di Luca Casarotti (guest blogger)
Questo articolo prende le mosse da uno spaccato di esperienza personale. Un convergere di circostanze mi ha portato, nell’ultimo anno, a seguire da vicino alcuni procedimenti per diffamazione nei quali sono stati coinvolti a diverso titolo compagni e amici.
È accaduto nel mio lavoro insieme al collettivo Senza Slot, sfociato nella scrittura a più mani del libro Vivere Senza Slot. Storie sul gioco d’azzardo tra ossessione e resistenza; è accaduto seguendo la campagna #Zittimai, connessa alla vicenda giudiziaria occorsa a Mauro Vanetti e terminata con la sua assoluzione.
Per tacere delle molte discussioni in cui qualcuno, rimasto a corto di argomenti o in preda alla rabbia, finisce col minacciare di querelare l’interlocutore o gli interlocutori. È successo anche qui su Giap, due volte.
Pochi mesi fa, nella discussione in calce a un post di Tuco e Andrea Olivieri, ultima parte (per ora) dell’inchiesta sul Movimento Trieste Libera, il libraio Paolo Deganutti, appartenente alla massoneria e molto attivo nell’ambiente del neoindipendentismo triestino (su Facebook si firma «Francesco Giuseppe») ha minacciato di trascinare Wu Ming 1 in tribunale «per insegnargli la buona educazione».
Pochi giorni fa, il post di Salvatore Talia su fascismo e Wikipedia ha incollerito l’utente «Presbite» che, nel forum di dibattito dell’enciclopedia on line (chiamato «Bar») ha minacciato di querele l’autore e il blog che lo ospitava (e ci ospita)… per poi intervenirvi direttamente con una sfilza di commenti iracondi e pieni di insulti (*).
Le banche dati sono piene di vicende simili, ben più gravi di queste. Esaminandole, si traggono due conclusioni.
La prima, e meno preoccupante, è che assai di frequente chi minaccia querele non sa in cosa consistano i reati di ingiuria e diffamazione.
La seconda è che di contro c’è chi si serve consapevolmente dell’istituto della querela, e lo stesso vale per le cause civili di risarcimento danni, come strumento per tacitare il dissenso e ostacolare il lavoro di informazione e documentazione, specie se intrapreso dal basso, a volte riuscendoci e a volte no.
Per cominciare a capire di cosa stiamo parlando, occorre anzitutto partire dalla norma del codice penale che definisce la diffamazione, ovvero quella dell’art 595.
«Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente [cioè fuori dei casi di ingiuria, V. più avanti], comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la multa da euro 258a euro 2.582 o la permanenza domiciliare da sei giorni a trenta giorni o il lavoro di pubblica utilità da dieci giorni a tré mesi.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della multa da euro 258 a euro 2.582 o della permanenza domiciliare da sei giorni a trenta giorni o del lavoro di pubblica utilità da dieci giorni a tré mesi.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tré anni o della multa non inferiore a euro 516.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una sua rappresentanza o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate».
A noi interessa in particolare il primo comma, in cui viene spiegato qual è il tipo di comportamento che dà luogo alla diffamazione: nei commi successivi sono previste delle ipotesi che il legislatore reputa più gravi, per via delle modalità o per il particolare rilievo attribuito al soggetto diffamato, ma il tipo di condotta rimane lo stesso.
Si tratta quindi di capire cosa si intende per «altrui reputazione». All’università ci insegnano che la reputazione è «la concretizzazione della dignità sociale che appartiene a tutti gli uomini, indipendentemente dal loro stato, dalla loro professione etc». Si esprime così, ad esempio, uno dei manuali più usati nei corsi universitari di diritto penale, quello scritto da Giovanni Fiandaca ed Enzo Musco.
Cosa queste parole vagamente oracolari vogliano dire in concreto, beh, è la prassi dei tribunali a deciderlo. Con le inevitabili differenze di vedute che possono esserci, specie in materie come il diritto di cronaca e di critica, in cui conta molto il convincimento valoriale di chi decide. E se oggi può far sorridere, ma nemmeno tanto, lo zelo pretorile d’inizio anni ’70 che spingeva un «giovane giudice con la toga» ad accusare Fabrizio De André di istigazione a delinquere dopo che nella borsetta di una ragazza vennero ritrovati un po’ d’erba e alcuni testi del cantautore trascritti a penna dall’abietta giovinastra (e cito una vicenda faceta, ché ben più colossali e dolorosi furono gli abbagli giudiziari di quella temperie), è persino tautologico dire che anche nella giurisprudenza odierna ci sono orientamenti più o meno rigorosi.
La Corte di Cassazione afferma ormai da tempo la massima per cui non si configura diffamazione quando sussistono i tre requisiti che caratterizzano il diritto di cronaca, tutelato dall’art. 21 della costituzione, ovvero: la verità (nel senso di scrupolosa verifica delle fonti») del fatto narrato, l’interesse pubblico a che quel fatto sia narrato, e la continenza del linguaggio utilizzato per narrarlo.
Alcune delle sentenze più recenti in cui è ribadito questo orientamento sono raccolte nella Rassegna penale 2013.
In una di esse si legge:
«Il diritto di critica, garantito costituzionalmente attraverso il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero, incontra il solo limite della verità della notizia, della sua rilevanza sociale e della continenza espressiva», mentre l’eventuale illiceità della fonte può rilevare sotto altri profili ed «il soggetto leso […] non può contestare che la diffamazione sia scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca, ove effettuato secondo le modalità ricordate». [sentenza della Corte di Cassazione, V Sezione penale, 19 febbraio 2013 – depositata il 12 aprile 2013, n. 17051.]
