Toni Negri sull’autostrada, ovvero: tirannia del tempo e momento utopico


Il 19 aprile scorso Wu Ming 1 è intervenuto all’ incontro “Conflitto, rivoluzione, potere, immaginario”, organizzato a Roma dal collettivo Militant.
L’intento di Militant era gettare luce sul tema di un “immaginario comune” di sinistra, tra attivismo politico e lavoro artistico/intellettuale. L’idea era di sollecitare interventi molto diversi per impostazione e linguaggio, da parte di tre persone differenti per età, genere, percorsi di vita e attività “militante” nei rispettivi ambiti d’intervento. I relatori dovevano essere WM1, il collega – e nostro traduttore – Serge Quadruppani (proveniente dal mondo libertario e dell’ultragauche francese) e Geraldina Colotti (scrittrice, poetessa e redattrice del Manifesto, proveniente da esperienze di lotta armata e carcere duro).
Per cause di forza maggiore, Quadruppani ha dovuto dare forfait, così gli interventi si sono ridotti a due (fatte salve l’introduzione e le conclusioni degli organizzatori). Per problemi di tempo, non c’è stata la sessione di domande & risposte, momento in cui avremmo potuto discutere e valorizzare le differenze d’approccio. E’ stata comunque un’iniziativa ricca di spunti.

Wu Ming 1 ha approfittato dell’occasione per radunare una massa di appunti presi durante le ricerche per il nuovo romanzo e per “Siamo tutti il febbraio del 1917”, ma rimasti inutilizzati. Praticamente, l’intervento romano è… il “terzo intervento americano”. Si va dal concetto di “byt” in Majakovskij alla diffusione dell’orologio, dal calendario rivoluzionario francese alla necessità di un momento utopico, fino a una critica a Hardt & Negri che non getta il bimbo con l’acqua sporca. In questo post ne proponiamo la registrazione, dura 50 minuti e 55 secondi. Per sentire tutti gli interventi della giornata, la pagina è questa.

N.B. Al contrario di quelli fatti in North Carolina, l’intervento romano non è stato scritto prima. WM1 ha parlato a braccio, gettando ogni tanto un’occhiata a fogli pieni di parole collegate da freccette e circondate dai segni più disparati.
Sono dovuti a questo i numerosi anacoluti e gli “ehm”, e soprattutto è dovuta a questo la cazzata del minuto 21’07”, quando appare di sfuggita Charles Taylor (potete scegliere tra il filosofo canadese e l’ex-presidente della Liberia) al posto di Frederick W. Taylor, l’ingegnere che diede il suo nome – “taylorismo” – alla dottrina del cosiddetto “management scientifico” :-/
Grazie a Toto per avere segnalato la svista.

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TONI NEGRI SULL’AUTOSTRADA, OVVERO: TIRANNIA DEL TEMPO E MOMENTO UTOPICO (50’55”)
Un romanzo sul Terrore – L’ultimo giorno di germile – Lettura da “Ode alla rivoluzione” (V. Majakovskij) – Lettura da “Ordinanza all’esercito dell’arte” (V. Majakovskij) – Lettura da “Troppo presto per cantare vittoria” (V. Majakovskij) – Che cos’è il Быт? – L’orribile sosia e la roulette russa – Sparare agli orologi, abolire la settimana – Da vendemmiaio a fruttidoro – Scimmiottamenti: il “Sabato fascista” – Dal tempo fluido al tempo strutturato: la marcia inarrestabile dell’orologio – Standardizzazione e sincronizzazione: il taylorismo – La fabbrica sociale –  Alvin Toffler e la “terza ondata” – Parvenza di asincronia – Gli orologi sono ovunque – L’iPad nuovo è più sottile – La “rotazione” –  Una sincronia superiore – Death metal scandinavo o deep garage anni ’90? – Facebook – Fredric Jameson: “Persistenza del sempre uguale ottenuta grazie alla Differenza assoluta” – Futuro anteriore e futuro spicciolo – Necessità del momento utopico (non “utopistico”) – “Noi dobbiamo essere i genitori” – Fedeltà all’Evento e narrazioni “del giorno dopo” – Dopamina / norepinefrina – Su Toni Negri, Michael Hardt e il comunismo che è già qui – La casa vista dall’autostrada – Denkverbot – Gli adepti e i “vetero”: se scambiate Negri per un guru è un problema vostro prima che suo – Senza rivoluzione non c’è nemmeno il riformismo – Ai padroni bisogna fare paura.

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31 commenti su “Toni Negri sull’autostrada, ovvero: tirannia del tempo e momento utopico

  1. non ho ancora ascoltato tutto, ma la storia degli orologi mi ha fatto tornare in mente un racconto di ballard del 1960, intitolato “cronopoli”, in cui si immagina il mondo dopo una rivoluzione che ha spazzato via tutti gli orologi.

  2. Il limite che Roberto individua in Negri (l’assenza della rottura temporale) è una buona chiave di lettura per ri-leggere il Negri migliore, quello della prima metà degli anni Settanta. Se mi si passa anche a me l’accetta, il salto dalla ricerca della rottura nella prassi allo scivolamento verso il “comunismo che è già qui” è già tra la prima e la seconda parte di “Il dominio e il sabotaggio”, e tra questo opuscolo e gli altri precedenti “capitoli” (in particolare “Crisi dello Stato-piano”). Lo so che qui si va nella preistoria (vedi la polemica con Bologna e il gruppo di Primo Maggio, Dominio e sabotaggio Vs Tribù delle talpe), ma è una preistoria che è utile a capire ciò che è andato a male dopo. Un po’ come usare la nefasta primavera milanese del 77 per ripensare all’intera parabola dell’autonomia.
    Quello che colpisce lo studioso di filosofia (che sarei poi io) è che nel Negri “filosofo”, e in particolare negli scritti su Descartes, Machiavelli e Leopardi, la questione del tempo assume ben altro spessore: uno spessore che in “Macchina-tempo”, e poi nelle opere degli Anni Zero, viene in buona parte stritolato.
    Quoto poi in toto la distinzione tra la narrazione originaria, che ha comunque ben altro spessore, e le divulgazioni dei ripetitori centro-socialisti, che hanno per fini pratico-politici inventato la favola dell’operaio che non esiste più. Non è un caso che molti di questi autori di bignamini negriani abbiano, di punto in bianco, rinfacciato a Negri e all’area che a lui fa riferimento la favola dell’operaio inesistente, dopo aver operato una “svolta tattica” a 180 gradi e riscoperto la centralità operaia.

  3. A me pare innanzitutto che il discorso, molto interessante e soprattutto necessario, sulla necessita’ di recuperare la “rivoluzione” arrivi dopo la dovuta traversata del fiume postmoderno. Se non ci si e’ bagnati nelle acque del pensiero della differenza e della decostruzione, rischiando ovviamente di affogare nei mulinelli del pensiero debole, ci ritroviamo ancora sulla sponda rassicurante eppure poco produttiva della retorica. Insomma, questo contribuito non va letto e ascoltato come un sospirato “ritorno a casa” ma come ulteriore pezzo di quel cammino.
    Sulla questione del tempo, mi riservo di intervenire dopo (e non dal cellulare!), che richiede più attenzione ;)

  4. @ jimmyjazz

    proprio così. Nel discorso che andiamo impostando c’è, a monte, l’attraversamento dello zapatismo e del post-operaismo, e l’intento esplicitamente dichiarato è di non gettare i bebè con l’acqua sporca.
    Anche in questo intervento ho precisato che certe formulazioni del post-operaismo (sul capitale cognitivo, sulla biopolitica etc.) sono delle verità. Però sono vere su alcuni piani di realtà, mentre sono “falsa coscienza” su altri.

