ho fatto una piccola modifica al “Discorso di Berlusconi”. Adesso la domanda sull’andare in giro con le puttane suona così:
“Volete andare in giro con giovani puttane? Vengo anch’io!”
Mi sembra più precisa, perché include nel Discorso l’ossessione narciso-presenzialista di Berlusconi, la pulsione a infilarsi dappertutto, a essere sempre “l’anima della festa”. E’ famosa la battuta di Montanelli:
“Berlusconi è così vanesio che ai matrimoni vorrebbe essere la sposa, ed ai funerali il morto”.
Al contempo, la modifica rende bene la sua retorica populista, l’ostentato “stare con l’uomo della strada”.
Anche quando accosta per informarsi sul prezzo.
Il terreno comune della lotta dovrebbe essere il terreno di classe. L’unico che unisce maschi e femmine, giovani e vecchi, scapoli e sposati, “garantiti”, precari e disoccupati, bianchi, neri, zingari, eschimesi che vivono solo del proprio lavoro (o del proprio non-lavoro) e che hanno quindi interessi oggettivamente contrapposti a quelli del capitale e dei capitalisti.
Il terreno di classe.
E anche le lotte che non nascono immediatamente su questo terreno (comitati contro le discariche, No Tav, No Ponte, ecc.) dovrebbero cercare nella classe il proprio referente, e la classe a sua volta dovrebbe farsi carico di queste battaglie. Perché anche dietro la discarica e la TAV c’è il Mostro Capitale che distrugge e arraffa in nome del dio profitto. Qual è dunque il soggetto che può contrastare questo sistema a trecentosessanta gradi?
La classe.
Giacomo, condivido quello che dici in termini appunto di “dover essere”. Ma “la classe” è proprio ciò che più è nascosto oggi. Il capitalismo è assoluto proprio perché ha espulso “la classe” dalla coscienza collettiva: tutti ormai vivono in un orizzonte “borghese” (tanto che la parola borghesia non è quasi più usata: non c’è niente fuori di essa che la connoti). Anche i cosiddetti “sottoproletari”, anche chi “possiede” solo debiti, sogna il sogno borghese vivendo da schiavo, vivendo proprietà fittizie, beni fittizi, mentre è espropriato dei beni reali (pensiamo solo a quello che sta succedendo all’acqua pubblica).
Il punto secondo me è proprio quello: su quale soggetto reale, ancora presente, non-ancora-espulso fare leva per arrivare come risultato a una nuova coscienza di classe e a un nuovo blocco anticapitalista.
Erano mesi che sentivo il bisogno di una discussione come questa, e nel vederla apparire qui, proprio in questo momento storico, non posso fare a meno di pensare a un qualche segno del destino.
Certo, arrivarci solo ora dopo più di 200 post mi fa sentire come uno di quelli che arrivano tardi a una festa, giusto in tempo per sparecchiare i tavolini.
Comunque spero di essere ancora in tempo per lasciare quest’ultimo spunto di una riflessione che continua a rigirami nella testa leggendo i vari commenti:
Poichè nonostante tutto quello che ho letto fino ad ora, io continuo a pensare che fra le varie figure paterne da seppellire ci sia anche quella di Marx, o meglio, di un certo tipo di visione marxista “ortodossa”.
Lo so che quello che ho appena scritto a molti fa semplicemente orrore, però prima di menarmi, vi prego di lasciarmi almeno tentare di spiegare:
Dopo tante battaglie perse più o meno disperatamente, sono giunto alla conclusione che una visione puramente materialistica e deterministica della storia, come quella Marxista ortodossa, sia del tutto incapace di contrastare con coerenza il capitalismo, poichè anch’esso affonda le sue radici più profonde in una determinazione puramente materialistica dell’uomo e della sua natura.
Dico questo per sottolineare che a me non interessa tanto una ennesima discussione sul marxismo in quanto tale, ma piuttosto ritengo necessario superare questa visione meramente materialistica e deterministica dalla quale anche il capitalismo trae origine, ben prima dell’avvento del Marxismo.
State cercando una nuova narrazione, che sia in grado di costruire una comunità, un popolo, che sia in grado di smascherare il potere e metterne in luce il suo reale aspetto di oppressore e distruttore. Ebbene io non credo che debba ricordare agli autori di “Q” che tale narrazione esiste da sempre, e che questa possa essere proprio quella dello spirito e della fede, contrapposta a quella amputata e alienante del materialismo.
In conclusione, vorrei anche sommessamente ricordarvi che molte delle più feconde narrazioni rivoluzionarie del secolo scorso: Ghandi, Martin Luther King, e per molti aspetti anche gli stessi Zapatisti, abbiano avuto una forte caratterizzazione spirituale, se non addirittura religiosa.
Come nota personale, per me affrontare la sfida dello spirito è stato un passo decisivo nel mio percorso per diventare “genitore” in tutti i sensi.
Grazie ancora per questo bellissimo post e per la possibilità di parteciparvi.
Ok, adesso potete pure menarmi.
@ compagno Giacomo e Mr. Fusibile,
Ritrovarsi al 241esimo commento stretti tra la classe e lo spirito no, per favore, non ce lo meritiamo. In questa discussione nessuno ha espresso posizioni marxianamente “ortodosse” (qualunque cosa ciò significhi), e quanto alla classe, il problema di ritrovare un’autocoscienza è evidentemente un tantino più complesso di come viene messo giù. Infatti si era parlato, qui e in un post di qualche tempo fa, dell’ardua impresa di trovare un “soggetto” potenziale. Evocare la classe non significa già averlo trovato, dato che il problema non è solo, come dice uomoinpolvere, quello di un immaginario borghese ormai unicamente condiviso da tutti, ma anche quello di una decomposizione di classe reale, materiale. Ieri accennavo al fallimento della sostituzione di “proletariato” con “precariato”. Fallimento dovuto al fatto che il proletariato nei due secoli alle spalle era qualcosa di concretamente identificabile, mentre la precarietà è una condizione assai più variegata, articolata, trasversale. E il problema materiale (generazionale, di reddito, di genere, culturale, etc. etc.) non può essere aggirato con un atto lessicale o un appello generico a un insieme i cui confini non sono più evidenti.
Ma ho l’impressione che questa sia già un’altra discussione, rispetto a quella condotta fin qui.
a proposito della questione italia come laboratorio delle sperimentazioni in corso sia in negativo che in positivo, che ritorna nel post di “Voglio vivere come se”, segnalo la trilogia sull’età dell’informazione di Castells, che non ho sotto mano in ufficio per cui vado a memoria. Al di là della analisi dell’autore, è anche un ottimo spaccato dei flussi, dei processi, delle trasformazioni e delle lotte (comprese moltissime lotte locali e settarie che non riescono ad andare oltre il loro separatismo) attualmente operanti nel mondo, e in moltissimi casi, primo fra tutti quello relativo alla mediatizzazione della scena politica e al suo imbarbarimento fatto di accuse provate e/o calunnie, di cui ovviamente berlusconi è l’incarnazione più immediata ma come si è detto, ne è anche solo una sineddoche, l’Italia risulta, a volte perché portata come esempio diretto, ma molte altre per semplice ragionamento del lettore, la perfetta avanguardia/laboratorio di moltissimi dei processi analizzati.
@wm4 e a tutti
Vorrei sapere cosa pensate degli immigrati clandestini come “soggetto potenziale”, come appunto dicevo qualche commento fa. E’ probabile che sia una cazzata sonora ma se lo è ditemelo che non mi offendo! Più in generale penso che intorno al nodo dei diritti (del lavoro, costituzionali, umani…) si possa cominciare a costruire un principio di lotta che vada oltre alla “divisione per classi” e alla “divisione per identità”. Il problema è fare poi un passo successivo nello stabilire l’identità del soggetto che lotta per i diritti.
Quanto al marxismo sono d’accordo che la frantumazione del concetto di classe è anche materiale e non solo a livello di immaginario politico. (Però a livello materiale secondo me rimane ancora una differenza “di classe” per quanto nascosta, solo che non è più quella di prima. Comunque sto andando OT.)
Aggiungo solo un’altra critica alla visione marxista, ben diversa da quella di Mr. Fusibile. Secondo me il problema non è l’eccesso di materialismo quanto la connotazione troppo netta e in negativo del concetto di proprietà. Nel concetto di proprietà non c’è secondo me solo il “capitale”: c’è anche la responsabilità di gestione delle risorse e dei beni, c’è anche un prendersi-cura, c’è anche un rapporto “ecologico”. Il marxismo qui secondo me ha buttato via il classico bambino con l’acqua sporca. Mi scuso se ho detto delle bestialità, non conosco abbastanza le cose di cui sto parlando: ovviamente accetto tutte le critiche.
Poche cose, velocemente:
– nel phylum della tradizione marxista il determinismo è considerato un “deviazionismo”. Vi sono correnti del marxismo parecchio “soggettiviste”, lo stesso Marx non pensava affatto che lo sviluppo fosse lineare e ineluttabile etc.
– per Marx sarebbe stato il capitale stesso, con la sua tendenza alla concentrazione e ai monopoli, a distruggere la proprietà privata, intesa come ciò di cui parla uomoinpolvere. Oggi infatti viviamo in un mondo di ipermercati e shopping malls che fanno chiudere i piccoli esercizi, di grandi catene librarie che fanno chiudere i piccoli librai, di colossi multinazionali e franchising. Lo stesso Berlusconi ha costruito il suo impero comprandosi tante piccole tv locali e trasformando i Molti in un Uno. Questa non è una “distorsione” del mercato: questo è il capitalismo.
– abbiamo già avuto modo di dirlo: non ha senso ricominciare a cercare *IL* Soggetto principe della lotta. Su questo rimango fedele al concetto di “composizione di classe”. La classe non è omogenea, è eterogenea. Bisogna capirne meglio la composizione. Da qui derivano i problemi, ma da qui deriva anche una potenziale forza. I migranti clandestini di sicuro occupano una posizione, un “sito” dove possono prodursi eventi cruciali. Ma da soli non combineranno mai un cazzo.
@ uomoinpolvere
Chioso il mio socio: da soli i migranti clandestini (e regolarizzati) non ce la faranno, è vero, e aggiungo che certo non li aiuterà in questo senso l’essere considerati non già un “soggetto”, ma una specie esotica da difendere.
Sui danni dell’individualismo proprietario ti ha già risposto WM1. I suoi effetti sulla società e sul pianeta sono sotto gli occhi di tutti.
Molto denso questo thread, sta diventando una sorta di sistema-mondo in cui tutto si tiene.
Nel senso che la possibile sintesi accennata da WuMing1 (le buone pratiche collettive, la cura del sé, le reti dal basso) in risposta a Don Cave (condivido il suo commento quasi totalmente, da lì mi era sorta l’urgenza di capire meglio cosa intendesse), deve proprio tener conto (o fare i conti con) della “mosaicità” delle lotte, dell’estinzione dell’idea di “classe” (su questo ci sarebbero infinite cose da dire, ma almeno sul fatto che i soggetti sociali non si percepiscano più come “classe” e che quindi questa identificazione sia crollata, possiamo essere d’accordo), dei rapporti di produzione, dell’idea di ceto medio come aspirazione immediatamente svanita, della percezione che proprio perché tutte le lotte sono la stessa lotta, non possiamo prescindere dalle esperienze che si fanno ovunque, non solo nella nostra piccola provincia occidentale.
Proprio perchè così denso, mi accorgo che fatico a tenere insieme il tutto, ho bisogno di recuperare alcuni fili del ragionamento.
Allora se posso vorrei accennare ad una storia che ci appartiene, probabilmente nota, ma su cui vorrei fare alcune riflessioni, riprendendo lo spunto di WuMing1 sul momento in cui l’Italia diventa laboratorio del novecento.
Tra la fine del XIX secolo e i primi vent’anni del XX si sviluppano in alcune zone del paese delle esperienze fondamentali di partecipazione politica che gli emiliani conoscono molto bene, ma che hanno una diffusione e un grado di partecipazione elevatissima anche altrove. Se l’Emilia del mondo bracciantile è il luogo di nascita e di sviluppo di quella cosa che è stata chiamata “universo socialista”, la Lombradia, e soprattutto Milano e l’hinterland, è uno dei punti in cui questa esperienza raggiunge dei traguardi talmente “evoluti” da scatenare la reazione. Nascono in quegli anni le esperienze del movimento operaio che portano all’auto-organizzazione, alla creazione di reti cooperative dal basso che rispondono in prima battuta a delle esigenze concrete (la casa, beni di prima necessità, generi alimentari a buon mercato e controllati, fuori dalle mani della speculazione) di quella fascia di lavoratori che non possiamo ancora definire compiutamente classe operaia (non esiste ancora, è in via di strutturazione, la grande fabbrica fordista) ma che sicuramente si riconosce come classe in quanto “salariata” (muratori, braccianti, carpentieri, insomma metteteci tutto quello che sta a cavallo tra un paese ancora rurale e l’italia del decennio giolittiano con il take off industriale ecc.). Ora cosa fanno questi soggetti di fronte a uno sviluppo lasciato allo stato brado, di fronte ad una classe imprenditoriale che non ha nessuna idea di come gestire il conflitto sociale se non quello di pretendere l’intervento dell’esercito perché prenda a fucilate i sovversivi? Si inventa una rete, un mondo dal basso, in cui si crea le sue proprie istituzioni, si costruisce le sue proprie case, gli spacci di consumo, i circoli, i ritrovi e – non meno importante – le scuole del popolo, le università del popolo, i teatri del popolo, gli oratori laici e attraverso queste istituzioni veicola la propria idea del mondo: l’”universo socialista”, che anche se a parole si richiama all’ortodossia marxista – peraltro molto poco conosciuta in italia – e alle teorie della rivoluzione ecc., in realtà se ne fotte e si costruisce dal basso, sulla base di bisogni specifici, concreti. Sviluppa un sapere, che non è solo pratica materiale, ma un insieme composito di pratiche, riflessioni, culture. Questa esperienza si sviluppa talmente tanto, che nel 1914, alla vigilia della guerra, questo mondo brulicante contraddittorio e anche litigioso, diventa classe dirigente a livello locale: il comune di Milano amministrato dai socialisti, i comuni dell’hinterland amministrati dai socialisti, con percentuali di consenso elettorale che viaggiano intono al 70%. Nell’immediato primo dopoguerra- primissimi anni venti (biennio rosso) – la pratica dei comuni socialisti ha dato il via a cose tipo: enti autonomi per le case popolari, aziende annonarie e consorzi per l’acquisto di beni di consumo sottraendo alla speculazione privata grossi margini di guadagno (la reazione degli esercenti milanesi è violenta), sostegno a istituzioni di cultura popolare, progetti di sviluppo di servizi cittadini (il primo progetto, finanziato, di una rete di metropolitana milanese risale a quegli anni). In modo assolutamente contraddittorio confuso e forse anche non previsto, l’azione dal basso entra in rotta di collisione totale con i ceti “imprenditoriali”, mettendosi di traverso proprio su questioni cruciali come il margine di profitto; paradossalmente il socialismo che si dice riformista, sta approdando – pur senza aver sanato nessuna delle contraddizioni di operare in un contesto capitalista – ad una sponda quasi rivoluzionaria, saldandosi a quel punto con le lotte specificatamente operaie del biennio rosso. Risposta della classe dirigente del paese: il fascismo. Ora, sto semplificando in modo pazzesco, sto saltando una serie di nessi logici, sto omettendo un sacco di riflessioni sulle enormi contraddizioni di quell’esperienza, ma per arrivare a dire che:
1) abbiamo una storia a cui far riferimento, non già perché la storia debba essere la nostra culla di genitorialità, ma insomma, qualche esperienza del passato ci servirà pure
2) se quella esperienza poteva essere fondante, (oserei quasi dire “egemone”) lo era perché ovviamente esisteva una classe che si riconosceva come tale; oggi questo dato è mancante ed è proprio l’anello che va cercato; ma nello stesso tempo ci segnala, quell’esperienza, la necessità di perseguire la strada delle pratiche dal basso.
Infine un’ultima cosa: le buone pratiche del sé io credo che siano fondamentali: partono dal fare bene – anche eticamente bene – il proprio lavoro, e dall’essere convinti come io sono che avere una morale non significa essere moralisti del cazzo, ma sentirsi parte di una comunità che condivide principi e regole; significa anche – su questa cosa poi si gioca la biografia di ognuno di noi – essere genitori in senso lato ma anche esserlo quotidianamente con i propri figli e fargli un mazzo tanto, usare il tempo con loro per raccontare, aiutarli a costruire una narrazione che non parli solo di sconfitte, ma che riesca a delineare un’ipotesi di futuro.
ultimissima cosa poi chiudo davvero: i clandestini sono una delle composizioni, una insieme alle mille altre, il nodo cruciale non è tanto identificare “un” soggetto (pena tra l’altro l’auto-esclusione di chi proprio clandestino non si sente e nemmeno ne vuole condividere le sorti), ma come avvicinare tutti i possibili soggetti.
Scusate la confusione, la lunghezza, ecc, trovo che questo ragionare insieme sia vitale.
sarò un bieco razionalista e materialista (e lo sono, in effetti), ma post come quello di fusibile mi lasciano perplesso alquanto.La fede e la spiritualità in sè non è esente da effetti alienanti.
Detto con tutto il rispetto per Luther King e ancor di più per l’esperienza dei teologi della liberazione, non a caso soffocata dalla Chiesa ufficiale.
Sono d’accordo col concetto di classe “eterogenea” da cui occorre ripartire
Questa discussione è molto stimolante. Le mie idee su questi argomenti sono molto confuse e qualcosa comincio a capirlo soltanto ora partecipando. Chiedo ancora scusa se ogni tanto dico stupidaggini! :)
Quello che ho detto sui clandestini era collegato al discorso che ha fatto eFFe sullo zapatismo qualche post fa, in cui parlava degli indios come soggetto della lotta ma anche come veicolo della partecipazione di altri settori “ai margini” di cui lo zapatismo diventa “referente politico e culturale”. Lungi da me fare dei clandestini una specie esotica o l’unico soggetto della lotta.
Detto questo mi rendo conto ora che anche così non può avere lo stesso senso: gli indios in chiapas sono indigeni, i migranti, clandestini e non, sono proprio il contrario. E non possiamo aspettarci che le pratiche di rete “dal basso” partano da loro.
Quanto all’ individualismo proprietario, credo che il discorso c’entri con quello delle pratiche dal basso. Nel nostro mondo capitalista viene esaltata la proprietà di oggetti di consumo e status symbol, la proprietà di “marchi”, di oggetti fittizi e di non-oggetti, mentre si stanno monopolizzando i beni reali. Il senso della “proprietà” secondo me va recuperato proprio con “le pratiche dal basso”: obiettivo primario di queste pratiche dev’essere la riappropriazione da parte della comunità dei beni reali (come l’acqua) che siano oggetti fisici o sociali.
Però Fusibile pone un problema reale, che si stanno ponendo in diversi, anche a sinistra. Noi non sminuiamo la necessità di riflettere sulla dimensione spirituale. Dipende dai modi. Consiglio la lettura di questo intervento di Mario Tronti, intitolato “Lo spirito che disordina il mondo”:
http://www.cdbchieri.it/rassegna_stampa_2007/tronti_spiritualita.htm
Quoto Paola Signorino (non avrei saputo dirlo meglio):
“le buone pratiche del sé io credo che siano fondamentali: partono dal fare bene – anche eticamente bene – il proprio lavoro, e dall’essere convinti come io sono che avere una morale non significa essere moralisti del cazzo, ma sentirsi parte di una comunità che condivide principi e regole; significa anche – su questa cosa poi si gioca la biografia di ognuno di noi – essere genitori in senso lato ma anche esserlo quotidianamente con i propri figli e fargli un mazzo tanto, usare il tempo con loro per raccontare, aiutarli a costruire una narrazione che non parli solo di sconfitte, ma che riesca a delineare un’ipotesi di futuro.”
spero di non essere considerato ot.
secondo me uno dei motivi dello smarrimento e della frustrazione attuali e’ la sensazione di non essere capaci di fare un cazzo. faccio un esempio: quando ho cominciato a guidare, avevo una 126 rossa di fabbricazione polacca che si fermava ogni 10km. allora aprivo il cofano, smontavo le candele, le pulivo e la macchina ripartiva. ora ho una macchina nuova, niente di che, ma se si rompe qualcosa non posso farci niente. i pezzi sono blindati, vanno sostituiti e basta. nessuno sa come sono fatti dentro, nemmeno il meccanico. volendo, questo discorso puo’ essere preso come allegoria. io pero’ lo intendo in modo molto concreto. secondo me una cosa importante per l’ autostima nostra e dei nostri figli e’ trasmettere loro la voglia di immaginare, progettare e costruire qualcosa, qualunque cosa: una storia, un disegno, una capanna di legno o una fionda.
L’autorganizzazione delle lotte dal basso è un PASSAGGIO CRUCIALE, irrinunciabile per la ripresa del conflitto di classe (io lo chiamo ancora così, perché ritengo che si tratti esattamente di questo).
Esempio. Come precario della scuola, sono rimasto schifato dall’atteggiamento dei sindacati di base che quest’autunno hanno indetto ben TRE SCIOPERI DIVERSI contro la riforma Gelmini, pur avendo in merito le stesse identiche posizioni. Tre sciopericchi, ovviamente uno meno partecipato dell’altro (la CGIL non la prendo nemmeno in considerazione… ha indetto 1 ORA di sciopero! Una farsa senza fine). Ora, è evidente che ANCHE i sindacati di base se ne fottono degli interessi collettivi della lotta e badano solo alla loro parrocchia.
Da dove ripartire?
Dall’autorganizzazione delle lotte. Fuori e contro i pantani corporativi e istituzionali.
@ Giacomo,
quella degli “sciopericchi” (in realtà poco più che “pisciate territoriali) è una cosa che ho notato anch’io con grande frustrazione (sono al tempo stesso genitore di una bimba e compagno di un’insegnante). Le esigenze di posizionamento reciproco prevalgono sui reali interessi dei lavoratori. Sigle, siglettine, correnti, fazioni… Da questo punto di vista, purtroppo, poco di nuovo sotto il cielo del movimento operaio (io lo chiamo così, è il movimento di chi “presta opera”, operaio vuol dire quello).
@ Giacomo & Wu Ming 1
Giustissimo dire “ripartiamo dall’autorganizzazione delle lotte” per mettere in crisi le istituzioni esistenti. Era proprio l’intenzione che ha dato le mosse a quei sindacati di base che oggi indicono ognuno il suo “sciopericchio”. E’ amaro constatarlo, ma è così. Questo per dire cosa? Ancora una volta che l’intenzione – o la massima – non bastano. E che c’è di che essere confusi più di prima.
@ Wu Ming 1: ho letto il pezzo di Tronti. Mi ha permesso di capire meglio (anche se in apparenza parla d’altro) il tuo pezzo su Berlusconi. Immagino che arriverai a parlare di quello che Foucault chiama l'”ascetico” (cosa che mi piace, nel senso di esercizio, ma credo in una modalità diversa dalla tua). Non sto a dirti che la lettura del pezzo di Tronti mi conferma nel giudizio che ho espresso sul tuo pezzo. Ne abbiamo già discusso… Ti chiedo però una cosa: che cosa non condividi del discorso di Tronti? (è più semplice che chiederti cosa condividi).
@ Simone,
veramente, l’influenza di quell’intervento di Tronti sul mio post è pari a zero, anche perché si tratta di appunti che ho cominciato a prendere ben prima di scoprirlo.
Il post cerca di riarticolare una riflessione pubblica che ho iniziato due anni fa con l’intervento “Noi dobbiamo essere i genitori”, esortazione a cui sono arrivato per conto mio, per esperienza personale, per esempi empirici, e il referente era il recente suicidio di David Foster Wallace.
L’intervento di Tronti l’ho letto – all’epoca piuttosto distrattamente – qualche tempo fa, poi me ne sono scordato. Me lo ha ricordato oggi il commento di Fusibile, sono andato a cercarlo e l’ho riletto, ma non è stato un’influenza sulle mie riflessioni. Non sono né in accordo né in disaccordo, l’ho linkato come semplice testimonianza del fatto che a sinistra ci si interroga sullo “spirituale”, ma su questo non mi sono ancora fatto un’idea precisa.
Allora come non detto.
Parlo ovviamente di influenza di quello specifico testo su questo specifico post. Il percorso dell’ultimo Tronti mi interessa e mi intriga, di recente ho letto alcune cose (anche se più “terrene”), e se mi interessano vorrà pur dire qualcosa, vorrà pur dire che ci trovo elementi utili e stimolanti. Ed è più che plausibile che qualcosa finisca in quello che scrivo. Tuttavia, sto ancora esplorando, la mia comprensione di quelle cose è ancora troppo frammentaria.
Mi sono espresso male io, non volevo intendere in termini di fonti. Potrei dire più in generale che, al di là dei contenuti, c’è un “tenore” o una “tensione” morale in entrambi i discorsi politici che mi sembra giochi un ruolo cruciale. Per questo ho poi rinviato, brutalmente, all’ultimo Foucault e agli esercizi dell’ascetica.
Ah, adesso ho capito. Allora sì, certo. Questo è il motivo per cui trovo interessanti le riflessioni di Tronti: ci ritrovo un’urgenza che, mutatis mutandis, è anche nelle riflessioni nostre, non solo in quelle sul NIE, ma in tutto il nostro percorso dopo la presa d’atto che nei primi anni “la facevamo troppo semplice” :-)
Comunque io, una discussione così, in rete non l’avevo ancora vista! Altri thread su questo blog ci sono andati vicino, ma il livello e la densità di questa è quasi inquietante.
chiedo scusa se sto seguendo il filo di un mio ragionamento personale. se rompo le balle, vi prego di dirmelo che smetto. non mi offendo.
io penso che per ricomporre realmente il movimento operaio (operaio nel senso specificato sopra da wuming1) sia necessario che ognuna delle sue parti impari a conoscere (e a riconoscere) il lavoro che materialmente svolgono le altre. ho la sensazione che il motivo per cui un tornitore e un programmatore non riescono a riconoscersi parte di una stessa classe stia proprio nel fatto che ciascuno dei due ignora completamente cio’ che fa l’ altro, e non si rende conto di come il proprio lavoro dipenda in modo strettissimo da quello dell’ altro. per questo penso che bisognerebbe imparare a riconoscere il lavoro, manuale e intellettuale, che sta dentro negli oggetti che manipoliamo.
@ tuco
hai ragione. Era più o meno quello che avevo in testa quando ho specificato che momenti di autoformazione collettiva non dovrebbero riguardare solo il sapere umanistico. Dovrebbero servire a ricollegare i vari segmenti del fare. Non dico niente di incredibilmente nuovo: esistono un po’ ovunque laboratori di manualità, corsi di artigianato, visite guidate nei luoghi dei tanti lavori praticati nella società… La scuola conosce momenti come questi, la storia dei metodi pedagogici abbonda di esempi e proposte. Si tratterebbe, credo, di incrociare tra loro questi percorsi. Per dire, un seminario permanente molto “alto” come Bidieffe potrebbe trovare i modi di ibridarsi con un corso per modellare la creta, con la visita di una scolaresca a una fabbrica, con un presidio come quello che si è visto nei giorni scorsi sotto quella gru di Brescia… Scompaginare gli ambiti, portare a contatto i partecipanti a diversi progetti.
@ Wu Ming 1
Sarà che sto leggendo “Il libro dei bambini” della Byatt, ma quello che dici mi ricorda parecchio il milieu fabiano dei primi del Novecento… soprattutto nelle sue frange più di sinistra, socialisteggianti o ibridate con certo anarco-comunismo…
Ma infatti sono tutti problemi che *sono stati posti*, e non a caso citi una temperie storica che è la stessa ripresa da Paola Signorino pochi commenti più sopra. Bisogna *tornare a porre* quei problemi, riprendere in forma nuova pratiche che si sono già sperimentate (anche con parziali e passabilmente duraturi successi, direi).
…che poi alla fine si torna sempre a quel punto, al perché ci è sempre piaciuto stabilire connessioni tra il nostro fare e quello di un artigiano. Quando gli organizzatori di un festival letterario sardo mi hanno portato – insieme ad altri scrittori – a visitare il laboratorio di un fabbricante di campanacci per pecore, poteva risolversi in una semplice cosa di prammatica, un po’ da Pro Loco (o da “Sereno variabile”, che pure confesso di non guardare malvolentieri :-)), declinata un po’ alla “Mostriamo agli intellettuali le attività tipiche del luogo”. Invece a me è “partita la scheggia” di una riflessione su cosa accomunava il mio fare a quello di quell’artigiano, un personaggio notevolissimo. Ho raccontato questa storia due anni fa, in un intervento a S. Marino che poi mettemmo nel nostro podcast. Se a qualcuno interessa, lo ripropongo qui. Al solito, cliccare col destro (o ctrl + click per i mouse a un tasto solo) per salvare e ascoltare con calma, cliccare e basta per ascoltare in streaming. Dura 24 minuti.
IO, SCRITTORE ARTIGIANO, NELLA BOTTEGA DI IGNAZIO FLORIS
Estratto della lezione tenuta al master biennale in “Comunicazione, Management e Nuovi Media”, Università di San Marino, 17 gennaio 2009.
“Non è la testa che pensa, è la mano che pensa”, lo ha detto il mio “padre spirituale”, Jacques Derrida:-)
Ed è la testa che pianta i chiodi. :-)
“Nella nostra storia, nella storia delle classi che si sono ribellate al loro sfruttamento, al loro dominio, c’è stata una spiritualità profonda, tutta da riconoscere; nella figura del vecchio contadino, nella figura dell’operaio di mestiere, nella figura della madre di famiglia che porta da mangiare agli scioperanti, nel militante di base che fa politica in piena gratuità, e poi nel desiderio, nel bisogno di cooperare, di solidarizzare, di lottare: qui c’è una profonda spiritualità.” Mario Tronti
Questo tipo di spiritualità potrebbe star bene anche a me, una spiritualità paradossalmente “materiale”,da ricercare qui sulla terra e non su nei cieli.
Comunque interessante il pezzo di Tronti, ci devo riflettere comunque credo che il senso di fragilità che porti l’uomo ad aver bisogno del “sentire religioso” sia la paura, lo sgomento davanti alla morte. Credo di aver già scritto nel thread su Maometto che i non credenti come il sottoscritto devono rassegnarsi a restare minoranza nel mondo perchè la religione (ma Tronti parlava di qualcosa di ben più profondo di quello che intendiamo per “religione”) rappresenta ancor oggi la miglior forma di consolazione davanti alla morte.
E’ anche vero però che quando Tronti si riferisce alla tradizione giudaico-cristiana non dice che la legittimazione sacrale della proprietà privata si trova nei dieci comandamenti che valgono vuoi nella forma vuoi nella sostanza per tutte e tre le religioni rivelate.