Già questa prima considerazione varrebbe a escludere la diffamazione in molti dei casi in cui l’interlocutore, incapace di replicare, finisce con il minacciare querele, come nei thread infuocati di cui si parlava prima. E anche qualora reato ci fosse, è verosimile che la giurisprudenza lo qualifichi come ingiuria (punita meno gravemente) e non come diffamazione. Sempre Fiandaca e Musco scrivono infatti che per esserci diffamazione
«L’offesa alla reputazione deve essere realizzata, “fuori dei casi previsti dall’articolo precedente”, e cioè in assenza dell’offeso […] Secondo la dottrina e la giurisprudenza largamente dominante l’assenza non va intesa in senso rigorosamente fisico-spaziale, ma come impossibilità di percezione fisica dell’offesa». [Diritto penale. Parte speciale, vol. II, tomo I, Zanichelli, Bologna 2013, p. 100]
Quindi se l’offeso partecipa al contesto nel quale gli è rivolta la frase offensiva (e magari controbatte), ammesso che la frase sia realmente offensiva, è probabile si ricada più nell’ingiuria che nella diffamazione.
Ma al proposito, ancora la Cassazione sostiene che non c’è alcuna ingiuria quando si esprime, pure aspramente, disistima per un comportamento o una presa di posizione altrui, dal momento che «non è obbligatorio stimare qualcuno». [Cass. Pen., 17 febbraio 2004, in «Diritto e giustizia», 2004, n. 34,49]
In un’altra sentenza precisa:
«l’esercizio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione delle idee, sancito dall’art. 21 Cost., rende pienamente legittime anche forme di disputa polemica … pure … caratterizzate dall’uso di espressioni di dura disapprovazione o riprovazione e dall’asprezza dei toni, purché l’esercizio della critica non trasmodi in attacchi personali … e non sconfini nell’ingiuria, nella contumelia e nella lesione della reputazione dell’avversario». [Cass. Pen., Sez. V, 5 luglio 2013 – dep. 20 settembre 2013, n. 38971]
Invece di discutere di diritto penale, però, in casi del genere è più utile indagare il modo in cui tutti noi stiamo sul web, la ricerca più o meno ossessiva di microfama che rischia di coglierci, i dispositivi che sono all’opera mentre stiamo sui social network: come fa da anni il Collettivo Ippolita, come hanno fatto Loredana Lipperini e Giovanni Arduino nel loro Morti di fama, e come di recente ha fatto anche Giuliano Santoro nel saggio Cervelli sconnessi, che prosegue e amplia i ragionamenti sviluppati nel precedente Un Grillo qualunque.
Nonostante l’infondatezza, la querela o la citazione in giudizio possono comunque essere strumenti di pressione.
Quanto più è grande la sproporzione tra le parti in causa (nei mezzi economici, nel potere mediatico, anche solo nella disponibilità di tempo per poter seguire i processi), tanto più aumenta la pressione.
La vicenda di Senza Slot dice molto su come possono funzionare dinamiche di questo tipo.
Assotrattenimento contro Senza Slot
Nel maggio 2013, il collettivo pavese è stato oggetto di un esposto alla magistratura. A presentarlo era il legale del presidente di Assotrattenimento 2007, associazione che fa parte di Sistema gioco Italia, che a sua volta è componente di Confindustria: in pratica si tratta del sindacato padronale che difende gli interessi degli imprenditori nel settore del gioco d’azzardo liberalizzato. Quattro attivisti da una parte, un’associazione imprenditoriale e il suo collegio di avvocati dall’altra. Con ogni probabilità l’esposto era stato depositato nel tentativo di spostare al chiuso delle aule giudiziarie la battaglia contro la diffusione dell’azzardo nei luoghi della quotidianità, che stava facendo parecchio parlare di sè grazie alla presenza in rete di Senza Slot e al suo lavoro sul territorio insieme a molti altri soggetti. Su Carmilla e su Dinamo Press ho raccontato quei primi mesi di attività.
Convinta, non a torto, della superiorità dei suoi mezzi, Assotrattenimento emetteva comunicati stampa e il suo presidente Massimiliano Pucci rilasciava dichiarazioni pubbliche (dal minuto 07:24) in cui Senza Slot era definita una «cellula», termine quanto mai suggestivo, e i suoi componenti «delinquenti».
Era evidente il frame che queste esternazioni volevano far passare: imprenditori che agiscono nella legalità vs contestatori anticapitalisti che trasgrediscono le leggi e attentano al sistema. Ovvero, l’ennesima variante della sempiterna dicotomia violenza/non-violenza che abbiamo imparato a riconoscere nelle sue incarnazioni.
Ciò che Ass.tro non aveva messo in conto era che attorno al collettivo pavese si attivasse immediatamente una rete di solidarietà, che in seguito a ciò venisse lanciato un appello in grado di raccogliere un gran numero di adesioni nel giro di poche settimane.
E non aveva messo in conto che i quattro Senza Slot mantenessero i nervi saldi e si dedicassero a smontare pezzo per pezzo tanto i presupposti dell’esposto, che si basava sulla decontestualizzazione di alcune frasi contenute in un volantino distribuito dal collettivo durante la manifestazione nazionale contro il gioco d’azzardo liberalizzato del 18 maggio 2013, tanto il frame legalitario-formale su cui poggia tutto il discorso dei sì slot, scrivendone dapprima su senzaslot.it, poi nel libro Vivere Senza Slot, e ora anche in un blog sul fattoquotidiano.it.