    Il problema è che, anziché porre l’accento su come quelle formulazioni coesistessero con altre diverse ma non meno vere, si è scelto di eleggerle a verità generali e strombazzarle in quanto tali, nonché (con tipico piglio avanguardistico) di imporre un discorso fatto di opposizioni antinomiche tra “prima” e “adesso”: prima c’era l’imperialismo, adesso c’è l’impero; prima c’era la classe operaia, adesso ci sono le moltitudini; prima c’era il fordismo, adesso c’è il capitalismo cognitivo; prima c’era il lavoro di fabbrica, adesso c’è il lavoro mentale; prima c’era la necessità di prendere il potere statale, adesso c’è la necessità di non prenderlo, e via così.

    Insomma, si vedevano solo ed esclusivamente discontinuità laddove invece esistevano e tuttora esistono anche continuità (ogni passaggio storico è fatto di entrambe le cose, su diversi piani), mentre si vedeva soltanto qualcosa di troppo simile a una *continuità* (tra capitalismo e comunismo) dove invece resta necessario postulare una rottura.

    E’ chiaro che questa era una vulgata “centrosocialista”, però è quella che circolava, e non mi sembra che da parte dei “fraintesi” si sia fatto granché per evitare simili iper-semplificazioni. Anzi, Negri per primo nelle interviste e nei testi più d’occasione (tipo Goodbye Mr Socialism) tendeva a “tirar via” di brutto.

    Dopodiché, io capisco che ci fosse bisogno di far emergere la “novità” di un discorso, per farlo stagliare dallo sfondo, per separarlo da vecchie forme sclerotizzate. Il problema è che esiste anche una “sclerosi del nuovo”, eccome se esiste.

    Oggi, attraversate quelle esperienze, siamo tutti nelle condizioni di poter impostare un discorso (e delle prassi) su più piani, traendo lezioni e spunti da più sotto-tradizioni. E il futuro si conquista anche sbarazzandosi di certe retoriche banalmente nuoviste.

  5. Intanto, vi segnalo uno scritto recentissimo di Franco Piperno che – a occhio – c’entra con questa discussione. http://www.ciroma.org/site/archives/5998

  6. Grande link l’ultimo, ed esemplare, majakovskijana, risonanza tra i due interventi, che potrebbero definirsi complementari. Densi di rimandi reciproci, slittamenti e divergenze per poi giungere a nuovi incroci di sentieri. La loro fruizione giustapposta e comparata è una goduria. Una prelibatezza. Davvero.
    Slurp.
    L.

  7. Al contrario della promessa di qui sopra, ho esitato ad intervenire, perché questa discussione non dovrebbe trasformarsi nell’ennesimo referendum su ToniNegri.
    Allora mi servirò di un espediente reotorico basso. Userò una storia che più o meno conosciamo tutti, per cercare di esprimere la mia opinione sul “tempo” e la sua tirannia.
    Nel 1977 i Clash hanno fatto il botto. Hanno firmato un contratto con una major e sono un punto di riferimento della nuova scena musicale inglese. All’apice del movimento che ha dichiarato al mondo la fine del futuro, fanno uscire un disco singolo. Sul lato A c’è “Complete control”, una canzone che si scaglia contro l’industria discografica e che denuncia il tentativo di mettere la band sotto scacco. Poi c’è un indizio. Il B-side di quel 45 giri è “City of the dead”, un brano che fa a pugni con la canzone precendete. La prima è incazzata e combattiva, la seconda è una laconica descrizione della “città dei morti”, la Londra che brucia di noia e che è stata narcotizzata. Questa canzone ha molto a che fare con nostro discorso perché pone i Clash al crocicchio della loro esistenza. Luca Frazzi, nella sua esegesi della discografia clashiana scrive a proposito di questo pezzo: «L’impressione è che i Clash abbiano già la testa altrove, a un futuro nel quale la lotta al sistema dovrà per forza essere più articolata, meno prevedibile nei suoi sviluppi, non disposta a soggiacere a RITMI e cliché imposti dall’alto» (il maiuscolo è mio). I quattro da adesso devono decidere. Possono campare di rendita, ed essere la gloriosa cover band di se stessi, una delle tante punkband che per gli anni in girò porterà i successi del fulminante disco di debutto, o superare i ritmi della “città dei morti”, cioè smettere di batterne il tempo?
    Qualche mese prima, dopo un’estenuante maratona di provini, il batterista Terry Chimes era stato sostituito da Topper Headon, uno che veniva dal jazz e dal funk. È la svolta: Topper è versatile, capace di allargare gli orizzonti del gruppo alle musiche di tutto il mondo. La macchina del tempo dei Clash si fa complessa, al tempo stessa. Il tempo nuovo non è lineare, va oltre la velocità e la lentezza, costituisce la salvezza e la via di fuga dalla città dei morti. Per scandire i ritmi del futuro bisogna esplorare i ritmi di tutto il mondo: lo sbarco in America di “Give ‘em enough rope”, l’apertura al rock di “London Calling” e la proiezione globale di “Sandinista” e “Combat rock”.
    WuMing1 nel suo intervento romano ha dichiarato, direi quasi rivendicato, la sua formazione post-operaista. Il tempo dell’operaismo era lineare? In parte no. Riprendiamo la metafora musicale. Sonia Langmut in “New Thing” cita Mario Tronti ascoltando “Giant steps” di John Coltrane: “Certe cose si fanno per bruschi salti, e le scoperte che contano spezzano sempre il filo della continuità”. La formuletta della rivoluzione copernicana di “Operai e capitale” (“prima le lotte, dopo lo sviluppo”), ribalta radicalmente la logica temporale del marxismo storicista ma sempre a una logica lineare risponde.
    Da qualche anno ormai, i migranti sono diventati la cartina di tornasole dei fenomeni politici. Ai migranti bisogna guardare per osservare le uniche rivolte di piazza contro la mafia, cioè contro il capitale della prima azienda italiana per fatturato (penso a Castelvolturno e Rosario). La prospettiva mediterranea dei migranti va seguita per smascherare le intenzioni “umanitarie” dei bombardieri occidentali in Libia. I migranti sbugiardano la rivoluzione grillina. I fenomeni migratori spiegano il carattere ibrido delle rivoluzioni di Tunisia ed Egitto, smantellando la rappresentazione da “rivolta per il pane” che ne avrebbero voluto dare gli inviati dei media europei. I migranti sono anche utili a comprendere come le diverse forme di produzione (e dunque di temporalità) non si succedano linearmente, ma si intreccino. Il postfordismo non cancella il fordismo; lo informa, ne stravolge l’antica egemonia. Così come l’avvento dell’operaio-massa, e la sua egemonia, non aveva cancellato l’esistenza dell’operaio di mestiere, del bracciante o persino dello schiavo.
    Sarebbe troppo facile prendere come esempio il quartiere romano in cui vivo, Tor Pignattara, dove convivono i maglifici cinesi, i laboratori del lavoro autonomo di terza generazione, gli studenti dell’Onda e i sottoproletari del bar. Allora giocherò “fuori casa” e vi citerò il caso della Fiat di Melfi, utile a comprendere come all’economia contadina lucana si sia affiancata la fabbrica (simbolo del fordismo) e che all’interno di essa operino forme di organizzazione del lavoro tipiche del capitalismo cognitivo.
    È vero che tutto ciò – che indica una pluralità di tempi storici e di vita – viene ricondotto ad unico tempo, che per brevità definiamo tempo del capitale. Ma penso che si debba anche riconoscere che tutto ciò avvenga non attraverso il governo del tempo (o almeno non soprattutto attraverso di esso, seppure Christian Marazzi ha spiegato come la finanza serva a ipotecare e misurae arbitrariamente le vite delle persone e i loro tempi) ma attraverso il controllo dello spazio. Finito il tempo delle sirene delle fabbriche di E. P. Thompson che scandivano gli orari delle città è arrivato il tempo dell’ecologia della paura di Mike Davis. Milano2 (prima esperienza di “governo” di B.), la Tolleranza Zero di Rudolph Giuliani a New York, l’”emergenza sicurezza” proclamata da Weltroni nel 2007, la Padania e la Lega Nord: sono tutte forme di controllo dello spazio. Lo spazio viene percepito come una minaccia perché ospita tempi diversi, spesso inconciliabili.
    Non significa che siamo già nel comunismo, ma significa che – se impariamo davvero a battere più tempi e gestire questa pluralità – il capitale ha qualche problemino a regolare i suoi orologi.