Accidenti! Qualche giorno di distrazione e uno si trova fuori da una discussione interessante, ma che è viaggiata alla velocità della luce. A questo punto per non dire cazzate inattuali sull’argomento, e perdere lo status di presunto esperto attribuitomi da WuMing1 (che ringrazio per l’eccesso di fiducia), attendo il suo promesso 2° thread su Berlusqoni.
Dico soltanto una banalità. La mediazione che mi sembra si tenti qui tra: precisione concettuale – disciplina + costruzione di narrazioni – parole d’ordine efficaci, mi sembra la strada giusta per combattere una urgentissima battaglia nel campo dell’immaginario. Necessaria per evitare che l’immaginario collettivo venga catturato da retoriche semplificanti ma – grazie a ciò – terribilmente potenti, che stanno producendo molto rapidamente soggettività e “comunità” nel senso peggiore. Poiché scrivo da una terra leghista, mi permetto di linkare questo articolo secondo il quale, tanto per cominciare, la parola d’ordine “identità” va sottratta a quel modo di fare politica: http://trickster.lettere.unipd.it/doku.php?id=malessere_identita:andreaealtri_contro (compatibile anche con il discorso di Tronti, mi sembra, contro la “retorica dell’altro”).
La formula di una “paternità collettiva” mi sembra infine indicare una direzione di ricerca particolarmente felice rispetto al problema posto da WM1.
Volevo condividere solo qualche riga in questo thread, tra l’altro, prime righe su una discussione…
In primis, volevo sottolineare come, ancora oggi, il tentativo di *uccidere* il padre, edipico o meno, sia molto in voga. Mai quanto negli ultimi tempi sento attorno a me persone (di più o meno SX) che augurano la morte al cavaliere, che la aspettano, che ci mettono la speranza di un buonumore mattutino, orgasmo da rep_bblica.it.
Bella, muore il padre, e poi che si fa?
Le prime defezioni, non so, mah, oppure la sostitutizione del padre, tu che ne pensi di quello o di quell’altro, sembra abbia un buon programma(!!!), etc.
Oppure, la maggioranza, si fa festa! Eros continuo, un ballo sulla tomba lungo almeno un mese… E poi?
E poi c’è da lavorare, da studiare… ma tutti da soli, o in famiglia, insomma, ognuno c’ha i suoi cazzi…
Prendere il mano il futuro sembra sempre più difficile perchè non si sa nemmeno di cosa si sta parlando e con chi. Autorganizzarsi, la risposta che condivido, implica però condividere, nel senso fondativo di riconoscere ste cazzo di differenze, di cornici, di declinazione, scavando per trovare sotto di quello un substrato comune.
Cospirare vuol dire respirare insieme.
E questo secondo me sarà il passo più difficile, capire e spiegare come modulare tutti i nostri respiri così diversi (regionali, spirituali, politici) in un respiro simile, con un ritmo simile che ci permetta di non affannarci ne di trovarci col fiato corto dopo poco.
Non per niente qui sta la difficoltà e la potenzialità. Non per niente vediamo la fioritura artificiale di “attivismi da clic” o di risposte individuali a problemi sociali, dal biologico al risparmio energetico, dal pannello solare al detersivo biologico. Esempio personale come risposta, sorriso come strategia…
Ehi, la London Review of Books mi ha appena chiesto un articolo sulla crisi di Berlusconi… Mica semplice…
Mi viene in mente una frase del compianto Josè Saramago, scrittore comunista, ateo e anticlericale convinto (i suoi romanzi sono state letture decisive per me) : “Il socialismo è uno stato dello spirito”.
Mi manca Saramago.
difficile che il mio contributo (meglio, la mia testimonianza) aggiunga nulla, specialmente intervenendo dopo costanti e ragionati interventi, pure, vivendo in Francia, la questio Berlusconi Padre/Non Padre mi ha immediatamente portato ad un parallelismo tra Sarkozy e Berlusconi.
Vedete, il 9 novembre si è celebrato l’anniversario della scomparsa del Padre della Patria per eccellenza, il generale De Gaulle. Lascio a tutti immaginare la retorica patriottica delle celebrazioni; quello che mi preme notare e condividere è
1) praticamente tutte le formazioni politiche presenti in parlamento si riconoscono e riconoscono la repubblica come fondata nel solco del gaullismo (ed è facile riconoscere l’ambivalenza sessuale di un tale armamentario retorico, dal solco alla Francia “vedoca”);
2) Sarkozy ha alimentato un piccolo scandalo, riferendosi a se stesso ed alla sua politica come diretta evoluzione della politica di De Gaulle;
Sono consapevole che la riflessione risulta banale, dopo oltre 270 interventi, ma come interpretare in parallelo quanto avviene in Francia con la auto-proclamazione di Berlusconi come miglior premier italiano degli ultimi 150 anni?
Perchè per quanto sia guappo e “bling-bling” Sarkò una affermazione simile non se la potrà mai permettere.
Non è un’ulteriore ed interessare spunto per analizzare/capire in cosa consista l’anomalia italiana?
All’interno di qualsiasi realta’, familiare, locale, lavorativa, servira’ concentrare attenzione ed energie
sull’esaltazione e la continua esplorazione di cio’ che, nonostante la devastazione, ci mantiene umani.
Creare le basi per una ricostruzione della memoria storica piu’ realistica anche se dolorosa,
avendo fiducia nel ruolo della narrazione quale capace vettore/distillatore di
emozioni/relazioni umane imprescindibili e ancora possibli.
Praticabili.
Trovare esempi continui, astratti o concreti che evidenzino e spingano a ragionare sull’impossibilita’ pratica dell’empatia universale
richiamandone allo stesso tempo la necessita’ primaria.
Penso a “La strada” di Mc Carthy letto da un non padre.
@ WM1 Fccci poi sapere, please, quale numero della London Review.
è stupefacente quanto questa discussione tocchi in profondità. sempre di più mi domando come possa il “lavoro intellettuale” di oggi prescindere dal considerare la blogosfera.
Dopo chilometri di post, comincio autodenunciandomi: non ho capito quale mossa di ju-jitsu WM1 mi accrediti di aver svelato col post sul mio blog (che a proposito, non avendo avuto il pingback mi ha fatto venire un mezzo infarto ritrovare citato tra i commenti!!!). In ogni caso, è sempre un onore ;)
Ho tentato di prendere… appunti su questi appunti, di mettere a fuoco una sintesi che serva anche a me per cercar di capire di cosa stiamo parlando, e cosa posso farmene. Sono anche io uno di quelli che implora i piedi per terra, e cerco di ancorarmi da solo quando posso. Casomai ci faccio un altro post “da me” così non sto a tediarvi qua.
Alla fine della faccenda, quello che mi colpisce molto è che stiamo ri-dando cittadinanza a dei concetti che non pensavo mai di trovarmi a maneggiare ancora. Forse è la direzione della replica di WM1 al commento sui Fabiani… sono domande già poste e risposte che hanno avuto una loro centralità, e che magari ci si è solo illusi di aver superato. Però colpiscono.
Non ho ancora iniziato a leggere Tronti, ma è esattamente nella prospettiva che dicevo, il mio stupore a trovarmi, a trovarci a parlare di spiritualità. Non voglio sminuire, sono cose per cui ho grande rispetto (anche se naturalmente ne conosco bene gli aspetti *tossici* che subito sono stati sottolineati, come ad esorcizzare… :D) – ma se lo metto insieme al reimparare ad aggiustarsi la macchina e al rigiocarsi una autorità morale nel proprio ruolo (collettivo!) di genitori ho già bell’ e compilato l’elenco di quello su cui mediterò stasera.
Non penso di essere in grado di dare contributi “in avanti” a questa discussione, quindi rimango girato indietro e sottolineo per condividerle con tutti, altre questioni da cui sono stato colpito fortemente.
La percezione del potere come merda, sempre e comunque, è quasi un tratto imprescindibile della formazione mia e credo di tanti tra noi. Vedersela rigirata come un possibile ostacolo, freno, vincolo allo sviluppo positivo di nuove forme di futuri mi interroga fortemente.
La narrazione delle lotte, la loro unificazione nella narrazione (i nostri amici scrittori ci sono arrivati un po’ prima di nichi vendola, eh…) secondo me è già una risposta perchè lottare per vuol dire occuparsi di. E per me questo è già sinonimo di essere genitori. Magari per sfuggire alle narrazioni tossiche, bisogna che “ci copriamo il volto / per farci vedere” ? Da questo punto di vista parlare di biennio rosso (che personalmente considero uno dei più grandi rimossi della storiografia italiana, insieme al ciclo degli anni 70…) ci mette davanti agli occhi un bel catalogo di pratiche interessanti. E anche la fine che hanno fatto, però.
Da qualunque parte si prenda, questa lunga discussione mi appassiona e mi riempie di idee. I ringraziamenti a tutti sono scontati, ma siccome sono meritati ve li faccio lo stesso. Grazie.
[…] una volta, gli ottimi Wu Ming (qui in particolare il #1) mi colpiscono dal loro Giap con una lettura assolutamente efficace del fenomeno che da troppi anni chiamiamo berlusconismo. Oltre a invitare tutti a leggere per […]
Si sta commentando questo post anche sul blog di Lorella Zanardo:
http://ilcorpodelledonne.net/?p=4238
@WM1, perchè, seguendo la linea di questo thread, il pezzo per la London Review of Books, non lo fai collettivo? Dal basso? Sarebbe un bell’esercizio no?
Ci sono tanti, modi, scegli tu: puoi fare un taglia e cuci di quanto è emerso qui (e/o altrove), puoi chiedere a ciascuno una frase, puoi fare un vero e proprio crowdsourcing: fai una scaletta, decidi i punti e chiami a raccolta le idee su quella scaletta… Insomma, sono sicuro che i modi si trovano! E poi la firmi Wu Ming, specificando che solo per questa volta e in via del tutto eccezionale a causa della gravità del tema, il collettivo si è allargato a contributi esterni!
Qua l’inglese lo parliamo un po’ tutti, e semmai chi lo sa meglio aiuta e traduce chi non lo parla; io mi offro!
Insomma, non voglio metterti in imbarazzo, magari non puoi per tutta una serie di motivi che non spetta a me sapere… Dico così, sulla scorta delle riflessioni emerse in questo thread… ma se si potesse, io credo, sarebbe un episodio anche un po’ “fondante”, non trovi? ;-)))
@ eFFe
la cosa si va precisando e ve la preciso a mia volta: non è per il cartaceo ma per il blog della LRB; i tempi sono stretti (la sorte di questo governo è descritta in tutto il mondo come appesa a un filo di bava!); lunedì avrò maggiori ragguagli, ma penso che da articolo diventerà intervista / conversazione (via mail o via Skype). A me andrebbe meglio così, perchè in tempi stretti non sarei in grado di mettere insieme un articolo minimamente coeso, mentre con il pungolo di domande tutto filerebbe più liscio. Chiaramente, stanti così le cose, risulta difficile fare “crowdsourcing” o anche solo un copia-incolla dal thread, perché la direzione in cui andrò la decideranno le domande. Comunque, è chiaro che questo estemporaneo “seminario” (il thread) in questo più esteso seminario permanente (Giap) è una risorsa, ogni prossima presa di posizione su questi temi ne terrà conto, a partire dalla prossima puntata delle mie note. Del resto, è quello che sta succedendo con l’altra discussione-fiume, quella sulle “storie tossiche”, al cui primo sunto sta lavorando WM2.
@WM1,
certo, capisco perfettamente. Scusa se mi sono fatto prendere dall’entusiasmo, è solo che per un attimo ho immaginato che la ricchezza di contenuti e contributi di questo thread potesse trovare una bella cassa di risonanza nella LRB; mi dispiace davvero se ti ho messo in imbarazzo.
Sono sicurissimo che un patrimonio come questo verrà adeguatamente messo a fruttare nelle prossime note! :-)
@ eFFe,
ma quale imbarazzo, l’idea era buona, altroché!
Io nelle mie risposte farò comunque riferimento al thread, certo è un’applicazione del principio meno ambiziosa…
@ Wu Ming 1
Grazie, 1000 volte grazie per il link di Tronti.. E’ davvero una miniera d’oro, sono parole che sento molto vicine ma che non avrei mai saputo esprimere con tanta forza e chiarezza.
Avrei tanto altro da aggiungere, ma farlo a questo punto del thread sarebbe un abuso della vostra ospitalità.
Vorrei solo scusarmi per il mio giudizio, tagliato un pò con l’accetta, su una particolare visione marxista che io ho definito “ortodossa”, intendendola come sclerotizzata, dogmatica, superficiale, forse non sono riuscito a sintetizzare in maniera efficace il mio pensiero. Ma non era la critica al marxismo il punto centrale della mia riflessione.
Comunque lo ripeto, c’è qualcosa di speciale in questo thread, qualcosa di “seminale”, sento che da esso nascerà qualcosa, anche se non so ancora bene cosa.
Sarà forse per questa leggera euforia di questo momento, nel quale probabilmente stiamo per assistere al crollo di un’alto piccolo pezzettino dell’impero, che anche se non cambierà molto le cose, in fondo è sempre una cosa bella da vedere.
Grazie ancora.
[…] per esempio. Si parla e si riflette (molto approfonditamente) di padri e paternità. Segno dei tempi, ma parimenti tema universale. E io per sbaglio ascolto Robbie […]
Sì, sta venendo giù. E’ questione di ore ormai.
Vorrei congedarmi da questo ricco e denso thread ribadendo una considerazione “materialistica” che, dopo tutto questo parlare di godimento, investimento libidico, potere pappone, etc., non vorrei venisse sottovalutata. Se oggi la compagine berlusconiana si sgretola un pezzo alla volta è prima di tutto per cause socio-economiche. Avere lasciato passare tre anni senza fare nulla contro la crisi economica, anzi, andando in giro a dire che la crisi era finita, è stata la mossa che ha segnato il destino di Berlusconi più di qualunque pompino. Oggi il paese è allo stremo. Le piccole-medie imprese continuano a chiudere una dopo l’altra, i lavoratori finiscono a spasso. Le previsioni delle imprese medesime dicono che l’anno peggiore sarà il 2011 (ma non ce lo dicono pubblicamente, of course), altro che fuori dalla crisi. Se a questo si aggiungono la progressiva contrazione del welfare e i tagli mostruosi di quest’ultima finanziaria, si fa presto a capire che a sorreggere Berlusconi rimarranno gli speculatori e i privilegiati. Se sul breve-medio periodo il “fate quel cazzo che vi pare, come me” è stata la carta vincente del berlusconismo, oggi non funziona più, perché anche se uno può godere per interposta persona, alla lunga e al netto di ogni voyeurismo questo diventa troppo frustrante da sopportare a fronte di una situazione personale tragica. I festini con puttane e champagne nelle ville caraibiche mentre il paese affonda non tengono più agli occhi di chi aveva qualcosa e adesso non ha più nulla. Si può anche continuare ad ammirare la spregiudicatezza e la vitalità sessuale del leader, ma la quotidianità morde le chiappe e impone delle priorità come sbarcare il lunario e sfamare le famiglie.
Sia chiaro: ciò non significa affatto che dalla frustrazione debba nascere la rivolta, tanto meno un cambio di orientamento politico (non siamo mica in Africa…). Significa soltanto che la narrazione di prima non è più efficace e deve essere sostituita da qualcos’altro. Casini, Fini, Lombardo (e sotto sotto anche Bossi) l’hanno capito e si mettono al riparo uno dopo l’altro. La barca affonda e i topi scappano.
Ma per la storia: sarà stata la crisi a sconfiggere Berlusconi, non altro.
Una proposta terminologica: si è molto parlato, in questo thread, di futuro. Ma “Futuro e Libertà” è anche il nome della formazione politica di Gianfranco Fini. Non a caso, l’ex-missino ha messo insieme due concetti fondamentali, sui cui da tempo si combatte una battaglia semantica. Come momento di questa battaglia, io tornerei a chiamare il futuro con il nome che ha sempre avuto nella tradizione italiana di sinistra: l’avvenire. Il futuro è ciò che sarà, per forza di cose, per l’inerzia del mondo. L’avvenire, ciò che viene, mi dà invece l’impressione di un futuro che può essere preparato, modificato, trasformato in avvenimento.
Sintetizzerei questo slittamento con una frase di Marc Augé:
“Come possiamo, più che prefigurare il futuro (essendo il cambiamento tanto inimmaginabile), attrezzarci nella misura del possibile perché sia l’avvenire di tutti?”
Quoto frost:
“La percezione del potere come merda, sempre e comunque, è quasi un tratto imprescindibile della formazione mia e credo di tanti tra noi.”
e quoto lorenzo:
“questo secondo me sarà il passo più difficile, capire e spiegare come modulare tutti i nostri respiri così diversi (regionali, spirituali, politici) in un respiro simile”
Ieri ho presentato a Trento “il sentiero degli dei” e dal pubblico è arrivata la domanda se movimenti come quelli della Val Susa o i grillini contro gli inceneritori siano esempi di politica o di antipolitica. Io credo che a livello locale quei movimenti abbiano ottenuto un primo, grande risultato: la competenza collettiva, la condivisione di saperi. Sempre a livello locale, credo che possano diventare maggioranza, uscire da una posizione subalterna, parlare a tutti. E ancora: a livello locale s’è visto che possono ottenere risultati importanti e proporre alternative importanti. Riescono, insomma, ad essere “forze alternative”. Ma a livello nazionale, movimenti costruiti nello stesso modo – con la mitica “autorganizzazione dal basso” – rischiano di avere le idee alternative, ma non la forza.
Tronti è molto scettico sulla formula tanto affascinante del “cambiare il mondo senza prendere il potere”. L’anticomunismo è ancora tanto vivo, di fronte al cadavere del comunismo, perché quello fu una forza, un vero contro-potere rispetto al capitalismo.
Forse il potere bisogna prenderlo, prima o poi. Di sicuro senza dare l’assalto al Palazzo d’Inverno, ma insomma, non basta la natura a trasformarci in genitori. Non basta nemmeno l’amore. Bisogna scegliere di diventarlo.
Dal blog della Zanardo qualcuno afferma, giustamente, che abbiamo lasciato cadere troppo presto la questione, sollevata da Wu Ming 4, di genere, non occupandoci quindi del rapporto tra potere e genere femminile. Ci venivano ricordate le critiche di Butler (che io condivido) all’impostazione fallocentrica lacaniana. Evitando il gergo accademico, credo che sia essenziale riflettere sul rapporto potere, femminile e godimento femminile. E’ a partire da qui che si possono riarticolare alcune categorie del politico. Il paradigma della genitorialità se pensato fino in fondo non può evitare il confronto con il femminile. Evocavo sopra la figura della Palin perché mi sembra un buon modello su cui lavorare.
Vorrei innanzitutto ringraziare WM2 per la bellissima conferenza di ieri alla Biblioteca Comunale di Trento, seguita da una discussione vivacissima con un pubblico molto coinvolto e partecipe e da un altrettanto vivace post-conferenza.
Torno sulla questione della narrazione a mosaico, introdotta da WM1, innestandoci una riflessione di WM4 sugli indios come metafora: “è evidente che oggi, in Occidente, trovare un soggetto che possa svolgere la stessa funzione, che possa diventare metafora, racchiudendo in sé storia, territorio, mondo, non è per niente facile. I tentativi in questa direzione mi paiono fallimentari (il “precario”, il “cognitario”, etc.).”
Il tentativo di rendere il precario metafora dello sfruttamento è stato finora fallimentare perché la narrazione del precariato ha colto aspetti che con la questione del lavoro hanno poco a che fare. Cioè, del precario si è costruita scientemente una macchietta per ragioni che hanno a che fare il con il marketing dell’editoria, ma che sono sconnesse dalla realtà. La si è fatta per lo più coincidere con il laureato “overqualified” privo di identità lavorativa. In realtà il precario è molto semplicemente chi è sottoposto a forzature contrattuali che sono truffe legalizzate, che ciò avvenga nel settore del cognitariato o in quello operaio. Di lavoratori a progetto senza progetto ce n’è in tutti i campi, dalla correzione di bozze alla raccolta di pomodori, al banco dei salumi al supermercato alla scuola (proprio oggi abbiamo ricevuto una lettera a dir poco allucinante di un’insegnante inquadrata come impiegata di V livello a tempo a determinato in un CFP, che abbiamo intenzione di pubblicare). Questo per dire che il termine “precario” ha assunto una connotazione che lo fa equivalere a cognitario e che corrisponde a un circa trentenne con molteplici master, lauree specilistiche, e in genere con interessi intellettuali e/o aspirazioni accademiche. Invece si tratta né più né meno del lavoratore non garantito e sottosalariato. È l’esempio più lampante di narrazione a mosaico: si continua a distinguere fra le istanze degli operai e quelle del terziario, a scuola si tengono separate addirittura quelle dei docenti e del personale ATA. Insomma un bel mosaico, ma se ci allontanassimo un po’ dal quadro, l’immagine complessiva che ne verrebbe, sarebbe esattamente quella di un unico lavoratore privato per legge di tutele. La qual cosa è problema politico, e ha molto a che fare con il cuore pulsante del post di WM1 che ha generato questo thread: l’annichilimento della forza lavoro, l’impossibilità di partecipare ad azioni sindacali a causa del terrore provocato dal ricatto del rinnovo, le ripercussioni che questa immobilità da panico ha sul sopravanzare di una classe politica che si fa gli stracazzi suoi, perché chi è danneggiato di fatto non ha la forza di reagire, o perde completamente il desiderio di reagire. E mettiamoci pure il sindacato connivente con questa classe politica incapace di pensare a rinnovarsi su un’idea di diversa di autorevolezza. Autorevolezza che si acquisisce sapendo ascoltare le istanze dei lavoratori tutti, e non certo intrattenendoli con tutto ciò che sappiamo.
Poi leggo, sempre di WM4: “…fallimento della sostituzione di “proletariato” con “precariato”. Fallimento dovuto al fatto che il proletariato nei due secoli alle spalle era qualcosa di concretamente identificabile, mentre la precarietà è una condizione assai più variegata, articolata, trasversale. E il problema materiale (generazionale, di reddito, di genere, culturale, etc. etc.) non può essere aggirato con un atto lessicale o un appello generico a un insieme i cui confini non sono più evidenti.”
A dire il vero dopo un anno che co-gestisco un blog interamento dedicato alla questione, mi sento di testimoniare che la precarietà, per come si è consolidata oggi attraverso un processo di definizione soprattutto legislativa, si può con una certa sicurezza far corrispondere alla nozione di proletariato, nella misura in cui chi proviene da famiglie agiate e socialmente inserite ed ha quindi la possibilità di inserirsi nel mondo produttivo bypassando la trafila di selezione nel caso dell’azienda e delle professioni, o di accedere alla carriera universitaria per diritto di nascita o per protezione acquisita grazie anche a nascita diciamo così “gentile” (per usare un termine molto fuori moda), che garantisce un reddito finché non arriva il concorso tagliato su misura, si posiziona su una scala sociale di gran lunga più alta, il che equivale esattamente alla vecchia distinzione fra proletariato e alta borghesia, [con l’unica differenza, quindi, che proletariato, piccola e media borghesia sono oramai assimilabili in quanto in questo paesone che è diventata l’Europa, hanno di fatto le stesse opportunità e le stesse chances di incappare nella condizione di precario, aldilà di ogni ragionamento sugli ammortizzatori sociali differenziati di paese in paese]
Penso che nessuna figura, se la si volesse una buona volta svincolare da quello che ne ha fatto certa narrativa fuorviante e unilaterale, si presti meglio a metafora di sfruttamento, perché ingloba storia, territorio, e anche mondo, visto che il tema dei lavoratori sfruttati è universale, e attualmente i lavoratori sfruttati appartengono a tutte e tre le fasce sociali di cui sopra. Lo testimonia fortissimamente la rivolta degli studenti londinesi, che non sono affatto una rappresentanza del Lumpenproletariat con non ben precisate ambizioni culturali (chi conosce anche poco la working class inglese sa che di non andare al college da sempre si fa vanto, e comunque – fino a qualche tempo fa – le borse di studio ovviavano ai limiti economici oggettivi, nel caso), ma i figli della middle class, gli studenti di reddito medio che si incontrano normalmente nelle students unions dei vari college, cioè quelli che fino a ieri potevano – non senza sforzo, va detto – prendersi una laurea e trovare lavoro, e ora, se passa la legge, improvvisamente si vedranno esclusi di fatto dalla possibilità di farlo, con conseguenze di severo incrudelimento del già notorio e inscalfibile classismo anglosassone. Per cui, se c’è una figura su cui sarebbe davvero il caso di smettere di fornire visioni a mosaico e su cui invece sarebbe il caso di iniziare a ragionare sulla base di un discorso socio-economico complessivo e trasversale alle categorie, e oltre il lessico marxiano, è proprio il precario.
[…] il proprio potere sull’ipersessualizzazione del mondo quotidiano. Questo è il finale di un articolo di Wu Ming in cui veniamo citati e dove si propone una interessante, approfondita e psiconanalitica […]
@ claudia b.
Si può anche far coincidere il precario con il lavoratore genericamente “non garantito e sottosalariato”, e questa è una condizione sempre più diffusa, ma trovarsi in quella condizione con un background borghese alle spalle o senza quel background fa una certa differenza. La precarizzazione che colpisce il povero è la stessa che colpisce il benestante, ma le aspettative no: dover rinunciare al miglioramento delle proprie condizioni di vita o vedersi decadere dalle medesime non è la stessa cosa, se non altro sul piano percettivo. Non solo: oggi, quello che un tempo sarebbe stato considerato un proletario, mettiamo ad esempio un operaio a tempo indeterminato in una fabbrica che resiste alla crisi, si troverebbe nonostante tutto in una situazione più garantita di un laureato assunto nel famigerato call centre o di un ricercatore universitario.
E’ questo che rende la faccenda complicata rispetto al passato, secondo me, quando il proletariato era appunto una classe ben identificabile, con un immaginario e aspettative che potevano essere condivise e che spingevano la classe a percepirsi come soggetto storico. Ciò che impedisce alla narrazione a mosaico di diventare unitaria – come accadde ad esempio alla fine degli anni Sessanta – è l’assenza di un’idea di “avvenire” (per usare il termine proposto da WM2). Senza una cornice condivisa, la prospettiva di un’alterità possibile, il riconoscimento reciproco tra i “precari” rimarrà difficile e difficile sarà l’avvio di una rivendicazione generale di diritti, perché le condizioni oggettive e soggettive sono in realtà molto diverse e disparate. Per dirla ancora con Tronti: “finché è stato in piedi il tentativo di costruzione del socialismo, la lotta gradualista per introdurre cosiddetti elementi di giustizia sociale dentro il capitalismo ha segnato dei successi. Dopo, sconfitto il progetto rivoluzionario, è diventato impossibile il programma riformista” (Noi operaisti).
Poi, per riportare l’attenzione sulla questione femminile, Francesca Senette, ex conduttrice del TG4 che difende Fede a spada tratta (qui in una foto abbastanza eloquente: http://static.blogo.it/tvblog/francescasenette.jpg)
fa la seguente affermazione:
“Non sto dicendo che ogni sedicenne circuita da un uomo adulto è una che se l’è andata a cercare – mette le mani avanti la Senette -. Ma alcuni modelli di comportamento diffusi dalla tv sono inquietanti. Io ho una figlia di quattro anni e mezzo e, quando vado a comprarle dei vestitini, ho due scelte: o spendo un patrimonio nei negozi da piccolo lord o la vesto da mignottella. Se le vestiamo così, poi ci meravigliamo se a 16 anni trovano normale fare le escort? Sto dicendo che ormai il corpo è in vendita e lo cedi a seconda di quello che ti danno. E poi attenzione: la disinvoltura nel vendere il proprio corpo non riguarda solo figlie di famiglie povere. Aumentano i casi di ragazzine dei migliori licei milanesi che si fanno pagare per andare a letto con ragazzi più grandi di loro e del loro stesso ambiente. Vestiti, borse, naturalmente cocaina. E i genitori spesso non se ne accorgono”.
Chiunque sia dotato di un cervello ancora sufficientemente funzionante dovrebbe chiedersi com’è che la perfetta rappresentante di quell’inquietante modello di comportamento diffuso in TV (da chi?) che lei stessa condanna, preoccupata che l’industria tessile non riduca la sua figlioletta in una escort (perché il settore vestiario per bambini mette in commercio abiti da adulti in formato ridotto?), non solo non si interroga sulle cause, ma ci ammorba con la splafonata moralista nello stesso intervento in cui difende Fede? Ecco, se noi dobbiamo essere i genitori e le genitrici, dovremmo interrogarci anche sulle aberrazioni dell’essere genitori e genitrici. In sintesi, le stesse mamme escort sono preoccupate che le figlie diventino a loro volta escort grazie al sistema che però loro stesse alimentano. Questo mi ricorda molto la prostituta che desiderava un avvenire diverso per la figlia, ma allo stesso tempo si rendeva conto che chi da puttana nasce puttana diventa, non perché esista un reato che si chiama favoreggiamento della prostituzione, che dovrebbe essere denunciato, ma perché molto fatalisticamente esistono e ci saranno sempre donne disagiate (e non solo, come sottolinea la “giornalista”) che possono usare soltanto il corpo per procurarsi da mangiare (o un posto in società). Si è detto che l’antidoto è legalizzare la prostituzione, ma qua non si tratta regolamentare il mestiere. Qua si tratta di riflettere su come l’imposizione di un sistema indebolisce, per non dire annichilisce, la compartecipazione alla società in tutti suoi aspetti (lavorativo, culturale, ecc.) che alle donne spetterebbe di diritto senza dover passare per il papi e le sue emanazioni.
WM4, scusa ho scritto in contemporanea. Ora ti leggo e rispondo.
@ Simone
l’impostazione sbilanciata sul maschile, anzi, proprio fallocentrica, è il motivo per cui io sospetto dell’impostazione psicanalitica tout court, freudiana o lacaniana.
Nonostante le svariate “zeppe” che ho messo nel mio discorso per lasciare aperte le altre porte (ho detto che io stesso non amo ragionare in quei termini; ho detto che non mi interessa il Complesso di Edipo; ho ripetuto che di Lacan ho solo preso alcune cose ma non intendo riproporne l’intero impianto teorico; nel primissimo commento ho aggiunto che non voglio ricorrere al mito dell’orda primigenia etc.), e nonostante il fatto che nel post i concetti della linguistica cognitiva di Lakoff abbiano molto più spazio di quelli psicanalitici, molti lettori hanno inforcato solo la porta lacaniana. Inforcarla mi sembra utile, ma a condizione di uscirne ed esplorare anche altre ali della casa. Credo che percorrendo *solo* quel corridoio ci si rificchi nel solito ginepraio, quello del mito delle origini patriarcale, del Fallo, dell’Edipo, dell’invidia del pene nelle sua varie riformulazioni anche “soft”, dell’incapacità di inquadrare la soggettività femminile con conseguenti tentativi di “riaggiustamento” etc. Tutti scogli su cui si sono infranti tanti discorsi.