D’altronde, reti solidali simili a quella che ha circondato il collettivo pavese non tardano ad attivarsi quando ce n’è bisogno, quando chi ne ha bisogno lotta per una causa che raccoglie appoggio e consensi diffusi. Ce lo insegna da vent’anni la Val di Susa. C’è da credere che la stessa LTF (che quanto a denunce non si risparmia) abbia provato una certa ammirazione vedendo l’esito della recente raccolta fondi promossa per sostenere le spese legali di Alberto Perino, Loredana Bellone e Giorgio Vair: più di 300.000 euro in un mese, importo addirittura superiore a quello che i tre attivisti hanno dovuto risarcire all’azienda.
Ma almeno un altro effetto collaterale l’esposto di Ass.Tro contro Senza Slot lo ha avuto: è stato un efficace punto d’attacco dal quale iniziare a raccontare la storia del progetto, nel libro uscito lo scorso novembre. Il timore della diffamazione in realtà ha agito ben più in profondità, influenzando -com’era inevitabile- tutta la fase della scrittura. E se è sicuramente vero che ciò è servito da stimolo per elaborare strategie argomentative e retoriche che consentissero al discorso di rimanere corrosivo senza incappare in denunce, è anche certo che questo «self restraint», quando ti influenza troppo, sfocia nell’autocensura preventiva.
Lo scriveva Girolamo De Michele in un commento di qualche mese fa: ci sono ansie che devi imparare a controllare e che ti possono cogliere impreparato, pure se ci sei abituato:
«L’intimidazione oggettiva di una querela/denuncia. L’impossibilità (se sei scafato) di poter dire in pubblico quello che magari in privato puoi dire, perché la parola sbagliata al momento sbagliato ti frega: e se non sei scafato, l’oggettiva inferiorità di essere un parvenu davanti a dei professionisti della parola che sanno anche come e quando ti potrebbe scappare la parola sbagliata. Il timore di essere punito con una sanzione economica che non potresti permetterti, a fronte della possibilità di dichiararti colpevole e transare per una cifra comunque pesante, ma ancora compatibile con le tue sostanze. E una condizione di vita non sempre compatibile con lo sbattimento che comporta l’iter di una causa legale con tre gradi di giudizio. […]chiunque può querelare chiunque, in teoria, ma non chiunque può vivere sotto querela».
Senza Slot, o meglio Pietro Pace, a nome del quale è registrato il sito, ha a sua volta sporto querela, per le dichiarazioni dei rappresentanti di Assotrattenimento linkate sopra: il procedimento è all’inizio, quindi se ne riparlerà più avanti. Di certo, il collettivo è riuscito a schivare il tentativo di messa all’angolo operato dal sindacato confindustriale: anzi, ha rilanciato la sfida comunicativa e prima ancora culturale, invece di finire ad occuparsi solo delle sue vicende giudiziarie e di conseguenza perdere mordente, com’è avvenuto spesso in casi analoghi.
Corrado Clini contro Gianfranco Bettin e altr*
Eppure, anche in fatto di tutela della parte debole, l’orientamento della Cassazione sembra essere netto. Con riferimento al caso di un giornalista imputato di diffamazione per aver riportato in un’intervista dichiarazioni diffamatorie dell’intervistato, la Corte argomenta in due distinte sentenze, una delle quali a sezioni unite:
«[l’intervista] è da ritenere penalmente lecita, quando il fatto in sé dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto in cui le dichiarazioni sono rese, presenti profili di interesse pubblico all’informazione tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e da giustificare l’esercizio del diritto di cronaca». [Cass. Pen., Sez. Un., 30 maggio 2001 – dep. 16 ottobre 2001, n. 37140]
«l’esimente del diritto di cronaca può essere riconosciuta all’intervistatore non solo quando vi è l’interesse pubblico a rendere noto il pensiero dell’intervistato in relazione alla sua notorietà, ma anche quando sia il soggetto offeso dall’intervista a godere di ampia notorietà nel contesto ambientale in cui viene diffusa la notizia». [Cass. Pen., Sez. V, 11 aprile 2013 – dep. 2 luglio 2013, n. 28502]
In un’altra decisione leggiamo ancora:
«Quanto più è eminente la posizione o la figura pubblica del soggetto, quanto più socialmente, storicamente o scientificamente rilevante è la materia del contendere, tanto più ampia deve essere la latitudine della critica». [Cass. Pen., n. 38971/2013 cit.]
E «socialmente, storicamente, scientificamente rilevante» è, ad esempio, l’interesse a conoscere se tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 il petrolchimico di Marghera smaltisse rifiuti radioattivi e in particolare uranio. Nel 2005 Corrado Clini, futuro ministro dell’ambiente e allora direttore generale dello stesso ministero (quindi, con le parole della Corte, persona di «eminente posizione e figura pubblica»), aveva citato in giudizio il giornalista Riccardo Bocca, la parlamentare Luana Zanella e il consigliere regionale veneto Gianfranco Bettin, che avevano pubblicato un articolo sull’Espresso l’uno e proposto due interrogazioni – rispettivamente alla Camera e al presidente della giunta regionale- gli altri, in cui chiedevano lumi sulla vicenda, che incrociava tra l’altro le inchieste di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Bettin ha ricostruito gli eventi in una lettera aperta che è molto importante leggere. Clini, al quale né l’articolo né le due interrogazioni, pur citandolo, muovevano alcun addebito, chiese danni per un milione di euro. Il processo si è concluso l’anno scorso con il rigetto della domanda risarcitoria dell’ex ministro. è da notare che Clini ha agito in giudizio contro una parlamentare e un consigliere regionale, che non potrebbero essere chiamati a rispondere per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, come prevedono gli artt. 68.1 e 122.4 della Costituzione. Presentare interrogazioni costituisce senza dubbio un atto di esercizio delle funzioni.