  8. Interessante e stimolante, come sempre! Penso sia condivisibile anche la critica, in chiusura, al post-operaismo.

    Approfitto per chiedere un chiarimento sull’utilizzo del concetto foucaultiano di biopolitica, che – devo ammettere – conosco poco e padroneggio maluccio.

    Le narrazioni e le pratiche di potere su cui si basa la biopolitica non hanno subito un ridimensionamento con la crisi del capitalismo centralizzato, a controllo statale e con il parallelo tramonto delle narrative totalizzanti?

    In che senso, in altre parole, quel concetto è ancora attuale e utile per spiegare la realtà sociale di oggi?

  9. @ Don Cave

    premetto che non amo molto il vocabolo in sé, comunque “biopolitica” è l’insieme delle politiche di gestione dei corpi e della vita. Meglio ancora quando si parla di “biopotere”: il potere sulla vita. Mai come oggi – in tempi di biotech, di mappatura dei genomi, di clonazioni annunciate, di scontri sulle definizioni stesse di “vita” e “morte” (fine-vita, testamento biologico), di controllo tecnologico dei corpi e dei loro movimenti nello spazio (videosorveglianza, body scanner, l’iPhone che tiene in memoria tutti i tuoi spostamenti, ma anche la “tessera del tifoso”!), di lotte sui crinali di identità e differenze (es. sulle scelte sessuali) – mai come oggi, dicevo, è lecito parlare di “biopotere”. Starei attento a non confondere la *genealogia* del moderno biopotere ricostruita da Foucault con il concetto stesso di biopotere. A ogni fase del capitalismo corrispondono particolari forme di biopotere. La biopolitica indagata da Foucault si riferiva alle “vecchie” società disciplinari. Va comunque detto che la logica disciplinare non cessa affatto di operare dentro la società attuale: carceri, manicomi giudiziari, CIE, tutto questo continua a esistere.

    @ jimmyjazz

    grande intervento, perfetta l’allegoria clashiana.

  10. Come tutti gli interventi riguardo alla rivoluzione trovo questo resoconto molto stimolante. Magari non sono d’accordo su tutto…ma meglio così, direi.

    Per quel che ne capisco (e cioè, non moltissimo, mio malgrado): il cognitivo non è un’utopia che elimina i lavoratori manuali (operai e altri), ma è il modo con cui la società si determina. Per fare un esempio, è chiaro che quando si parla di società industriale c’è un mondo di cose che sono al di fuori dell’industria, però è la società subisce una spinta determinante da quel mondo.
    Secondo me il cognitivo, al giorno d’oggi, dà una spinta determinante al mondo in cui viviamo. E impone dei canoni. Inoltre è lo strumento con cui si maneggia la percezione della realtà.
    A mio modo di vedere c’è anche un problema di spinta rivoltosa. Mentre siamo stati abituati (per lo meno io che sono più vicino ai 25 che ai 30 anni) a sentir parlare di “lotte operaie”, ora queste lotte sono drasticamente diminuite, sia nella quantità, sia nella forza, per non dire nell’impatto a livello di immaginario. Ed è un problema che riguarda molte altre proteste: quest’anno ne abbiamo avuto un po’, lotte diverse, anche molto forti ma con un impatto limitato, soprattutto a giudicarle con qualche mese di distanza.
    Non è che quest’anno si sia riscoperta la centralità operaia. E’ che quest’anno gli operai si sono fatti sentire.
    Ora quindi che si fa?
    Si inizia a battere tutti lo stesso tempo? Studenti e operai? Professori e genitori? Migranti? Ho l’impressione di no. Nonostante ci sia uno sciopero generale a breve, l’impressione è che si sia sedimentato ancora poco rispetto al potenziale di protesta.
    Non per questo bisogna iniziare a fustigarsi e dire Dio mio dio mio perché ci hai abbandonato, perché (penso si possa dire al di fuori di retorica) il passo avanti di quest’anno è che queste diverse proteste abbiamo cominciato a vederle con maggiore insistenza.

    Il pezzo sul tempo è molto stimolante. Nelle lotte in università abbiamo avuto a che fare con questo problema, dato che il sistema di welfare universitario (e anche i criteri di qualità) si basano proprio sul tempo. Sei un bravo studente se fai tutto in tre anni, altrimenti sei un bamboccione (grazie, Padoa Schioppa per questa definizione). Nessuno si pone il dubbio di come e cosa (e se) hai imparato realmente qualcosa.
    Quindi se finisci una triennale a 29 anni e ti ritrovi a sapere di più del tuo stesso relatore, sei comunque una persona su cui non investire.

    @ jimmyjazz
    bello il finale dedicato allo spazio.

    ps. se posso aggiungere una cosa: non sono d’accordo con diverse cose che dice wm1, purtroppo non essendo un buon lettore di Negri non posso rispondere punto su punto sulla questione della “rottura”. Però se qualcuno che legge il blog ha qualcosa da dire parli, perché mi sembra un punto fondamentale

  11. @ plv

    eh, io per tanti anni ci ho fatto il bagno con idromassaggio, nelle analisi su capitalismo cognitivo, lavoro mentale, general intellect, cooperazione sociale in rete, mondo dell'”immateriale” (anche se questo è un attributo che, oggi ancor più di ieri, trovo fuori luogo e che mi è sempre suonato male). Quando uscì la rivista Luogo comune avevo 21 anni e ne rimasi folgorato. Lessi Negri (persino mattonazzi agghiaccianti come l’introvabile Fabbriche del soggetto!), risalii fino alla lettura panzieriana dei Grundrisse, poi mi lessi i Grundrisse stessi…

    Ribadisco: le descrizioni del capitalismo odierno messe a punto nel post-operaismo hanno una loro verità.

    Il problema è la generalizzazione (a mio avviso indebita) di queste verità a ogni aspetto del reale. Si è prodotta un’ideologia, che ha generato delle retoriche *tossiche*. Retoriche di cui molti sono rimasti prigionieri, e che hanno portato negli anni a dire anche parecchie, ma proprio parecchie stronzate, perché l’atteggiamento era:
    *tutto e il contrario di tutto* rientra nei fenomeni che confermano l’esattezza della teoria. Qualunque cosa accadesse, la teoria si dimostrava giusta, puro oro colato; ogni sconfitta in realtà era una squillante vittoria, perché in tutto il divenire si poteva vedere il comunismo che era già qui, e chi non lo vedeva era un coglione, un vetero, un poveraccio, un “sovranista”, un reazionario. In ogni problema, il martello vedeva sempre lo stesso chiodo da battere. Nessuno spazio per nient’altro. Si pensi all’esortazione a votare “Sì” ai referendum sulla pseudo-costituzione europea ultraliberista e antisindacale. Bisognava votare “Sì” a quello scempio in nome dell’*inequivocabile* futuro ruolo dell’UE in una costituzione mondiale che soltanto Negri vedeva all’orizzonte. Si leggano molti scritti post-operaisti (non solo negriani) sulla situazione italiana risalenti agli anni ’90: come leggere oggi certe apologie oblique di Forza Italia come “partito del General Intellect”, certe descrizioni quantomeno ambigue della Lega etc.? Per non dire dell’ipostatizzazione della situazione mondiale nell’era Clinton fatta in “Impero”, dei granchi presi sull’America latina (almeno questi ammessi a mezza voce!), dei tentativi di alleanza – se non altro retorica – tra capitalismo avanzato rapace e “nuove soggettività”, dei deliri sulla spinta all’autoimprenditoria come prerequisito di comunismo o chissà che cosa, delle scelte strategiche e tattiche fallimentari, della vulgata banalizzante mai davvero smentita anzi incentivata, della disattenzione – durata lunghi anni – nei confronti della tematica ambientale (perché per dedicarle attenzione è necessario vedere l’autostrada dalla casa anziché viceversa, è necessario pensare un limite esterno, a quelle che O’Connor ne L’ecomarxismo chiamava le “condizioni della produzione”) etc.