Ribadisco, perché nel marasma dei commenti le precisazioni passano e vanno, e anche perché le prossime puntate dei miei “appunti in pubblico” non sono proprio dietro l’angolo: io sono ricorso contemporaneamente a Lacan e a Lakoff per far vedere che c’è una questione centrale, un crocicchio (o un vuoto, se si preferisce: una radura), a cui prima o poi si arriva anche prendendo sentieri diversi. E quei sentieri vanno presi, possibilmente, senza fidarsi delle guide del Touring :-)
@WM4: Sono d’accordo sulle questioni che sollevi, soprattutto non dimentichiamoci che esistono esperienze molteplici. Tanto per citarne una, nella biblioteca Querini Stampalia a Venezia ho conosciuto un ex- tornitore del trevigiano con alle spalle la formazione professionale (quindi davvero il livello più basso di secondaria) che aveva abbandonato la propria condizione di operaio specializzato a 2000€ al mese per invischiarsi in una laurea in filosofia, che lo ha portato a fare il commesso part-time in una libreria a 800€ al mese. Un tempo con la sua laurea, dal mestiere di tornitore sarebbe diventato insegnante, con una perdita economica accettabile e dovuta soprattutto al diverso livello di rischio dei due lavori. Ma per il mio conoscente questo corrispondeva comunque ad un riscatto sociale. Sono d’accordo che la faccenda è complicata, il proletariato un tempo era davvero una classe ben identificabile, come lo erano la piccola e la media borghesia, con il loro immaginario e le loro aspettative condivise e il loro percepirsi come soggetto storico. Infatti dicevo proprio questo: annullata la coscienza di classe, cosa rimane se non una lotta comune per il lavoro garantito?
Coindivido anche l’analisi sulla difficoltà di unificare la narrazione a mosaico, perché la differenziazione dipende da una reminiscenza dell’identificazione con classi che non esistono più, in quanto sono venute meno le premesse identitarie, di ruolo e anche di reddito. Per complicare ancora di più le cose, si può citare la base della Lega, che notoriamente è operaiato che soffre il lutto del progetto rivoluzionario. Non sono però così pessimista sull’avvio di una rivendicazione generale di diritti, perché dipende esattamente da come si impostano le narrazioni. E’ ovvio che se si insiste ovunque sulla narrazione a mosaico, i lavoratori continueranno ad identificarsi con classi sociali che di fatto si sono oramai fuse perdendo i confini proprio nelle istanze identiche che avanzano. Gli operai che godono di tutte le tutele sono gli operai specializzati, e non certo gli immigrati che vengono presi fino a completamento d’opera nei cantieri. Di fatto gran parte degi operai non specializzati sono dei precari, come lo sono i commessi al supermercato assunti con contratti a termine, e come lo sono i prestatori d’opera nel terziario avanzato sia nel pubblico che nel privato.
@ Wu Ming 1: quello che dici è chiarissimo; d’altra parte se c’era una critica da parte mia era proprio quella dell’eterogeneità dei modelli teorici di riferimento. Quindi almeno il pericolo di lacanismo fallocentrico non c’è nel tuo discorso! Resta da capire, per me, se occorra proprio mantenere ferma e pur l’idea dell’imperativo superegoico lacaniano: “Godi”. Perché pongo questa questione? Perché se si tiene così fermo nell’analisi questo punto, la risposta rischia di essere: conteniamo, sublimiamo, regoliamo, ma facciamola finita con questo potere che ci ingiunge di godere. Ma ne abbiamo discusso. Ora, alla luce di quello che emerge da questo straordinario seminario, e per evitare il rischio della critica diciamo così “contenitiva”, mi chiedevo se non valesse la pena porre anche la questione di un altro rapporto tra godimento e potere a partire dal femminile. Perché la questione del godimento resta centrale anche nella questione della costituzione di un nuovo soggetto politico. Penso a quello che dice Laclau: il soggetto già costituito non c’è, e non vale la pena cercarlo. La politica è proprio l’articolazione di un soggetto che non c’è a partire dalle differenti domande sociali. E per costituire questo soggetto politico che nel sociale non c’è, tra le altre cose servono un discorso e un investimento affettivo, ossia del godimento.
Secondo me non c’è dubbio che sia in azione l’imperativo “Godi!”. E il problema non è eliminare il godimento, ma sfuggire all’imperativo. La risposta dovrebbe essere:
“Non intendo godere come godi tu ma nel modo che sento più mio;
non intendo godere nel modo che tu pre-determini;
non intendo godere solo a tuo vantaggio;
men che meno voglio godere solo per tuo tramite;
non intendo nemmeno godere in un modo che prevarichi o ignori gli altri, come invece questo sistema mi spingerebbe a fare.”
E ribadisco: “godimento” non è solo il piacere sessuale.
E’ schiavo del godimento imposto (e distruttivo) anche il bulimico che vuole al tempo stesso mangiare a crepapanza e poi non ingrassare, e quindi trova il compromesso del mettersi due dita in gola.
E’ schiavo del godimento imposto e distruttivo chi si sputtana tutto nel gioco e nelle scommesse, pratica che lo Stato stesso incentiva a ogni pie’ sospinto.
E’ schiava del godimento imposto e distruttivo l’anoressica che si auto-annichilisce per incarnare un ideale di corpo.
E’ schiavo del godimento imposto e distruttivo chi si sottopone continuamente a interventi di chirurgia estetica, con crescente divaricazione tra l’aderenza a un Pensiero Unico della bellezza e una prassi che finisce invece per (far) sfigurare (e bene ha fatto Tommaso Ariemma a scrivere il suo pamphlet filosofico Contro la falsa bellezza, nella collana del Melangolo che dirigi tu).
Non è una questione di mero approccio “contenitivo”: a questo godimento imposto e distruttivo dobbiamo opporre un’autodisciplina, dei “paletti”, delle tecniche del sé, un *rigore* che ci permetta di resistere. E non è una resistenza a ogni forma di godimento, ma all’imperativo. Non c’è nulla di più “totalitario” del cattivo esempio. Quello del cattivo esempio è un imperialismo psichico, l’armata del cattivo esempio invade ogni territorio incontrando pochissime resistenze. Si tratta di ri-organizzare queste ultime. Per tornare a godere in autonomia e in modo non distruttivo.
a proposito di spiritualita’ e rivoluzione: qualche anno fa moni ovadia ne aveva fatto il tema di uno spettacolo teatrale che a me era piaciuto molto: “l’ armata a cavallo”, ispirata ai racconti di babel’.
http://www.apriteilsipario.it/archivio/panoramica03-04/schede/sch084.htm
e pensando a moni ovadia, mi e’ tornato in mente questo suo intervento all’ universita’ di genova, che secondo me ha molto a che fare con alcuni dei temi emersi in questa discussione:
“[…]Ugo da San Vittore, scrittore italiano del 1100, […] dice: “chi trova dolce la propria terra è solo un tenero dilettante; chi trova dolci tutte le terre è un uomo che si è incamminato già su una buona via, ma solo è perfetto chi si sente straniero in ogni luogo”. E questo viene secondo me proprio dalla grande tradizione biblica, anche evangelica – San Paolo ha parole memorabili sullo straniero – e tutte le grandi spiritualità riconoscono nello straniero il portatore della benedizione, l’onore verso lo straniero è una cosa sentita. Purtroppo il vero grande problema è che lo straniero viene percepito solo nell’alterità e non nella dimensione del sé.
Questa citazione da Ugo di San Vittore l’ho sentita da Todorov, grandissimo filosofo e sociologo bulgaro esule in Francia, che a sua volta l’aveva ripresa da Edward Said, intellettuale palestinese straordinario mancato qualche anno fa, che viveva esule negli Stati Uniti. Possiamo dire che è una citazione che circola tra gli esuli. Julia Kristeva, in un libro memorabile che costituisce una pietra miliare sull’argomento e che lei ha intitolato mirabilmente Etrangers a nous même, dice nel primo capitolo che lo straniero non è né la rivelazione in cammino, né l’avversario immediato da eliminare per pacificare il gruppo. Stranamente lo straniero ci abita, è la parte nascosta della nostra identità, la parte che destabilizza la simpatia e l’empatia familiare, che decostruisce l’abitazione, la parte oscura e inquieta. Riconoscerla in noi ci risparmia la vergogna di odiarla nell’altro.
Il vero problema della difficoltà che abbiamo con lo straniero è perché non riconosciamo lo straniero che è in noi, che è la parte più anticonformista, quella più slegata dal comunitarismo, è quella più ribelle che scalpita e di cui abbiamo una terribile paura perché la parte predominante in noi è conformista e vuole stare tranquilla. Non vuoi perdere la tua casa, anche se perdere la tua casa significa conquistare conoscenza e sapienza. L’immensa e poderosa metafora di Ulisse: a chi tocca il privilegio di essere esule? Di essere colui che fa per dieci anni una vita infernale ma acquisendo conoscenza e brillando per diventare senso stesso del cammino di una civiltà universale. Chi tra tutti gli eroi? Il sapiente, il paziente Ulisse, a lui tocca il privilegio di diventare esule perché la conoscenza e l’intelligenza sono le sue virtù principali. Questa la dice molto lunga… Quando noi tutti ci faremo degli ulissi saldandoci con l’esodo…. L’esodo è uno dei punti più grandi in cui l’Ebraismo si salda con la grecità epica dell’epos, ecco che in questo senso Mosè invita ad andare fuori, Mosè non tornerà nella terra e non è un caso che il più grande in Israele non metta piede nella terra e non si sa dove sia la sua tomba. La tomba di Mosè nella terra sarebbe stato un potente aggregante nazionale, ma gli Ebrei non sarebbero più stati gli Ebrei. Mosè tiene molto a mantenere la condizione dell’esilio. E’ la grande dialettica incomponibile, diciamo una sorta di aporia vitalizzante che è quella tra particolarismo e universalismo, fra terra ed esilio, che va mantenuta costantemente in vita.”
http://www.cittamobile.it/portal/page/categoryItem?contentId=157981
Perfetto, qui ti seguo perfettamente. Hai usato una parola che amo: autodisciplina (anche Wu Ming 2 ne “Il sentiero degli dei” dice una cosa bella sulla disciplina). Sì, è attraverso una disciplina del sé come esercizio (la filosofia per me ha molto a che fare con questo, in questo senso ha una dimensione atletica) che posso trovare una dimensione “singolare”, mia del godimento. (Il libro di Tommaso che ho voluto molto va proprio nella direzione della singolarità). In questo senso l’ascetica non è rinuncia mortificante, ma rideclinazione. Qui va a finire che siamo, al di là delle singolarità, d’accordo…
[…] di stimoli, in questo sabato solitario e silenzioso, e come prevedibile li ho trovati nei soliti Wu Ming. In realtà è un articolo di qualche giorno fa, ma era un po’ di tempo che non bazzicavo su […]
Continuo a seguire con molto interesse la discussione, che ha già scomposto, decostruito, molte posizioni-non-pensate, molti pregiudizi anche, che prima avevo, e che spero continui nelle diverse direzioni che ha aperto.
E’ molto interessante il tentativo di sintesi di una risposta all’imperativo “Godi!” emesso dal potere; se non sbaglio per ora si tratta di un messaggio per l’individuo; così come anche il recupero della dimensione dell’ascetismo. Se c’è un messaggio anche “per la comunità” forse non l’ho colto a sufficienza (è un tipo di messaggio di cui sento il bisogno ma a cui non sono abituato).
Ho molto apprezzato in tutte le sue sfumature anche il discorso sul “diventare genitori” in un senso più ampio della “procreazione”, discorso che sento molto da vicino avendolo affrontato spesso ultimamente con la mia compagna. Un breve aneddoto: qualche giorno fa a casa di una coppia di amici con bimba piccola abbiamo apprezzato il loro tentativo di crescerla già da subito con modelli (e anche beni) molto diversi da quelli imposti dal potere capitalistico, o meglio dalla declinazione consumistica, “sprechista”, materialista, obbligatoriamente edonistica del capitalismo di cui appunto parlate. E parlandone con loro mi sono ricordato di come in questo si fossero già impegnati i miei genitori, che infatti mi vietavano la televisione (tranne rare eccezioni; ad esempio credo di aver appreso l’esistenza dei canali berlusconiani a pubertà ormai raggiunta, e sono dell’83) e non cedevano alle mie richieste di omologazione, si rifiutavano per quanto possibile di comprarmi oggetti, vestiti, giocattoli “alla moda” riempendomi invece la casa di libri e “investendo” per me in viaggi, in musica, in tempo… Io non finirò mai di ringraziarli ma non posso negare che tutto questo mi ha reso per molti anni diverso e distante dalla maggiorparte dei miei coetanei; tranne pochi amici i cui genitori agivano più o meno come i miei, il resto dei bambini e ragazzi del mio piccolo comune del nord (la maggiorparte anche più ricca della mia famiglia) viveva “in un altro mondo”, che io ho sempre disprezzato, ma di cui non potevo fare
a meno di notare -e subire- la maggior grandezza (molte più persone vivevano come loro, avevano le cose che avevano loro, pensavano e guardavano la tv che guardavano loro) e quindi il maggior potere.
Ora non so come tradurre questa mia esperienza; non credo affatto che questa sia una critica o un’aporia al discorso che state facendo. Credo che c’entri anche col discorso dell’inevitabilità di dover prima o poi “andare al potere”. Con la coppia di amici che dicevo abbiamo parlato di questo e non siamo giunti a conclusioni “facili”, al momento non troviamo altre soluzioni che cercare per quanto possibile di partecipare alla “comunità terribile” in cui viviamo e cercare tutti insieme di renderla un po’ meno terribile, talvolta accettando di vivere fasi e momenti più “isolati” per far resistere e sopravvivere modelli minoritari e troppo deboli di fronte ad essa. L’alternativa sarebbe entrare, o costituire, una “comune” di qualche tipo: abbiamo visitato esperienze simili nel nostro territorio. Alcune di esse ci sono sembrate molto interessanti e della presenza di tutte siamo molto contenti ma finora non abbiamo trovato in quel modello di comunità un’alternativa per noi praticabile, per motivi molto diversi e per limiti spesso più nostri che loro.
Se c’è una “critica” che mi permetto di fare in generale a tutti gli esempi di “comune” che abbiamo incontrato finora, è simile a quella che farei ai miei genitori e alla coppia di nostri amici e a me stesso: la non completa consapevolezza del proprio ruolo politico, del proprio “esserci” gettati nella più immensa e ineludibile (non c’è un fuori come dite spesso voi) comunità terribile del capitalismo-consumismo-sprechismo contro la quale ergere muraglie può essere una tattica ma non può mai essere “la” strategia.
@WM1,
ho qualche riflessione da fare sul tuo ultimo intervento. Le faccio in spirito costruttivo, come mediazione al rialzo. Tu scrivi:
“[…] non intendo nemmeno godere in un modo che prevarichi o ignori gli altri, come invece questo sistema mi spingerebbe a fare.”
Non mi sognerei mai di negare l’influenza, la pervasività sistemica che agisce sui nostri comportamenti e sulle nostre scelte. Ma non vorrei nemmeno correre il rischio di attribuire al sistema – cioè a un qualcosa che si presume essere *fuori* di me – tutte le colpe. Io presumo che la radice profonda del godimento sia in primo luogo individuale; solo in secondo luogo essa trova, in un contesto come quello italiano attuale, (così come lo hai descritto tu, e oltre) la sua giustificazione e legittimazione.
Cosa succede per esempio quando il mio godimento è incompatibile con quello di un’altra persona? Non parlo di sesso (o non solo di sesso), parlo di tutti quegli ambiti in cui nelle relazioni umane è frequente veder sorgere incomprensioni ed attriti. E qui i soggetti sono solo due, figurati quando si parla di gruppi!
Se dimentichiamo per un secondo il padre-pappone, torniamo a vedere come il godimento (la pulsione a godere) esista in tutti, inarrestabile; poi, normalmente, arriva il Padre, cioè l’acquisizione del campo simbolico, dell’autorità e della legge e le cose si svolgono come sappiamo (la sto facendo breve). Dunque non è solo l’esistenza di un padre-pappone che spiega e/o giustifica l’orgia di godimento in cui viviamo. E questo anche in virtù del fatto che, come dite spesso, *non c’è un fuori*. E’ allora sensato dire che questa italica orgia di godimento (passami l’etichetta) sia il frutto di una dialettica tra due facce di uno stesso problema, di una stessa dinamica? Domanda sincera, non retorica.
Quello che cerco di dire è che il problema Berlusconi-metonimia rimanda necessariamente anche alla necessità di un “lavoro” che il singolo fa su se stesso, e non solo a un’analisi sistemica. Se in questa direzione andranno le tue riflessioni sulla tecnica del sè, sono curioso di vederlo.
Non è un caso che gli esempi che fai della dittatura del godimento siano tutti piuttosto estremi: il bulimico, il giocatore incallito, l’anoressica etc.
Ma la dittatura del godimento si osserva in una miriade di altri piccoli comportamenti, spesso reputati assolutamente veniali se non addirittura irrilevanti, che però, a mio giudizio, possono colorare di senso la personalità di un individuo e indicare il suo grado di soggiogamento – se tale cosa fosse misurabile, s’intende.
Non è anche schiavo del godimento chi, lontano dagli abissi della bulimia, al ristorante ordina una portata intera in più solo per lo sfizio di assaggiarne un boccone?
Non è anche schiavo del godimento chi, pur perfettamente consapevole dei suoi vincoli di bilancio, eccede negli acquisti superflui?
Non è anche schiavo del godimento il collezionista di libri? O di qualsiasi altra cosa?
Il problema è che questo genere di comportamenti passa spesso inosservato, perchè non genera un danno immediatamente visibile o irrisolvibile. Ma io credo che essi rispondano a quella stessa pulsione che caratterizza il bulimico, l’anoressica etc., con la differenza che in quei casi la mediazione con la legge interiorizzata è molto più semplice e non genera nevrosi.
Poi tu dici:
«Non è una questione di mero approccio “contenitivo”: a questo godimento imposto e distruttivo dobbiamo opporre un’autodisciplina, dei “paletti”, delle tecniche del sé, un *rigore* che ci permetta di resistere. E non è una resistenza a ogni forma di godimento, ma all’imperativo. Non c’è nulla di più “totalitario” del cattivo esempio. Quello del cattivo esempio è un imperialismo psichico, l’armata del cattivo esempio invade ogni territorio incontrando pochissime resistenze. Si tratta di ri-organizzare queste ultime. Per tornare a godere in autonomia e in modo non distruttivo.»
Condivido in pieno. Ma mi sorge una domanda: non sarà che l’appello all’autodisciplina, ai paletti, al rigore vengono da chi ad essi è già abituato e non comprende dunque appieno l’enorme difficoltà che si presenta a chi dovrebbe autoregolarsi? A uno abituato a fare i suoi porci comodi – in soldoni – come glielo spieghi che si deve misurare? E come lo convinci? Tu, i tuoi compadres, quei fustacci di Wm5 e Regazzoni, l’ascetico Binaghi e tantissimi altri ed altre che scrivono e leggono qui hanno familiarità con i tuoi suggerimenti e possono facilmente essere d’accordo. Ma la casalinga di Voghera?
(Storiella: in un volo per La Habana conobbi un signore: elettore leghista del trevigiano, circa cinquantenne, operaio, separato. Mi disse apertamente che andava a Cuba per fare turismo sessuale. Ai miei moderati – quasi socratici – tentativi di fargli capire che non è poi una gran bella cosa, sai cosa rispose? “Dopo 11 mesi all’anno in fabbrica, la figa è un diritto!”. E a uno così come gliele spieghi certe cose???)
Da una prospettiva più strettamente politica e di breve-medio periodo mi sembra che un momento di contenimento sia, se non imprescindibile, almeno di grande utilità. Ed e qui che si rivela la pochezza di un’intera classe politica. Non auspico certo leggi suntuarie, ma un’espressione politica (nel senso di policies) di questa necessità di autoregolamentazione sì. E un’intensa campagna educativa, che un giorno non renda più necessaria alcuna forma di contenimento.
@ uomoinpolvere
proviamo a ri-coniugare al plurale l’abbozzo di “risposta” all’imperativo:
“Non intendiamo godere nel modo che…”
No, non fila. Non convince. Suona subito come una dichiarazione stentorea, piena di cattiva retorica.
E’ chiaro che la prima risposta all’imperativo “Godi!” (prima non in senso meramente cronologico) la dà il singolo. Se il singolo non si rende conto che qualcosa non va nel modo in cui vive, non può nemmeno confrontarsi con altre persone e cercare insieme a loro una linea d’azione comune.
Sulle altre questioni che poni:
l’effetto collaterale del sottrarsi in toto alla tv e al consumismo non è solo quello che descrivi (disadattamento, mancanza di sintonia con la maggior parte della gente che ti circonda). Io vedo almeno altri tre problemi, che in realtà sono tre declinazioni dello stesso:
1) si finisce per non conoscere minimamente il nemico e le armi che usa;
2) ci si rafforza nella convinzione che la cultura di massa sia tutta spazzatura infettiva, quando invece non è così;
3) non si viene a contatto con pratiche interessanti e vivificanti che nascono nel popular e possono dare idee anche a chi si muove su altri terreni;
Per me “rigore” è anche fare la fatica di *discernere* dentro la cultura di massa, senza rifiutarla in blocco, che sarebbe una soluzione di poco momento.
[La peculiarità della sfida di noi WM è sempre stata questa: esigenti ma popular, popular ma esigenti. Esigenti nei confronti dei lettori, ovviamente. Cioè: non “abbassare” a forza, non “tirarla via”, pretendere concentrazione.]
Sulle comuni oggi esistenti: ho pochissima esperienza in proposito.
@eFFe
Vorrei chiarire che quando scrivo “questo sistema”, non intendo un *fuori* da me. Sul fatto che dentro il sistema ci siamo tutti, che il potere è una rete di relazioni etc. credo di avere menato il torrone a sufficienza, in passato :-) Quando scrivo “questo sistema” intendo l’andazzo che portiamo avanti noi tutti, per tanti motivi, per forza d’inerzia, perché collocati nel funzionamento strutturale del capitalismo. L’andazzo ci spinge a prevaricare gli altri, a fottercene di loro. Ma, non so come dire: l’andazzo siamo noi. La menzogna non è tutta esterna a noi, la verità non è tutta interna. Non credo funzioni l’appello a un presunto “nostro vero Io”, armonico e puro, da ritrovare “guardando dentro noi stessi” etc. Da queste premesse un po’ New Age si ottengono solo ulteriori ripiegamenti individualistici. L’autodisciplina, l’ascetismo, il rigore si praticano nel rapporto col mondo, nel concreto dei rapporti con gli altri, nel lavoro, nella vita quotidiana etc.
Per il resto, giustissima la tua integrazione sui godimenti.
[Voglio dire, per me è godimento distruttivo, senza se e senza ma, la pretesa di mangiare carne tutti i giorni. Questa pretesa sta deturpando il pianeta, sperperando risorse idriche e agronomiche, sottoponendo miliardi di esseri viventi e senzienti a un’esistenza di inimmaginabile tortura negli allevamenti intensivi… Non è necessario strafogarsi di carne per essere “smodati”. E’ sufficiente pensare che mangiarla spesso sia un diritto inalienabile.]
Sulla carne mi dichiaro colpevole.
Ma è godimento distruttivo anche comprare una gran quantità di libri e fumetti cartacei senza fare attenzione se sono stampati o no su carta riciclata? (come mi pare sia il caso dei libri dei Wu Ming), perchè allora sono colpevole pure su quello e lì moderarmi sarà più difficile, temo.
Sì, i nostri libri sono tutti stampati su carta riciclata. E questa scelta si sta estendendo, anche se troppo lentamente.
Diciamo che uno al posto di una bistecca può mangiare altro senza problemi, è una scelta che può fare, mentre se vuole comprare un libro (un libro in particolare) non può decidere su quale carta comprarlo, perché quella è una scelta fatta a monte dall’editore. La pressione va fatta su quest’ultimo, perché adotti una carta a minore impatto ambientale.
Un mio contributo, forse inutile, sul discorso dell’autodisciplina:
C’è una frase nell’ultimo romanzo di Pahlaniuk, “Senza veli” che mi ha colpito parecchio:
“tutte le persone non fanno che cercare ragioni per comportarsi bene o scuse per comportarsi male”
Non so,queste parole si sono legate immediatamente alla profonda sensazione di sfiducia , sempre crescente, che accompagna ogni mio gesto di autodisciplina e autodeterminazione. Per non parlare delle vie infinite dell’autogiustificazione. Mi sono chiesto spesso come poter rompere questi giochetti subito dopo aver smesso momentaneamente di sentirmi patetico. Alla fine mi dico sempre che l’unico modo di uscire da questo tipo di trappole è affinare la capacità di sentire le emozioni, le sensazioni , gli istinti, i moti dell’anima . Questa è l’unica forma di autodisciplina che riesco ancora ad attuare , perchè in sostanza è l’unica in cui continuo a credere.
A proposito di tutti i discorsi fatti sin qui:
stasera il collettivo (eccezionalmente a ranghi completi) va a fare un po’ di “messa in pratica”. Alle 18, alla biblioteca del centro di documentazione “Il Cassero”, via Don Minzoni 18, Bologna, facciamo un reading in solidarietà ai lavoratori precari delle biblioteche di Bologna (e in generale delle istituzioni culturali sul territorio), che chiedono investimenti per valorizzare quelle strutture e per regolarizzare il loro impiego. Leggeremo brani da Q, 54 e Altai. Presentando il reading, diremo due o tre cosette sulle lotte in corso e per il superamento della visione “a mosaico”. Io leggerò un brevissimo brano di Foucault del 1966, sull’importanza della biblioteca come luogo in cui far correre la fantasia ed evocare “i poteri dell’impossibile”.
Per cortesia, registrare l’incontro di stasera e mettetelo online! :-)
Abbiamo registrato, ma ho appena ascoltato l’mp3: è venuto una merda, un rimbombo insopportabile. Amen :-)
A quanto pare, linkando l’intervento di Tronti sulla spiritualità ho fatto un favore a diverse persone :-)
http://librodiurizen.blogspot.com/2010/11/spettri.html
Aggiungo che su un nuovo rapporto tra spiritualità e politica si interrogò anche Foucault nei suoi controversi reportages dall’Iran del 1978 (di cui mi sono occupato su “Nuova Rivista Letteraria”, nel numero che sta per uscire). Riporto qui lo stralcio di un suo articolo:
«Ma, a proposito di questa volontà politica [la volontà unanime del popolo iraniano che gridava “Abbasso lo Scià”, N.d.R.], vi è anche un’altra domanda che mi preoccupa. Essa riguarda questo piccolo angolo di terra, il cui suolo e il cui sottosuolo sono la posta in gioco di strategie mondiali. Quale senso ha, per gli uomini che l’abitano, cercare, a prezzo della loro stessa vita, quella cosa che noialtri abbiamo dimenticato nel modo più assoluto, dopo il Rinascimento e le grandi crisi del cristianesimo: una spiritualità politica? Sento già degli europei ridere; ma io, che so ben poco dell’Iran, so che hanno torto.»
Chiedo scusa in anticipo se non riesco a esporre un pensiero organico, ma sono questioni sulle quali faccio fatica ad avere le idee chiare.
Per quanto riguarda la spiritualità e il lavoro da fare su se stessi avrei voluto citare qualcosa dal discorso al Kenyon College di Wallace (qui la versione integrale e qualche decina di commenti), ma credo, per chi non lo conosca, valga la pena di leggerlo tutto.
Più direttamente legata invece alla dimensione sociale e politica della questione è invece la citazione seguente, tratta dalle ultime pagine del saggio sul New Italian Epic di Wu Ming:
E’ chiaro, noi siamo umani, le nostre percezioni sono umane, il nostro sguardo è umano, il nostro linguaggio è umano. Siamo anthropoi, non possiamo adottare davvero un punto di vista non-antropocentrico. Ma possiamo usare il linguaggio per simularlo. Possiamo lavorare per ottenere un effetto. Quell’effetto non è semplice “straniamento”: è lo sforzo supremo di produrre un pensiero ecocentrico. E’ simultaneamente un vedere il mondo da fuori e un vedersi da fuori come parte del mondo e del continuum.
Il vedere il mondo e l’umanità (e quindi se stessi) “da fuori” mi porta immediatamente in una dimensione spirituale. Credo che anche il più ateo dei materialisti non possa evitare di farsi qualche domanda sul trascendente, e dato che stiamo cercando un modo di costruire un legame abbastanza forte da tenere insieme persone diverse per cultura, interessi e classe sociale (o quel che ne rimane), penso che questa strada (laica, eh? Per carità, non fraintendetemi) vada senz’altro considerata.
Confusamente, provo ad esporre qualcosa anch’io.
Il vedere il mondo e l’umanità da fuori, tentarlo di fare con occhi non opacizzati all’eccesso dal sintomo (per provare a dirla come bardok su un altro post), da uno sguardo ostinatamente introiettivo, è il cercare empatico di calarsi nell’altro, riuscire a mentalizzare. Ci sono domande e modi di porsi che trascendono la razionalità pura, ma non per questo sono meno importanti per l’individuo/collettivo.
Credo che il termine spiritualità a volte spaventi, come se implicasse la credenza in uno spirito in un Dio, un Padre che legifera chiudendo ogni discorso. Chiamiamola religiosità, ethos, individuazione, sinceramente m’interessa fino a un certo punto l’etichetta, visto che il contenuto è il medesimo.
Cercare un genitore con la giusta dose di Severità e Premura, crearlo/trovarlo dentro di sè, significa poter fare i conti con le nostre leggi, i nostri appigli interiori, con la capacità di criticarle di continuo.
Essere verticali ed orizzontali allo stesso tempo.
E riuscire a distinguere la differenza tra il voler godere in maniera totale, psicotica, in/di quel che si fa e, come detto sopra da Wm2 (almeno credo), trovare il modo di amare ciò che si fa.
E’ un discorso complesso, da km di parole, con cui mi sto scornando da tempo. Spero di non averlo appiattito troppo ma, per dirla come alexpardi “per tenere insieme persone diverse (così come i “pezzi di sè”) va senz’altro considerata
Ho appena finito un libriccino che fa al caso di questa discussione. Si tratta di “Dialogo immaginario con Jacques Lacan”, della psicanalista Gabriella Ripa di Meana (parente? la sorella secchiona?), appena edito nella collana “i Gransassi” di Nottetempo. Non è un vero e proprio saggio, ma come dice il titolo un dialogo, per nulla appiattito, tra l’autrice e il maître. Molti passi assai densi, che danno per scontate parecchie nozioni non così ovvie, ed alcuni invece molti stimolanti. Ne riporto uno in particolare (p. 47):
Perchè il soggetto rifiuta di farsi carico del disagio della civiltà? Perchè preferisce sentirsi vittima, piuttosto che autore del proprio tempo? Constato che l’individuo è fondamentalmente terrorizzato di sentirsi in colpa. Quindi tende a scaricare ogni imputazione possibile sul mondo circostante e gli altri. Noto insomma che la colpa è uno spettro che invade ogni dimensione di responsabilità. Trionfa così un’ignoranza morbosa (direi perversa) riguardo al proprio posto nel mondo e alla peculiarità del contributo inconscio che ogni singolo dà al tempo che vive.