[N.d.R. Mentre impaginavamo quest’articolo, l’ex-ministro Clini è stato arrestato per peculato.]
Paniz contro Vajont.info
Sempre in tema di diritto di critica, se i limiti sono quelli fissati dalla cassazione, parrebbero del tutto sproporzionati provvedimenti come quello con cui il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Belluno, nel febbraio 2012, ha imposto l’oscuramento del sito vajont.info. [Preciso che qui svolgo considerazioni di pura opportunità e che non ho potuto consultare per ovvi motivi gli atti del procedimento]
A chiederlo e ottenerlo erano stati due parlamentari pdl: l’avvocato Maurizio Paniz, resosi celebre per le sue dichiarazioni alla Camera sul caso Ruby, e l’ancor più famigerato Domenico Scilipoti. Ragione della richiesta era una frase a loro avviso diffamatoria, contenuta in un post che li riguardava. L’ordinanza che disponeva il sequestro, e quindi l’oscuramento integrale del sito, era stata emessa in via cautelare, cioè prima che una sentenza accertasse se il reato fosse stato commesso o meno. Il tribunale ha poi ritenuto diffamatoria la frase incriminata e ha condannato il proprietario del sito, ma il sequestro è stato revocato. Resta il fatto che sulla base di una singola proposizione era stata imposta la rimozione di un intero archivio web sulla strage del 1963, con gli effetti che possiamo tutt’ora verificare ): a nessuno, credo, verrebbe in mente di disporre il sequestro di youtube perché contiene un video diffamatorio. E resta il fatto che due parlamentari hanno agito in giudizio contro una persona che forse ha una qualche notorietà in ambito locale, ma che di certo non gode della loro stessa visibilità mediatica. Visibilità che Paniz non ha mancato di sfruttare, rivolgendo al blogger parole di miele .
Dif€nd€r$i co$ta
Dall’analisi delle norme e delle sentenze che si è provato a fare sin qui, non è emerso ancora un altro ordine di problemi. Anzitutto non è detto che un processo arrivi in Cassazione, perché tre gradi di giudizio costano, e non tutti se la sentono di rischiare ricorsi dall’esito incerto. Ma anche un grado solo costa: se una querela non è tanto infondata da superare l’archiviazione, si dovrà celebrare un processo, e il processo comporta una serie di spese. Anche se l’imputato viene prosciolto, questo non significa che non debba pagare quelle di sua spettanza. Perché il querelante venga condannato a pagare le spese sostenute dall’imputato e a risarcirgli i danni devono ricorrere le condizioni previste dall’art. 427 del codice di procedura penale: richiesta dell’imputato, suo proscioglimento con le formule «il fatto non sussiste» o «l’imputato non lo ha commesso», per i danni occorre anche la colpa grave del querelante. Inoltre, proporre una querela non ha alcun costo, e per redigerla non serve per forza l’assistenza di un avvocato: anzi, può essere proposta anche oralmente.
Dunque è sufficiente un rinvio a giudizio per innescare il meccanismo. Lo dimostra il caso di Mauro Vanetti. Per i dettagli sulla sua vicenda processuale e sul clima pesante che si respira a Pavia rimando al post già linkato sopra e al relativo thread. Dopo un numero di udienze inusuale in un processo per diffamazione, Mauro è stato prosciolto: ciò nonostante, ha dovuto pagare quasi 1300 euro di spese, e la somma avrebbe potuto essere anche più alta. Se i costi sono questi, è evidente che in ben pochi si possono permettere di esporsi alle querele a cuor leggero: sicuramente non lo possono fare gli attivisti, i giornalisti freelance o precari, e in generale tutti coloro che fanno, spesso nemmeno per professione, quotidiano lavoro di documentazione, archiviazione, inchiesta.
Diverso è il discorso in una causa civile, dove chi decide di promuoverla deve pagare in partenza una somma, il contributo unificato, che varia in base al valore della causa. Se uno chiedesse un risarcimento danni da 52000 a 260000 euro, dovrebbe anzitutto sborsarne 660 di contributo unificato, che salirebbero a 1056 per una causa fino a 500000 euro e così via. Se poi la perdesse, dovrebbe effettivamente pagare anche le spese della controparte, come stabilito dall’art. 91 del codice di procedura civile.
E le prove?