    Ecco, questa per me è l’acqua sporca (acqua, tra l’altro, eurocentrica e sviluppista) da cui salvare il bebè.

  12. @ wm1
    é che purtroppo ho sempre presente i discorsi che si sentono in giro.

    Quanta gente va in giro a dire “dove sono gli operai, dove sono le lotte degli operai?” e non si rendono conto che gli operai è giusto, ma che c’è anche altro oltre a quello.
    Le lotte studentesche sembra che siano lotte di fancazzisti, quando in realtà è già una lotta contro il precariato. E sono lotte sulla trasmissione del sapere, che comunque mi sembra un punto fondamentale. Soprattutto nel momento in cui l’informazione è basilare (tanto che gli organizzatori delle proteste sono ossessionate da come usciranno le notizie sui giornali, che secondo me è un’idea che prima o poi bisognerà sgretolare).
    La conclusione è che ci si ritrova con davanti studenti (ripeto, non più solo universitari) costretti a lavorare per mantenersi, ma che non si reputano precari. Questo è un problema, tanto più che quando si parla della famosa generalizzazione delle lotte di fronte a una domanda che dice “mobilitamo l’università”, ci si ritrova gente che ti dice “ma noi siamo solo studenti, dobbiamo pensare ai lavoratori”. E non si capisce perché le cose debbano essere in contrasto e non siano, invece compenetrate.
    E questo è un problema che c’è non solo in Italia, ma in tutta Europa e, mi dicono, anche in Egitto.
    Una cosa positiva delle teorie negriane è l’ipotesi dell’operaio sociale, che per me ha voluto dire l’eliminazione di differenze che allontanavano.
    Poi il mondo è più complicato di quello scritto nei libri, ma come idea questa mi è servita per trovare cosa possa avere in comune io con un operaio. Ho qualcosa di cui parlare, e posso superare il muro che da sempre si mette fra lo studente e l’operaio.

    Al di là delle teorie negriane (come dice wm1, se Toni Negri diventa un guru è un problema nostro, tanto più che spero che l’epoca dei guru sia finita o almeno io la ritengo conclusa…se mai ne è esistita una veramente) il problema è quello che ci troviamo davanti tutti i giorni e credo sia sempre un problema di parzialità.
    Non troviamo corretta l’ipotesi cognitiva? O meglio, non la riteniamo generalizzabile? Va bene, ma giustamente salviamo la verità che è in essa. Il bebé.
    Questa parzialità però va utilizzata, non ce la si può dimenticare. E deve essere aperta, ospitare, essere ospitata. Senza sapere chi siamo andiamo a giocare a rubamazzo. Se invece ci preoccupiamo solo di chi siamo, non lo so, giochiamo a tressette.
    Qui trovo il problema sollevato da wm1: se noi chiudiamo la nostra parzialità (che sia di lavoratori cognitivi, di uomini, di europei…) allora non stiamo cercando veramente una rivoluzione.
    Tuttavia le lotte sono sempre parziali. Partono affrontando un punto e poi tentano di allargarsi (almeno in molte proteste). La seconda fase è sempre più difficile della prima. Le lotte degli aquilani, giusto per dirne una, riguardano tutti, credo che gli organizzatori abbiano fatto una fatica enorme per impostarle in modo che tutti si sentissero coinvolti (dall’idea di mettere in sicurezza il paese, all’accusa ad un’intera cricca che in realtà fa affari in tutta italia e si aziona a comando ogni volta che c’è un piatto da spartirsi), ma trovano una difficoltà estrema nella diffusione.

    Il problema è come si generalizzano le lotte, problema mica da poco, vista l’eterogeneità delle diverse posizioni in campo.
    Rimanendo in tema “lavoro”: come ci parliamo io e un operaio? oppure io e una madre casalinga? o io e una badante?

    Anche perché in questo momento non abbiamo un punto di vista comune, un’utopia comune. Crediamo che la rivoluzione sia cacciare Berlusconi? Credo di no, anzi, il mio sogno è che ci fosse Berlusconi, ma solo lui e non anche tutto il resto della marmaglia, che reputo molto più difficile da sconfiggere. Se ci fosse solo Berlusconi almeno sai che è uno e uno solo.
    Ma il problema non è neanche cacciare qualcuno, o almeno credo.
    Il problema è immaginarsi un mondo migliore per tutti. Non abbiamo idea di quale possa essere un mondo migliore.
    Una volta c’era una cosa chiamata comunismo, che apparteneva a tutti. Chi era a favore, chi era contro….ma se ne parlava. Era come lo scudetto dell’inter all’epoca di Ronaldo: non c’era, non lo vincevi mai, ma quasi quasi lo vedevi.
    Poi Ronaldo è ingrassato, lo scudetto è arrivato e hai scoperto che non era un granché, con Ibrahimovic, ma questa è un’altra storia.

    Oggi viviamo in una difficoltà evidente, non sappiamo immaginarci un mondo perfetto, magari irrealizzabile, ma finché è nelle nostre menti può andare bene. Poi la pratica è un altro discorso.
    C’è una cosa che mi piace di Toni Negri, che wm1 ha azzeccato: sembra che la rivoluzione l’hai già fatta, solo che non lo sai (in realtà, dal mio punto di vista, sembra che tu la stia per fare: sei a un passetto, ti manca solo l’illuminazione, che non sai mai se è quella di San Paolo- calata dall’alto- o quella di Shining – la luccicanza che ce l’hai tu per te stesso e se la sai usare va bene, se no prendi un’accetta e ti dai all’autoimprenditoria-). Questa cosa devo ammettere che mi esalta, mi spinge ad andare avanti, poi è nella realtà di tutti i giorni che si sbatte la testa, ma questa è una sfida. Accettare ciò che viene detto senza metterlo alla prova è un’idiozia.
    L’idea di “comune” in sé è una sfida e questo è evidente. Come si crea questo comune? In che forme? Come ci si parla? La vogliamo fare veramente questa rivoluzione?
    Lo spauracchio della rivoluzione lo possiamo tirare fuori, ma per farlo bisogna immaginarsi una rivoluzione, altrimenti è aria fritta.
    Questa immagine al momento ci manca e per quanto l’idea del tempo e della rottura della temporalità sia molto azzeccata, penso che non sia completa, nel momento in cui il lavoro non c’è.
    Come si fa a rompere il tempo del capitale se non hai un lavoro? E il lavoro della vita (la vita quotidiana) non è quantificabile nelle forme del tempo. E non c’è più il sabato fascista, ma non c’è neanche più il riposo del sabato. Oppure c’è, ma è diverso da contratto a contratto, da persona a persona.
    A questo punto diventa molto forte, rompere i vincoli spaziali. E i vincoli di presa di parola…non so, occupiamo repubblica?

    scusate la lunghezza e il pippone confuso, spero possa essere utile

    ps. Saramago diceva che secondo lui la rivoluzioni sono sempre un No, poi quando si dice a dire Sì, iniziano i problemi. Mi piace pensare (questa sì che è un’utopia), che le rivoluzioni siano un Sì, qualcosa che affermi un mondo nuovo. Credo sia di questo Sì che abbiamo bisogno.

  13. @plv
    ben vengano pipponi come questo! Mi riconosco nella tua tensione a trovare l’universale partendo dalla parzialita’, senza pensare che la seconda sia gia’ l’approdo anziche’ il punto di partenza. Grazie per quest’insufflazione di pulci nelle orecchie! Se un mio intervento diventa l’occasione per riflessioni come questa, sono felice.