Mi sembra che in negativo l’autrice dica esattamente quello che emerso qui: la delega del proprio godimento, la chiavata per interposta persona. E alla radice di ciò piazza la paura della colpa. E mi pare che questa nozione qui non fosse ancora emersa, o per lo meno non in maniera così chiara. Detto altrimenti, un po’ rozzamente, Berlusconi vince perchè elimina la colpa. Questo sarebbe un tema interessante da sviluppare.
Infatti, nel bene (?) e nel male Berlusconi oscilla tra essere l’eroe a cui delegare o l’antagonista assoluto da abbattere. E’un padre sborone e godereccio che non guarda chi gli sta attorno se non per trarne piacere o riflessi della propria (presunta) magnificenza. La classica figura di padre moderno che crea o figli seguaci o figli rancorosi ma non crea persone e pensiero. Li catalizza. E li annulla.
Molto interessante il passaggio del libro citato, in poche righe si celano una molteplicità di contnuti. Grazie eFFe ;-)
Piccola postilla alla figura del padre scritta prima.
Una figura così, come scritto nel titolo, non è il Padre ma un suo simulacro, un’ombra vuota, priva degli aspetti nutritivi che ogni figura genitoriale porta in sè
una ventina di commenti fa avevo parlato di moni ovadia. ho pescato su youtube questo filmato, girato in strada dopo uno spettacolo a lucca.
http://www.youtube.com/watch?v=48eJEdSafWI
@tuco
Bellissimo, grazie.
NEWSWEEK:
Bunga Bunga Nation: Italy’s Woman Problem
http://www.newsweek.com/2010/11/15/bunga-bunga-nation-berlusconi-s-italy-hurts-women.html#
L’anno scorso i Manowar hanno registrato una canzone in 16 lingue diverse.
Si chiama “Father” :D
http://www.youtube.com/watch?v=F-FpS2ZMraQ
La versione in turco vince.
L’articolo di Newsweek è ambiguo: lascia intendere che l’evidente prassi discriminatoria nei confronti delle donne italiane sia da attribuire a Berlusconi. Che cosa è venuto prima? Il sessismo o Berlusconi? La risposta viene da sé.
Berlusconi è stato eletto anche per questo: lui è rassicurante, è una barriera contro l’avanzamento lavorativo, sociale, culturale delle donne, è una polizza che garantisce che nulla, in quell’ambito, cambierà. E non sono solo gli uomini a volerlo. Quante donne, costrette a sgobbare in casa o in ambienti di lavoro palesemente sessisti, sentono il bisogno di veder confermato questo paradigma, di dimostrargli la loro adesione così da non far traballare il loro mondo? Quante di loro relegherebbero volentieri sotto una scrivania, con la faccia tra le gambe di qualche uomo, quelle ragazzette che, con l’aria delle dottorine, osano studiare e, magari, anche essere arroganti, alzare la voce e affrontare apertamente loro e il loro mondo? Ne conosco tantissime. Ma il problema non sono loro: quando vieni cresciuta come una persona piccola rimani piccola per tutta la vita. Il problema, ovviamente, sono gli uomini. Quelli che, quando affronto certi discorsi, mi guardano con un misto di attrazione sessuale, disprezzo ed autentica paura, non essendo capaci, davanti a una donna, di provare altro. Non essendo capaci di riconoscere in me un essere che è frutto della propria storia, ma solo una creatura a cui concedere o negare il proprio assenso. La tv berlusconiana ha solo reso esplicito tutto questo, ha fatto sì che lo si potesse gridare ai quattro venti e, come giustamente dice Loredana Lipperini, ha contribuito ha fornire alle ragazze un modello di apparente emancipazione, quello della femmina ipersessuata che, in apparenza appunto, gioca con il proprio erotismo per ricavarne soldi e potere. E’ un modello che annebbia completamente le menti della maggioranza delle ragazzine fin verso i 20 anni – poi, forse, qualcuna si sveglia. Ma potrei sbagliarmi – e che fa sì che percepiscano se stesse in funzione dei messaggi sessuali che sono in grado di inviare e di far percepire all’altro sesso.
E’ tutt’altro che una questione tutta italiana. Da noi, semplicemente, è tutto un pò più esplicito e violento. Altrove si sono presi dei provvedimenti normativi che hanno aggiustato non poco i rapporti di potere, ma per i risultati in campo psicologico e culturale (che era il campo su cui verteva questo post, mi pare) bisognerà attendere la prossima generazione e non è detto che tutto vada come sperano i fan della Scandinavia.
@ Adrianaaaaa
Sono d’accordo con te. Ci vorrà parecchio tempo, forse anche più di una generazione… La tua riflessione mi ha fatto venire in mente che il motivo per cui una figura come Rosy Bindi manda giù di testa Berlusconi è proprio che lei rappresenta nella sua testa l’anti-femminile. Non è appariscente, non sta zitta, non sorride a comando, pretende di dire la sua, è nubile e single (addirittura vergine). Rappresenta tutto ciò che lui non associa né vorrebbe vedere associato al femminile. E infatti pretende di offenderla dicendo che è più bella che intelligente. Come dire: “Sei brutta, indisponibile (ergo inutile) e invece di crucciarti per questo punti il dito contro di me, glorioso t(r)ombeur de femmes. Come ti permetti, racchia, di agitare la tua intelligenza contro di me?”.
@Wu Ming 4: una gran parte degli uomini (se non la maggioranza) si comporta in quel modo nei confronti delle donne, tutti i giorni. Berlusconi è solo quello che le spara a volume più alto. Dobbiamo renderci conto che è anche per questo che lui è lì, perchè garantisce il diritto di prevaricazione degli uomini nei confronti delle donne, proteggendolo da qualunque istanza in senso opposto. Viviamo con la continua percezione di essere in guerra, italiani contro immigrati, cittadini contro politici, uomini contro donne, ma si tratta di guerre immaginarie, create ad hoc per mantenere lo status quo o, al massimo, per dargli qualche aggiustatina. Questo articolo, che sicuramente avrete letto a suo tempo, è illuminante a proposito http://www.carmillaonline.com/archives/2009/02/002928.html#002928
Berlusconi prende i voti da chi percepisce se stesso in guerra contro quella parte di popolazione che vede un problema negli attuali rapporti di genere. E’ la base del conservatorismo. Quando su Lipperatura si parlava di Io Spio e della copertina con Ruby in pose pornografiche, ho detto che una disumanizzazione così violenta era tipica della propaganda di guerra. Siamo talmente immersi in questo tipo di linguaggio che non sappiamo uscirne, neanche a sinistra (laddove per sinistra non intendo Bersani&company ovviamente). Per questo penso che sia così importante quello che fate, perché presuppone un discorso che non ha bisogno di questo tipo di retorica, che parte dalla domanda “Cos’è che vogliamo?”, senza agitare la minaccia di qualcosa che ci fa paura.
Un altro articolo in inglese, sempre in tema:
Combating Berlusconi’s Vision of Women: Italian Feminism 2.0
http://thewip.net/contributors/2010/11/combating_berlusconis_vision_o.html
Ho letto anche questo articolo, e mi sembra peggio del primo. Dice esplicitamente che il modo in cui sono rappresentate le donne nella tv italiana è il modo in cui le vede Berlusconi. Come se lui facesse materialmente i programmi in tv e non ci fosse invece tutta una mastodontica industria che li produce. Un’industria fatta di uomini e donne (ma soprattutto uomini) nati ben prima di Canale 5 e che di sicuro non hanno subito uno per uno il lavaggio del cervello ad opera del Cavaliere cattivo.
La trovo una visione consolatoria, semplicistica e anche – ma sarò io che sono fissata – un pò razzista: pecore che vanno dietro al Sultano di turno, è così che quest’articolo ci rappresenta. Noi invece il Sultano ce lo siamo creato, modellato come più ci piace e l’abbiamo acclamato per vent’anni.
Il problema è che un sacco di gente in Italia si beve questi articoli come se fossero l’unica acqua potabile in circolazione. In questo modo si alimenta l’idea che il problema sia Berlusconi e non, invece, il paese che l’ha generato e ipernutrito fino a farlo diventare il mostro che è ora.
Sì Adrianaaaa, ma io ho 26 anni e le coetanee che conosco non sono ipersessuate aspiranti veline, certamente non sono neanche delle suore laiche.
Non facciamo l’errore di pensare che quella dei media sia l’unica realtà.
Ed è vero che ci sono uomini che se potessero vorrebbero tenere in due soli luoghi le donne: o dentro casa o al bordello, ma non generalizziamo.
Trovo che Berlusconi sia offensivo tanto per gli uomini che per le donne eppure ci sono uomini e donne che lo votano (non sono mai diventati maggioranza assoluta, per fortuna, ma ci sono)
io ho 40 anni. per quel che puo’ valere il ricordo di me ragazzino, nella mia memoria l’ avvento delle tv berlusconiane rappresenta una vera e propria cesura. il maschilismo dei film con lino banfi o lando buzzanca esisteva anche prima, ma era stigmatizzato nel sentire comune di una larga parte del paese. e comunque non era “roba da bambini”. con l’ arrivo di canale 5 e’ accaduto qualcosa di profondo. (poi e’ ovvio che il materiale umano predisposto a recepire quel tipo di messaggio esisteva gia’.)
@ tuco
capisco cosa intendi. Ho 38 anni e ricordo che anche per me l’inizio delle trasmissioni di Canale 5 fu un evento. Ma ricordo anche di aver detestato fin da bambino quel programma che s’intitolava “Storia di un italiano”, andava in onda credo sulla seconda rete RAI (fu replicato un infinità di volte) e consisteva in un centone di sequenze tratte dai film di Alberto Sordi. Come dice il titolo della trasmissione, il personaggio di Sordi veniva proposto a rappresentare il “carattere nazionale” italiano, e penso che da parte di molti spettatori sia stato preso un po’ come modello di comportamento.
Forse è una riflessione off topic, ma mi colpisce molto una differenza di fondo tra il cinema americano e quello italiano. Il primo, anche nella sua produzione “di serie B” e anzi soprattutto in quella, si sforza sempre di offrire dei modelli di comportamento positivi (anche a costo di un certo manicheismo, per cui il Bene e il Male sono nettamente separati in modo spesso didascalico ecc.). Viceversa, la commedia all’italiana mi sembra aver sempre mostrato un forte compiacimento nel proporre a norma ed emblema la massima degradazione e volgarità dei personaggi maschili.
Quanto ha inciso nel modo di pensare degli italiani questo tipo di dis-educazione estetica e morale?
C’è un fondo ‘nero e mortuario’ in molta parte, non tutta, della commedia all’italiana, che a mio avviso è quasi innegabile. Se uno riguarda oggi certi film ‘topici’ di quell’immenso filone, si rende conto che lo sguardo compiaciuto e assolutorio sta molto più negli occhi dei critici e degli spettatori che nei protagonisti e negli autori di quelle pellicole. Da “Il Sorpasso” a quasi tutto Monicelli, solo per fare dei nomi, la dimensione macabra a me sembra aleggiare pressocchè di continuo. Che poi un certo tipo di ‘esorcismo pilotato di massa’ ne abbia tradotto, alterato, deviato, la percezione collettiva in quel “siamo così, simpatiche canaglie”, in buona parte concordo.
L.
@luca
e’ strano, “nero” e “mortuario” sono aggettivi che io, dentro di me, in qualche posto localizzato nel basso ventre, ho sempre associato a berlusconi.
Paolo, anch’io ho 26 anni e nelle ragazze che conosco, nonché in me stessa, il “velinismo”, che poi non è altro che il vecchio comandamento di essere belle asservito a un nuovo scopo, lo vedo eccome. Così come vedo le resistenze che genera e gli sforzi per liberarsene. E’ l’idea che più maschi si è in grado di attrarre e di “maneggiare” (non mi viene una parola che non sia volgare) più si è potenti.
Ripeto, questa è un’idea che ha più che altro presa sulle ragazzine (me le ricordo bene queste dinamiche nel mio liceo e il martellamento mediatico era meno forte di ora), nelle ragazze più grandi tende a diradarsi, anche se basta fare un giro davanti ai locali modaioli il venerdì sera per rendersi conto di quante la pensano così.
Ripeto, non dobbiamo fare l’errore di credere che sia stato lui a inventare tutto questo. La tv commerciale l’ha solo reso un falso strumento di emancipazione, collegando l’uso del proprio corpo ai soldi e al potere in un modo che viene socialmente approvato.
L’imperativo all’essere belle, piacevoli allo sguardo, di compagnia gradevole ecc ecc…lo sentiamo tutte. Comprese, con ogni probabilità, le tue amiche che guarda caso difficilmente usciranno di casa senza essersi pettinate, o con un abbigliamento trasandato, che difficilmente introdurranno argomenti spigolosi in una conversazione a tavola, che avranno un linguaggio più moderato di quello dei maschi e, generalmente, idee più convenzionali. Ci sono molte donne che non ricalcano questo modello, per fortuna, ma sono una minoranza. La maggior parte delle ragazze, se abita in condivisione come me, appena sveglia si precipiterà in bagno a sciacquarsi la faccia, a lavarsi i denti e a sistemarsi un po’ i capelli, prima di correre il rischio di incontrare qualche coinquilino. Cosa che i maschi non fanno mai.
L’essere donna, con tutte le regole, le raccomandazioni e le proibizioni che comporta, viene prima di tutto nei loro pensieri, che lo riconoscano o no. Se non è così, è perché possiedono una naturale dote di resistenza o perché l’hanno sviluppata nel corso degli anni. Questo perché il riflesso che gli altri restituiscono di loro va sempre in quella direzione. Da un paio d’anni partecipo a delle assemblee pubbliche (dove le donne che parlano sono un’esigua minoranza) e l’ultima volta, alla fine di un mio intervento, un uomo (giovane e di sinistra) mi ha avvicinato per dirmi “L’ho sempre detto io che l’intelligenza è donna”. E’ questa la normalità, quando ti relazioni con gli altri il fatto che sei donna viene prima di tutto. Lo diceva Simone De Beauvoir e da allora non è cambiato praticamente nulla.
Per uscire dalle sabbie mobili in cui ci troviamo dobbiamo prima di tutto fare autocritica, vedere ciò che è difficile da percepire perché sottinteso. Scusate se sto facendo questo pippone OT (anche se non tanto): è un argomento che mi sta molto a cuore e contro cui mi trovo a sbattere ogni giorno.
adriana, la faccia appena sveglio me la lavo anch’io e non sono ossessionato dal mio aspetto, e neanche le mie amiche certo ci tengono ad essere curate (anche per piacere a se stesse) ma non vi è nulla di male se non diventa un’ossessione.
Non hanno idee più convenzionali e non usano un linguaggio più moderato dei maschi, almeno non mi pare.
Non so come sia per le quindicenni, e certo le mie esperienze soggettive come quelle di chiunque altro non hanno valenza universale ma semplicemente mi hanno stufato i discorsi negativi che sento sui miei coetanei anche quando provengono dai miei coetanei stessi, come se le ragazze fossero tutte veline sceme che pensano solo al vestitino ultima moda, e a rifarsi il trucco, e i agazzi degli idioti perennemente allupati.
E quel giovane di sinistra che t’ha detto l’intelligenza è donna, ha detto un’ idiozia pechè l’intelligenza non ha sesso.
E poi dove sono queste ragazze che vogliono maneggiare quanti più uomini possibile? Io mi farei pure maneggiare….vabbè scherzi a parte , molte ragazze che conosco sono fidanzate con un uomo solo e s’accontentano di maneggiare lui per quanto ne so.
E poi io sono dell’idea che ci si maneggi, ci si scelga (per una storia di sesso o d’amore, o anche amicizia, siamo sicuri che anche là non ci sia seduzione?) e ci si seduca a vicenda, tra coetanei, almeno.
Insomma alla fine il gioco della seduzione si gioca in due e se io non voglio essere sedotto nisba.
Guarda che i miei discorsi negativi non riguardano assolutamente solo le nostre coetanee e i nostri coetanei. Ho detto e ripetuto che il sessismo non è certo nato negli anni ’80 con Canale 5. Tuttavia, siccome l’argomento tira principalmente in ballo Mediaset, per forza bisogna parlare più che altro della nostra generazione. E siccome gioco forza saremo noi a tirare la carretta tra un po’ e toccherà a noi tentare di porre rimedio al disastro in cui viviamo e in cui vivremo molto più a lungo di quelli che questo disastro l’hanno prodotto, bisogna per forza parlare di noi.
Vorrei che da noi si cominciasse a fare autocritica, perché siamo quelli, con ogni probabilità, che la pagheranno più di tutti e se dobbiamo reagire e inventarci qualcosa per uscirne (altrimenti spariamoci un colpo e basta) dobbiamo imparare a guardare quello che siamo e a vedere anche e soprattutto i sottintesi. Sono stanca di sentirmi dire che è normale che le donne curino il loro aspetto, che lo fanno per piacere di più a se stesse. Sono cazzate.
Inseguire lo sguardo e l’approvazione degli altri (che è precisamente lo scopo di farsi belle – cioè tentare più possibile di adeguarsi a modelli estetici predefiniti) è un peso, una catena a cui ti legano da quando sei bambina e che ti condanna a investire una quantità spaventosa di energie in pensieri e azioni che voi maschi considerate stupidi, masochistici e spiacevoli (hai presente una ceretta? hai presente passare due ore dal parrucchiere?), ma che nonostante questo non smettete mai di raccomandarci.
Se è così spiacevole, perché lo fanno? direte voi. Perché lo sguardo degli altri è ciò che dice alle donne cosa sono. La tua forza, la tua intelligenza e il tuo talento non contano più di tanto, cercherai sempre gli altri per sapere chi sei. E non è che le conseguenze di questo fatto siano proprio bruscolini.
Avevo una coinquilina estremamente intelligente, brillante, capace, la quale odiava il suo aspetto fisico. Era bassa, tarchiatella e aveva una grossa cicatrice sulla pancia. Buttava via una quantità incredibile di tempo ed energie dietro a un tizio che la utilizzava come una domestica, concedendole in cambio qualche bacetto sulla guancia e, raramente, un fuggevole sguardo di approvazione. Ci passa il 99% delle ragazze prima o poi nella vita e casi del genere sono solo i più estremi. Si tratta di dinamiche che di solito agiscono più sottilmente, ma non per questo in modo meno potente e che ci sono quasi sempre.
Se non cominciamo a capire che tutto questo è un FATTO, che esiste, ha una sua forza, una sua dinamica, un inizio e una fine (che dipende da noi), e non una fantasia bizzarra letta da qualche parte o una legge di natura che esiste dall’alba dei tempi…boh, non so proprio dove vogliamo andare.
allora IO non raccomando proprio nulla alle donne, certo ho dei gusti estetici (me ne devo vergognare?) così come anche le donne li hanno. Ma non ho mai umiliato o disprezzato, che io ricordi, una ragazza perchè non gradivo il suo aspetto fisico
Insisto che a curare il proprio aspetto e il proprio modo di vestire (e parlo di entrambi i sessi ) non vi è nulla di male se non si eccede. Modelli estetici ci sono sempre stati, è un fatto culturale (non c’entra la natura, siamo animali culturali) l’importante è saperlo e non farsene ossessionare, e anche lo sguardo degli altri, l’approvazione altrui è importante per ogni essere umano, è anche grazie al rapporto, l’incontro e lo scontro con i nostri simili che capiamo chi siamo, siamo animali culturali e anche sociali.
La tua amica che faceva la serva per due bacetti era dominata dal bisogno di avere l’approvazione di questo tizio, e questo è sbagliato, non bisogna farsi ossessionare, dominare dall’approvazione altrui. Spero che l’abbia mandato a fanculo.
Però ho idea che certe dinamiche nei rapporti di coppia ci saranno sempre: è normale voler piacere alla persona che si ama, l’importante, torno a dire, è che non diventi un’ossessione, e può capitare anche se non sei tarchiatella, e che non lo diventi dipende anche dalla sensibilità della persona con cui stiamo.
Un’altra cosa. detesto i discorsi che iniziano con “voi maschi…” e “voi femmine….” . Ti ricordo che non siamo in un film di Fausto Brizzi.
Scusate e scusa tu, Adriana, se ho reagito con stizza è che non sopporto la logica del maschi contro femmine che mi è sembrato di rilevare in quel “Voi non smettete mai di raccomandarci”
“Inseguire lo sguardo e l’approvazione degli altri (che è precisamente lo scopo di farsi belle – cioè tentare più possibile di adeguarsi a modelli estetici predefiniti) è un peso, una catena a cui ti legano da quando sei bambina e che ti condanna a investire una quantità spaventosa di energie in pensieri e azioni che voi maschi considerate stupidi, masochistici e spiacevoli (hai presente una ceretta? hai presente passare due ore dal parrucchiere?), ma che nonostante questo non smettete mai di raccomandarci.”
Specifico questa frase che ho scritto di getto. Al posto di “voi maschi” metti “una società plasmata al 90% sul punto di vista maschile” e declina i verbi alla 3a persona singolare (per correttezza grammaticale, va).
Tu parli come se il peso dei modelli estetici fosse distribuito in modo equo tra uomini e donne. Ma non è così…cioè, lo vediamo, no?
Gianini Belotti diceva che tutti cresciamo immersi nelle prescrizioni della società in cui viviamo, maschi e femmine, ma per quanto riguarda le femmine queste prescrizioni sono più repressive, pressanti e influenti. Generano individui meno indipendenti, più frustrati e insicuri. Era così nel ’77 ed è così anche ora.
Il fatto che le ragazze vadano a studiare all’estero, si laureino, possano abortire e divorziare ha portato dei cambiamenti, ma non le ha rese immuni dal bisogno di approvazione (che è moooolto più forte di quello avvertito, genericamente, dagli uomini), anche perché, credimi, moltissimi fattori ogni giorno spingono perché se ne stiano al loro posto. Potrei citartene una quantità: tipo quando vai all’ufficio di collocamento e gli unici lavori che ti indicano sono segretaria e maestra d’asilo; oppure quando una nota catena di abbigliamento intimo decide di regalarti un reggiseno al compimento del tuo 13 compleanno.
Tutto questo fa sì che alla domanda chi sono? tu sia sempre portata a rispondere, per prima cosa, una donna. Il tuo sesso scavalca ogni cosa. Non c’è nulla di simile per gli uomini.
Attendo con ansia il momento in cui i Wu Ming ci cacceranno invitandoci a proseguire la conversazione altrove.
” …le tue amiche che guarda caso difficilmente usciranno di casa senza essersi pettinate, o con un abbigliamento trasandato. […] La maggior parte delle ragazze, se abita in condivisione come me, appena sveglia si precipiterà in bagno a sciacquarsi la faccia, a lavarsi i denti e a sistemarsi un po’ i capelli, prima di correre il rischio di incontrare qualche coinquilino. Cosa che i maschi non fanno mai”. Lo so, estrapolo. Ma è sintomatico che all’interno di una argomentazione più articolata ci siano anche cose del genere. E’ lecito naturalmente avere “anche” questa visione della donna: c’è (c’è stato e in Italia sta ritornando come sintomo reattivo, per non dire reazionario, al godimento del potere) un femminismo che ha pensato che la rimozione della corporeità fosse la via maestra all’emancipazione. Bene. Ma fare passare questa idea di donna come l’unica e autentica visione emancipatoria è una caricatura. C’è anche un femminismo che ha rivalutato e la corporeità, e la bellezza, e la seduzione, e l’essere sexy. Ciò non esclude che si possa apprezzare come donna Rosy Bindi: esclude solo che essa debba rappresentare l’archetipo della donna di sinistra. Io credo che proprio a fronte di ciò che accade occorra tenere conto di quest’altro femminismo, e non screditarlo come se fosse semplicemente asservito all’ordine simbolico patriarcale. Una amica e filosofa femminista, Avital Ronell, ricorda in un suo libro (American Philosophy) come certe femministe americane siano rimaste a bocca aperta dopo aver visto come si vestivano e si curavano certe femministe francesi (Cixous, Kristerva). Avital ha provocatoriamente (e direi è una provocazione liberatoria) analizzato quanto siano stati importanti il rossetto, e il profumo, e l’eye-liner della Cixous per rompere con un certo puritanesimo delle femministe americane. Scrive: “E’ in gioco la bellezza, il trucco, ci si presenta, c’è una Darstellung della persona, mentre prima dell’invasione dei francesi si pensava che il corpo e l’esserci del pensatore dovesse come minimo passare inosservato”. Non dico che questo sia il modo giusto di pensare la donna. Dico solo che è pericolosissimo nella situazione attuale far passare l’idea che solo la figura di una donna che cancella la corporeità e la dimensione sessuale ad essa associata sia un’idea emancipata. E visto che non mi sottraggo alle prese di posizione io dico questa idea è puramente regressiva, oltre che politicamente perdente.
sottoscrivo simone regazzoni parola per parola, e mi permetto di linkare queste fotografie di tina modotti (ci sono anche i famosi nudi)
http://www.google.it/images?client=firefox-a&rls=org.mozilla%3Ait%3Aofficial&hl=it&source=imghp&biw=1069&bih=642&q=tina+modotti&gbv=2&aq=f&aqi=g4&aql=&oq=&gs_rfai=
@Simone Regazzoni: appunto, estrapoli. E a partire da una frase deduci che io sia portatrice di un pensiero “reazionario” che vuole mettere a tacere la corporeità…Boh, voli della fantasia, sinceramente.
Quello che ho cercato di mettere in evidenza è un sistema di leve identitarie in cui non ci sono alternative. Bisogna essere carine e attraenti, così si è femmine. E’ l’unica via. Il fatto che le femministe francesi rivalutassero il rossetto non significa che fossero nello stesso “stato psicologico” (non mi viene un’altra parola)di tutte le donne che ne fanno uso. Mi sembra di dire delle banalità.
Ma le donne possono fare quello che gli pare del loro corpo, o se decidono di trascurarlo sono per forza delle reazionarie politicamente perdenti?? Possibile che tutto sia ridotto al punto di vista di chi le guarda?
Ragazzi, se oltre ad Adriana non intervengono altre donne, io vi consiglierei di fermarvi prima che la “discussione nella discussione” prenda una brutta china. L’effetto da fuori è sgradevole: una donna che parla della sua esperienza da guardata… accerchiata da maschi che ragionano da “guardanti”.
[…] commenti più recentiWu Ming 1 on Note sul “Potere Pappone” in Italia, 1a parte: Berlusconi non è il padreAdrianaaaa on Note sul “Potere Pappone” in Italia, 1a parte: Berlusconi non è il […]
Francamente non so se ho ragionato da “guardante” e credo nemmeno Regazzoni. Comunque non era mia intenzione “accerchiare” nessuno.
E’ inevitabile che un maschio parli dell’aspetto di una donna da guardante e non da guardato. Non è di per sé un problema, dato che è, per così dire, nella natura delle cose. Ma se in una discussione sul corpo femminile (e sull’esperienza di essere guardate / scrutinate / giudicate / orientate verso un modello) c’è una sola che parla di sé da dentro e tre-quattro che parlano di lei da fuori, il rischio di un “accerchiamento” è nei fatti, anche se non nelle intenzioni. Su questo punto vorrei sentire altre donne, altrimenti è un… punto morto. Diverse donne sono intervenute in questa discussione e molte di più la stanno seguendo. Se hanno voglia di commentare quest’ultima “torsione”, sono le benvenute.
Va detto che si può anche lasciar andare questo specifico thread e discutere in quelli successivi.
Beh, certo, la percezione è completamente diversa tra uomini e donne perché il punto di vista è opposto. Da donna posso dire che mi capita di sentirmi osservata, per un motivo o per un altro, e mi sento a disagio. Di mio non ho mai fatto grande sfoggio della mia femminilità perché mi sembra terribilmente strumentale. So che se mi vesto in un certo modo attiro certi sguardi, e la cosa mi disturba. Poi mi può capitare di volermi vestire “in un certo modo” perché mi va e mi fa stare bene, ma nella mia esperienza personale, posso dire che capita di rado. Nella società in cui viviamo, peraltro, l’avverto come imposizione, e mi da parecchio fastidio. Ci sono parecchie donne, mie coetanee, più grandi anche, ma spesso più piccole, che se non sono *perfette* non si muovono e non si fanno vedere da nessuno. E mi piace ancor meno, se possibile, quando vedo le ragazzine, quelle che stanno entrando adesso nelle prime fasi adolescenziali, che si atteggiano a donne, si curano come mai ho fatto io in vita mia, anche per andare a scuola. Lo vedevo in parte quando ci andavo io a scuola (son quasi 10 anni ormai!) ma ora mi sembra più accentuato, ma forse è solo il mio occhio ormai “esterno”. In conclusione, rileggendomi ho notato una raffica di espressioni negative, quindi deduco che c’ho qualche problema! Scherzi a parte, “disagio”, “disturbo”, “fastidio”.. per la donna in questa società la situazione non sembra affatto facile.
ok, e’ vero, rileggendo questo spezzone di dibattito la sensazione e’ sgradevole. mi scuso per la mia parte di sgradevolezza, ma vorrei provare a “raddrizzare” il discorso (non so se ci riusciro’) dicendo che io penso che non ci sia niente di male nell’ essere fieri/e del proprio corpo, nell’ esprimere col corpo la propria sensualita’ o la propria ansia di ribellione. (penso alle lotte degli afroamericani durante gli anni ’60) . il problema per molte donne nasce quando, credendo di esprimere la propria sensualita’, in realta’ si adeguano alle fantasie masturbatorie dell’ immaginario maschile dominante. e si torna sempre al solito paradosso: come riuscire a liberare la propria sensualita’ quando e’ il potere ti impone di essere sensuale? sembra che qualunque cosa si faccia, si finisca per mortificare comunque se stessi/e e il proprio corpo.