Ma il processo a Mauro è interessante – e per certi versi paradigmatico – almeno sotto un altro profilo: quello probatorio. Si trattava di capire se uno screenshot, o addirittura la sua fotocopia (unico materiale prodotto dal querelante), potessero essere elementi sufficienti a provare la penale responsabilità dell’imputato. Della questione si era già occupato il giapster Flavio Pintarelli in un articolo sul blog Deep, che riportava l’opinione del giurista Marco Giacomello, avvocato e studioso di diritti e libertà digitali, secondo cui
«querele basate sulla produzione di meri screenshot di norma sono abbastanza deboli. Per sostanziarle tecnicamente sarebbe utile utilizzare strumenti di analisi e forensics come hashbot. Tuttavia questi strumenti – contrariamente a quanto si crede – non sono in grado di attribuire valore legale alle prove (giudizio che spetta solo al giudice), ma servono esclusivamente a fornire al giudice un aiuto per la certificazione della validità e la valutazione dei materiali prodotti».
Giacomello cita una sentenza della Cassazione in cui il concetto viene ulteriormente ribadito:
«Le informazioni tratte da una rete telematica sono per natura volatili e suscettibili di continua trasformazione, e […] va esclusa la qualità di documento in una copia su supporto cartaceo che non risulti essere stata raccolta con garanzie di rispondenza all’originale e di riferimento ad un ben individuato momento».
Dello stesso avviso è il giudice del processo a Mauro: in assenza di una norma che fissi in maniera univoca un criterio di valutazione dello screenshot o della sua fotocopia, ricorre all’analogia, e scrive nella sentenza, riprendendo alla lettera uno degli argomenti difensivi:
«La situazione processuale è paragonabile a una diffamazione a mezzo stampa in cui non sia stato verificato se la copia dell’articolo di giornale prodotta corrisponda a un giornale effettivamente uscito in edicola in una determinata data o a una diffamazione televisiva in cui non vi sia certezza sul fatto che il contenuto del video […] sia stato realmente oggetto di diffusione attraverso le trasmissioni del palinsesto dell’emittente o ancora, paradossalmente, a un omicidio privo di accertamento in ordine all’avvenuta morte della vittima».
E spetta prima di tutto al pubblico ministero l’onere di provare che sia stato l’imputato a commettere il fatto, non all’imputato dimostrare la propria estraneità: cosa che si dimentica, negli estenuanti dibattiti mediatici sulla giustizia penale, in cui l’imputato di solito è già colpevole per il fatto stesso di essere imputato: se è lì un motivo ci sarà!
Però della sentenza Vanetti colpisce specialmente un inciso:
«Ben altra impostazione – esclusivamente contenutistica – avrebbe avuto il giudizio se l’imputato avesse scelto […] di rivendicare l’avvenuta pubblicazione dei messaggi e farne proprio il contenuto, ma egli ha scelto un’altra, legittima via».
Quasi ci si attendesse che di default un militante politico, quale è Mauro, in prima battuta rivendichi in giudizio il contenuto di una frase, e non chieda, al pari di chiunque altro, di accertare chi ne sia l’autore. Ma anche il querelante di Mauro è un politico, assessore e esponente cittadino del Nuovo centrodestra. E non bisogna dimenticare che insieme a Mauro sono state querelate diverse altre persone, tutte politicamente attive. Che questi processi fossero la piega giudiziaria assunta da una battaglia politica, del resto, nessuno a Pavia si sognava di negarlo.
Dando pubblicità al processo, al contesto ambientale in cui si è collocato e all’assoluzione di Mauro, di cui ha illustrato bene presupposti e motivi in fatto e in diritto, la campagna #Zittimai si è occupata di mostrare quale fosse il contenuto, in senso ampio politico, sotteso a tutta questa vicenda.
Ecco allora che in casi simili, e visto da quest’angolatura, l’uso della querela si rivela per quel che nei fatti può diventare, cioè uno strumento di pressione politica.
Dissenso a Vigevano
All’incrocio tra i temi dell’utilizzo consapevole della rete, del valore probatorio degli screenshot e dell’uso della querela come silenziatore di dissenso sta un’altra vicenda accaduta in provincia di Pavia. Nel giugno dell’anno scorso, il sindaco leghista di Vigevano Andrea Sala dichiarava di aver querelato, ancora una volta per diffamazione, l’ottantina di persone che lo avevano criticato su due gruppi facebook, dopo che la trasmissione tv Le Iene aveva mandato in onda un servizio sulla gestione delle mense scolastiche cittadine: notizia che circolava sui media nazionali anche prima di quel servizio. Sala diceva di aver allegato alla querela «le immagini fotostatiche dei post pubblicati che toccavano la sfera personale e familiare, o che offendevano l’onorabilità della persona»; e il suo avvocato aggiungeva che «le indagini preliminari dovranno stabilire la connessione tra il nome che appare sul computer e la persona che ha scritto quelle frasi offensive».
Resta valida anche in questo caso la considerazione di Giacomello per cui un’accusa fondata solo sugli screenshot ha più di un punto debole. Ma soprattutto non sembra diffamatorio chiedersi quanto sia intelligente il comportamento di un sindaco che preferisce prendersela con i suoi stessi cittadini e solleva cortine fumogene tutte localistiche, pur di non rispondere nel merito alle questioni politiche che gli vengono poste. Di quell’ottantina di utenti, alcuni si erano lasciati andare a commenti di pancia, altri si erano limitati a un «like»!
Questo naturalmente non legittima iniziative giudiziarie ritorsive e indiscriminate, ma dimostra che stare sui social network senza troppo preoccuparsi dei meccanismi disinibitori a cui essi conduconopuò anche costar caro, oltre a essere poco utile proprio in termini di efficacia della critica. Nemmeno si può dire che la querela di massa avesse quella gran valenza politica, dato il tenore medio dei commenti: più semplicemente, rivela la generale insofferenza al dissenso di chi occupa posizioni di comando, persino in contesti piccoli e piccolissimi: anche quando le critiche sono a bassa intensità, o banalissime espressioni di malessere.