  14. dopo alcuni eccessi anni 90, eccessi anche utili a far emergere nuovi sguardi sulle trasformazioni della produzione sociale, credo che quando negri e altri ( per capirci uninomade come riferimento del post-operaismo ) insistono sulla centralità del cognitivo si riferiscano non a un settore specifico della composizione di classe, ma alludano al campo generale di battaglia sul quale si danno oggi sfruttamento, lotta, gerarchia sociale. http://uninomade.org/appunti-per-un-seminario-su-comune-e-composizione-di-classe/ è chiaro in questo senso.
    credo anche che l’ insistenza sulla narrazione della rottura temporale ( che cos’ è una rivoluzione oggi e cos’ è un evento oggi ) che viene da wu-ming 1 possa essere un contributo importante anche per provare a pensare cosa sia la conricerca oggi, e ovviamente viceversa.

  15. Solo due commenti all’intervento di Wu Ming 1, interessantissimo come al solito.

    A) Uno degli episodi più importanti del primo Biennio Rosso in Italia originò proprio da un atto di ribellione contro il comando capitalistico del tempo: lo sciopero “delle lancette”, marzo-aprile 1920, iniziato come protesta contro il licenziamento di tre membri della Commissione Interna di una fabbrica torinese, che avevano spostato indietro l’orologio dello stabilimento non accettando l’imposizione dell’ora legale (che era stata introdotta durante la Prima guerra mondiale ed era vissuta dai lavoratori come una vessazione). La lotta durò un mese e coinvolse al suo culmine circa mezzo milione di operai e di braccianti agricoli.

    B) Secondo me, nel pensiero di Negri, il bebé da non buttare via con l’acqua sporca è il seguente: chi produce, e in ultima analisi chi fa la storia, a tutti i livelli, è sempre la classe lavoratrice e mai il capitale. Questo concetto, tra l’altro, implica il rifiuto di tutte quelle teorizzazioni che considerano la produzione immateriale sempre e solo come produzione di ideologia da parte del capitale per assoggettare le masse (è il punto di vista di Adorno o di Guy Debord, per dire). Implica anche il superamento di una certa visione paranoico-complottista della storia, molto diffusa a sinistra, per cui tutto ciò che accade è sempre il frutto di occulte manovre del Sistema Imperialista delle Multinazionali: visione che, come osservava Wu Ming 2 nel suo intervento del 5 aprile, abbiamo visto all’opera di recente in molte analisi della Rivoluzione araba (del tipo: i manifestanti di piazza Tahrir erano manovrati dalla CIA, ecc.).

    Invece, secondo Negri, il capitale vive “parassitando” la creatività delle classi subalterne, ma di per sé non è in grado di creare nulla. In questo senso la lezione del suo “Marx oltre Marx” (1979) mi pare tuttora da condividere. La massa è la vera “creatrice di valori storici”, come diceva già Gramsci. Poi può darsi che l’insistere troppo su questo concetto, di per sé giusto, abbia portato Negri a trascurare l’analisi delle forme concrete in cui la creatività delle masse viene sfruttata, conculcata e distorta. Per riprendere l’esempio: posto che l’autostrada fa schifo, non mi è di nessun giovamento la consapevolezza che l’ho fatta io. Ho bisogno anche di sapere come mai, di fatto, sono costretto a viaggiare in autostrada, o perché sono obbligato a sopportare che la stessa passi accanto al mio giardino.

  16. Circa la ricerca sulla Rivoluzione Francese ed il voler cambare il tempo con l’introduzione del nuovo calendario (e lo spazio? forse anche!) mi sono imbattuto in un articolo, in italiano, assai divulgativo:
    (c’è anche il riferimento all’articolo scientifico in inglese)
    in cui due ricercatori italiani ipotizzano che il metro (anche se non compare in nessun documento ufficiale) sia, in realtà, stato derivato dal secondo, come la lunghezza di un pendolo che ha un periodo di un secondo.

    “[…]Rivoluzione Francese. In quel sistema il secondo era definito come la frazione 1/86400 del giorno solare medio ed il metro era legato al meridiano terrestre (ovvero un decimilionesimo della distanza tra il Polo Nord e l’Equatore
    sulla superficie della Terra). Perciò agli inizi il metro e il secondo non erano formalmente legati l’uno all’altro. […]

    Il legame attuale tra il metro e il secondo è di dominio comune, almeno fra gli addetti ai lavori.

    Molto meno conosciuto è il fatto che, prima che l’Accademia
    delle Scienze francese proponesse una definizione del metro come frazione del meridiano terrestre, molti studiosi avevano considerato come l’unità più adatta la lunghezza del pendolo del secondo (noto anche come ‘pendolo dei secondi’).

    Ciononostante nella primavera del 1791 ci fu una vera e propria rivoluzione metrologica all’interno della Rivoluzione Francese. Il risultato fu una unità di lunghezza uguale a un quadrante [un quarto] del meridiano terrestre (con una unità
    pratica uguale ad un conveniente sottomultiplo decimale, ovvero 1/10 000 000). ”

    Gli autori avanzano perplessità su questa scelta, che sembra non sufficientemente motivata o ragionevole. Forse sono entrati in gioco altri interessi, oltre a quello primario di mettere ordine e unità tra “le unità di lunghezza […] stimati circa 800 nomi differenti, le cui grandezze potevano variare da città a città, per un totale di circa 250000 campioni.” (cit. dal file pdf, link sotto) come… l’interesse che venissero stanziati fondi per una spedizione per determinare la lunghezza del meridiano terrestre, utilizzando il cerchio ripetitore inventato da Borda (1733-1799), “componente della Commissione con l’esplicito compito di scegliere l’unità di misura.”

    Come si capisce da un altro articolo, più didattico, ma più esauriente sia sulla storia all’interno dell’Accademia Francese sia sui rapporti internazionali tra Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna, si può leggere nel file pdf .

  17. @jimmyjazz

    Mi ha colpito molto il tuo commento. Voglio condividere un ragionamento seguito alla sua lettura.
    La parte in cui parli di migranti mi è rimasta qui, in sospeso. Cosa ci possiamo fare concretamente ? Questi migranti così vicini e così lontani, portatori “naturali” (data da situazione)
    di una carica vitale, “freschezza” non ideologizzata, che non hanno niente da perdere. Migranti massa informe o esseri umani progressisti, fondamentalisti, donne, bambini, delinquenti, lavoratori
    Io come li guardo i migranti ?
    Ed è stato facile fare il passo successivo:
    nel 78 i Clash incidevano quello che per me è forse il loro miglior pezzo “White Man (In Hammersmith Palais)”.

    Pezzo autobiografico, Strummer va ad un concerto storico di gente tosta che dovrebbe portare un vento nuovo potente e cosa trova

    But it was Four Tops all night with encores from stage right
    Charging from the bass knives to the treble
    But onstage they ain’t got no roots rock rebel
    Onstage they ain’t got no…roots rock rebel

    Finisce poi per fare anche autocritica. In fondo io chi sono ? cosa mi aspettavo, ero davvero venuto qui per trovare vento di rivoluzione ?

    I’m the all night drug-prowling wolf
    Who looks so sick in the sun
    I’m the white man in the Palais
    Just lookin’ for fun
    I’m only Looking for fun

    Loro credo abbiano fatto i conti con questa riflessione, han fatto qualcosa per non essere lì *solo* “looking for fun”, han cercato di essere roots rock rebel. Etica del fare in prima persona, del mettersi in gioco.
    Come dice jimmyjazz han cercato un nuovo RITMO e mi sembra una grande lezione.

    Ciao

    qui il video del live: http://www.youtube.com/watch?v=Bk4uSFh_wio

  18. Ho trovato un’altra imprecisione, ah le gioie del parlare a braccio ;-)

    Al minuto 13:46 WM1 dice:”e i giorni che rimangono, perché se fai i mesi tutti di 30 giorni rimangono dei giorni, quelli per cui sono stai inventati gli anni bisestili, l’ora legale (!)”.