@ Wu Ming 1: sì, una cosa evidente in questo dibattito è una disaprità di genere che può produrre anche effetti di potere non voluti ma comunque pericolosi. Per questo avevo incorporato una voce di donna nel mio discorso, quella di Avitall. A queste cose di solito sono attento, proprio perché non credo di poter far finta semplicemente di neutralizzare il mio sguardo maschile e i suoi fantasmi. Questo naturalmente non è garanzia di nulla, dunque accolgo l’invito di Wu Ming 1 e mi fermo. Credo però sarebbe importante affrontare la questione di genere visto che tocca il problema della soggettivazione/assoggettamento. Una sola precisazione sul rossetto: non credo si possa seriamente discutere sul fatto che le femministe che usano il rossetto siano in uno “stato psicologico” più avanzato rispetto a una presunta “donna comune” tale per cui accettiamo che la femminista possa usarlo mentre critichiamo come asservita al modello maschile la donna comune. Questo trovo sia pericolosamente paternalista. Comunque grazie ad Adrianaaaa per aver sollevato queste questioni cruciali.
faccio una breve incursione, non avevo seguito questa ultima parte della discussione e invece mi pare importantissima e anche rilevante rispetto al tema più generale, soprattutto quello che mi sta molto a cuore, della genitorialità. Sono di una generazione più “vecchia” di Adrianaaaa, sono stata adolescente alla fine dei settanta, giovane donna negli ottanta, ho un figlio di dodici anni e una figlia di dieci, lavoro in università e vedo sfilarmi sotto gli occhi giovani donne da più di dieci anni. Quello che dice Adrianaaa lo sottoscrivo punto per punto. Il problema è quanto le donne riconoscano se stesse solo attraverso lo sguardo degli altri (uomini, ma anche le altre donne che hanno questo rapporto ossessivo con l’apparire: belle truccate depilate agghindate). Mi capita, molto spesso, di interrogare durante gli appelli d’esame, decine e decine di giovani donne “messe su” come se dovessero andare al grande ballo. Il problema non è la giusta cura di se stessi, che dovrebbe essere patrimonio di maschi e femmine, sembra banale ma non lo è, entrate in uno spogliatoio maschile di qualunque palestra di scuola media, eh. E qui arriva la parte sull’essere genitori: io vedo questi meccanismo allucinanti agire già alle scuole elementari (ma su questo è imprescindibile Loredana Lipperini), allora devo intervenire come madre di maschio e di femmina, perchè ho molto chiaro che solo offrendo ai proprio figli una narrazione diversa, un modello diverso da quello che trovano imperante, avranno la forza -spero – e l’equilibrio di percepirsi come individui (certo sessuati, e anche a proprio agio con il proprio corpo) e anche di percepire gli altri come persone prima che come oggetti seduttivi. ma è dura, ragazzi, a volte sembra davvero una battaglia persa all’atto della nascita. E’ un racconto “alternativo” che devi fare ogni giorno, ogni santissimo giorno, smontando immagini, parole, film, pubblicità, con l’ironia, senza essere troppo pedante, con l’esempio – truccarsi, si, perchè no, ma non a dieci anni! reggiseno, si, certo, ma non in seconda elementare! – con i no, con l’essere una madre che si, cucina anche ma legge, discute scrive si incazza litiga di politica, oppure invertiamo l’ordine, perchè in questo caso il risultato cambia: essere una madre che legge scrive si incazza di politica e si, anche cucina!
capisco che possa avere un suono sgradevole il dire “voi maschi”; in genere cerco di evitarlo; ma capiamo tutti che, esempio, se mentre cammini trafelata in una via centrale della tua città, pensando ai cazzi tuoi, ti si affianca uno che si sente in diritto – solo perchè porti in giro tette e culo – ad apostrofarti dicendoti “bella figa” (sapendo peraltro benissimo di non essere una bella figa), ecco questa è una cosa che capita solo alle donne.
E ci vuole una scorza abbastanza spessa per superare rabbia umiliazione e – paradossale, eh? – senso di colpa.
Scusate l’OT, ma secondo me c’entra molto, invece.
Alcune riflessioni a partire dagli spunti di Paola Signorino. Preciso una cosa, visto che tirerò in ballo l’università e visto che credo conti anche la dimensione generazionale: ho 35 anni.
Lo sguardo dell’altro: non esiste dinamica di costituzione del soggetto che non passi per un riconoscimento di sé attraverso lo sguardo dell’altro. Siamo essenzialmente legati a questo, e ce ne preoccupiamo tutti. Fortunamtamente. Certo a partire da questa struttura si possono produrre effetti perversi che vanno anlizzati e criticati. Ma tenendo conto comunque che è essenziale al soggetto lo sguardo dell’altro. Da qui la centralità dell’apparire: l’apparenza conta, è parte costitutiva di ciò che siamo in quanto siamo corpo. Non è tutto, come si dice banalmente. Ma è tanto, ed è giusto prendersene cura. Ogni società codifica l’apparire dei corpi. E ogni soggetto si rapporta diversamente a questi codici. E il fatto che una donna sia truccata, depilata e agghindata come fatto in sé non significa nulla: in altri termini non significa che si sarebbe già sottomessa a uno sguardo maschile. Questa è una lettura semplicistica del rapporto tra soggetti e, se volete, dispositivi. Anche quando una donna ricercasse un certo sguardo machile sta giocando con delle dinamiche di interazione sociale. A priori questo non ci dice nulla sul soggetto in questione. Una donna deve essere libera di rivendicare il diritto di vestirsi come diavolo le pare. Possiamo analizzare il sistema delal moda, le dinamiche di rappresentazione dominante del corpo: necessario e giusto farlo. Ma se da qui poi critichiamo le scelte dei singoli, sbagliamo bersaglio e scadiamo nel moralismo inteso come imposizione di una certa idea normativa di donna a tutte le donne. In questo lavoro gli uomini politicamente corretti saranno sempre complici. E’ una prospettiva liberale? Semplicemente è il riconoscimento dello spazio della democrazia come molteplice delle differenze. E’ per una molteplicità di modelli che occorre combattere, per narrazioni molteplici da contrapporre a quella egemonica (non unica), credo io.
Insegno in università da alcuni anni. Precarissimo. Lo ho fatto in Francia e in Italia. In media ho più studentesse che studenti. E devo dire che ho visto molte giovani donne curate nell’aspetto. Alcune, per riprendere l’espressione di Paola, messe su, all’esame, come se dovessero andare al gran ballo. Ma in generale ho trovato giovani donne preparate, consapevoli di sé. Dico questo perché ad esempio io ho messo tra i testi a scelta del mio corso in Università il libro della Zanardo. Quindi di quelle cose si è discusso all’esame. E allora? E allora vuole dire che abbiamo nuove generazioni di donne che non sono la “catastrofe del femminismo”, semplicemente pensano e agiscono in modo diverso.
@Simone Regazzoni:
“Una sola precisazione sul rossetto: non credo si possa seriamente discutere sul fatto che le femministe che usano il rossetto siano in uno “stato psicologico” più avanzato rispetto a una presunta “donna comune” tale per cui accettiamo che la femminista possa usarlo mentre critichiamo come asservita al modello maschile la donna comune”.
Non ho detto più avanzato, ho detto diverso. Vari motivi per cui una può decidere di mettersi il rossetto: perché è divertente dipingersi la faccia con dei bei colori, perché ti viene richiesto sul lavoro, perché così magari acchiappi l’uomo della tua vita. E’ diverso, no? Gli ultimi due “stati” non sono meno avanzati, sono semplicemente risultato di altre motivazioni, che di sicuro non inducono la tizia in uno stato d’animo felice e appagato.
@Paola Signorino:
“E ci vuole una scorza abbastanza spessa per superare rabbia umiliazione e – paradossale, eh? – senso di colpa.”
Ecco, mi ci ritrovo perfettamente.
Per quanto riguarda il tuo discorso sull’essere genitori, racconto un episodio che mi ha lasciata a bocca aperta: alla fermata dell’autobus alcune mamme attendono l’arrivo dello scuola bus (solo mamme). Ne scendono alcuni bambini in età da scuola materna, avranno avuto 4-5 anni. La mamma uno ascolta il racconto di suo figlio maschio a proposito del pranzo alla mensa: la pasta con i piselli gli faceva schifo, così ha scartato tutti i piselli e ha mangiato solo la pasta. Nessuna sgridata, nessun discorso sull’importanza del cibo e del non fare capricci. A questo punto interviene la bambina della mamma due che dice “A me la pasta è piaciuta tanto, ne ho mangiati tre piatti”. Tipico atteggiamento da premiare, giusto? A quell’età i bambini fanno sempre storie per mangiare. Invece la mamma uno le dice, strofinandole la mano sulla pancia, “infatti si vede che sei ingrassata”. La mamma due, silenzio.
Mi verrete a dire che non tutte le bambine crescono in questo modo. Dico io non tutte, ma la maggioranza sì.
Forse ho un basso spirito di osservazione oppure un concetto diverso di “agghindamento”, ma riflettendoc e basandomi unicamente sulla mia esperienza di studente universitario non mi pare che le mie colleghe d’università si agghindino per gli esami come per un gran ballo.
Poi vabbè, magari ripeto, sarà io che di solito non bado troppo a come gli altri sono vestiti.
@ Adrianaaa: tolta l’imposizione del rossetto sul lavoro sanzionabile per legge, per il resto a patto che si possa distinguere (e le cose non saranno mai così semplici) non vedo davvero il problema di una donna che si mette il rossetto se pensa che ciò la renda più bella. O che si mette il rossetto perché pensa che potrà piacere di più o essere più sexy. Poi uno è libero di pesare e di agire in modo che il proprio rapporto con gli altri non contempli segnali di questo tipo. Produrrà altri segnali, non c’è dubbio. Ti pongo una domanda: pensi che una donna che si veste “bene”, diciamo “elegante”, per uan cena con un uomo che le piace sia un problema per il femminismo? E se sì di quale femminismo stiamo parlando?
“Vari motivi per cui una può decidere di mettersi il rossetto: perché è divertente dipingersi la faccia con dei bei colori, perché ti viene richiesto sul lavoro, perché così magari acchiappi l’uomo della tua vita. E’ diverso, no? Gli ultimi due “stati” non sono meno avanzati, sono semplicemente risultato di altre motivazioni, che di sicuro non inducono la tizia in uno stato d’animo felice e appagato.” adrianaaa
Non sono un esperto, ma ordinare di mettere il rossetto alle proprie dipendenti non mi sembra molto regolare.
La prima e la terza motivazione possono pure coesistere.
Io per esempio mi faccio la barba (sì, non è la stessa cosa ok) sia perchè mi piace farmela sia perchè credo di avere sbarbato, un aspetto più gradevole per gli altri e le altre. Anche se non mi faccio illusioni sul trovare la donna della mia vita.
sottoscrivo quanto detto finora dalle donne intervenute: penso, sento, osservo le medesime cose…
E’ difficile far comprendere cosa significhi vivere da “guardate” (e, come diceva prima Paola Signorino, guardate sia dagli uomini che dalle donne). Non si tratta di lamentarsi né, d’altro canto, di fare le strafottenti. Ma quella di “essere guardate” è una realtà quotidiana, per noi.
Comprendo Simone Regazzoni quando dice che lo sguardo dell’altro ci costruisce. Certo. Lo sguardo. Non il guardare. Piccola sfumatura di significato, ma in quella “s” iniziale io trovo il senso di un occhio attento, alla pari, che solo ti sfiora, che è curioso di sapere chi sei, cosa pensi. O, semplicemente, in una strada affollata, ti fa fiorire la giornata.
Guardare, usato qui, è più simile a “scrutare”. Precipita ben presto nel giudizio, nella valutazione (corrispondi o no ai miei canoni? le parole che stai dicendo sono tutta farina del tuo sacco? ma in realtà cosa mi vuoi dire?). E, semplicemente, in una strada affollata ti fa arrabbiare di brutto.
In questo senso, come donna, mi sento “guardata”.
Per aggiungere altro, aspetto di vedere il film di Guido Chiesa di cui si parla nell’altro post.
Scusate se faccio una piccola escursione “a monte”. Io credo che la liberazione della donna (al di là di singole e anche importantissime conquiste: la legge sull’aborto, ad esempio) non sia mai avvenuta fino in fondo. E finché la società rimarrà classista, ritengo che questo stato di subalternità sia, alla radice, insuperabile.
Spiego.
L’oppressione femminile nella società capitalistica si presenta come retaggio del lungo, lunghissimo, millenario dominio patriarcale ereditato dalle diverse società precapitalistiche, le quali, dalle fasi recenti della preistoria fino all’imporsi dell’industrializzazione su scala planetaria, avevano come presupposto economico e sociale la disuguaglianza di genere.
Questo conferma l’assunto dialettico (marxiano) secondo cui la sovrastruttura ideologica è molto più conservativa rispetto ai mutamenti, anche repentini, a cui va incontro la struttura economica, e ribadisce quindi che, pur essendo il fattore economico in ultima istanza determinante, il rapporto struttura-sovrastruttura non è mai meccanico e unilaterale.
La società borghese, fondata sul dominio dell’uomo sull’uomo tanto quanto le società che ha rimpiazzato, tende a sussumere, cioè a conservare e ad alimentare quei rapporti sociali oppressivi e quelle disuguaglianze che, ereditate dai precedenti modi di produzione, non contraddicono i rapporti capitalistici e anzi bene si inseriscono nel sistema classista e fortemente gerarchizzato entro cui il capitale stesso si sviluppa. Giuridicamente, quindi, le singole nazioni borghesi potranno anche essere più o meno contro le discriminazioni razziali, sessuali o quant’altro, me nei fatti il loro impianto sociale darà spazio a qualunque tipo di privilegio e disuguaglianza.
@ Danae, Adrianaaa, Paola: tenete conto che anche da parte vostra ci sarà sicuramente un guardare che giudica, scruta, valuta. Come guardate ad esempio una giovane donna che, ai vostri occhi, veste secondo un canone da velina? Il punto è qui: se reagiamo a fronte di un discorso egemonico proponendo una sorta di contr-idea normativa della donna che dovrebbe contrastare con quella dominante non usciamo da queste impasses. Ci sarà sempre qualcuno che pretenderà enunciare la verità della donna emancipata: non solo per sé, ma per l’altro. In generale non si esce mai interamente da un orizzonte valutativo, ed è normale. Guardiamo sempre all’altro attraverso i nostri fantasmi. Ma credo occorra far bene attenzione a non trasformare questo campo nel campo di battaglia. Perché si rischia di perdere anche vincendo. Come dicevo, si può lavorare per creare uno spazio dove può avere luogo il molteplice delle differenze. Ma questo non si ottiene sanzionando discorsivamente modi di vestire che non corrispondono al nostro canone. Altrimenti si riporta il dibattito indietro di cinquant’anni. O lo si sposta in regimi non democratici. Uno potrebbe dire: ma non è questo il punto. In verità proprio perché non è questo il punto è significativo che si torni sempre qui. E’ già successo altrove in merito all’abbigliamento di una scrittrice. E’ successo recentemente dopo le foto di Melissa P. sul supplemento del Corriere. Pensate davvero che questo sia un terreno buono per una battaglia per l’emancipazione delle donne?
@ Simone Regazzoni
Continui ad aggirare il problema reale, ponendo una questione di principio. Sul principio mi sembra che siano tutti d’accordo con te. Ma tutte le interlocutrici che stanno partecipando a questo thread testimoniano l’esperienza vissuta quotidianamente. Il problema esiste, l’imposizione esiste, è vita vissuta: essere dominati dallo sguardo altrui, dovercisi adattare, dover soddisfare un canone estetico sempre più unico e totalizzante è una faccenda concreta. Quando la Zanardo (buonista o benpensante che sia, a me frega assai poco, ho già detto che il suo documentario funziona anche e forse meglio senza audio) mostra i burqa di carne che certe donne di mezza età scelgono di indossare grazie alla chirurgia plastica, la prima cosa che salta agli occhi è che quelle facce artificiali tendono ad assomigliarsi tutte. Nasini francesi, labbra turgide, zigomi alti. La stessa maschera per tutte. Questo non è democrazia reale – che è appunto espressione delle diversita – bensì omologazione. Personalmente credo che lotterò sempre perché ogni donna e uomo sia libero di agghindare e plasmare il proprio corpo come preferisce, ma nella consapevolezza che la mia battaglia per questo diritto non potrà mai bastare a tutelarmi dall’imposizione più o meno subdola di un modello unico. E allora che devo fare? Non pormi il problema di quell’imposizione? Limitarmi a riscontrare che però c’è anche qualcuno/a che riesce a gestire il proprio rapporto con lo sguardo dell’altro, o addirittura a imporre allo sguardo altrui la propria originalità estetica e comportamentale, o ancora che lo sguardo dell’altro c’è e ci sarà sempre? Tutto vero, ma, ripeto, il disagio è reale. Basta guardarsi attorno per rendersene conto. Basta ascoltare le donne. O, ad esempio, trovarsi a dover crescere una figlia (e, mutatis mutandis, anche un figlio).
mi sembra significativo, Simone Regazzoni, che quando (ci) proponi la domanda sul guardare/valutare/scrutare, fai l’esempio del guardare un’altra donna, e non un uomo.
Vedi? Sia che a guardare sia un uomo sia che si tratti di una donna, a essere guardata/valutata/scrutata è comunque una donna…
@ Wu Ming 4: “Personalmente credo che lotterò sempre perché ogni donna e uomo sia libero di agghindare e plasmare il proprio corpo come preferisce, ma nella consapevolezza che la mia battaglia per questo diritto non potrà mai bastare a tutelarmi dall’imposizione più o meno subdola di un modello unico. E allora che devo fare? Non pormi il problema di quell’imposizione?”. Messa così sono completamente d’accordo. Doppio fronte: battaglia per tutelare le scelte dei singoli; battaglia (ed è qui per me il terreno tatticamente da privilegiare) per decostruire il discorso egemonico che mi propone un unico modello. Quando però si attacca la scelta del singolo in quanto “asservito” al modello egemone pensando così di criticare il modello egemone secondo me si fa un errore politico. Per quanto riguarda la Zanardo su alcune cose sono d’accordo. Altre no. Ha il merito indubbio di aver sollevato il problema.
@ danae: io riprendevo esempi da voi citati: studentesse e coinquiline. A fare problema è evidentemente la donna, sarebbe folle negarlo. Come negare di essere in una società fallocentrica che produce un discorso egemonico unico e pericoloso. Ecco la fonte del problema. Pongo la questione però di quale sia il reale terreno di scontro. Perché non mi pare così scontato dai discorsi fatti che venga riconosciuta la libertà a ciscuna di vestirsi come meglio crede senza che ciò faccia scattare la sanzione di un certo discorso femminista.
@ Simone Regazzoni
Continui a dialogare con un interlocutore che non bazzica da queste parti. Nessuno qui critica “l’asservimento” di qualcun’altro ai modelli dominanti o il diritto di chiunque di vestirsi o tumefarsi la faccia come cazzo gli/le pare. Le parole chiarissime di Adrianaaa, Paola Signorino, danae, sono quelle di donne non certo succubi di quel modello. E tuttavia proprio loro ci raccontano di come lo subiscano e lo sentano agire massicciamente nella propria vita! Subire un modello non significa essere asserviti, plagiati, e via dicendo. Io e te subiamo di brutto i modelli maschili e femminili imposti, anche se ne parliamo con una certa consapevolezza. Per questo mi chiedo in cosa consista concretamente (e se basti) la battaglia per “decostuire” i modelli dominanti. Modelli che iniziano ad agire – come faceva notare Paola Signorino – fin dall’infanzia. Che vogliamo fare? Non tuteliamo l’infanzia in nome della libertà d’espressione estetica o ci battiamo perché certi modelli di maschile-femminile non ci vengano propalati in tutte le salse fin da quando siamo in culla?
Scusami, ma prova a rileggere Adrianaaa e Paola: criticano apertamente un certo modo di comportarsi e di vestirsi di alcune donne. Si parla di trucco, di essere agghindate.
Non a caso io ho parlato di questo. Ecco le due citazioni. Non possiamo fare finta che questo livello di discorso non sia in gioco: c’è una critica dei costumi e delle scelte dei singoli qui.
“La maggior parte delle ragazze, se abita in condivisione come me, appena sveglia si precipiterà in bagno a sciacquarsi la faccia, a lavarsi i denti e a sistemarsi un po’ i capelli, prima di correre il rischio di incontrare qualche coinquilino”.
“Il problema è quanto le donne riconoscano se stesse solo attraverso lo sguardo degli altri (uomini, ma anche le altre donne che hanno questo rapporto ossessivo con l’apparire: belle truccate depilate agghindate). Mi capita, molto spesso, di interrogare durante gli appelli d’esame, decine e decine di giovani donne “messe su” come se dovessero andare al grande ballo”.
Hai ragione poi a dire che la question del rapporto e della critica più o meno decostruttiva ai modelli e difficili: perché non saranno mai solo esterni. Su questo io sottoscrivo le analisi della Butler: non c’è soggetto che non sia già implicato da sempre in un processo di assoggettamento. Ma la Butler riprende e riarticola in modo interessante Foucault perché mostra la possibilità di azione inscritta in ogni pratica si soggetivazione/assoggettamento. Quindi decostruire il discorso egemonico significa da un lato fare battaglia per produrre altre narrazioni: e in questo una battaglia contro la tv unica della Zanardo è ottima. Dall’altro significa lavorare per aumentare con la circolazione nello spazio pubblico di concetti e discussioni che aumentino la consapevolezza dei processi di soggettivazione/assoggettamento. Da un lato una battaglia per ompere l’egemonia, dall’altro una battaglia diciamo illuminista perché la circolazione di cultura aumen ti la consapevolezza dei soggetti. Quello che facciamo qui è anche questo credo.
scusate i mille refusi, scrivo in movimento…
@ Simone Regazzoni,
ti rispondo per quanto concerne la mia esperienza e il contributo che ho cercato di dare. L’esperienza di cui parlo è la mia, il mio “essere guardata”, lo sforzo che devo fare (ogni volta da capo) per non farmi condizionare (per farti un esempio cretino, per non farmi condizionare neppure da mia madre che è fissata con i miei capelli e me li vorrebbe vedere sempre a posto…).
Dovrei scendere anche in esperienze più personali, ma non mi va di farlo. Solo vorrei dire che è un terreno scivoloso, difficile da “verbalizzare”, forse perché ha a che fare con il corpo, che è talmente malleabile, mutevole, infido, ribelle, da non lasciarsi imbrigliare in logiche ferree del tipo “analizzo-comprendo-agisco”.
Non vedo terreni di scontro, metto solo sul piatto una difficoltà. Annoto. Non mi piace giudicare.
Simone, scusa, ma credo proprio che tu non abbia centrato il punto, vuoi perchè forse oggettivamente difficile da centrare per le tantissime sfumature che comporta, vuoi perchè forse è altrettanto difficile da mettere in parole esatte, precise, l’esperienza del soggetto in questione, “le donne”. E io ho una difficoltà proprio anche a verbalizzare certe esperienze, oltre ad una dimensione più razionale che mi porta a non voler in nessun modo trascendere perchè l’ultima cosa che desidero è lo scontro o il muro contro muro o ancora peggio il “tu non puoi capire perchè non sei donna”: io voglio che si comprenda a vicenda.
Credo che nessuna/o di noi, qui, contesti il fatto che il riconoscimento di sè passa anche attraverso lo sguardo dell’altro/a/e/i. Direi che è ovvio: ci relazioniamo, siamo esseri sociali, storicamente socialmente economicamente e tutti i “mente” che vuoi determinati. Ancora: nessuna/o mette in discussione il diritto di vestirsi truccarsi e mostrarsi per come si preferisce, nelle varie età della propria vita. Ancora: lungi da me guardare con compiacimento giudicatorio le donne che si agghindano ( e va bene, forse è il termone sbagliato, ma io lo uso nei miei confronti: certe volte, in certe occasioni, a me piace molto “agghindarmi”, è proprio una cosa che mi diverte). Questo per sgombrare il campo da tutti i possibili malintesi. Femminismo uguale racchia, per favore no. Aggiungo ancora che il problema del corpo delle donne è un enorme problema che riguarda anche il corpo degli uomini: le due cose vanno insieme, l’imperativo “godi” è totalitario e alienante per uomini e donne.
Detto questo, invece, dico che si, certo, anch’io guardo, osservo, e rilevo che alla giusta cura di sè, al piacere di trovarsi bene nel proprio corpo si è sostuito l’imperativo dell’apparire perfetta. perchè? Non confondiamo l’ovvia libertà di scegliere quale rossetto mettere con il riconoscimento che esiste un modello unico a cui è difficilissimo sottrarsi. Soprattutto se questo modello è quello che le ragazzine, anzi, le bambine in età da scuola elementare, già si vedono davanti agli occhi come unica via di femminilità possibile. Allora non facciamo il gioco delle tre carte: se una donna si veste elegante per uscire a cena con uomo che le piace, ma ben venga, eddai. E’ una scelta. Ma se permetti, trovo che sia sbagliato, proprio sbagliato da tutti i punti di vista, che una bambina/ragazzina si esibisca con un abbigliamento televisivo per andare a scuola. e se trovi che ci sia del moralismo in questo, beh allora non so proprio come fare a spiegare.
Io cerco di non giudicare, nel senso di distribuire dall’alto della mia “età”, o “cultura” o “spocchia” attestati di valore: ma osservo, mi faccio un opinione, mi rattristo nel vedere una quantità enorme di energia usata per uniformarsi a questo modello unico. E l’altrettanta enorme quantità di energia che ci vuole per uscirne.
Discutiamone, insieme, ma per favore non del diritto di mettere il rossetto. Quello l’abbiamo conquistato, grazie.
@ Simone Regazzoni
Secondo me non ascolti. O meglio, stai cercando nelle parole altrui quello che vuoi trovare. A me non pare affatto che il discorso di Adrianaaaa contenga una critica alle donne che scelgono di truccarsi o che cercano di piacere agli uomini. Lei scrive un’altra cosa: parla di donne che provano orrore all’idea di farsi vedere dagli uomini al mattino, prima di essersi lavate, pettinate, truccate e adeguatamente vestite. Donne dominate dall’ansia di prestazione fin dal primo risveglio. E’ questo il dato che sottopone alla nostra attenzione.
Idem Paola Signorino. Ci offre una testimonianza, non esprime un giudizio. Ed è su quell’esperienza reale che dovremmo riflettere, non andare a cercare lo spettro del moralismo dove non ve n’è traccia. Che il rischio del moralismo sia sempre in agguato lo sappiamo bene, e infatti si sta parlando in tutt’altri termini.
Riguardo alle strategie pratiche che descrivi, ben vengano. Come dici, è quello che stiamo facendo. Tuttavia non hai risposto alla mia domanda sull’infanzia. Dobbiamo trasformare i nostri figli in decostruzionisti entro i tre anni di vita o oltre a raccontare loro una narrazione diversa del corpo e della mente dobbiamo preoccuparci anche di tutelarli dal messaggio unico che li bersaglia dovunque si voltino?
Grazie a Danae e a Paola per il tenore della risposta. Provo ad adeguare anche il mio tono. Poiché sia Paola sia Wu Ming 4 mi sollecitano su figlie/figli, provo a rispondere.
Ma prima una precisazione per Wu Ming 4 circa Adrianaaa. Io capisco quello che dice, ma lo trovo una testimonianza con giudizio incorporato che mi lascia molto perplesso. Perché? Perché enfatizza una questione legata all’estetica che andrebbe ridotta a dinamiche normali che si incrivono in qualsiasi spazio sociale con orizzonte simbolico. Le ragazze tendevano a mettersi “un minimo” in sesto prima di farsi vedere: “sciacquarsi la faccia, a lavarsi i denti e a sistemarsi un po’ i capelli, prima di correre il rischio di incontrare qualche coinquilino”. Non ci vedo nulla di strano. Magari quando sei sposata/o, certe cose non le fai più. Ma in una casa tra giovani ragazze e ragazzi è più che normale. Io sarei il primo a farlo (specie se c’è qualcuna che mi piace anche solo un po’ in giro per la casa). E’ una testimonianza del fatto che ho ansie da prestazione? Un po’ forse sì, ma sono quel tipo di ansie che trovo salutari. Rispetto al mio modello di soggettivazione/assoggettamento maschile con cui lavoro da una vita ci siamo. Tendo un po’ al machismo eroico, ma moderato: una buona icona per me è Bruce Springsteen; quindi potrei presentarmi a colazione con jeans e maglietta con maniche tagliate, ma mai e poi mai nemmeno sotto tortura in pigiama o in tuta. Lo dico un po’ provocatoriamente (la storia dei jeans e della maglietta è vera), ma altrimenti ci raccontiamo storie fasulle sulle dinamiche sociali.
I figli. Non so cosa farò quando sarò padre. La cosa mi entusiasma e mi spaventa. Mi piacerebbe avere una figlia. Potrebbe essere questione di mesi. Ci penso ogni giorno. Anche di notte. Conoscendomi so che devo stare attento: altro che liberale decostruzionista… sarei tentato di portarla a vivere fino all’età di 18 anni (ma facciamo 20) su un’isola sperduta. Poi, armata di tutto punto della sua buona paideia, potremmo decidere di tornare nella società. Mi sembra l’unico modo sicuro per difenderla. Questo per dire che non ho uno straccio di risposta convincente qui. Tranne quella di una educazione che cerchi il più possibile di preservare i nostri figli dal modello unico. Educarla a una libertà consapevole, responsabile, ecco il mio sogno. L’etica è questo per me (non la morale): pratica di libertà responsabile. Cioè una libertà che sa rispondere di ciò che fa. E se poi vuole fare la velina? Non vi rispondo. Ho un impianto teorico da preservare…
Mi riallaccio a questi ultimi contributi.
Quest’estate ero in fila per entrare a Plitvice e mi guardavo intorno. Lavoro con i bambini tutto l’anno e mi viene spontaneo osservare le loro dinamiche. Tra tutte quelle che riuscivo a vedere c’era, a parità di età, una differenza mostruosa nel modo di vestirsi ed atteggiarsi tra la bambine italiane (velinanti) e quelle di altre nazionalità, vestite in maniera neutra, meno sessualizzate.
Mi sono chiesto: è un problema solo dell’Italia questa estrema sessualizzazione delle bambine?
Non so all’estero, ma come diceva Paola in Italia a scuola molte bimbe sono agghindiate come donne adulte (per la mia esperienza, anche alla materna, non solo dalle elementari).
Per gli altri paesi purtroppo non ho dati in più, mi devo basare solo su ciò che ho visto in vacanza ogni tanto. Ma ragionando sul berlusconismo (o su come vogliamo chiamare la questione) è sicuramente un fatto di cui tener conto
@ simone regazzoni
tu ne sai sicuramente cento volte piu’ di me, pero’ da padre di due bambini (7 e 3 anni) ti dico che, nonostante le migliori intenzioni, con i figli si fa sempre una marea di cazzate. per fortuna i bambini hanno piu’ risorse di quel che crediamo, e in un modo o nell’ altro riescono a cavarsela nonostante gli sforzi dei loro genitori. l’ importante e’ dar loro fiducia, far capire loro che sono importanti.
—–
@ ub
ho vissuto un paio di anni in germania, e confermo che quel che dici e’ vero. per le bambine e i bambini tedeschi pippi calzelunghe e’ una specie di eroina nazionale, nelle cartolerie vendono le cartoline e i poster.
@ Simone Regazzoni
Vabbé, accetto la risposta scanzonata. Però mi tocca registrare che (ancora una volta) quando si arriva sul terreno dell’infanzia il tuo ragionamento si ferma, si sospende. Era successo anche in una discussione su temi analoghi su Lipperatura. Credo infatti che questo sia il punto debole della strategia o pratica da te enunciata. Perché quando entra in gioco l’infanzia non si può applicare il criterio della pari consapevolezza dei soggetti in campo.