La diffamazione al tempo del governo Renzi
Di riforme al reato di diffamazione si sente parlare spesso. L’ultimo disegno di legge in materia è stato presentato da Enrico Costa, deputato prima in quota pdl, passato nel frattempo al ncd e divenuto viceministro alla giustizia del governo Renzi. La proposta contiene una classica norma-manifesto, l’abolizione del carcere per diffamazione, che se non è un’iniziativa ad hominem, di sicuro è ad paucos homines : la condanna alla reclusione per diffamazione è a dir poco infrequente. Comunque nessuno rischierebbe più la galera nemmeno in astratto, buona notizia! Non fosse che accanto all’abolizione della pena detentiva, il ddl prevede un notevole inasprimento di quella pecuniaria: fino a 22.500 euro per la diffamazione commessa «con qualsiasi mezzo di pubblicità, in via telematica ovvero in atto pubblico», fino a 60.000 per la diffamazione a mezzo stampa, fino a 7.500 per l’ingiuria (queste sono solo le multe, cui si deve aggiungere il risarcimento del danno).
Inoltre, qualora il ddl dovesse diventare legge, la diffamazione a mezzo stampa verrebbe estesa a categorie di pubblicazioni non comprese nella versione vigente della norma, come le testate giornalistiche online registrate. Ad oggi, la legge sulla stampa, la n. 47/1948, prevede (art. 8) che «i soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità» possono chiedere la rettifica al quotidiano, al periodico o all’agenzia di stampa. Il ddl vorrebbe che la rettifica venisse pubblicata senza titolo, senza commenti ed estenderebbe la disciplina non solo alle testate online, ma anche alla stampa non periodica, vale a dire ai libri: alla prima ristampa, l’editore dovrebbe inserire la precisazione dell’interessato, e se non c’è nessuna ristampa, oppure è tardiva, lo dovrebbe fare sul proprio sito ufficiale.
Da questi pochi rilievi si capisce che dietro all’intento abolizionista con cui la proposta è stata propagandata, si celano due chiari obiettivi di politica legislativa: includere esplicitamente le comunicazioni telematiche nell’ambito della diffamazione (cosa che già avviene, senza bisogno di alcun intervento legislativo) e prevedere sanzioni più elevate proprio per chi si esprime soprattutto su internet.
Invece di affrontare i problemi strutturali e le limitazioni alle libertà fondamentali che da tempo cercano di evidenziare le stesse sentenze della giurisprudenza più attenta, e con essa anche pericolosi antagonisti , una riforma in questi termini avrebbe l’aria di un ennesimo esempio di politica delle emozioni , sull’onda della recente condanna alla reclusione inflitta a un giornalista conosciuto, e dei frequenti strali sugli insulti di anonimi via internet . È vero che la proposta contempla una sanzione da 1000 a 10.000 euro che il giudice può applicare al querelante in caso di infondatezza della querela, ma solo se viene emessa una sentenza di non luogo a procedere perché «il fatto non sussiste», o «l’imputato non lo ha commesso». Quindi, ogni volta che il processo supera l’udienza preliminare, cioè il momento in cui può essere emessa una sentenza di non luogo a procedere, la sanzione non opera, anche se l’inputato viene prosciolto esattamente con le stesse formule. Senza contare che una sanzione simile potrebbe essere un’arma a doppio taglio, e scoraggiare chi non potrebbe permettersi di pagarla dal far valere in giudizio il suo diritto.
Quanto a quei problemi strutturali, poi, filosofi e sociologi seri, non l’orecchiante che è chi scrive, possono dire qualcosa in più: possono spiegare con lessico più appropriato del mio i dispositivi che li hanno determinati e le tattiche per metterli in discussione. Magari, visto che così tanto si discetta di rete, partendo proprio dall’idea di reti di deleuzo-guattariana memoria. Io sono un giurista (per quanto laureato con una tesi di diritto romano… su Deleuze) e mi fermo qui. Nella speranza che questo post possa fare da spunto per mettere in condivisione altre storie, altre esperienze, e per elaborare strategie e pratiche che rendano sempre più difficile alla più o meno potente suscettibilità di turno chiuderci la bocca, tapparci la penna, scollegarci la tastiera… Scegliete l’immagine che volete: il concetto è quello.
Disclaimer: al momento in cui scrivo, ho conseguito la laurea in giurisprudenza da nemmeno sei mesi, e cominciato la pratica forense da poco più di due. Data la mia esperienza professionale meno che minima, ho ritenuto doveroso far vagliare il testo dell’articolo all’avvocato presso il quale svolgo la pratica, Marco Sommariva del foro di Pavia, affinché controllasse che le tesi che sostengo abbiano fondamento e stiano in piedi nella prassi quotidiana dei tribunali. Lo ringrazio per i suggerimenti e per il tempo che mi ha dedicato.
N.d.R. I commenti a questo post saranno attivati 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).