    L’ora legale, introdotta nel 1916, la si aggiunge e la si toglie all’interno dell’anno, la somma è zero e l’effetto totale è nullo; non influisce sulla questione astronomica della durata del periodo di rivoluzione della terra attorno al sole, che non è una quantità intera di ore e bisogna recuperarle[1].

    Certo, anche l’ora legale è tempo della produzione, introdottta durante la prima carneficina mondiale, per il ‘risparmio energetico’[2]. (Ve mo’; e io non lo sapevo, s’impara anche ‘facendo le pulci’ agli altri :-D

    Quindi anche su questa consuetudine bisognerebbe riflettere, se vogliamo pensare un tempo diverso. Personalmente, tra l’altro, non sono riuscito a trovare i dati dell’effettivo risparmio energetico, e sono molto scettico sull’utilità dell’ora legale.

    [1] http://it.wikipedia.org/wiki/Calendario\_gregoriano

    [2] Già nel 1784 Benjamin Franklin pubblicò un’idea sul quotidiano francese Journal de Paris. Le riflessioni di Franklin si basavano sul principio di risparmiare energia ma non trovarono seguito. Oltre un secolo dopo, nel 1907, l’idea venne ripresa dal costruttore inglese William Willet, e, nel quadro delle esigenze economiche provocate dalla prima guerra mondiale nel 1916 [fu introdotta] […]

    Hei! 11 anni dopo ??!

    In Italia l’ora legale è stata adottata per la prima volta nel 1916.
    fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Ora\_legale

  19. @ Giovanni

    grazie! Eh, sì, è uno dei più grossi problemi del parlare a braccio: l’ellisse. Si saltano parole o addirittura intere frasi, anche se le si è pensate, oppure (come nel caso che segnali, e chissà in quanti altri durante il discorso) le si salta per segnalare che non è il caso di parlarne.
    Qui, se non ricordo male, “l’ora legale etc.” allude a una potenziale digressione, che però viene subito bloccata, qualcosa che potrebbe suonare così:

    “[d’altronde lo sappiamo che la nostra vita organizzata ha bisogno di continui interventi e riaggiustamenti rispetto al tempo scandito dal moto della Terra intorno al sole, si pensi ad esempio al]l’ora legale, etc.[ma lasciamo perdere, diamolo per inteso].

    Mi viene in mente un capolavoro di espressione ellittica, una poesia di Corrado Guzzanti nei panni del poeta Brunello Robertetti, i cui versi iniziano tutti introducendo il periodo ipotetico: “Se l’amore è…” e proseguono limitandosi ad alludere, saltando parole e inanellando “et cetera” ché tanto ci siamo capiti :-D

    E’ la prima che legge qui:
    http://youtu.be/12Wo8DJlUyE

  20. @ Giovanni

    in effetti, qui:
    http://en.wikipedia.org/wiki/Daylight_saving_time
    pare di capire che l’ora legale non porti grandi risultati in termini di risparmio energetico. La pagina è molto interessante e, di primo acchito, pare esaustiva.

  21. sulla temporalità istituzionale vorrei aggiungere un curioso caso di reazione cattolica alla “paganità” dei nomi dei giorni della settimana, in Portogallo e Brasile (non so se anche in altre ex-colonie tipo Angola e Mozambico): a parte Sabado e Domingo, il Lunedì diventa “segunda-feira”, il martedì “terça-feira” e così via. Credo che il tutto si riferisse a un mercato (feira, appunto) o sagra che iniziava di Domenica in periodo pasquale. La necessità era di eliminare le tracce pagane dei nomi di divinità romane. E’ curioso però che ciò sia divenuto operativo solo in Portogallo, da tutte le altre parti si è mantenuto il vecchio nome . Qualcuno ne sa di più o meglio?

  22. @ mostrofame

    molto interessante. Ho fatto una rapidissima, superficiale verifica, integro quel che hai scritto.
    Pare che l’iniziatore di questa usanza sia stato Martinho de Dume, un vescovo portoghese del VI secolo d.C.
    La denominazione dei giorni è basata sull’osservanza della Settimana Santa. Ragion per cui, “Segunda feira” (lunedì) significa “secondo giorno in cui [a Pasqua] non si dovrebbe lavorare”, e via così.
    Da un lato, questa è – come dici tu – l’imposizione di un tempo legato a una liturgia del potere. D’altro canto, a me sembra molto significativo che in portoghese i giorni della settimana alludano a un tempo libero dal lavoro! Cioè a un tempo “di eccezione”, stra-ordinario. Quei nomi si riferiscono a quella che Durkheim chiamava la “rottura di livello” necessaria per passare dal profano al sacro. E gli studi sui rapporti tra profano e sacro sono, io credo, necessari se vogliamo procedere nella direzione di una nuova arte (o scienza?) della rottura del tempo.

    Segunda feira è una canzone contenuta in uno degli album più belli di Battiato, L’imboscata (1996). A Battiato e Sgalambro la denominazione dei giorni in portoghese sembra piacere, e chissà che uno dei motivi non sia lo stesso che ho esposto qui sopra. Il refrain della canzone dice:

    « Segunda feira de Lisboa
    che nome d’incanto!
    Qui da noi
    è lunedì soltanto. »

    http://youtu.be/YLWwDRvuo70

  23. In greco lunedì è il “secondo” giorno, poi si continua a contare fino a giovedì (il “quinto”). Venerdì ha il nome significativo di giorno della “preparazione” per il sabato, che si chiama sempre sabato. La domenica è, come in italiano, il giorno del Signore, kyriakì. Per quanto ne so derivano da usi ortodossi, di divinità pagane non v’è traccia

  24. Sull’ora legale. (Vado a braccio).

    E la prendo alla larga.

    È risaputo che in Spagna si ceni molto *tardi*. D’altronde si pranza *tardi*, i negozi stanno aperti fino a *tardi*, e tutto torna. A patto di non alzare lo sguardo al cielo ma di tenerlo fisso sul quadrante dell’orologio. Quello stesso orologio che segna l’ora di Berlino. Quella stessa ora che Franco adottò nel 1940 (http://bit.ly/8XxuDQ). Se invece si prende come riferimento la posizione del sole per determinare l’ora in cui gli spagnoli mangiano, aprono e chiudono i negozi, e via dicendo, la parola *tardi* diventa inappropriata: pranzano una volta che il sole non è più a picco (a partire da quella che noi chiamiamo l’una) e cenano quando sta tramontando (dalle 8).
    Tuttavia, nell’immaginario collettivo, è cosa consolidata la tardività ispanica nel desinare. Qui, il punto di rifermento per determinare quando è *presto* e quando *tardi* è quel orario “campione”, un orario artificiale quale il CET. Un orario che concettualmente prescinde dallo spazio geografico (che poi sia l’ora di Berlino adottata da Franco non è un certo un caso: non è il primo caso nella storia in cui l’egemonia si esercita anche attraverso la diffusione di un “calendario”). Il CET infatti esiste sulla carta o meglio in una teca di vetro, al pari del metro campione di Sevres. Cristallino, incorruttibile dagli accidenti del mondo sublunare, è un vero e proprio “universale”. E infatti, poco ha a che fare con l’ora sperimentata dagli umani: questi, infatti, continuano a mangiare quando il sole non è più a picco e a rifarlo al tramonto, tanto in Italia quanto in Spagna. In altre parole, lo fanno nello *stesso momento* del giorno. Per mettere d’accordo lo *stesso momento* e l’universale-CET, all’ora del pranzo degli spagnoli è stato assegnato il numero 14 a quella del pranzo degli italiani (la stessa) il 13. Fin qui, nulla di grave: il nominalismo non è un peccato (anche se lascia dietro di sé relitti dal sapore ancestrale: il “mezzogiorno” che non sta in mezzo al giorno). A ben guardare, però, questo sistema di determinazione del tempo attraverso l’universale-CET separa l’ora “sperimentata” da quella “percepita”: l’italiano che va in Spagna pranza alla stessa ora, ma è convinto di mangiare *tardi*.
    Non sono certo io (per dirla molto semplice) a scoprire che nel mondo moderno l’ora non è più quella del sole ma quella del cronometrista della catena di montaggio. E questo è metabolizzato nel piano del linguaggio: “gli spagnoli mangiano tardi”. Eppure non lo è sul piano della prassi: il linguaggio parla per universali (tardi rispetto al CET) ma il pranzo rimane alla stessa ora. Il *tardi* rende conto solo a se stesso sul piano degli universali e in fin dei conti giustifica solo il CET-universale: non dice nulla dell’ora in cui mangiamo (che è ancora quella “ancestrale”, diversa in ogni contrada, centrata sul picco del sole). In breve, per permettere sul piano del linguaggio l’esistenza di una sincronia universale la si aggiusta, nella pratica, con dei posticci anticipi e posticipi.