Fatto salvo che nessuno può pretendere di crescere i figli su un’isola sperduta o sotto una campana di vetro (sarebbe tra l’altro controproducente, perché l’impatto ritardato con la complessità sociale si rivelerebbe ancora più duro e devastante), la mia domanda era seria e non personale.
Sembra evidente anche a me che quello che possiamo fare con i figli è “educare a una libertà consapevole”, responsabile, e raccontare loro una storia diversa. Ma facendolo finiremo inevitabilmente per criticare il modello unico non solo a causa della sua pretesa unicità, del suo volersi imporre, ma anche per le conseguenze pratiche dei comportamenti che porta con sé. Perché, come ricordava uno che di figli ne aveva quattro (e non uno solo come il sottoscritto): la cosa che più spesso i bambini ti chiedono non è se una cosa, un fenomeno, sia reale o fantastico (“esiste” o “non esiste”), ma piuttosto se sia “buono” o “cattivo”. Quei piccoli hobbit che ti girano per casa iniziano prestissimo a maneggiare l’idea di bene e di male. E allora hai voglia te a decostruire… Buona fortuna di cuore, comunque. E pure a me stesso ;-)
@Simone Regazzoni: Io non ho mai inteso criticare le donne che si agghindano, ho voluto invece dire che nella maggioranza dei casi il motivo per cui lo fanno è lesivo della loro dignità e della loro capacità di scelta.
Sono una di quelle femministe bigotte che bacchetterebbero una donna solo perché si veste per piacere a un uomo, dici tu. Ma dove l’hai letto, scusa? E perché diamine continui a girare attorno al piacere/non piacere agli uomini? Sta tutto lì secondo te?? Femminismo vuol dire fregarsene del piacere ai maschi?? Non ci sono in ballo, magari, questioni più importanti che riguardano l’identità, la coscienza di ciascuna, il proprio equilibrio, la propria felicità?
Trovo illuminante la distinzione di Danae tra il percepire lo sguardo degli altri e l’essere guardati. Se sei donna, gli altri hanno il diritto di guardarti e tu hai il dovere di sottoporti al loro giudizio.
Sono anche d’accordo con Paola per quanto riguarda la difficoltà di verbalizzare qualcosa che è sempre sottinteso e in cui viviamo immerse dalla nascita. Questo non significa che non ci si debba provare.
Per quanto riguarda la questione sollevata da Paola e Wu Ming 4 riguardo al crescere dei figli, la prima cosa che mi viene in mente riguarda il bisogno di educarli a pensare il proprio corpo come qualcosa di bello e forte. Come dimostra l’orribile scenetta delle due mamme che ho descritto più sopra, la repressione del corpo, soprattutto nelle bambine, è fortissima. Vengono costrette continuamente entro limiti di taglia e di azione, prima che di pensiero e di parola. Gli viene insegnato ad essere piccole e deboli. Bisognerebbe spingerle ad avere braccia forti, gambe forti, mani capaci di costruire, un appetito che dia loro tutte le energie che ci vogliono a compiere ogni impresa che desiderino.
@Wm4
Cito:
Sembra evidente anche a me che quello che possiamo fare con i figli è “educare a una libertà consapevole”, responsabile, e raccontare loro una storia diversa. Ma facendolo finiremo inevitabilmente per criticare il modello unico non solo a causa della sua pretesa unicità, del suo volersi imporre, ma anche per le conseguenze pratiche dei comportamenti che porta con sé.
E qual è il problema di criticare il modello unico?
“Io non ho mai inteso criticare le donne che si agghindano, ho voluto invece dire che nella maggioranza dei casi il motivo per cui lo fanno è lesivo della loro dignità e della loro capacità di scelta.” adriana
Ma credo sia proprio in questo voler giudicare le motivazioni (che possono essere molteplici) di chi si agghinda, quel paternalismo di cui Regazzoni ti accusava.
Forse non c’entra..però c’entra: mi è capitato di discutere sul blog di Giuliana Sgrena sull’islam, con alcune donne musulmane, che rivendicavano il diritto di portare il velo integrale in ossequio ai dettami della loro tradizione culturale e religiosa (una tradizione a cui alcune avevano aderito consapevolmente dato che erano italiane convertite), io che pure detesto ciò che il velo integrale rappresenta e che sarei disposto a lottare per impedire a quel “sistema di valori” di divenire egemone (non vedo un tale rischio, per fortuna) non mi sono sognato di trattarle come persone non in grado di scegliere, ho detto loro che secondo me avevano pieno diritto di vestirsi come preferivano e nessuno doveva giudicarle sceme per questo, purchè dessero anche agli altri modo di criticare ciò che il loro modo di vestire simboleggia, e a proposito di bambini perchè anch’io (che non ho figli e non so se mai li avrò) considero fondamentale quest’ambito: ho anche chiesto a quelle donne se avrebbero dato alle loro figlie la stessa libertà di scelta nel modo di vestire e non solo in quello (la libertà di cambiare religione o non averla, la libertà di frequentare un ragazzo non musulmano, cose del genere).
Non ho avuto risposta.
Forse sono andato OT, ma non troppo. insomma volevo dire questo: critichiamo pure i modelli che consideriamo lesivi della dignità, proteggiamo i bambini dall’invadenza di questi modelli, ma le motivazioni per cui ci si copre e ci si scopre sono sempre eminentemente personali.
Ci si copre ci si scopre e ci si trucca, anche.
Scusate se pur essendo maschio utilizzo il “ci”, so bene che è una questione che investe tutti, ma le donne in particolare.
Uff. Quello che sto cercando di dire è che i motivi per cui una si agghinda, fa la carina ecc ecc non sono personali, ma di genere! C’è, lo hanno testimoniato le donne che hanno scritto qui, lo si vede per strada, a scuola, sui luoghi di lavoro una meccanica sociale che agisce sulle donne in quanto appartenenti al genere femminile, una dinamica che porta al risultato che tutti abbiamo sotto agli occhi: le donne hanno meno potere degli uomini in ogni ambito (se non in quelli considerati strettamente femminili, dove se la giocano 50/50 con gli uomini – vedi dati sulle posizioni di vertice nelle scuole, per esempio), sono sottoposte ad un’educazione più repressiva e incontrano difficoltà quotidiane che voi non avete.
Una volta che la dinamica di genere sarà ridimensionata e le tutti saranno più liberi di svilupparsi come individui, allora parleremo certamente di scelte personali. Le scelte personali non sono in discussione.
Le ragazze musulmane che vogliono coprirsi da capo a piedi dovrebbero farlo senza che nessuno – NESSUNO – ci metta bocca, invece sono continuamente costrette a mettersi in discussione, a mostrare il loro certificato di indipendenza, cosa che non è minimamente richiesta alle donne occidentali che compiono scelte dettate dall’obbligo di essere guardate, ogni giorno. Uno: questo comportamento è razzista, perché presuppone che la loro cultura abbia su di loro un effetto più coercitivo, mentre noi siamo quelli liberali. Due: è un comportamento che dimostra la totale incapacità di vedere la trave nel proprio occhio e che presuppone un diritto a giudicare che ci riporta alla discussione precedente, nonchè al punto uno.
Ci sono regole che nello spirito di un popolo nascono così, in modo naturale, come le foglie su una pianta. Queste regole da noi si fondano su un’unica tesi: una ragazza bella è troia, e una brutta – poverina! – non lo è. In questo paese una ragazza deve fare molta attenzione al suo “fiore immacolato”, perché “un uomo si lava con un pezzo di sapone e torna come nuovo, mentre una ragazza non la lava neanche il mare”. L’intero mare.
@ Adrianaaaa
giusto per dire che a me sembra soprattutto importante in questa discussione il discutere in sé, il dirsi queste cose. Io penso di aver capito da subito a cosa ti riferivi, solo che mi sembra inevitabile. Alla fine si tratta sempre di limare il più possibile tutto quello che ci determina in modo che faccia meno male e che lasci più spazio alla persona.
Visto che non sono Luttazzi, eh eh, il brano sopra viene da “Il paese dove non si muore mai” di Ornela vorspi.
bè adriana, da noi c’è l’obbligo di essere guardate, altrove c’è l’obbligo di non esserlo. Non so quali dei due sistemi sia il più coercitivo, ma la figlia di una velina può, credo, fare scelte diverse da quelle della madre senza rischiare la pelle o di essere ripudiata dalla famiglia, le figlie delle donne con cui ho parlato..non saprei.
La questione è che nessuna persona deve giustificare nè a te nè a me, nè a nessuno, le sue scelte di vestiario.
e comunque negare che nella nostra società una donna non possa fare scelte personali è apocalittico, sì ci sono i condizionamenti sociali culturali economici come in ogni epoca e in ogni latitudine, c’è il problema specie in Italia della scarsa occupazione femminile, di un’educazione repressiva e dei modelli degradanti imposti dalla nostra TV, ma non siamo neanche all’anno zero, quanto a libertà femminile.
Volevo dire “negare che possa”
Ecco l’articolo sul blog della London Review of Books:
BERLUSCONISM WITHOUT BERLUSCONI
http://www.lrb.co.uk/blog/2010/11/18/wu-ming/berlusconism-without-berlusconi/
E’ breve e sintetico, pensato per un pubblico non italiano, e risponde ad alcune domande preliminari del redattore (poi tagliate in modo da ottenere un articolo anziché un’intervista). Non è stato possibile fare un riferimento diretto a questa discussione, ma le occasioni non mancheranno.
E non mi sfugge nemmeno il fatto che ancora oggi in Italia la maggior parte del lavoro domestico e di cura di figli e svolto dalle donne, so anche che continua la pratica deleteria di far firmare alle lavoratrici lettere di dimissioni in bianco per poterle licenziare se restano incinte, nessun uomo durante un colloquio di lavoro si sente chiedere con preoccupazione se ha intenzione di aver figli.
Tutte cose che vanno discusse e criticate, ci tengo a dirlo.
@ Wu Ming 4: hai ragione, sul tema dell’infanzia il mio ragionamento si ferma. Se ho risposto in modo personale e senza in effetti rispondere davvero è perché non ho una vera risposta, ben articolata, in merito. Credo che la questione sia capitale. Varrebbe la pena discuterne a fondo. A questo sono interessatissimo. Più in là oggi non so spingermi.
Molti post fa, scrivevo che futuro ed educazione sono due concetti interrelati, perché non si può educare con le minacce, ma solo con una promessa di futuro, la testimonianza di un avvenire possibile (E’ la tesi del famosissimo “L’epoca delle passioni tristi”, di Benasayag & Schmit).
Bisogna stare molto attenti: perché anche il genitore premuroso, che vuol trasmettere al figlio gli strumenti critici per leggere il mondo, rischia di descrivere il mondo stesso non come un’opportunità, ma come una minaccia. Ho conosciuto (anche per via del mio “primo” mestiere di educatore) tanti genitori convinti che i loro figli sarebbero perfetti, o comunque molto migliori, se non arrivasse a rovinarglieli la società: compagni di scuola, televisione, altri genitori… Queste persone si interrogano su come fare a respingere le cattive influenze, e finiscono per trasmettere ai figli l’idea di un mondo stupido & cattivo, contro il quale bisogna armarsi. Ovvero: l’avvenire come minaccia, un drago da combattere in armatura, e non uno strano essere da studiare e ammestrare con gli attrezzi giusti (vedi “Dragon Trainer”).
@ alexpardi
Forse il senso della mia frase non era troppo chiaro. Il problema, ovviamente, non è criticare il modello unico, ma in nome di cosa farlo. Il ragionamento di Regazzoni esclude la possibilità di una critica nel merito delle scelte personali, perché questo potrebbe aprire un margine al moralismo, al paternalismo, alla prevaricazione. Eppure – facevo notare – quando ti ritrovi nei panni di educatore è impossibile non esprimerlo quel giudizio, ovvero valutare la nocività di certi comportamenti, perché è precisamente ciò che ti viene richiesto. In quel caso la posizione neutrale, o per così dire democratico-formale, diventa dura da tenere.
Spero di essermi spiegato meglio.
Sottoscrivo in toto gli ultimi interventi di paolo1984. Quindi non ritorno su quelle questioni.
Anche io ho fatto come “primo mestiere” l’educatore. Un’esperienza bella e formativa, soprattutto per me. Forse per questo non ho davvero risposte articolate alle domande di Wu Ming 4. Ricordo le difficoltà incontrate, le mie convinzioni teoriche da neo-laureato saccente distrutte nel giro di un mese, quello che ho imparato da colleghi più anziani, in particolare questo: non ci sono ricette, sappi solo che al di là di quello che dici conta come ti comporti e il rispetto che hai per le ragazze (erano comunità di ragazze). E’ evidente che si comunicano valori, modelli di comportamento, giudizi quando si educa. Ma al fondo mi pare importante educare a una libertà responsabile. Perché alla fine arriverà anche il momento per mia figlia o mio figlio di emanciparsi da me e dal mio orizzonte id valori, e di decidere da sola/o che cosa vorrà essere e fare. E potrà farlo, potrà imparare a vivere, solo se saprà fare uso responsabile della sua libertà. E io sarò, credo, un buon padre se saprò rispettare questa libertà. C’è anche un diritto all’errore in tutto ciò che credo debba essere riconosciuto all’altro.
“giusto per dire che a me sembra soprattutto importante in questa discussione il discutere in sé, il dirsi queste cose. Io penso di aver capito da subito a cosa ti riferivi, solo che mi sembra inevitabile. Alla fine si tratta sempre di limare il più possibile tutto quello che ci determina in modo che faccia meno male e che lasci più spazio alla persona.” paperinoramone
Cosa ti sembra inevitabile, mi sfugge? Le dinamiche culturali all’interno di una società maschilista? Suppongo non volessi dire questo, ma io così ho interpretato. Anche la citazione che fai mi sembra fuorviante. Che significa regole che spuntano in modo naturale? La cultura è natura in che senso? Io penso che neanche la natura sia immutabile, figurarsi la cultura, risultato sui generis della natura umana. E’ sempre in movimento. Se la nostra società è culturalmente maschilista, non lo è naturalmente, e non lo deve essere necessariamente per sempre. Di questo credo stiamo discutendo, e proprio della possibilità di stravolgere questa impostazione. O sbaglio?
@ sweepsy
“Uff. Quello che sto cercando di dire è che i motivi per cui una si agghinda, fa la carina ecc ecc non sono personali, ma di genere!”
questo passaggio di adrianaaaa mi ha spinto a commentare.
le dinamiche culturali sono inevitabili. In più è impossibile e anche inutile capire se una ragazza si trucca per libera scelta o perché oggi usa così, la nostra cultura è la nostra natura. Ma proprio per questo, preso atto di un disagio, apprezzavo che se ne parlasse, più ancora del cercare una soluzione, che non c’è.
Ma credimi, trovo molto difficoltoso cercare di spiegarmi. Il passaggio che ho messo invece, era solo perché l’ho letto da poco, ed era in tema. mi è sembrato uno spaccato di un paese raccontato in maniera efficace. Il termine natura va inteso per capirsi, però secondo me sbagli a dividere natura e cultura. comunque scusa se ho scritto qualcosa che ti ha offesa.
D’accordissimo con Sweepsy. Se pensiamo che “l’uomo italiano è fatto così e la donna così, c’è poco da fare”, siamo davvero fermi al palo.
La donna guadagna meno, lavora di più (il lavoro domestico ricade prevalentemente sulle donne), la disoccupazione è più femminile che maschile, il potere è, dalla politica all’imprenditoria, passando per i generali, maschio. Con tutte le eccezioni che il politically correct richiede.
La “rivoluzione sessuale” è sostanzialmente una bufala: ora le donne possono mercificare il proprio corpo fino in fondo, spogliarsi in TV, sui giornali e nelle strade, a beneficio degli uomini, oppure possono DIVENTARE UOMINI: donne manager, capi-branco, dure, ciniche, aggressive, stronze come i peggiori degli uomini.
L’estetica segue: ci si agghinda soprattutto “come piace a lui” che comanda. La cortesia, la delicatezza, la pietà – qualità femminili – in questo mondo di lupi non pagano.
La donna è libera di vestirsi come vuole? Balle. E’ una libertà fortemente condizionata da rapporti sociali nati sotto il segno del maschio.
Tranquillo, nessuna offesa, stiamo semplicemente parlando… e comunque non intendevo separare natura e cultura, sono estremamente correlati, come dici tu. T’ho chiesto delle spiegazioni, speravo me le dessi, ma forse non ne hai voglia. Inutile insistere, allora.
Analisi di un “maschio” sull’oppressione femminile : )
http://www.leftcom.org/it/articles/2004-06-01/sulla-storia-dell-oppressione-femminile
mannaggia.
“Ma credimi, trovo molto difficoltoso cercare di spiegarmi”
“comunque scusa se ho scritto qualcosa che ti ha offesa”
certo che possono sembrare frasi evasive, scritte come per dire “si vabbè”, però anche no, per esempio c’ho messo mezz’ora per postare, pure se sapevo già cosa risponderti. Forse ho trovato un buon esempio: se vedi una ragazza che va in discoteca in minigonna a ballare sui cubi o un ragazzo che va in palestra a farsi i muscoli per poi andare sotto al cubo ecc. pensi, eccerto, sono figli dei modelli culturali imposti dalla cattiva società maschilista. Ma: tu non stai pensando queste cose da un altro universo, perché a tua volta sei cresciuta in un ambiente che ti ha permesso di sviluppare detti pensieri. Solo che a te sembrano pensieri in libertà che esprimono la tua vera natura e invece gli altri si comportano come sotto ipnosi. oppure le femministe sono libere di essere femministe? Spesso seguendo le discussioni attorno a come viene visto oggi il femminismo, ci si arrovella su un punto inestricabile, come non sembrare moralisti.
poco fa scrivevi: “Se la nostra società è culturalmente maschilista, non lo è naturalmente, e non lo deve essere necessariamente per sempre. Di questo credo stiamo discutendo, e proprio della possibilità di stravolgere questa impostazione. O sbaglio?” beh, qui nessuno pensa che sarà sempre così, e io certo non volevo dire quello.
Devo confessare che ultimamente faccio molta fatica a partecipare al dibattito sul problema dell’eguaglianza dei generi e sui temi del femminismo in generale.
Il motivo di ciò è emerso chiaramente in questo thread, ovvero che per quanto possiamo sforzarci in comprensione ed empatia, per un uomo oggi non è più possibile concepire pienamente il peso delle umiliazioni, delle frustraizioni, delle violenze materiali e psicologiche, alle quali le donne di questo paese sono sottoposte quotidianamente.
Per questo, almeno per me, credo che sia arrivato il momento di “chiudere il becco” e ascoltare le donne, le loro argomentazioni, ma anche il dolore dal quale esse scaturiscono, che forse è la cosa più difficile da comunicare.
Bisogna ascoltare, ma non per ricominciare a pontificare su cosa le donne dovrebbero fare di se stesse e con gli altri, ma ascoltare nella ricerca della chiave per poter finalmente cambiare il modello e la condizione maschile di questo paese.
Perchè, è inutile girare intorno al problema, se oggi in italia esiste una certa condizione delle donne, ciò è dovuto principalmente a un preciso e determinato modello maschile e maschilista, non importa quante donne siano più o meno consapevolmente partecipi di questo modello, i responsabili principali restiamo noi, noi maschi italiani e la nostra percezione di noi stessi.
Bisogna superare questo modello maschilista, sovvertirlo con una nuova narrazione, che non sia più la macchietta auto-assolutoria della “simpatica canaglia” oppure la finzione di una virilità esibita e alienante.
Io credo che in questo momento storico, il modello maschilista vada combattuto con una narrazione dell’orrore: bisogna mostrare l’orrore della condizione di quest’uomo ormai totalmente incapace di suscitare amore e desiderio e che per questo è costretto a comprarne la finzione, il simulacro, l’orrore di quest’uomo che avendo mercificato tutto intorno a se, ora deve acquistare, a prezzi sempre più cari, una qualsiasi parvenza di socialità, l’orrore di questo maschio che vive ogni giorno nel terrore che il suo castello effimero di finzioni possa crollare improvvisamente e mostrargli definitivamente la sua irrimediabile solitudine.
Ecco il terrore, la paura, ritengo che certi atteggiamenti ossessivi si possano spiegare solo come frutto della paura: forse è questa una cosa che mi sento di dire in sincerità alle donne, sappiate che molto di quello che subite è frutto della nostra paura, sappiate che abbiamo una paura fottuta di voi, della vostra diversità, della vostra bellezza, e soprattutto sappiate che solo voi in definitiva avete il potere di “renderci uomini”, e per questo cerchiamo di dominarvi e controllarvi.
Scusatemi se sono andato OT.
Come ho già scritto in un altro commento su questo thread qualche giorno fa, raccontando la mia esperienza di figlio educato ad essere contro “la massa” e “il consumismo”, senza la TV, vorrei semplicemente ricordare e mettere in rilievo il fatto che è purtroppo molto più influente l’ “ambiente”, il modello capitalista-maschilista, secondo me per un motivo ovvio: è la comunità, e non la famiglia nucleare, né tantomeno l’individuo, che crea e impone modelli e valori. La comunità in cui viviamo in un certo senso nasconde se stessa come mai nella storia, ma forse proprio per questo motivo non è mai stata così imperante. Le sue manifestazioni sono “virtuali” (televisione, pubblicità, la stessa internet per certi versi). Fa credere a ognuno di vivere il proprio destino individualmente, di essere veramente il soggetto di dinamiche complesse come l’educazione dei figli, mentre invece nessuno può esserlo da solo.
Con questo non voglio certo sminuire l’importanza dell’ambiente familiare né il valore storico della famiglia nucleare né deresponsabilizzare le singole persone. Secondo me però ogni modello di educazione che non consideri la comunità, che non si proponga di agire prima di tutto *con* essa, è pura illusione ed è destinato a fallire. Io ho 27 anni e non sono ancora padre; per ora parlo da figlio e porto la mia esperienza come tale. Educato ad essere “contro” il modello imperante ho vissuto buona parte della mia infanzia nell’ “isola deserta” di cui parla Regazzoni, e quindi un’adolescenza da disadattato, perché nonostante qualche amico simile a me non ho fatto altro che subire continuamente il fatto di essere infima minoranza, di essere esule in patria. Tirarmene fuori è faticoso e non è affatto finita.
@fusibile
“e soprattutto sappiate che solo voi in definitiva avete il potere di “renderci uomini””
scusa la franchezza, ma secondo me la piu’ grande porcata che un uomo possa fare a una donna e’ quella di scaricare su di lei la responsabilita’ della propria (di lui) “salvezza”. io non ho studiato filosofia, a questa conclusione sono arrivato per via empirica, osservando quel che succede intorno.
@fusibile
“e soprattutto sappiate che solo voi in definitiva avete il potere di “renderci uomini”
Non so, credo sia troppo comodo.
Per evitare di cadere in eccessi di auto-castrazione del tipo “vi prego donne aiutateci a liberarci del mostro fallico che alberga dentro di noi”, il cui solo effetto rischia di essere, come qualsiasi B-movie potrebbe dimostrare, rafforzare inconsciamente il desiderio anche della più accanita femminista per un uomo à la Steve McQueen (e come darle torto…), occorrerebbe credo cominciare a vedere se poi il presunto discorso unico è davvero tale o se non è piuttosto egemonico: ma di una egemonia instabile, che lascia spazio ad altro. Pur con tutte le cautele che il caso Italia impone, io per quanto riguarda l’immagine della donna in tv non sarei catastrofista: c’è il rischio di sbagliare analisi nell’eccesso di apocalitticità. Per questo come analisi trovo limitato il documentario della Zanardo.
Tutte le discussioni sull’immagine della dona in tv si focalizzano su certi talk: ma non ci sono solo quelli, e soprattutto non ci sono solo i talk. Oggi la meglio tv è rappresentata dalla nuova narrazione seriale americana: e qui, davvero, l’immagine della donna è plurale, interessante, emancipante. Occorrerebbe cominciare a lavorarci. Perché non si tratta certo di narrazioni di nicchia. Ecco la mia tesi: una contro-narrazione della donna è già all’opera proprio attraverso la tanto vituperata tv. Credo vada sottolineato con forza altrimenti si rischia di liquidare la tv in modo semplicistico e sbrigativo. Tanto più che la tv generalista è ormai alla fine anche da noi.
@tuco
Hai ragione, è una porcata, non a caso io ho parlato dell’orrore di questa condizione, della quale si discute sempre troppo poco.
Quello che voglio sottolineare è che in queste discussioni si finisce sempre per parlare di rossetto e di minigonne, mentre della condizione maschile si parla tangenzialmente come se fosse un dato di fatto, mentre è proprio questa narrazione quella che va messa in discussione e sovvertita.
secondo me stanno venendo fuori cose fondamentali: sia da parte femminile, con il tentativo di provare a mettere in parole una parte di esperienza che tocca sfere molto profonde e difficili; sia da parte maschile, per l’attenzione che colgo e che mi suona “inusuale”. Solo due cose: credo che il punto sia la genitorialità non solo intesa come esperienza autobiografica in realzione ai propri figli (presenti o futuri o “immaginati”), ma come esperienza sociale, di comunità. La seconda: per favore non attribuiamo alle donne cose tipo cortesia pietà delicatezza, come se per natura noi fossimo dotate di una sorta di capacità psichedelica di essere pietose e delicate, e perchè mai, poi. Così pure non mi ci ritrovo proprio in attribuzioni di responsabilità: “solo voi avete il potere di farci uomini”. Direi proprio di no.
Su tutto il resto ho bisogno di meditarci un po’.
genitorialità che si rivolge a maschi e femmine, sia chiaro: la questione femminile investe una enorme questione maschile, come già detto.
@ Simone
bisogna vedere se nel caso delle serie si può ancora parlare tout court di TV, nel senso che ormai sono pensate e prodotte per una fruizione:
– molteplice (sul televisore, certo, ma anche sul computer, su tablet etc.);
– spezzettata (gli highlights finiscono subito in rete e possono essere guardati nell’ordine desiderato);
– e soprattutto *differita* (uno le registra o scarica o compra i cofanetti e le guarda quando gli pare).
Anche narrativamente sono costruite tenendo conto di questo (come spiega molto bene Steven B. Johnson), cioè della possibilità di rivedere e ripetere a piacimento, di isolare sequenze etc.
Quindi questi prodotti sono ormai quasi del tutto sganciati dal flusso televisivo quotidiano.
E’ chiaro che quando si parla di “televisione” si intende ciò che è ancora molto specifico del medium, ciò che non prescinde dal flusso quotidiano (che in Italia è in gran parte flusso *generalista*). Quindi varietà, talk-show, talent show, programmi di cucina, TG etc. E l’immagine della donna che ne esce, almeno in Italia, è quella che sappiamo. Ha poco senso dire: guardate che altrove ci sono altre immagini. Non è di quell’altrove che stiamo parlando. Un altrove che, per altro, in Italia arriva a nicchie magari anche consistenti ma che non fanno immaginario egemone.
@ Wu Ming 1: gli studiosi di new media quando parlano di tv non si riferiscono più al “televisore” ma alla televisione come modo di produzione che arriva su diversi supporti. Alcuni parlano infatti anche di “televisione convergente”. E’ una nuova televisione che si espande su più supporti. Ma nella produzione della serialità americana tutto è ancora pensato comunque per una prima visione tramite “televisore”: la stessa scrittura si modula sugli stacchi pubblicitari.
Ora questa narrazione seriale è una parte importantissima e molto contesa (dati alla mano) anche nei palinsesti della nostra italianissima tv generalista. Queste immagini non sono altrove: sono qui da noi, sui nostri schermi, e sono contro-narrazioni in atto. Non fanno egemonia? No, ma contrastano sicuramente l’egemonia e permettono di dire che il discorso unico non è tale, che tutto è più complesso. Tanto più se si pensa che un certo target giovanile segue quasi in modo ossessivo le serie tv.
Spesso certi discorsi critici sulla tv non tengono conto di che cosa è effettivamente la tv, anche in Italia. Non è un caso che le dichiarazioni critiche siano spesso precedute dal: io non guardo la tv, però… E’ un topos chiave da cui parte anche la Zanardo. Ma non funziona. Gli studiosi di tv italiana ci dicono che le cose certo non vanno proprio bene (e chi potrebbe negarlo?), ma non sono catastrofiche. I
@ Simone
su “televisione convergente” ci siamo, con me sfondi una porta aperta, ma qui serve una declaratio terminorum altrimenti diventa l’ennesimo ginepraio. Quando i tuoi interlocutori sulla questione di genere dicono “televisione” intendono una cosa, quando tu dici “televisione” ne intendi un’altra. Per loro “televisione” è una metonimia, cioè significa: quel che prevalentemente passa in tv. Anche per te è una metonimia, ma diversa: “televisione” è un linguaggio. Da qui il fraintendimento.
E’ vero che i singoli episodi sono scritti pensando alle interruzioni pubblicitarie. Ma un conto è l’episodio, altro paio di maniche è l’intera serie. Di scrittura narrativa un po’ me ne intendo, so riconoscere due livelli diversi. Una serie è scritta avendo già in mente il cofanetto o comunque la fruizione complessiva (magari in un’unica, compulsiva seduta, o comunque in poche, sgranando episodi come preghiere del rosario). In una fruizione così, sfuma la distinzione tra episodi, che era invece molto importante quando nella narrazione c’era meno “continuity” e le puntate erano autoconclusive.
In parole povere: a livello di episodio si scrive tenendo conto dello specifico televisivo (in senso stretto, cioè: lo specifico della programmazione e messa in onda, con fruizione sincrona da parte di molti spettatori); ma a livello di serie no, siamo già oltre.
Inoltre: nei talent non mi sembra poi ci sia una figura di donna “velinata”. Lo dico non per impressione superficiale: seguo attentamente, con attenzione direi filologica, i talent da anni, “Amici” compreso. Le cose quindi si fanno più complesse.
@WuMing4, Regazzoni
Sono passati un po’ di post, riassumo brevemente. Regazzoni dice:
[…]non ho uno straccio di risposta convincente qui. Tranne quella di una educazione che cerchi il più possibile di preservare i nostri figli dal modello unico. Educarla a una libertà consapevole, responsabile, ecco il mio sogno. L’etica è questo per me (non la morale): pratica di libertà responsabile.
WM4 risponde così a una mia domanda:
Il problema, ovviamente, non è criticare il modello unico, ma in nome di cosa farlo. Il ragionamento di Regazzoni esclude la possibilità di una critica nel merito delle scelte personali, perché questo potrebbe aprire un margine al moralismo, al paternalismo, alla prevaricazione.
