di Wu Ming 4
Non è mica facile raccontare il calcio in un romanzo. E’ come raccontare un film, come trovarsi in mezzo tra lo spettacolo e la sua trasposizione bicolore, parole nere su fondo bianco. Visioni, emozioni, velocità, da ricreare attraverso una tastiera che produce sempre la stessa nota. Un’impresa. Proprio per questo si tratta forse di una delle sfide narrative più affascinanti. E se i sudamericani, si sa, in questo sono maestri, con le loro dosi massicce di poesia e metafore, gli inglesi lo fanno in un modo tutto particolare, perché spoetizzano il campo da gioco e lo trasformano in un prisma da cui guardare le trasformazioni della società che sta attorno. Non solo sulle tribune, ma nelle vie adiacenti lo stadio, fin dentro i pub e le living room. Sul rettangolo verde insiste il mondo, con la filiera di vite, lavoro, denaro, che da ogni singolo riflettore puntato risale fino all’angolo più remoto del globo.
Voglio la testa di Ryan Giggs (pubblicato da 66th and 2nd, 2014, p. 328, €17), il romanzo di Rodge Glass (classe 1978), fa questo e altro. Racconta la storia di una dipendenza, una droga per monomaniaci che si chiama “calcio” e che ne porta con sé altre: scommesse, alcool, sostanze. E’ un romanzo di formazione e deformazione, la biografia fantastica di una stella mancata del firmamento calcistico, in quel luogo mitico e mistico che è l’Old Trafford, epicentro della Repubblika di Mancunia. E’ un viaggio nella passione onnipervasiva per lo United, nel manchesterismo irriducibile, che si tramanda di padre in figlio. Un certo tipo di padre, un certo tipo di figlio, bisognerebbe dire, che però albergano in ognuno di noi. Una malattia, quella calcistica, a volte contratta in forma lieve, quasi utile a immunizzarsi, a volte in forme letali, devastanti per le relazioni e le vite. Lo sa chiunque abbia calcato gli spalti sbrecciati di un campionato Pulcini e abbia visto all’opera il morbo, sentendolo sfiorargli le orecchie, fargli tremare i polsi o il respiro. Lo sa chi ha biascicato una preghiera perché i numi del calcio lo risparmino, nella speranza che “il gioco più bello del mondo” possa ancora essere qualcosa di diverso da una patologia sociale (non sono bellissimi, quei bambini mentre giocano?), e magari quel pulcino se lo è pure preso da parte e certe cose ha provato a dirgliele, partita dopo partita, sentendosi Sisifo e Don Chisciotte insieme, cercando di guastare la congiura dei guastatori. Consapevole che di guasti con le migliori intenzioni sono pieni i rapporti tra padri e figli.
Il romanzo di Glass parla anche e forse soprattutto di questo. Dell’infezione trasmessa per via patrilineare, dai nonni e forse bisnonni, che per primi acquistarono gli abbonamenti allo stadio e sposarono il clan famigliare ai colori della bandiera. Una bandiera rossa che un tempo alludeva alla coscienza di classe della tifoseria di una città operaia, sventolata da un’Armata Rossa che cantava in coro dagli spalti, e che adesso assomiglia assai più a un brand commerciale come tanti altri, nonostante la retorica sia dura a morire. Senz’altro lo è per Mike Wilson, il protagonista del romanzo, pulcino che cresce in un’Inghilterra sudamericanizzata, in cui essere bravi a calcio è fondamentale. Essere molto bravi a calcio. Diventare campioni di calcio. La maggiore fortuna e sfortuna al tempo stesso. Mike Wilson è l’Agassi di Open al contrario, ma vittima delle stesse dinamiche, dello stesso investimento emotivo. Magistrale è il film della propria vita che si fa al suo esordio in prima squadra, mentre aspetta che il pallone lanciatogli da Giggs spiova sui piedi. Da lì comincia la simmetria rovesciata di due parabole esistenziali: quella del pilastro del Manchester United, vero e proprio semidio cittadino, che guadagna il ruolo di uomo-squadra e uomo-società, con una poltrona da allenatore o dirigente sportivo già calda per quando smetterà di giocare; e quella di Mike, che viene respinto sulla soglia dell’Olimpo.