    Sull’ora legale (al di là di ogni sua genesi bellica o di ottimistiche previsioni di risparmio energetico) propongo la stessa chiave di lettura: un’ora *prima* o *dopo* rispetto a cosa? Forse una metabolizzazione linguistica di un doppio carpiato concettuale che vuole conciliare l’immutabile fissità dell’universale-CET con l’ancestrale abitudine degli umani ad alzarsi all’alba (cui viene attribuita la caratteristica di essere mobile…) e pranzare dopo che il sole ha passato il punto più alto?
    Di fronte al fatto che le azioni degli uomini ancora – fino a un certo punto – continuano a essere scandite dell’alba e del tramonto, per poter dire che il GMT è sempre uguale a se stesso, nell’immaginario collettivo sono gli uomini che spostano le lancette dell’orologio in via del tutto eccezionale, ma puntualmente all’arrivo (ancestrale?) dell’autunno e della primavera.

  25. Ho fatto ascoltare questo intervento ai miei amici durante un viaggio in autostrada. Poi ho iniziato la lettura de “Il Teatro e il suo doppio” di Antonin Artaud e guardate cos’ho trovato:

    “per me ci sono molti modi di intendere la rivoluzione e, fra questi, il modo comunista mi sembra di gran lunga il peggiore, il più ristretto. una rivoluzione di poltroni. non m’importa proprio niente, lo dico forte chiaro, che il potere passi dalle mani della borghesia in quelle del proletariato. Non sta in questo la Rivoluzione. Essa non consiste in un semplice passaggio dei poteri. […] la Rivoluzione più urgente da fare è una specie di regressione nel tempo. Torniamo alla mentalità, o semplicemente alle abitudini del Medioevo, ma veramente, e per una specie di metamorfosi delle essenze, e mi convincerò allora che avremo fatto la sola rivoluzione di cui valga la pena parlare.”

    Si tratta di un post scriptum del gennaio 1927 (Artaud aveva 31 anni) al testo del novembre 1926 dal titolo “Per un teatro abortito”. Nel corso di un anno, infatti, Artaud fù espulso dal movimento Surrealista e questo P.S. denuncia l’ipocrisia ideologica (di stampo comunista) nascosta nel movimento.

    Anche oggi, i così detti movimenti “non-ideologici” (ecologismo, beppegrillismo, zeitgeismo) dovrebbero essere analizzati e smascherati per quello che sono: tentativi di innalzarsi al di sopra di tutto e tutti . Quello che Zizek chiama “l’altro dietro l’altro”, ovvero credere che ci sia “un altro ordine” che gestisce segretamente l’ordine costituito. Ma seguendo anche le intuizioni di Artaud, cambiare un ordine con un altro nn servirà a niente, servirà solo a far ingenuamente “sperare” al cambiamento (nell’accezione negativa di “speranza-trappola” che diede il compianto Monicelli in quest intervista: http://www.youtube.com/watch?v=hQDrFLqHJOI).

  26. @ Nexus

    Premessa: stai parlando a un appassionato cultore del surrealismo e ammiratore (ovviamente non acritico) di Breton :-)
    A diciassette anni comprai una copia di seconda mano di “Autobiografia del surrealismo” di Marcel Jean, fui conquistato da quei testi, da quei manifesti, da quelle tecniche di scrittura e dalla turbolenta storia di quella corrente culturale, e fui spinto ad approfondire. Negli ultimi anni sono tornato a leggere documenti di quella temperie, e oggi sono convinto che dobbiamo porci l’obiettivo di “ripetere il surrealismo”, nella particolare accezione del verbo che usa Zizek quando parla di “ripetere Lenin”, cioé: recuperare lo stesso impulso dentro un contesto nuovo, porci quell’ordine di problemi dentro l’attuale “costellazione”. Ovviamente, in questa fase non è più possibile né auspicabile un’avanguardia artistico/politica come quella, non sono le risposte che i surrealisti diedero alle domande dell’epoca la cosa da “ripetere”, bensì il modo peculiare in cui rivolsero le domande.

    Seconda premessa: dubito che oggi sia produttivo chiedersi chi avesse “ragione” e chi “torto” tra Breton e Artaud. Il nostro sguardo abbraccia entrambi.

    Da un lato, è vero che la vicenda di Artaud getta luce su difetti d’impostazione dell’attività surrealista, difetti che otto-nove anni dopo portarono a una spaccatura verticale, quando Aragon e più tardi Eluard cominciarono a “pasticciare” (è un eufemismo) con lo stalinismo, fino a diventare veri e propri “poeti di partito” (il che non significa che da lì in avanti abbiano scritto solo schifezze).

    Dall’altro lato, però, è chiaro che un movimento d’avanguardia non chiliastico (a differenza del futurismo) né nichilista (a differenza di Dada), un movimento che voleva fondere Marx e Freud e si vedeva come *fondativo*, pars construens e non solo destruens, non poteva che essere incompatibile con la visione artaudiana. La rottura era inevitabile, in questo non vedo “ipocrisia”. Parlo anche, nel mio piccolo, per esperienza personale: anch’io, ai tempi dei tempi (anni ’90), ho avuto dei “piccoli Artaud” tra le palle, e se la mia strada non si fosse radicalmente differenziata dalla loro, non sarei mai riuscito a impostare un mio discorso. Sia chiaro che dico “io”, ma penso di poter parlare a nome di tutta la band.

    Tra l’altro, negli anni Trenta Breton assunse posizioni coraggiose ed encomiabili contro il conformismo intellettuale stalinista. Il suo intervento al Congresso internazionale degli scrittori (iniziativa “in difesa della cultura e contro il fascismo”, 1935) è un momento altissimo di questa lotta.

    Certo, oggi la pratica delle espulsioni dal gruppo (a un certo punto, Breton ne fece quasi un hobby) suona ridicola, farsesca, una replica nell’ambito culturale di comportamenti tipici di un piano strettamente politico, anzi, partitico. Uno scimmiottamento. Io credo che la necessità di espellere sia connaturata all’idea stessa di avanguardia: in fondo, una corrente d’avanguardia è un vero e proprio “partito artistico”.

    Eppure, eppure… Un’analisi interessante e non moralistica della necessità di espellere (con specifico riferimento proprio al surrealismo) si trova nel libro di Alain Badiou “Il secolo”.

    Detto questo:

    il commento di Artaud che riporti contiene un’evidente aporia (“Grazie al cazzo, è Artaud!”, potresti rispondermi!). Nel momento in cui usa la parola “rivoluzione” nel suo senso etimologico (cfr. il testo di Piperno linkato sopra da JimmyJazz), e parla di “regressione” e “ritorno alle abitudini di Medioevo”, sta descrivendo né più né meno che l’instaurazione di un ordine. Non si scappa. Il ricorso stesso alla parola “abitudini” allude all’instaurazione di un ordine. L’uso dell’espressione “metamorfosi delle essenze” gli serve a tenersi sufficientemente lontano dall’immagine del passaggio di poteri, ma in realtà quella che propone non è un’alternativa, nemmeno sul piano del paradosso.