Posto che trasmettere ai figli un sistema di valori è sia inevitabile sia necessario, il primo problema da porsi è come evitare una “narrazione tossica” di questi valori, che si basi ad esempio sul ricatto morale, sulla violenza, su comportamenti non coerenti ecc. (Fa certamente parte delle narrazioni tossiche il “trasmettere ai figli l’idea di un mondo stupido & cattivo, contro il quale bisogna armarsi” cui accenna WM2). Questo è il grosso del lavoro, ma, almeno nelle intenzioni, lo possiamo dare per scontato. Detto questo, la possibilità di critica alle scelte personali è altrettanto inevitabile e necessaria, perchè le scelte personali i bambini iniziano a farle da subito. Se mio figlio di 4 anni vuole uscire di casa a gennaio vestito solo della maglietta di Spiderman perché la vuola mostrare agli amici, che faccio? E’ facile dire che la sua scelta non è né consapevole né responsabile, e quindi, a fronte del rischio per la sua salute, sentirsi autorizzati non solo a criticarlo ma, se non sente ragioni, ad impedirglielo: il problema è che non posso misurare la sua consapevolezza e responsabilità se non con il mio soggettivissimo metro, e questo varrà anche, su questioni di ben altra portata, quando mio figlio avrà 15 o 20 anni.
Certamente è difficile trovare la misura, ma il rischio che si corre non criticando e accettando alcune scelte come responsabili è altrettanto alto: ricordo un titolo di un disco di non so più chi – e in questo momento Google non mi aiuta – che rimproverava ai genitori di aver dato loro quello che volevano invece di quello di cui avevano bisogno.
Capita abbastanza spesso, ai giardini, di assistere a episodi di prevaricazione o “violenza” tra bambini che giocano. Un criterio che mi è stato consigliato e che mi pare sensato è quello, quando i nostri figli sono coinvolti, di chiedersi, prima di intervenire: se invece dei miei figli fossero bambini che non conosco, cosa farei? Penso possa valere anche per altre fasi della vita: da piccoli serve a cercare di depurare il nostro punto di vista da apprensioni e ansie, da adulti può consentirci più facilmente di accettare dai figli opinioni diverse dalle nostre.
Beh, la “velina” non è l’unico “idealtipo femminile negativo” che passa in TV. C’è anche la squinzia scema che litiga con le altre per il tronista, c’è la donna di mezza età mostrificata dal lifting, c’è l’ochetta ignorante e superficiale che vuole diventare la nuova Tatangelo etc.
@ Wu Ming 1: (la questione sulla narrazione seriale tv ci porterebbe troppo lontano, grosso modo concordo con quello che dici, ma…). No la velina non è l’unico idealtipo, però tu citavi i Talent che hanno un peso enorme nella nostra tv generalista (non ci sono tronisti e cose simili): qui ci trovo anche cose buone. E allora si comincia a scremare…
Potrebbe sembrare ovvio affermare che quando si sottolinea e si discute l’esistenza della grave, e decisiva, “questione di genere”, si stia in realtà parlando obbligatoriamente della “questione dei generi”. Eppure non è così.
La consapevolezza di una pesantissima “questione maschile” fatica a emergere anche all’interno della componente più critica, o più colta o attenta alle dinamiche sociali e culturali che ci attraversano. Non credo si tratti solo di comodità o pigrizia. Piuttosto di una incapacità, razionale ed emotiva, di articolare la percezione e il disagio, di dargli le parole giuste, e infine indicare e praticare vie da percorrere.
Provo a dirla in modo assai rozzo: molto spesso, un maschio consapevole dell’esistenza e della pesantezza di tale “questione”, è perdente due volte.
E’ perdente perchè si percepisce minoritario, privo di punti di riferimento e di strumenti utili per elaborare e ridefinire la propria natura biologica e relazionale. Tutto, intorno a sè, parla un’altra “lingua”. Si diventa afasici.
L’afasia produce ripiegamento, perdita di protagonismo.
Al massimo si sostanzia in una richiesta disperata di aiuto al “femminile”. Salvami.
Qui subentra il secondo aspetto perdente. Le donne di te, te messo così, non sanno cosa farsene. Ulteriore ripiegamento, naufragio delle relazioni, caduta della loro qualità. Si è pesanti, impacciati, indecisi a tutto.
Quante volte ascoltiamo donne evolute, in gamba, dinamiche, dichiarare di preferire uomini stupidi, o mezzi trogloditi, perchè almeno “so chi ho di fronte, so cosa posso prendermi”?
E, si badi bene, hanno ragione da vendere.
Mancano le parole per dire tutto questo. Mancano per farlo in maniera positiva, non devastata dal senso di colpa. Per indicare il superamento possibile, le soluzioni. Prima di tutto per se stessi.
Si vive questa condizione da soli. E si rimane soli.
E invece di essere parte della soluzione, continui a essere il problema.
L.
@ Simone
beh, il mio problema coi talent e coi reality è la dinamica sociale che impongono come modello: la dinamica votare-eliminare-espellere.
Quegli show, in buona sostanza, ti dicono che il modo giusto di comportarti è individuare chi non si conforma, chi è inadeguato alla socializzazione (che in realtà è competizione improntata al darwinismo sociale, fatta di ipocrisie e pugnalate/infamate alle spalle), e dopo averlo individuato additarlo insieme ad altri, metterlo alla gogna e infine sbatterlo fuori dalla comunità.
@ Wu Ming 1: mmh vero per i reality forse (da vedere però se impongano un modello: c’è una dinamica di gioco ben evidente; detto questo nei reality spesso sono molto forti i soggetti inadeguati alla socializzazione: basta vedere il vincitore del grande fratello dello scorso anno e tempo fa il tipo che ha vinto l’Isola dei famosi stando da solo su un’isoletta a parte), ma per i talent mi pare che le dinamiche siano diverse. Nei talent c’è comunque un lavoro su performances in cui si valutano qualità e personalità. A me musicalmente non interessa Giusy Ferreri, preferisco Lady Gaga (che fu ospite a X factor), ma non mi fa problema. Ci sono molte cose che possono non piacere nei talent, ma restando al nostro discorso sulla donna non trovo qui tracce evidenti di pensiero unico. Davvero: ad una analisi attenta restano alcuni programmi atroci, ma c’è molto altro. In sintesi per me anche la tv italiana non è tutta da buttare.
@ Simone
non mi concentrerei su chi vince alla fine, dato che può anche vincere un “anormale” proprio perché è tale (Luxuria sull’Isola: al pubblico piace vedersi proporre i “diversi”, purché incorniciati come freak e resi caricature viventi), ma su quel che avviene a ogni puntata e durante la settimana: pressanti inviti a escludere e sbattere fuori. La “nomination” di chi ti è antipatico. I miei amici che insegnano a scuola mi dicono che questa dinamica tende a ripercuotersi nel quotidiano con effetti devastanti.
Pensare che nei talent si giudichi davvero la qualità della performance è come pensare che le elezioni sono un momento in cui cittadini perfettamente informati sui programmi votano in base al loro interesse razionale :-) Anche nei talent si va per simpatia e antipatia, anche lì sono continui (benché leggermente più sfumati) gli inviti a discriminare, escludere, allontanare.
La tv non è tutta da buttare, certo. Sperimentazioni intelligenti (e quindi osteggiate) ci sono. Ma non è quel che passa di prammatica il convento, diciamo così.
@ Wu Ming 1: certo che le dinamiche sono complesse, ma lo sono sempre anche nell’editoria anche altrove, però le qualità di interperte e canore nei talent contano. Se non hai qualità vocali nemmeno entri. Giusy Ferreri ne è una dimostrazione: non ha vinto perché è carina, ma perché ha delle indubbie capacità. Lo stesso si potrebbe dire per una come la Amoroso di Amici: musicalmente potrà far inorridire, ma ha vinto perché in quell’anno aveva capacità interptretative e vocali superiori agli altri: non perché fosse carina o ochetta o altro. Ergo restando al nostro tema della donna (altrimenti non ne veniamo a capo) qui la donna non ne esce certo male. E i talent ribadisco hanno un peso enorme nella tv.
@Wu Ming 1 e Simone Regazzoni: parlavate di serie americane e del fatto che contengano modelli femminili d’emancipazione. Potete farmi un esempio? Io seguo un po’ di serie, ma di modelli del genere non ne ho trovato traccia, se non in telefilm comunque di nicchia tipo Treme o in ruoli del tutto secondari.
Per riagganciarmi al resto del discorso: trovo fondamentale confrontarsi sulle proprie esperienze, cercare di mettere in parole il disagio e la frustrazione di doversi adattare a modelli di genere che sono in ogni caso repressivi dell’individuo. Ho una grande fiducia nelle capacità empatiche dell’essere umano e proprio per questo rimango sconvolta quando tali capacità svaniscono sotto una coltre di pregiudizi, sessismo, razzismo ed ogni altro ismo che ci impedisce di riconoscerci nell’altro.
Per esempio: a quale donna non è capitato di camminare di notte in una strada dove c’è poco passaggio, incrociare un gruppo di uomini che si voltano tutti insieme a guardarti e a commentarti, ben consapevoli – ma forse no, ditemelo voi – che così facendo ti stanno terrorizzando? Cos’è che fa sì che non riescano a mettersi nei tuoi panni?
Il discorso di fusibile era interessante e la sua frase “solo voi in definitiva avete il potere di “renderci uomini”, e per questo cerchiamo di dominarvi e controllarvi.” io la interpreto in modo diverso rispetto a chi ha parlato di una richiesta di aiuto alle donne. A me pare parlasse del fatto che l’identità di genere (come qualunque identità: razziale, nazionale ecc) si sviluppa per opposizione ed è quindi inscindibilmente legata al comportamento dell’altro. Se le donne sono deboli gli uomini sono forti (e quindi uomini). Se la donna è diversa, che succede?
“per favore non attribuiamo alle donne cose tipo cortesia pietà delicatezza, come se per natura noi fossimo dotate di una sorta di capacità psichedelica di essere pietose e delicate, e perchè mai, poi.”
@ Paola Signorino
E invece io penso che queste siano qualità prettamente femminili, di cui il nostro mondo avrebbe molto bisogno. Qualità che si trovano anche in certi uomini e che non si trovano affatto in certe donne, ma questo è un altro discorso.
Gli uomini e le donne non sono uguali, è la nostra società che omologa ogni cosa per mettere poi tutto in vendita.
Io sono convinto che la donna sia potenzialmente foriera di una “alterità” rispetto ai modelli e ai valori dominanti oggi. Perché? Forse perché la donna è potenzialmente creatrice di vita mentre questo mondo è fondato sul dominio di ciò che è morto (il capitale) su ciò che è vivo (gli uomini e le donne).
E’ una alterità dai risvolti rivoluzionari, che abbinata al coraggio dell’impegno a lungo termine contro il sistema e i suoi demoni, potrebbe cambiare un po’ le cose.
@ Adrianaaa
io parlavo in via ipotetica, era implicito un “anche se”, vale a dire: anche se ci fossero serie che presentano personaggi femminili non stereotipati, non è comunque quello che passa di default il convento italiano.
Mi hanno parlato molto bene di “Weeds”:
http://it.wikipedia.org/wiki/Weeds
Mio fratello è un grande fan di questa serie. Ma non ho sentito opinioni di amiche o colleghe o comunque donne che l’abbiano vista.
incredibile!
stavo giusto copianincollando la pagina wikipedia di weeds.
io ne ho visti pochi di episodi, perché lo facevano all’una e passa su raidue. poi l’hanno spostato sul digitale terrestre perchè pare che istighi alla produzione casereccia de erba.
Appunto! Il “convento” mette la roba buona all’una e passa di notte, e se non basta a renderla invisibile, la sposta su canali di nicchia :-)
@Wu Ming 1: Ok, scusa non avevo capito il discorso :)
Metto subito in download qualche puntata di questa serie, che sembra molto adatta alle tarde serate bolognesi…
@ Adrianaaa: una premessa, perché altrimenti rischiamo davvero di non capirci. Siamo molto distanti, per sensibilità e idee, io e te. Io, ad esempio, sono uno di quelli che rischia lo svenimento quando legge cose tipo “solo voi donne potete renderci uomini”, o cose simili. L’idea molto politicamente corretta dell’uomo che si confessa colpevole di ogni male davanti alla donna chiedendole “aiutami tu”, mi fa rabbrividire. E credo aiuti davvero poco una reale battaglia per l’emancipazione delle donne: non ci se la cava così facilmente. Inoltre: ci tengo a una certa idea di “virilità” (ora qualcuno inorridirà) buona, al non rinunciare al proprio desiderio, e credo che i grossi problemi nascano proprio quando gli uomini non riescono a venirne a capo: perché inadeguati, spiazzati di fronte a donne oggi, per fortuna, più forti. Quando dicevo: evitiamo auto-castrazioni ero serio. Aggiungo (e sono d’accordo con Paola): evitiamo stereotipi vecchi della donna cortese, delicata ecc. per natura.
Chiarito questo, ti dirò che la pluralità di figure di donna che le serie tv esprimono è tale che non ne cancellerei proprio nessuna: dalle donne di “Lost” a quelle di “Dr. House”, passando per una figura che amo molto Olivia Dunham di “Fringe” fino ad arrivare (ma davvero non è il mio genere) alle donne che spaventano tanto Antonio Scurati: quelle di Sex and the City. Sia chiaro: a me interessa, qui, la pluralità di caratteri narrativamente ben costruiti, non l’archetipo di donna emancipata che vorrei vedere in tutti i film. Altrimenti si finisce poi a dire che ci sono modi più o meno giusti nella fiction di descrivere le donne o le scene di sesso! Lo troverei solo pericoloso. Per capirci ed essere chiari: della contro-narrazione al modello unico per me può far parte anche Sasha Grey, attrice porno molto brava. Escluderla sarebbe invece pericoloso. Ciò che non amo per nulla invece è una tv piena di donne “grechine” come le ha ben definite la Zanardo: puro contorno di fette di culo e tette in vista a maschi o altre donne che dicono cose idiote. Perché anche qui il problema non è il centimetro in più o in meno di pelle, ma la cornice. Ora questo tipo di tramissioni esistono in particolare in Italia. Ma non sono il tutto. C’è dell’altro.
@ Wu Ming 1: “io parlavo in via ipotetica, era implicito un “anche se”, vale a dire: anche se ci fossero serie che presentano personaggi femminili non stereotipati, non è comunque quello che passa di default il convento italiano”. Secondo te i personaggi femminili di “Lost” (prima serata) partecipano del modello egemonico di donna? O sono stereotipati?
Sul discorso genitoriale. Scusate se userò tante parole.
Io ho 26 anni, non sono padre, qualche volta inizio a pensarci…
Ho però un fratello più giovane, 11 anni meno di me, praticamente due figli unici (nei tempi e negli spazi) cresciuti nella stessa casa.
Dopo l’università sono tornato alla “casa dei padri” causa opportunità lavorativa e, forse per la prima volta, ho coabitato con mio fratello.
Con esiti terribili.
Una violenza fisica quasi primordiale (Io odio mio fratello) si mischiava a quelle che qui qualcuno chiamava “narrazione tossiche” (ricatto morale, violenza verbale, sistematica violazione della soggettività).
Perchè mio fratello è “integrato”. “Sta dentro” e sta bene. E’ bravo a scuola, pieno di amici di tutti i tipi, ha le prime esperienze amorose, non legge MAI, fa pattinaggio artistico. Non c’ha le pare e ben poche domande. E poi, cazzo, a mio fratello piace ballare e lo fa, così, quando vuole. Io che per fare solo la mossa del giaguaro devo avere in corpo almeno un vigneto.
Insomma, io mi avvitavo in questo vortice invidia-disprezzo-sensi di colpa, senza capire, riuscire almeno a capire come facesse ad essere così merda. E io, poi, avrei potuto mai essere come lui?
Poi varie cose succedono, cambio casa e comincio una convivenza con la mia compagna.
Mio fratello non c’è più, viviamo a 100 m ma ci vediamo comunque molto poco.
Poi comincia a diventare un ospite di casa nostro, istituzionalizziamo una serata settimanale di “finto babysitting”. Vedo come la mia compagna si relaziona con lui, lo spazio che riesce a dare all’ascolto e alla complicità. Sto in silenzio, rodo dentro e imparo, piano piano. Rialaboriamo assieme la relazione, senza dirci nulla, con lunghi silenzi, fianco a fianco, in macchina o al cinema a vedere il 3d (vi immaginate Godard in 3d?).
Scopro in poco tempo che mio fratello è una “persona resistente”, che in mezzo a tanta omologazione di superficie c’è moltissimo altro, piccoli atti quotidiani che in provincia di Udine equivalgono hanno un rischio-stigma altissimo. Ragazzi, mio fratello balla, ogni tanto, così, per strada.
I libri ancora non li legge, non so se lo farà mai, ma assieme ridiamo di questo, del fatto che io non faccia altro e, ogni tanto, mi chiede di raccontargliene uno.
Insomma, le narrazioni, a volte, esistono già dentro gli altri, solo che noi non riusciamo a vederle, perchè non sono le nostre, non hanno le nostre parole o i nostri modi. L’ascolto, la conoscenza di chi ci sta vicino (non di tutto il mondo) penso possa aiutare alla costruzione di una dissidenza dal modello unico (passatemi la generalizzazione) senza l’imposizione di una ambiente da guerra a bassa intensità e senza quell’odio-disadattamento che lentamente brucia la proattività.
Non so se possa essere una risposta alla domanda sulla genitorialità, più che “protezione” io parlerei di “presenza” per come c’è bisogno e richiesta di noi, capacità di assistere, di resistere a quello che di impositivo c’è fuori come all’imposizione che veicoliamo noi, farsi da parte quando serve, lasciar sbagliare, ma mai abbandonare.
Adesso io e mio fratello ci vediamo poco, viviamo di nuovo lontani. Quando ritorno, andiamo ancora a cinema, c’è il nuovo 3d.
Non ho ancora avuto il coraggio di chiedergli di insegnarmi a ballare.
Ma anche fosse come dici tu, Simone, cosa mi cambia? Se si parla di *andazzo largamente prevalente* nella TV generalista e delle *rappresentazioni egemoni* che in tale andazzo si esprimono e rafforzano (dell’ideologia che tale andazzo esprime), non capisco a che pro dire: “Ma non è così al 100%! E’ così solo all’89%!” Ok, sono contento che esista l’altro 11%, ma siccome sto facendo la critica del modello *dominante*, l’obiezione non è pertinente. E’ come se, a fronte di un discorso sul problema del razzismo, tu mi obiettassi continuamente: “Ma ci sono anche i non- razzisti!”. Grazie al Fallo (alato), lo so anch’io!
E va detto che, con ogni probabilità, con quelle ipotetiche percentuali sono stato moooolto generoso. Esercizio:
1. Calcolare il numero di ore di palinsesto occupato da “Lost” (serie peraltro già passata e andata), programma trasmesso una sera alla settimana su una rete.
2. Calcolare il numero di ore occupate da merda sessista tutti i giorni a qualunque ora su svariati canali della TV pubblica e privata.
Ehi, bello e spiazzante il commento di Lorenzo! Grazie!
@ Wu Ming 1: è essenziale capire come si struttura in termini di rapporti di forza un discorso egemonico quando lo si combatte. Ergo, le questioni di mappatura televisiva sono essenziali. Togli allo spazio egemone le serie tv (e sono tante, puoi verificare); togli i talent (oppure qualcuno che li guarda mi dimostri che sono sessisti); hai già comunque un’immagine meno stereotipata della tv.
Che si debba “mappare” l’egemonia di un immaginario non lo mette in discussione nessuno, anzi, mi sembra che stiamo cercando di farlo. Ma nel tuo discorso individuo almeno due punti deboli:
1) non distingui adeguatamente tra TV generalista – che in Italia è ancora dominante – e TV di nicchia. Molte delle serie più innovative (anche dando per buona la tua lettura dei personaggi femminili che le popolano) vanno in onda a orari “non nazional-popolari” o addirittura solo su canali tematici. Pensa a un gioiellino come “Boris”, che è un cult presso tutti i miei amici e conoscenti, ma è ignoto alla grande massa dei telespettatori.
2) Nei talent show continuo a non vedere le virtù che tu ci trovi, anche perché mi sembra arduo distinguere tra “talent” e “reality” quando ogni talent è anche un reality e ogni reality ha caratteristiche “talent” e si basa comunque su performances (quantomeno, uno deve provare che ha “talento” nel fottere gli altri e al contempo ingraziarsi il pubblico).
@Simone Regazzoni: anch’io inorridisco di fronte a discorsi del genere, infatti l’avevo capita diversamente, ma evidentemente sbagliando.
Invece qualcosa del discorso sulle serie tv l’avevo azzeccato: secondo me è un problema che i personaggi femminili siano nella stragrande maggioranza dei casi costruiti perché appaghino un punto di vista maschile. Per te può non esserlo, evidentemente. Per me questo significa che sono stereotipati.
Prendiamo Lost:
-Kate è una bomba sexy dal passato misterioso, che oscilla tra due uomini senza mai mostrare un barlume di desiderio per nessuno dei due (mentre il desiderio di Sawyer per lei, ad esempio, è esplicito e capace di creare empatia nello spettatore)
– Claire è una specie di Madonnina che agisce solo in funzione del bimbo che ha in pancia su cui, per gran parte delle prime serie, c’è una specie di attesa messianica
– Rose è la mama nera, buona e devota (stereotipo razziale oltre che di genere)
– Ana-Lucia è la donna maschio, portatrice di una sensualità animalesca che normalmente viene attribuita agli uomini, ma che tutto sommato attizza
– Shannon, ne vogliamo parlare?
– Sun è la mogliettina orientale, quindi gnocca, remissiva e in più collegata all’idea del giardino, che lei stessa coltiva
– La dottoressa bionda (di cui non mi ricordo il nome) è un personaggio inserito nella trama perché renda conto della mancanza di fertilità sull’isola (poi la sua funzione cambia ma non diventa mai particolarmente sensata)
– Penny è la salvezza, un personaggio che rimane quasi solo evocato
Alcuni di questi personaggi muoiono durante la serie e la loro morte non ha mai una scopo, spariscono e basta. Mentre per gli uomini c’è sempre un riscatto finale, una morte eroica che ha una funzione precisa nella storia, per le donne non è così. Scompaiono, semplicemente, al massimo la loro presenza viene successivamente avvertita perché vengono compiante dal loro innamorato.
Tutti i personaggi maschili minimamente rilevanti, anche quelli secondari, vengono invece affrontati in modo nettamente diverso, sono più complessi e hanno un fondo universale che alle donne manca (come viene giustamente detto nell’ultimo post di questo sito). La loro presenza o la loro sparizione hanno sempre uno scopo preciso, mentre le donne sono solo comprimarie, raramente partecipi della meccanica della trama.
@lorenzo: sì, davvero bello il tuo commento.
Se passa di qua un regista furbo, ci fa sopra un film senza chiederti i diritti…
Per non parlare delle interruzioni pubblicitarie che nella TV generalista rendono anche i programmi più innovativi delle Cisgiordanie dell’etere, smembrati in isole obbligate a una relativa autonomia di senso, tra spot e zapping selvaggio.
“La fotografia, nella fiction, non deve mai essere più bella della fotografia degli spot altrimenti si rischia che durante le interruzioni qualcuno cambi canale! Smarmelliamo!” (Mitico Boris)
Titolo possibile:
“Io ballo da solo con mio fratello figlio unico”
Titolo possibile:
“Io ballo da solo con mio fratello figlio unico”
Geniale!
Ecco, in Boris i personaggi femminili hanno un senso!
@ Adrianaaa: grazie per chiarimento su Lost. Non sono d’accordo, per nulla, è chiaro. Ma sarebbe credo inutile se io adesso controbattessi su tutti i personaggi. A partire da Shannon: personaggio bello, e non perché la biondina è carina, ma perché rompe proprio con quello stereotipo mentre ci gioca. Diciamo che per me tu stai riducendo a stereotipi personaggi molto più complessi.
@ Wu Ming 1: ok, dai lasciamo cadere non mi pare una roba vitale. Ma sui talent ti trovo poco preparato… non si può guardare solo la roba figa di nicchia. Troppo facile:-)
@ Simone Regazzoni
Una sola volta ho guardato un paio di puntate di un talent show, per curiosità. Mi pare fosse “Amici”. La cosa che più mi ha colpito è proprio il modello relazionale che viene proposto: competizione nell’arena e giudizio pubblico. Mettere in mostra il talento (che in certi casi mi pareva reale) e se stessi (un sacco di domande personali, interviste, pacche sulle spalle, lisciate e coccole) per farsi votare dal pubblico all’insegna di un triste ma necessario mors tua vita mea. Amici, amici, sì, compagni d’esperienza, ma alla resa dei conti costretti a essere competitors sul mercato dell’approvazione/successo popolare.
E’ un modello relazionale molto realistico e contemporaneo, pienamente immerso nello spirito dei tempi.
Io continuo a preferire un modello sinceramente cooperativo.
Beh, la mia compagna ha una perversione: guardare “X Factor”. A me fa cagare (nonostante Elio) e cerco di evitarlo, ma non posso dire di non conoscerlo, dato che mi riempie la casa. Lo conosco, e mi fa cagare. Il televoto mi fa *sempre* cagare, a prescindere, perché è un meccanismo di “consultazione per acclamazione”, plebiscitario e dall’esito in realtà inverificabile (si va sulla fiducia, zero glasnost), in cui una massa deve esprimersi su opzioni prestabilite, decidendo chi va avanti e chi no.
Certo, mi si dirà che sono solo canzonette, ma quel che avviene sul piano simbolico è importante. In un talent show c’è sempre un paio di “caselle vuote” di volta in volta occupate, rispettivamente:
– dal “preso di mira” (quello offerto allo sbertucciamento da parte del pubblico in un milione di conversazioni parallele durante la puntata, a casa o in rete: vedasi Nevruz);
– da “quello che non può non essere raccomandato ma tanto è così che funziona dappertutto” (di solito è “uno della Maionchi”, vedasi Stefano il balbuziente, che è stonato ma deve andare avanti lo stesso perché un superficiale sospetto sui meccanismi è parte della narrazione emotiva richiesta dal format);
Non occorre essere Propp o Lévi-Strauss per capire cosa stia avvenendo a livello di schemi e strutture, come non occorre essere Lakoff per capire quali siano i frame concettuali attivati da questi programmi… Ogni sera il pubblico esce rafforzato nella sua adesione (in larga parte inconsapevole) allo status quo: competizione, qualunquismo, plebiscito, è tutto un magna magna ma che bello spettacolo. Ricorda qualcosa?
@ Wu Ming 4: preciso che quando ho tirato in ballo i talent era sempre per la questione della donna. Su questo occorre dire che anche ad Amici, dove la tv potrebbe davvero giocare al ribasso con le giovani donne aspiranti artiste, non lavora mai sul registro del velinismo o dell’ochetta che vuole fare tv perché carina. E questo mi piace. Si lavora sul talento (spesso reale), sulla capacità di studiare, su una certa disciplina (questo emerge in particolare nella danza). E’ una competizione, con delle regole e un vincitore. Quindi è indubbio che ciascuno aspiri a vincere. Però sappiamo bene che una competizione con delle regole e che premia comunque qualcosa legato a un talento reale (non la furbizia o altro) non è in sé qualcosa di negativo. Tutti i vincitori e le vincitrici delle varie edizioni, in ogni caso, hanno vinto perché avevano un talento evidente. C’è una giuria popolare alla fine: vero. Ma ci sono anche professori, critici musicali esterni, discografici: ci si confronta con giudizi articolati. Alcune volte si è ecceduto nella spettacolarizzazione di dinamiche conflittuali interne al gruppo. Ma nel complesso non trovo sia male. Lo stesso vale per X-factor.
A Wu Ming 1: a me X-factor diverte molto, secondo me esageri un pizzico in apocalitticità. E poi, diamine, c’è Elio: non è mica Morgan!
Ah, che diverta non lo metto in dubbio. Anche Berlusconi, in fondo, è uno spasso :-D
Cmq, anche la mia compagna lo guarda perché c’è Elio.
:-/
La faccina era per Berlusconi
Donna saggia, la tua compagna.
@Simone Regazzoni: capisco che sia un discorso lungo e noioso, ma davvero non capisco dove sia la profondità di certi personaggi. Prendi Shannon: biondina, viziata, mangiamaschi che alla fine si innamora. Dov’è che non sta lo stereotipo? Se poi proviamo a mettere fianco a fianco la sua fine con quella di suo fratello il confronto è impietoso: due puntate intere (se non sbaglio) sulla morte del fratellino (non certo un personaggio particolarmente importante), con tutto un corollario di personaggi fondamentali e di vicende che gli si stringe attorno, Jack che lo veglia per giorni trasfondendogli il suo sangue attraverso la spina di un riccio di mare, Sun che lo cura con le erbe, Lock che impazzisce. Alla sua morte è legata la scoperta dell’esistenza di altri sopravvissuti, per esempio, e il disvelamento di gran parte della storia di Lock…
Shannon, invece, sparisce in un battibaleno. Viene uccisa per sbaglio da Ana-Lucia e l’unica cosa che ne rimane è, appunto, il dolore dell’innamorato Sayid, che comunque sparisce nel giro di un paio di episodi. Mi piaceva il suo personaggio, vi intravvedevo un potenziale di complessità, ma viene troncato. Gli autori hanno compiuto quella scelta e io non ho saputo spiegarmela se non vedendola come una dimostrazione della loro indifferenza verso lo sviluppo dei personaggi femminili.
@Simone R.
Sui talent sono piuttosto preparato: è un genere che a mia moglie interessa, e mi sciroppo spesso pure Amici. Contesto la tua affermazione: “occorre dire che […] ad Amici, si lavora sul talento (spesso reale), sulla capacità di studiare, su una certa disciplina (questo emerge in particolare nella danza).”
Primo, perché mi pare che si lavori molto anche sui sentimenti, sulle lacrimucce, sulle letterine della mamma e altre robe che col talento non hanno nulla a che vedere.
Secondo, perché si lavora molto sulla furbizia, invece, sulle strategie di gruppo: non che sia un male in sé, ma che c’entra col talento nello specifico?
Terzo, non è vero che chi ha vinto avesse sempre un reale talento (Ivan, do you remember? Era un cazzone, punto e basta). E cmq i ballerini (più “disciplinati”) non vincono quasi mai.
Quarto, solo da poco (es: Pierdavide) il programma si è aperto a un talento anche creativo. Prima si stimolavano i ragazzi ad essere soprattutto esecutori, ovvero il contrario del talento giovanile che (per fortuna) va per la maggiore: mettiamo su un gruppo, ma non facciamo cover, che palle, facciamo roba nostra.
Quinto: le ballerine che vanno avanti sono sempre e solo belle ragazze. Ricordo la Celentano andare giù piuttosto pesante con una tipa sovrappeso (mi pare si chiamasse Roberta), presto eliminata, per via del suo aspetto “non da ballerina”. In UK si sono viste vincitrici di talent anche molto difformi rispetto al modello unico. Qui in Italia non mi pare.