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* Presbite: «l’articolo di Talia è merda secca. Così come è merda secca l’alato commento di Wu Ming 1 qui sopra […] Fammi capire: il problema adesso qui dentro e’ che wualcuno scrive “cazzo” e “pippare”? E che siamo, alle orsoline? Volete un colloquio fra gentlemen, tipo club inglese? Dopo aver ospitato questo po-po di cesso d’articolo di Talia, che da’ del fascio a destra e a manca a cazzo di cane? […] Tutto il resto sono le solite, inqualificabili, incommensurabili caz-za-te […] E questa incommensurabile c-a-z-z-a-t-a sarebbe invece “rendere conto del suo comportamento complessivo” […] Basta con queste stronzate da giudizio polpottiano, Wu Ming! […] Tutta questa fuffa che propali qui dentro fa letteralmente vomitare […] Ma visto che delle manipolaziini di Talia non frega nulla a nessuno, mi vuoi anche togliere il gusto di scrivere che uqeste sono delle vaccate, e che gran partr delle circonvoluzioni da tale articolo derivate sono delle vaccate anch’esse? Visto che qui dentro un tale po-po di alati commentatori non riesce a dimostrare la mia fascitudine per tabulas, posso almeno mandarvi afffanculo? […]»
Scrivo sia da attivista, blogger che da “addetto” ai lavoratori.
A parer mio, in Italia, la certezza del diritto non esiste, esiste invece l’incertezza del diritto, tanto labile quanto volubile che risponde a dati e certi interessi politici. So di scrivere, forse, alcune cose date come per scontate qui su GIAP, ma a volte si devono ribadire alcuni concetti. I giudici sono esseri umani, non divinità supreme come molti cittadini credono, una categoria variegata, di cui ovviamente non di deve fare con tutto il fieno lo stesso covone, però è incredibile ( anzi credibile visto che reale), che in questo Paese, per conseguire valutazioni imparziali si deve aspirare al così detto giudice coraggioso, ovvero giudice che non risponde a pressioni politiche e ad nessun interesse di casta o circolo di potere. D’altronde se sentenzi in modo non consono, ci mettono poco ad isolarti o farti svolgere un ruolo “inutile” in qualche organo collegiale.
Perché parlo della magistratura? Perché se da un lato esiste, chiaramente, un diritto riconosciuto dalle legislazione, di cui spesso si esercita un mero abuso, quale quello dell’esercizio della querela per diffamazione, ingiuria ecc, dall’altro saranno i magistrati, siano essi PM che giudici, a dover decidere se archiviare il procedimento, disporre il rinvio a giudizio, la condanna o meno.
Tante volte ho visto e sentito dire di querele, fondate nei fatti e nel precetto giuridico in relazione al reato ivi considerato, archiviate, con motivazioni fuorvianti, perchè il querelato rientrava in area di potere da tutelare, ma tante volte le querele vengono usate, come evidenziate nello scritto, per reprimere il dissenso. Ma la repressione penale, da sola, non funziona più, ad essa, in questi ultimi anni, no tav docet, si accompagnano misure di condanne pesanti dal punto di vista della “cassa” . Si colpisce lì dove si fa a volte più male, i quattrini, con sentenze pesantissime. Ma, ed ecco il ma, esiste l’arma della solidarietà, che lì dove attiva respinge al mittente, il tutto. Le casse di solidarietà e di resistenza funzionano se condivise e collegate ad una lotta diffusa e praticata sul territorio, altrimenti no. E’ in corso una sorta di monetizzazione della repressione delle idee. Questo vale per i conflitti “particolarmente scomodi”.
Ma l’arma della querela che va a sanzionare il diritto di critica e di pensiero si accanisce, con il bene placito di chi sopra le parti spesso non è, contro anche i lavoratori. E stato pubblicato da alcuni mesi il nuovo Codice di “condotta” per i dipendenti pubblici ed in particolar modo l’articolo 12 comma 2 afferma che “Salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione”. Una norma che si presterà a diverse interpretazioni. Ultimamente, specialmente grazie alla diffusione di strumenti di socializzazione virtuale tramite internet, molti lavoratori tendono ad esprimere diverse valutazioni, anche critiche, nei confronti del proprio datore di lavoro. Diversi sono stati i procedimenti disciplinari avviati per tal motivo, ciò conferma che i datori di lavoro controllano anche facebook, twitter, blog e similari, d’altronde di che stupirsi? La privacy non esiste, salvo(?) che l’individuo decida di comunicare solo privatamente, ma così non è, perché oggi giorno ognuno di noi vuole essere protagonista, essere qualcuno, deve comunicare, ed internet facilità tale comportamento ma nello stesso tempo anche il controllo sia esso sociale che non. La Corte di Cassazione con la sentenza sentenza 24 aprile – 20 giugno 2013, n. 15443, affronta un caso di diffamazione a mezzo stampa, attivato tramite una querela da parte della Coop Estense contro una lettera di un lavoratore pubblicata nell’edizione del 20 giugno 1999 del quotidiano locale “La Gazzetta di Modena”, sotto il titolo principale “Non tutto oro ciò che è Coop se hai un contratto a termine” e quello secondario di “Clima di paura tra i precari”, che veniva reputato dalla connotazione diffamatoria. La Corte di Cassazione dopo un processo durato diversi anni affermerà che “ qualora la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell’autore dello scritto, in modo da costituire nel contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza non può essere condotta sulla base di criteri solo formali, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.); bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della critica all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, ma di quella interpretazione del fatto, che costituisce, assieme alla continenza, requisito per l’esimente dell’esercizio del diritto di critica (Cass n.25/2009). Giova aggiungere che, in materia, non sussiste una generica prevalenza del diritto all’onore sul diritto di critica, in quanto ogni critica: alla persona può incidere sulla sua reputazione; del resto, negare il diritto di critica solo perché lesivo della reputazione di taluno significherebbe negare il diritto di libera manifestazione del pensiero. Pertanto, il diritto di critica può essere esercitato anche mediante espressioni lesive della reputazione altrui, purché esse siano strumento di manifestazione di un ragionato dissenso e non si risolvano in una gratuita aggressione distruttiva dell’onore (Cass. n.4545/2012, n.12420/08)”, Ovviamente si deve rilevare che esistono anche sentenze non positive per i lavoratori in tal senso, però il principio enunciato, applicabile a tutte le categorie di lavoratori, è certamente significativo lì ove si precisa che il diritto di critica può essere esercitato anche mediante espressioni lesive della reputazione altrui, purché esse siano strumento di manifestazione di un ragionato dissenso e non si risolvano in una gratuita aggressione distruttiva dell’onore.