Se Ryan Giggs è un cavaliere senza macchia e senza paura, calciatore posato dentro e fuori dal campo, decorato dalla regina, capace di giocare fino a quarant’anni, Mike Wilson è un antieroe perfetto, che si specchia nel proprio idolo/modello, vedendosi restituire un’immagine di sé tumefatta e disperata. Mike la promessa mancata. Mike causa dei propri guai. Mike schiacciato da un complesso edipico irrisolto e irrisolvibile, in cerca di un padre che dopo averlo spinto a scommettere tutto sui piedi lo ha mollato su due piedi sparendo chissà dove, in fuga dagli effetti delle proprie dipendenze. Un padre presente e assente, che rimane una voce disincarnata, al telefono da un aldilà immaginato come un paradiso tropicale, ma che probabilmente è soltanto un purgatorio appena più tiepido dell’Inghilterra, dal quale minaccia sempre di fare ritorno.
Così la storia di Mike assomiglia a quella di un altro United, il Regno stesso, il paese de-socializzato, dove tanto la classe operaia quanto la piccola borghesia impoverita dopo la fine del sogno/incubo thatcheriano e blairiano, hanno perso ogni prospettiva di riscatto collettivo e si aggrappano all’unica chance di successo, o anche solo di welfare: il talento calcistico individuale. Quando poi il sogno si infrange, trascina sotto le macerie anche l’ipotesi di una vita normale. Colpa del singolo? Della famiglia? Della società? Della storia? Dell’educazione? Delle cattive compagnie? Questa è materia per i sociologi della domenica sui quotidiani del Regno o della Repubblica. Dove comincia la catena di responsabilità e concause che porta alla rovina? Forse perfino da quel primo calcio al pallone dato in un campetto di periferia, con un padre che fa il tifo e inizia a pensare che leggere un libro potrebbe essere una perdita di tempo per il futuro campione del mondo. Allora certi romanzi diventano quasi un antidoto, perché dimostrano che la buona narrativa e il bel gioco non sono alternative, ma perfino ottimi complementi.
Del resto, quando un romanzo incentrato sul calcio, su una squadra, su una città, non solo si lascia leggere, ma riesce a conquistare chi non mastica calcio, non tifa quella squadra e non ha mai messo piede in quella città, be’, è senz’altro un buon romanzo. Se poi fa tutto questo e ti fa anche guardare al calcio, alla paternità e alla prossima partita di tuo figlio con occhi nuovi, probabilmente è qualcosa di più.
C’è però una postilla necessaria, per controbilanciare o addirittura ribaltare il racconto di Glass. E’ la storia del F.C. United of Manchester, la società calcistica nata dai tifosi della prima squadra cittadina insoddisfatti della nuova gestione americana. Questi hanno deciso di ricominciare da capo, proponendo un modello di gestione societaria fondato sull’azionariato popolare. Nonostante la squadra sia composta da semiprofessionisti e militi in una divisione minore, la nuova società, con oltre tremila soci, sta progettando la costruzione di uno stadio in piena regola (senza sponsor!). Ecco un’impresa collettiva e positiva che potrebbe solleticare le corde di un romanziere. Non a caso se ne parla nel documentario di Wu Ming 3 e Christo Presutti, Nel pallone (2014), ché buon sangue non mente. Si può vedere qui sotto dal minuto 8:26 (a seguire: il caso dell’Ardita San Paolo di Roma, che alla gestione societaria dal basso unisce anche la funzione sociale nel quartiere). Ecco, è bello immaginare che il finale alternativo per Mike Wilson sarebbe potuto essere proprio questo: liberarsi dagli spettri delle occasioni perdute, giocare lontano dai riflettori, ma nel nome di un progetto collettivo che letteralmente ricomincia dai fondamentali. La passione comune, la squadra, il gioco, il pallone. E fanculo i campioni del mondo.
Questo articolo è pubblicato in tandem sul sito di Fútbologia.
Il documentario Nel Pallone, di Christiano xho Presutti, Wu Ming 3 e Giangiacomo De Stefano, è online sul canale YouTube della TV Laeffe:
- prima puntata: La passione
- seconda puntata: Il gioco
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