Piccolo OT: sembra che Nichi Vendola legga queste pagine ma non si palesi… ;-)
http://uomoinpolvere.tumblr.com/post/1618618398/nichi-vendola
Mi chiedo se non si stia avvicinando a grandi passi l’ora di lasciar perdere questo thread, per riprendere la discussione al prossimo post utile. Ormai sono cinque schermate da 100 commenti l’una, una cosa quasi impercorribile, e la direzione che ha preso ora il dibattito non può dirsi esattamente OT, perché è chiaro che c’entra, ma è innegabile che le digressioni su aspetti molto specifici siano destinate a moltiplicarsi, e già adesso si fatica a “tenere tutto”. Almeno, io fatico.
annamo bene! Regazzoni lost in pornation, i wu ming ( 4 & 5, almeno voi tenete alta la reputazione ) che fra un po’ se scopre che televotano pure, dove andremo a finire.
Io trovo veramente terribile Giacomo quando afferma che una donna manager diventa “uomo”..allora forse un uomo che fa l’infermiere “diventa donna”???
Ci vedo una certa idealizzazione della figura femminile che trovo pericolosa come pericolosa è ogni idealizzazione.
Sulle fiction condivido il discorso di Regazzoni, anch’io seguo molte serie americane ed europee, e davvero non trovo stereotipi di genere degradanti.
@ Wu Ming 2:
Mi obietti che non si lavora solo sul talento ma anche su altro. E’ vero, ma direi che il talento resta l’elemento centrale e che fa la differenza. Ora: se il talento non facesse la differenza non lo troverei interessante. Ma alla fine è quello che conta, mi pare.
Esempi: Leon, Giulia Ottonello, Antonino Spadaccino, Amoroso, Carta, Marrone (un po’ meno, ma sempre talentuosa): questi hanno tutti vinto. Meritatamente o no? Sicuramente hanno vinto avendo del talento, non per altro. E’ vero che il pubblico tende a privilegiare i cantanti. Ma tra di essi emergono i migliori. Lo scorso anno Pierdavide era davvero un cantautore interessante: non ha vinto, però era in finale (terzo) e ha avuto un contratto discografico. C’è stato il caso di Ivan: mea culpa, avevo rimosso. Ma per il resto vince il talento o le strategie furbe? Il punto mi sembra questo. E io direi che vince il talento. Mi sembra difficile sostenere una tesi diversa.
Per le ballerine non concordo sulla questione della bellezza come discriminante. La Celentano ha i suoi criteri molto rigidi: non mi pare però che cacci sulla base di criteri estetici estrinseci, bensì sulla base del suo fantasma di perfezione fisica del ballerino classico.
Scusate: forse Amici un po’ OT lo è…
@ eFFe
In un primo momento è quello che ho pensato anche io. Sembra un riassunto sempliciotto della discussione, di quelli che faccio io… Vendola se ci sei contatta i Wu Ming e fatti fare la campagna elettorale!
Scherzi a parte, non credo che sia così. Le somiglianze sono solo superficiali, il discorso mi sembra quello tipico vendoliano, non ha raggiunto neanche una delle profondità dell’analisi dei Wu Ming. Purtroppo non credo che abbia letto queste pagine.
“Io trovo veramente terribile Giacomo quando afferma che una donna manager diventa “uomo”..allora forse un uomo che fa l’infermiere “diventa donna”???”
@paolo1984
Il mestiere del manager dovrebbe scomparire. Come il mestiere di soldato. Nella mia società ideale – mi piace idealizzare – non ci sono né manager né soldati.
Le infermiere sì. Anche gli infermieri.
Se le donne diventano manager, soldati e politicanti, non è una gran conquista.
Vorrei farvi un paio di domande ma non mi attendo una risposta qui, semmai se lo riterrete utile nel prossimo post in tema.
Quanto pensate che abbia contato la presenza storica della Chiesa Cattolica nella formazione del “potere pappone” in Italia? I retaggi della morale cattolica hanno alimentato dialetticamente secondo voi questo particolare sviluppo del capitalismo? A volte mi sembra che Berlusconi e in un certo senso anche il berlusconismo più spinto che vediamo in questo (si spera) ultimo tempo siano maturati fino ad esplodere come una “gigante rossa” anche perché si è esaurito questo “carburante”: una volta “emancipati” (fintamente e tossicamente, s’intende) dalla Chiesa grazie anche a Berlusconi (e più in generale al consumismo), si avverte maggiormente la faccia totalizzante e schiavizzante del consumismo, dell’imperativo “Godi!” che forse sarebbe rimasta più nascosta se avesse dovuto continuare a scontrarsi contro gli imperativi cattolici.
La Chiesa passerà prima o poi “all’opposizione” come invocava Pasolini quarant’anni fa? E’ altrimenti destinata a morire lentamente?
X Giacomo
Ma pure nella mia di società ideale dovrebbero scomparire queste figure o comunque avrebbero funzioni completamente diverse. Ma non ritengo giusto negare ad una persona l’appartenenza al suo genere solo perchè fa un lavoro che non ci piace.
X uomoinpolvere
Ma a me sembra che la Chiesa Cattolica, nelle sue alte sfere, e fatte tutte le eccezioni, alla resa dei conti si sia rivelata in questi anni, oggettivamente alleata di Berlusconi e del centro-destra nonostante critichino fortemente il razzismo leghista e dicano tante belle cose sui poveri e sugli emarginati (ma i teologi della liberazione dicevano cose ben più incisive, mi pare, e sono stati tacitati), quando ci sono le elezioni sappiamo quali sono i temi che interessano al Vaticano e su quei temi Berlusconi è sempre stato una garanzia per cui si può passare sopra a festini escort e bestemmie.
Comunque la Chiesa non può passare “all’opposizione”, salvo le posizioni coraggiose di alcuni suoi singoli esponenti, (“preti di strada” come Don Gallo, ma anche personalità come il cardinal Martini) perchè dovrebbe rivoluzionarsi in maniera molto più profonda di quanto abbia fatto col Vaticano II, dovrebbe cambiare se stessa come forse nella Storia non ha mai fatto, non spontaneamente almeno.
Ovviamente parlo dell’istituzione Chiesa, non dei preti di strada. Che la Chiesa stia con il capitalismo, e quindi con il consumismo e il berlusconismo, mi sembra fuor di dubbio. Io ponevo un altro problema (che è lo stesso che poneva l’ultimo Pasolini): è in grado di continuare la dialettica tossica insieme ad esso senza lentamente soccombere ad esso? In parole povere: gli conviene veramente continuare solo sulla strada dei divieti, dell’oscurantismo? Perché non ha fatto altro da un bel po’. Il criminale precedente ha dato una bella mano ad abbattere il comunismo, ma facendolo ha affermato anche valori “positivi”; nell’ultima fase del suo pontificato ha poi trovato una parte recitando un pacifismo quasi convincente. Quello attuale invece non fa che negare e la Chiesa in generale sembra non avere più vere “missioni”, grandi battaglie contro nemici dai contorni netti, e la sua disumanità viene sempre più fuori.
Che non voglia passare all’opposizione anche mi sembra un dato di fatto. Però nemmeno vedo molte altre strade per la sua sopravvivenza (a lungo termine). Per carità, non ne sentirei la mancanza!
“Mi hanno parlato molto bene di “Weeds”:
http://it.wikipedia.org/wiki/Weeds
Mio fratello è un grande fan di questa serie. Ma non ho sentito opinioni di amiche o colleghe o comunque donne che l’abbiano vista.” (Wu Ming 1)
La serie Weeds è davvero splendida, a cominciare dalla sigla iniziale. Sono riuscita a vedere solo i primi 2 cicli di episodi (dovrò recuperare gli ultimi in rete) per via del palinsesto ballerino. Per mesi la Rai ha continuato a spostare orari (notturni) e giorni di programmazione per poi passare all’eliminazione definitiva.
Venendo ad *Amici* e *Xfactor*, volevo solo dire che nel mio immaginario le First Ladies del collettivo, con una mano correggono i compiti di scuola ai pupi, con l’altra sfogliano i testi di Mao Zedong sulla *Guerra di lunga durata*. Non potete sgretolare le mie poche certezze con queste rivelazioni! ;-)
Suggerisco una cura d’urto a base di Weeds (in stile Arancia Meccanica) a Wu Ming 1 e 2 da somministrare alle rispettive compagne: non appena le vedete sintonizzarsi sul talent show di turno, ZACK!… le placcate, le legate ad una sedia e con un paio di puntate dell’ottimo serial americano rimediate ai guasti dell’orrida De Filippi.
Ma in fondo, se devo dirla tutta, un po’ (solo un po’, eh) ‘ste fidanzate le capisco…
P.S.
Questo thread si sta sfilacciando. Io faccio davvero fatica a starvi dietro.
“Questo thread si sta sfilacciando.”
Dirò di più: a me ha proprio rotto i maroni :-) Dura da 12 giorni. Sono quasi 500 commenti, di cui un’ottantina (!) solo di Regazzoni (vedere colonnino qui a fianco) :-O
Insomma, vogliamo passare oltre? Non “passare ad altri argomenti”, sia chiaro, ma usare altri post per spostare un po’ gli accenti.
Mi unisco al folto gruppo delle mie care amiche Maria Laura, Giulia Maria, Luigia Alberta e Piersilvia Tertullia, poi ce n’è un’altra di cui non ricordo il nome, nel chiedere, nell’implorare, nello scongiurare, strisciando ai suoi piedi, che può mettere sulla mia faccia, Simone Regazzoni: la rivalutazione di Amici no! Ti prego, no. Ti prego. No.
Lo so che c’era il gerarca nazista di grandi competenze musicali. E pure quello di straordinarie letture. E come dimenticare l’amorevole allevatore di canarini?
Maria De Filippi è il Ministro del fascismo televisivo, fa danni come il colera ad Haiti. Marlon Brando quando dice “l’orrore..l’orrore”, aveva appena finito di guardare una puntata di Uomini e Donne.
Il talento di Carta e Amoroso? A me sembra di sognare.
Lo dico subito, per prevenire obiezioni, non li voglio abolire, ognuno guardi quel cazzo che gli pare, ci mancherebbe.
Ma che persone serie ci mettano il marchio di qualità, che parlino di modelli positivi a me dice solo che non ci ripigliamo più.
L.
“Mi unisco al folto gruppo delle mie care amiche Maria Laura, Giulia Maria, Luigia Alberta e Piersilvia Tertullia, poi ce n’è un’altra di cui non ricordo il nome, nel chiedere, nell’implorare, nello scongiurare, strisciando ai suoi piedi, che può mettere sulla mia faccia, Simone Regazzoni: la rivalutazione di Amici no! Ti prego, no. Ti prego. No.”
;-)))
In effetti, questo è il mio record personale, più di 10 giorni a seguire lo stesso thread, più di 460 commenti, eppure sento che avrei ancora moltissime cose da dire, e per alcune di queste, a volte penso che ci vorrebbe un intero blog per discuterne.
Devo confessarlo, mi avete quasi fatto venire la voglia di aprire un blog (cosa che farei con sommo sprezzo del ridicolo).
Comunque è bene che sappiate, che semmai dovessi fare un tale gesto incolsulto, voi Wuminghi sareste da ritenere moralmente responsabili! :)
Grazie ancora. Alla prossima.
Da musicista devo necessariamente intervenire, anche se fuori tempo massimo, sulla marginalissima questione talento—>talent show, dove più di qualcuno ha asserito che si lavora su dei talenti “reali”: la smentita per quanto mi riguarda è obbligatoria è veemente, l’assenza di qualità (soprattutto per ciò che riguarda “Amici”, meno per “X-Factor”) è sconcertante, e la chiamata alle armi di discografici e giornalisti (rigorosamente di serie C) serve da giustificazione “etica” e da bollino di qualità (fintissima, posticcissima) che porta all’azzermento di visibilità della musica di qualità, producendo un discorso misticizzante, che a giudicare da quanto si scrive anche in questo blog, è efficacissimo: il discorso sarebbe lunghissimo, ma davvero, Pierdavide?!?!?!!
Voi ve lo immaginate il Teatro degli Orrori da Maria De Filippi?
E non avevo letto il commento di Luca, adesso l’ho fatto. E sono d’accordo con lui al 100%.
@Antonio: “più di qualcuno ha asserito che si lavora su dei talenti reali”. A me pare che l’unico a sostenerlo, in questo thread, sia stato il buon Regazzoni, sul quale subito sono volate mazzate ;-). Ma non entriamo in questa diatriba, sennò non se ne esce più, ti prego. Se una di queste sere ci sbronziamo, magari un post sui talent e su Amici finiamo per farlo. Meglio rimandare la discussione al giorno di San Spric.
Secondo me a X factor qualche vero talento si trova (Noemi, Nathalie, anche Giusy Ferreri non mi dispiace, ma la cover di Rino Gaetano poteva evitarla), su Amici non mi pronuncio perchè non lo seguo (condivido il giudizio di Luca sulla De Filippi), però ho ascoltato la Amoroso e secondo me ha una bella voce.
e ora menatemi pure…
Ribadisco tutto quello che ho scritto. Sunto in tre tesi per chi si indigna:
1. “Talent e immagine di donna”. Nei talent non ci troviamo di fronte a nessuna immagine degradata o degradante di donna. Ergo: non possono essere inseriti nel calderone del discorso critico sull’immagine televisiva della donna.
2. “Talent e reality”. Quali che siano le dinamiche di gruppo che vengono messe in scena nei talent, detti talent sono differenti rispetto ai reality per un dato *innegabile*: lavorano su un certo talento: vocale, interpretativo. Non si tratta di parlare di *artisti*. E nemmeno della qualità della musica che nasce dai talent. Ma di non disconoscere banalmente l’articolazione di un format: a X-factor come ad Amici chi arriva alle fasi finali ha certe qualità vocali e interpretative indubbie, ergo un certo talento. Chi si opponesse a questa tesi dovrebbe dimostrare che, ad esempio, Marco Mengoni, Giusy Ferreri, Alessandra Amoroso o Marco Carta non hanno indubbie qualità vocali. Il che non fa di loro degli artisti. Ma non stiamo parlando di questo. Stiamo tentando di analizzare fenomenologicamente un format. (L’indignazione meglio lasciarla a casa quando si fanno analisi). Più precisamente: non basta la personalità o una buona gestione delle dinamiche di gruppo, in un talent, per vincere. Da qui la *differenza specifica* del talent rispetto al reality. E secondo me il fatto che siano meglio dei reality. Se avete altre tesi, articolatele. Io sono sinceramente interessato a capire. Ma non parlatemi del vostro raffinato gusto musicale: vi assicuro che un po’ ne ho anch’io. Ma il punto non è questo.
3. Se ho tirato in ballo i talent è perché per me l’analisi della tv all’ingrosso (oggi c’è n’è molta a sinistra) si preclude la vera analisi critica perché, per timore anche di immagine intellettuale (oddio poi pensano mi piaccia Amici o che invece di leggere Lacan guardo X-Factor… basta vedere qui il tono delle reazioni per capire certi timori), preferisce gli esorcismi del tipo “la De Filippi è il fascismo” televisivo, “Ricci è il nazismo”, e cose simili. Roba che ci rassicura moltissimo, ma che secondo me dimostra che la tv ancora non la abbiamo studiata seriamente. Quindi siamo ben distanti dal poterne fare un’analisi critica. Basterebbe leggersi un po’ di testi che sono stati scritti sui talent per evitare certe cadute di stile d’analisi. Quello che gli apocalittici facevano ieri con video games e fumetti oggi lo facciamo noi con una certa tv. Non si tratta di farne l’elogio, ma di analizzare senza troppi pregiudizi ideologici. E di prendere magari atto che i talent non hanno nulla di così mostruoso.
E visto che ci tengo alla filologia, vi beccate non Lacan o Zizek, ma Alessandra Amoroso ad Amici agli inizi. E provate a dire che la voce non c’entra nulla… buona fortuna
http://www.youtube.com/watch?v=XFq6h6juCas
Ok sull’analisi critica eccetera, ok che dire la defilippi è il fascismo in tv non porta da nessuna parte. Ma asserire “la amoroso ha talento” è una bestemmia nei confronti di troppe persone , di troppa roba, così come è una bestiemmia per un giornalista musicale o un discografico legittimare un’operazione come “Amici”, commettendo un delitto gravissimo nei confronti del movimento musicale nel suo complesso: la legittimazione offerta dai quei personaggi che compongono quello che credo venga chiamata “la commissione esterna” rende la “proposta musicale” offerta dalla trasmissione un qualcosa che passa per “di qualità” , quando invece costiuisce la più incredibile omologazione mai vista in tv, dove “i classici”, “i mostri sacri” sono Morandi, la Pausini, Ramazzotti: si costituisce così una “galassia della qualità” che non ha nessun riscontro da nessuna parte, un mistificazione totale di ciò che è la musica di qualità, di ciò che è la musica in Italia.
Fare un discorso che legettimi un impostazione del genere è secondo me peggio che asserire “la defilippi è il fascismo…”, ancora di più se proviene da un intellettuale come Regazzoni.
Al video dell’Amoroso mi viene da dirti Luci della centrale elettrica, Teatro degli Orrori, Non voglio che Clara etc.. per non citare Afterhours, Marlene e compagnia bella…Ma la Amoroso no, proprio no, proprio no!
propongo ai wuming di istituire l’angolo del fuori tema o del cazzeggio a margine. Uno spazio in cui i partecipandi possano approfondire i propri dibattiti. Comunque è incredibile e bellissimo che due uomini grandi e grossi come Regazzoni e Ricciardi adesso possano disquisire “ma cos’è il talento?” e “chi può essere definito vero artista?”.
… e anche un cestino dei refusi. Poi magari ogni cambio di stagione cancellate pure i commenti tipo i miei; non tutti.
Io non sono grande e grosso!
@ Antonio: guarda che non diciamo cose diversissime. Quello che tu contrapponi alla Amoroso sono altri mondi. Appunto: artisti. Dire la Amoroso no no, che vuol dire? Restiamo al punto, proviamo a essere precisi nelle discussioni e nelle analisi: la Amoroso ne converrai anche tu: ha certe doti vocali e di interprete. Lo stesso possiamo dire (a un livello superiore) per Mengoni. Ergo il talent (io ero partito per sostenere questo e qui resto) non è come il reality. La sua specificità è appunto nel riconoscere un certo talento. Se non riconosciamo questo non riusciamo nemmeno a fare bene le analisi circa gli effetti dei talent sulla produzione musicale di qualità che giustamente tu evochi. Se non ricordo male i Marlene Kuntz, che pur non amano i talent, hanno dichiarato che se fossero invitati andrebbero a X Factor (spero di non dire una cosa sbagliata, ma credo di averlo letto).
Ho letto qualcosa di Lacan quindici anni fa. In TV guardo il calcio, e non disdegno altre porcherie, ho visto pure qualche puntata di X Factor (l’anno scorso e due anni fa).
La De Filippi è fascismo televisivo. Sì. Fascismo televisivo.
Fascismo televisivo.
Non ti voglio convincere, Simone, non ci penso nemmeno.
Fascismo televisivo. Analizza quello che ti pare.
L.
dedicato a slavoj žižek , direttamente dalle strade di trst ;-)
http://www.youtube.com/watch?v=BhX6Jp_wCxU
(con la speranza di incontrarlo prima o poi, insieme a lacan, in qualche ozmica della primorska)
@ luca: magari hai ragione tu e io sbaglio. Ma se vogliamo analizzare e criticare il potere di B. (sì, ormai la discussione si è sfilacciata e io davvero ho rotto le palle: ma siamo sempre sul tema) secondo me dobbiamo rinunciare a certe scorciatoie. Lo dico sinceramente: forse sbaglio. Ma la categoria di “fascismo” non ci aiuta a capire nulla del rapporto tra media, cultura di massa e potere politico in Italia oggi. Lo stesso vale per analisi della tv che non lavorino in modo puntuale e preciso sui “format”: non sulla “televisione” o sulle immagine estrapolate e montate di donne in 4 programmi tv. Il che però significa anche seguire cose come i talent. Guardarli bene, molto bene.
Sinceramente, io chiuderei il thread d’imperio, come avvenne a suo tempo con quello su Luttazzi. La discussione ha più che abbondantemente sbracato, i buoni spunti si son persi per strada e in questo contesto non li si ripiglia più. Questo non può diventare il bar sport e nemmeno il “Mai dire X Factor” del web. Finora siamo riusciti a mantenere una netta differenza tra Giap e il resto della blogosfera, evitando il cazzeggio fine a se stesso (cosa davvero non facile, visto che il dispositivo stesso sembra esigerlo). Io, personalmente, a mantenere questi paletti ci terrei.
Allora, si: d’accordissimo sul fatto che le categoria di “fascismo” non contribuisce ad una analisi che tenti di fronteggiare qualsiasi fenomeno, sia esso berlusconi o defilippi (legati fra di loro poi…). Per quel che riguarda la musica: vero quello che dici il talent non è il reality, ed è vero che il discorso parte da un “talento”: la mia annotazione è semplicemente questa, ossia che queste operazioni devastano il panorama e la cultura musicale, la devastano.
L’analisi andrebbe condotta, in maniera seria e puntigliosa, ma la sbornia di calcio domenicale (che ancora non ha toccato il suo culmine) mi impedisce di sviluppare qualsiasi tipo di osservazione decente.
@ Simone
“Restiamo al punto, proviamo a essere precisi nelle discussioni e nelle analisi”
Detto da quello che, quando ho espresso in modo piuttosto preciso cosa penso di X Factor e quali dinamiche io ravvisi in quel programma (le stesse che mantengono quest’andazzo generale: competizione sul mercato, plebiscito, critica “pre-inoculata”, determinazione del falso bersaglio), mi ha risposto:
“a me X-factor diverte molto, secondo me esageri un pizzico in apocalitticità.”
“Un pizzico”. E perché non “Un attimino”? Viva la precisione concettuale! :-/
Sentite, ci sono cascato anch’io e faccio mea culpa, ma questa digressione sui Talent Show non può portare a nulla di buono, è come la chiacchiera sul turno di campionato fatta il lunedì mattina, in cui ci si schiera a prescindere e son tutti allenatori (qui son tutti mass-mediologi). Ciascuno parla di quello che gli piace o non piace “nobilitando” il cazzeggio e giustificandolo in quanto analisi. Oltre al fatto che è in larga parte OT, e lo ribadisce la stessa gente che ne discute. Bona lé, per piacere.
@ Wu Ming 1: tu hai messo talent e reality sullo stesso piano. Peccando nell’analisi. Io ti ho semplicemente dimostrato che non è così. Se poi a te piace dire è chiacchiera da bar quando i conti non tornano, sei libero di farlo. Come anche di chiudere la discussione.
@ Simone,
tu non hai dimostrato poi molto, a dire il vero. Hai semplicemente detto che non è così perché non è così, nei talent conta il talento perché… conta il talento. Ammesso e non concesso che abbia la benché minima importanza (sai che me ne frega a me di sapere se Tizio canta bene oppure no?), la tautologia ripetuta a frullone non aiuta granché a individuarla.
Su quel che ho detto io a proposito del plebiscito, non hai proferito parola.
Idem sulla mia idea delle due “caselle vuote” sul piano simbolico, di volta in volta riempite da figure precise.
Io metto agli atti che:
– non me ne frega niente se tu guardi la De Filippi. Non ti considero a priori un coglione per questo… ma nemmeno accetto la pretesa che chi la guarda sia più “illuminato” e meno bacchettone/oscurantista degli altri. Con lo snobismo al contrario dei vari “Stracult” abbiamo già dato, è roba vecchia.
– non me ne frega niente se il bimbominkia che vince la tal puntata è l’usignolo del XXI secolo o il principe della stecca. Il punto mi sembra essere tutt’altro e ho spiegato qual è. Io guardo queste cose determinato a criticarne l’ideologia. Ideologia che avverto molto forte. Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Questi show non nascono in un vuoto pneumatico.
– il thread non ha più un focus, si va avanti di lunga divagazione in lunga divagazione. Visto che un commento su cinque è firmato da te, a chi devo rivolgerla, amichevolmente, la mozione d’ordine? A Kiara, che ha lasciato un commento solo?
Suvvìa, un po’ di autodisciplina.
“non me ne frega niente se il bimbominkia che vince la tal puntata è l’usignolo del XXI secolo o il principe della stecca. Il punto mi sembra essere tutt’altro”.
Il punto in realtà era questo: si trattava di determinare la differenza specifica del talent rispetto al reality. Differenza che hai negato.
Tu hai sostenuto che non c’era differenza perché il talento non contava. Riesci o no a dimostrarlo? Direi di no, perché restando al programma che anche tu guardi X-Factor nemmeno arrampicandoti sugli specchi potresti dire che quando ad esempio Mengoni vince non vince per talento ma per dinamiche da reality.
Ma com’è che non sei disposto nemmeno una volta ad ammettere che forse sì avevi detto un cosa “imprecisa”?
*Quasi tutto* quello che ho scritto in questo thread è grossolano e impreciso, perché sto cercando di mettere a fuoco le questioni. Da qui la scelta di “prendere appunti in pubblico”.
Ma sulla faccenda dei talent sbagli, e di grosso. Vai a rileggere: io ho nominato i talent per la prima volta di sfuggita, in un commento in qui cercavo di spiegarti che quando tu parli di “televisione” intendi una cosa, mentre altri usano il termine in un altro senso. In quel commento, facevo esempi di “generi” televisivi che prescindono dal flusso della programmazione quotidiana (come le serie) e altri che invece non possono prescinderne, che sono più *specificamente* “televisivi”. En passant, tra quegli esempi mettevo i talent, senza alcuna intenzione di analizzarli o di paragonarli a questa cosa o alla tal’altra. Semplicemente, li menzionavo tra i programmi più legati alla fruizione “tradizionale” di quanto lo siano le serie.
Leggere per credere. E’ tutto scritto sopra, in questa stessa schermata.
Tu ti sei aggrappato a quella menzione en passant per cominciare a parlare dei talent show. Quindi sei il principale responsabile di questa digressione che io giudico del tutto gratuita e infruttuosa.
Detto questo, ho cercato – invano – il punto in cui secondo te mi sarei espresso su questa faccenda del talento. Non l’ho trovato. Ci ho riprovato: zero anche stavolta.
La cosa più vicina che ho trovato è questa:
«Nei talent show continuo a non vedere le virtù che tu ci trovi, anche perché mi sembra arduo distinguere tra “talent” e “reality” quando ogni talent è anche un reality e ogni reality ha caratteristiche “talent” e si basa comunque su performances (quantomeno, uno deve provare che ha “talento” nel fottere gli altri e al contempo ingraziarsi il pubblico).»
Il mio giudizio negativo sui talent non ha a che fare col fatto che chi vince canti bene o canti male. Quella è una cosa di cui frega tantissimo a te. A me invece non me ne frega un filamento di frenulo. La mia critica al talent di cui ho visto qualche puntata l’ho espressa, mi sembrava precisa per quanto possa esserlo un commento volante. E’ qui:
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=1675&cpage=5#comment-2851
La questione del talento canterino non vi fa una comparsa nemmeno fugace.
La finiamo o no con queste stronzate? Per chi vuole c’è il forum ufficiale di “Amici”.
1. ” mi sembra arduo distinguere tra “talent” e “reality” quando ogni talent è anche un reality e ogni reality ha caratteristiche “talent” e si basa comunque su performances (quantomeno, uno deve provare che ha “talento” nel fottere gli altri e al contempo ingraziarsi il pubblico).»
2. “Pensare che nei talent si giudichi davvero la qualità della performance è come pensare che le elezioni sono un momento in cui cittadini perfettamente informati sui programmi votano in base al loro interesse razionale :-) Anche nei talent si va per simpatia e antipatia, anche lì sono continui (benché leggermente più sfumati) gli inviti a discriminare, escludere, allontanare”.
Ho cercato di dimostrare che questa tua analisi sottovaluta la “differenza specifica” talent/reality.
Nei talent il talento che conta non è fottere gli altri o altre dinamiche da reality da te descritte ma, al fondo, avere un qualche talento vocale.
Ora, puoi dire che non te ne fotte nulla, e uscirne.
Lecito.
Ma non riesci a confutare la tesi di una “differenza specifica” fondata sul talento: dovresti dimostrarmi ad esempio che Mengoni aveva come talento quello di fottere gli altri, e non un talento vocale.
Anche Fonzie ha provato a dire “ho sb… sbagli…”
Io sicuramente io ho sbagliato a introdurre l’argomento. Lo ammetto. E comunque grazie per la discussione.
@ Simone,
davvero non ci capiamo. Io non ho la minima intenzione di *confutare* la “differenza specifica” di cui parli. Mi limito a ritenerla ininfluente, o comunque secondaria, a fronte di altre dinamiche che attraversano diagonalmente tanto i talent quanto i reality: il televoto, la designazione dell’antipatico, il sospetto indotto di “combine” che è già parte della narrazione emotiva etc. Tutto questo influisce sul risultato finale, che non dipende solo dalla performance strettamente intesa. A mio avviso una vittoria (o un’eliminazione) in un talent o in un reality dipende da un concorso di fattori, da un gioco che “agisce” i personaggi in modi in larga parte pre-stabiliti. Ripeto: non credo si debba essere Propp o Lévi-Strauss o Sklovskij per capire che ci sono delle *strutture* dietro i personaggi e il loro interagire.
Dopodiché, certo, saranno diversi i format, perché nel GF bisogna solo fare i cazzoni mentre in “Amici” bisogna cantare e ballare, e per vincere nell’un programma o nell’altro ci si dovrà produrre in performances diverse sul piano formale (ma secondo me molto simili sul piano simbolico). Non ho problemi a riconoscere questo.
E’ solo che, a differenza di te, non lo ritengo minimamente importante.
Ci siamo capiti adesso?
@ Simone Regazzoni & Wu Ming 1:
Bona lé, per favore. E che si chiuda questo thread, DAVVERO.
E’ quello che dico da un po’. Se è d’accordo un po’ di altra gente, io lo chiudo.
Direi che con la rivalutazione della De Filippi può davvero bastare. Chi dobbiamo consultare? Ci sono senz’altro molti blog dedicati a talent show et similia. Quindi, come diceva il compagno Brancaleone: “Ite, ite, senza una meta. Ma da un’altra parte!”.
E allora 3…2…1…
[…] prima parte delle Note sul potere Pappone, intitolata Berlusconi non è il padre, Wu Ming 1 riflette sulla valenza simbolica assunta […]
[…] non è neanche però quella del potere pappone (come l’ha provato a definire Wu Ming in un bellissimo intervento in rete sempre debitore delle analisi di Recalcati, ma, proverei a dire: una figura del padre […]
[…] un intervento recentemente pubblicato on-line, Christian Raimo riprende alcune considerazioni elaborate da Wu Ming 1 a partire dalle tesi espresse nell’ultimo libro di Massimo Recalcati, […]
[…] del vecchio che “ha già dato” – e manda i figli allo sbaraglio). Su Giap abbiamo a lungo discusso intorno alla “evaporazione del padre” nella politica italiana. Una politica nella quale non è […]