Ma il peggio del peggio è dato dagli interventi legislativi, quasi una ventina quelli tentati per reprimere il diritto di critica e libertà di pensiero, dunque di informazione, dunque di dissenso al sistema. Si deve ricordare che l’Italia ha aderito al progetto cleanIT costato circa 400 mila euro, nel 2011 è stato avviato dall’Olanda, è rivolto a definire un piano di collaborazione pubblico- privato in cui tutti i Paesi siano coinvolti a individuare le migliori pratiche da attuare per contrastare l’uso di internet a fini terroristici. Fino ad oggi avevano aderito dieci stati membri dell’Ue (oltre al paese promotore, Germania, Gran Bretagna, Belgio, Spagna, Ungheria, Romania, Austria, Danimarca e Grecia).Il 29 gennaio è stato il turno dell’Italia. Un progetto che prevede in sostanza Censura, controlli, blocchi dei server, pulsante delle segnalazioni, polizia online, perquisizioni reali e virtuali …rinvio anche qui se ne avete voglia per capire di cosa si tratta visto che in rete è difficilissimo trovare informazioni, anzi molti link che trattano questo argomento sono “stranamente” scomparsi…
http://xcolpevolex.blogspot.it/2013/05/gli-hacker-del-pd-le-dichiarazioni.html
http://xcolpevolex.blogspot.it/2013/02/litalia-aderisce-al-progetto-cleanit.html
Insomma, per concludere, l’abuso del reato di diffamazione, abbinato a provvedimenti legislativi di controllo sociale, minano, a volte in modo silente, a volte no, la libertà di critica, informazione e formazione del pensiero. Solo la solidarietà e la lotta condivisa tramite lo stato maturo di consapevolezza può fermare questo processo tanto meschino quanto pericoloso per l’indipendenza dell’individuo e la democrazia reale e partecipata.
Io in tutto questo rimango di una idea semplice. Va bene, mi quereli o mi citi in causa per due milioni di euro, se vuoi. Ma poi, se perdi, li devi dare tu a me. Altrimenti questa regola risulta assurda e iniqua. La chiamavano comma Luttazzi. Penso sia una delle poche idee avute dal tizio in questione che mi senta di supportare senza alcun dubbio.
Questo contributo cade proprio a fagiolo per quanto ci riguarda. Pare molto probabile infatti che il politologo Ivan Buttignon, che ha presentato lo spettacolo “Magazzino 18” a Udine insieme a Cristicchi, abbia sporto querela per diffamazione contro l’autore di questo pezzo: http://marxistinordest.altervista.org/2014/04/08/cristicchi-udinee-tutta-tratto-puff-svani/. C’è un uso politico della querela, che, in taluni casi, invade anche il campo più strettamente storico.
In generale, pensiamo che il fallout repressivo di “Magazzino 18” sia appena cominciato.
Nello specifico, teneteci informati su questa querela.
Giusto per rettificare quanto scritto, dato che le informazioni arrivano quando arrivano. Ivan Buttignon avrebbe sporto querela contro ignoti, nel frattempo l’autorità giudiziaria sta valutando se i contenuti del post incriminato possono essere lesivi della sua persona. Quanto prima altre novità.
Nei giorni scorsi il sito d’informazione romano @dinamopress, citato nel post, è stato sottoposto a indagini dalla procura della Capitale, dopo che la cooperativa Auxilium –che gestisce il Cie di Ponte Galeria e il Cara di Castelnuovo di Porto- lo ha querelato per diffamazione. Secondo Auxilium, la colpa della redazione sarebbe quella di aver ospitato un comunicato stampa delle Reti antirazziste, diffuso il 4 marzo 2014, a seguito dell’occupazione della sede della cooperativa.
Un provvedimento cautelare, contro cui Dinamo ha fatto ricorso, ha ordinato che il comunicato (notarsi: *un semplice comunicato stampa*, non un pezzo di qualcuno dei redattori) venisse rimosso.
Due articoli che spiegano l’accaduto:
http://www.dinamopress.it/news/auxilium-contro-dinamo-rimosso-articolo-sui-cie
http://www.corrieredellemigrazioni.it/2014/08/07/bocche-cucite-stampa/
Dato che la vicenda è analoga a quelle di cui mi sono occupato nel post, la segnalo anche qui su Giap, dopo averlo fatto stamattina su twitter, e rinnovo la mia solidarietà alle redattrici e ai redattori. Tra i collaboratori fissi di Dinamo c’è un nome noto a noi giapsters e giapster a sua volta, Giuliano Santoro.