    Certo, una rivoluzione edifica un nuovo ordine. Ma questo è il punto di partenza della riflessione, non quello di approdo. E’ un dato (participio passato del verbo “dare”), e non possiamo restituirlo. E’, direi, un universale. C’è un “equilibrio termodinamico” verso cui la rivoluzione (ma in realtà ogni evento umano) tende dopo una fase iniziale di grande creatività e potenza plurale, e allora la scommessa è: *quanto a lungo* si può far durare la fase creativa e molteplice? In che modo ritardare la caduta nell’entropia e attenuarne le conseguenze? Come mantenere malleabile il fango dell’auto-narrazione popolare, quando grosse potenze “cospirano” (sovente senza virgolette) per essiccarlo?

    Può il nuovo ordine “disordinarsi” da solo per impedire il proprio irrigidimento? Secondo Badiou, la rivoluzione culturale cinese (e tutto il dibattito in Cina sull’Uno-che-diventa-due) fu un esperimento di questo tipo. Io non lo so, non conosco abbastanza quel paese e quelle vicende, ma credo di poter affermare con una certa sicurezza che, ehm, l’esperimento è fallito rovinosamente. E così siamo daccapo. Ma, appunto, il fatto che al disordine segua un ordine è il punto di partenza, non di arrivo. In parole povere: il fatto che le rivoluzioni del passato siano fallite non mi porta a rigettare la rivoluzione. Mi porta a “ripetere” quei tentativi, sempre nel senso di: tornare a porre quei problemi nel nuovo contesto.

  27. @ WM1
    Grazie per la risp. Ciò che mi ha colpito del brano è il riferimento al cambiamento del paradigma “tempo” come condizione necessaria alla vera Rivoluzione (e quindi il link col tuo intervento). A. credo usi “ritorno al medioevo” come provocazione, per insistere sul cambiamento radicale del concetto di tempo necessario alla rivoluzione. Come hai detto, non è certo il caso di discutere sul Surrealismo e le posizioni di Artuad. “Surrealismo” è un significante che per Artuad sta a “ipocrita” e rappresenta chi vuole che – tutto cambi affinchè tutto resti come prima – Infatti prosegue dicendo:

    “Vi sono bombe da mettere in qualche posto, ma alla base della maggior parte delle abitudini del pensiero presente, europeo o no. Di tali abitudini i signori surrealisti sono impregnati molto più di me, ve lo assicuro, e il loro rispetto per certi feticci fatti uomini e la loro genuflessione davanti al Comunismo ne è la prova più evidente”

    Io penso che A. abbia messo in luce, appunto, quella necessità di “ripensare” il Comunismo come lo intendi te, Badiou e Zizek. E lo condivido. Eppure oggi, quanti si genuflettono ancora sotto le bandiere rosse (o nere) tentando di risolvere i problemi di *oggi* con i concetti di *ieri*? Da ventisettenne, ho visto coetanei scoprire un’aqua-calda-politica che li sta portando o ad abbracciare gli estremismi ideologici o i movimenti di contro-politica (zeitgeist,grillo etc.). Poi c’è chi, come noi, cerca di suggerire “what if”, di guardare di sbieco, di fare teoria-militante…ma senza scadere nel relativismo e rivendicando una precisa attitudine politica (la – doppie virgolette – “”sinistra””).
    Ergo domanda finale: si può essere come Deleuze, cioè si può essere di sinistra senza iscriversi (metaforicamente parlando) al partito?

  28. @ Nexus
    a quest’ora ci saranno gia’ lettori in preda a ridarella e intenti a coglionarmi piu’ o meno benevolmente per il tuo avermi piazzato gomito a gomito con due pezzi grossi, anzi, grossissimi della filosofia :-) Innalziamo una muraglia di disclaimer e “si parva licet”. Io sono un cantastorie che ogni tanto prende e volgarizza qualche concetto che gli sembra utile per presentare meglio le sue “zirudele” e condividere qualcosa con chi le ascolta.
    Alla tua domanda rispondo: secondo me si’, pero’ non basta. Si’, perche’ mi trovo da anni in quella condizione e lavoro tutti i giorni con persone che la vivono. Non basta, perche’ il problema dell’organizzazione rimane. Ok, il partito e l’avanguardia oggi sarebbero inadeguati, ma un’organizzazione ci serve come l’aria o poco meno. Senza organizzazione si combina poco e si fa piu’ testimonianza che altro.

  29. Mi interessa molto questa questione sollevata da Nexus:

    “Anche oggi, i così detti movimenti “non-ideologici” (ecologismo, beppegrillismo, zeitgeismo) dovrebbero essere analizzati e smascherati per quello che sono: tentativi di innalzarsi al di sopra di tutto e tutti . Quello che Zizek chiama “l’altro dietro l’altro”, ovvero credere che ci sia “un altro ordine” che gestisce segretamente l’ordine costituito. ”

    Mi interessa perche’ questi movimenti stanno irretendo un sacco di ragazzi/e. Questi movimenti hanno in comune tra loro una massiccia dose di complottismo, che occupa lo spazio lasciato vuoto dalla rimozione del conflitto di classe, dell’ analisi dei rapporti di proprieta’ e del modo in cui si accumula il capitale, ecc. . La tendenza a cercare le cause del disastro in qualche oscura cospirazione e’ tanto piu’ assurda in quanto le cause del disastro sono sotto gli occhi di tutti. E’ come quando uno cerca gli occhiali in tutti i possibili anfratti e poi si accorge che sono appoggiati sulla scrivania. Se il fascismo e’ sintomo di una rivoluzione fallita, allora il fascismo 2.0 alla Grillo&co forse e’ il sintomo del fallimento dei movimenti altermondialisti di dieci anni fa?

  30. @ tuco
    secondo me si’, per molti versi e’ cosi’. Il nostro fallimento di dieci anni fa ha lasciato vuota e incustodita una “casella” dell’ordine simbolico che non puo’ rimanere vuota a lungo. Se non la riempie un processo di liberazione, la riempira’ un surrogato. Al suo stato nascente, quand’e’ ancora movimento e non regime, un fascismo e’ sempre un surrogato di tal fatta.

  31. A mio avviso è ora di operare sul fronte dei “complottismi” utilizzando non solo gli strumenti della critica ideologica (di cui la sinistra in parte si serve ma che vengono puntualmente strumentalizzati – ergo – per ogni copia di “Repubblica/Il Fatto” ce ne sarà una di “Libero/Il Giornale”), ma anche quelli dell’analisi audiovisiva. Per un regime 2.0 ci vuole una critica 2.1.
    Mi pare che su questo sito si faccia. Linkando video, parafrasando citazioni e soprattutto militando.
    Ciò che mi piacerebbe fare (e mi ripropongo di farlo) è analizzare alcuni servizi tg, videoclip, trasmissioni tv sul piano tecnico (inquadrature, montaggio, scaletta etc.) per mostrare come sia la forma narrativa, e non il contenuto, a determinare l’aderenza di uno spettatore (anche il più informato) ad una determinata idea. Nei video dei “complottisti” ad esempio ricorre sempre un tono musicale grave, una voce senza volto (“acousmatica” come dice Chion), una gamma di colori scuri, un climax e una risoluzione…insomma tutti gli ingredienti per un gran bella spy story.
    Lo abbiamo visto col video linkato sopra, ma ricorre anche in alcuni servizi di Annozero (v. questo video http://www.youtube.com/watch?v=Y8kDqkU939Q dove attraverso il montaggio ellittico/camera a mano/inq. strette/selezione di errori lingustici, il marito di N.Macrì è “rappresentato” come un pazzoide!) o in alcune mirabili puntate di Radio Londra di Ferrara (da manuale quella su Ruby (http://www.youtube.com/watch?v=GMds3EAW34c).

    In ultimo, il problema di fondo non è [ri]scoprire i contenuti ma le forme. Non i fatti, ma gli Eventi. Non la cultura (nozionistica), ma l’ermeneutica. Ce la faremo?