Introduzione di Wu Ming 1
Era la primavera del 2013 quando Luca Demicheli dei Funambolique lesse Point Lenana e, mentre ne discutevamo, ci venne l’idea di trarne un reading/concerto. Lanciammo lo spunto agli altri membri della band, che furono subito entusiasti.
Coi Funambolique avevo già collaborato nell’album Arzèstula e, soprattutto, nel recital tratto dall’album. Quella volta, però, avevamo lavorato su un racconto. Stavolta, con un libro-monstre come Point Lenana, il dilemma era: cosa estrapoliamo? Quale filo narrativo seguiamo?
Ho deciso di mettere in fila tutti i capitoli dedicati al grande alpinista triestino Emilio Comici, e di lavorarci sopra. Molti lettori mi avevano detto – e continuo a sentirlo dire – di essersi commossi leggendone la storia. Quando appare, come suol dirsi, Emilio “ruba la scena” a Felice.
E Felice lo avrebbe trovato giusto.
Dunque ci siamo messi all’opra, abbiamo modificato, rimontato, aggiunto… Emilio Comici Blues ha preso forma nel biennio 2013-2014, per successive riscritture, in una sequenza di concerti (quasi tutti nel Nordest) che erano prove a porte aperte.
Quella che state per ascoltare è la versione “radiodramma musicale”, registrata negli studi Rai di Trieste il 29 novembre 2014 e andata in onda a puntate sulle frequenze del Friuli-Venezia Giulia, alle undici del mattino di tre domeniche consecutive, dal 15 febbraio all’1 marzo 2015.
Con i Funambolique e Piero Pieri negli studi RaI di Trieste. Oggi registriamo EMILIO COMICI BLUES #PointLenana pic.twitter.com/TAb040F62s
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 29, 2014
È una versione più “intima” e raccolta rispetto a quelle udite dal vivo, più vicina alla forma classica del “melologo”. La voce “esce” di più, come si confà alla radio, e si concede meno frizzi e lazzi. La band era in una sala e io in un’altra, dietro un vetro… Insomma, tutto meno selvatico, ma il risultato ha una coesione che non avevamo ancora raggiunto. Merito dell’attenta regia di Piero Pieri, la cui voce sentirete all’inizio, e della perizia e pazienza del tecnico del suono Federico Comar e del consulente musicale Dario Caroli.
Purtroppo in questa esecuzione non sentirete la cantante, Claudia Finetti, indegnamente sostituita dal mio parlato/canticchiato. Provvederemo registrando le due canzoni a latere, e proponendole su Giap in un secondo momento.
In questa line-up i Funambolique sono:
Paolo Corsini – piano, Fender Rhodes, tastiere
Sebastiano Crepaldi – flauto traverso, flauti di varie parti del mondo
Luca Demicheli – basso elettrico, rumori
Ermes Ghirardini – batteria
Le schede biografiche dei musicisti sono sul sito della band.
Emilio Comici Blues è un’unica suite divisa in più “movimenti”:
[00’00”] 1. Cadere in alto
[06’16”] 2. Val Rosandra
[11’32”] 3. Camerata Emilio
[20’11”] 4. Le ali dell’angelo (prima parte)
[29’30”] 5. Voglio vivere così
[31’04”] 6. Le ali dell’angelo (seconda parte)
[38’06”] 7. La falciata della morte
[44’46”] 8. L’impronunciabile giorno
[55’23”] 9. Triste domenica
La suite dura 59’21” ed è disponibile in un unico file MP3 320k in streaming…
ASCOLTA «EMILIO COMICI BLUES» IN FORMATO MP3
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…o scaricabile dentro una cartella zippata…
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(CARTELLA ZIPPATA, 536 MEGA)
Buon ascolto!
N.B. Emilio Comici Blues continua a girare, e a cambiare. Per contatti:
funambolique@yahoo.it – 3490063570
Anzitutto c’è in “Emilio Comici Blues”, se confrontato con “Arzestula”, un ampliamento delle soluzioni da voi messe in campo, sia tecniche sia espressive. Direi che la cosa si spiega facilmente: sono passati alcuni anni, e sono stati anni in cui vi siete esibiti insieme, avete fatto prove, avete approfondito l’interplay. Già questo si avvertiva nitidamente negli estratti dei vari live che avete messo online dal 2013: la registrazione in studio, se da un lato sacrifica una parte della chimica che si crea sul palco, dall’altro permette di apprezzare meglio le sfumature e i dettagli che rivelano l’accuratezza del lavoro: il semplice fatto che Paolo abbia sotto le dita anche uno strumento acustico, e non solo una tastiera, contribuisce a dare profondità alla musica; la materia ne è scaldata.
Rispetto ad “Arzestula” mi sembra che la scrittura dei temi sia più contrappuntistica, specie nei primi movimenti. Così com’è più vasta la gamma delle armonie esplorate: domina quella tonale, in “Arzestula” era lo stesso, con le classiche estensioni jazzistiche degli accordi, ma ci sono momenti di politonalità (il trasporto delle quinte –perdonatemi tutt*- contro il tema che precede “Triste domenica”), il lungo pedale verso la conclusione, e sprazzi atonali, rumoristici o timbrici. Il tutto è però messo insieme con coerenza: i cambi d’atmosfera, anche quando bruschi, sono logici, producono drammaturgicamente senso. L’acme di tutta la costruzione è “La falciata della morte/l’impronunciabile giorno”, momento potentissimo, vero e proprio spannung della suite.
Più variegate sono pure le modalità d’interazione con la voce: tutta la band che improvvisa, oppure tutta la band che esegue il tema, bassa di dinamica, oppure ancora gruppi di due o singoli strumenti che si alternano (forse in questo ultimo caso il volume del missaggio sotto alla voce è stato tenuto un poco basso, ma magari è un’impressione solo mia).
Rispetto ad altre esecuzioni, soprattutto de “Le ali dell’angelo”, qui la lettura ritmica è portata in modo più sciolto, non rigidamente agganciata al ¾, per quanto la metrica si avverta perfettamente: non ha l’aria dell’esercizio, insomma.
Aggiungo ancora che escono swinganti tutti i tempi di danza, grazie anche al modo in cui è stata microfonata la batteria, con tanta presa dell’ambiente, mi pare.
Verissimo, e anche in «Val Rosandra». La lettura “agganciata” al ritmo, quasi da filastrocca, era eccessiva, in parte dovuta al potere trascinante del 3/4, e forse in parte al metro che già era sotteso a quella parte di testo: Emilio “danza” in parete, danza un walzer ecc. Mi è stato consigliato di “trattenermi”, di contrastare l’impellenza del ritmo, ritardando di una frazione di secondo le entrate, stando fermo col corpo (prima tendevo a dondolare mentre leggevo) e altri trucchetti. Adesso la lettura è sempre a tempo col 3/4, ma non nel modo pedante di prima.
Pardon, giorni che sono poco online, e leggo solo ora.
Esatto, contrastare il tempo: è proprio quello l’elemento che crea la carica ritmica. Il contrasto tra una pulsazione fissa e un tempo più elastico, leggermente in anticipo o leggermente in ritardo rispetto al battito metronomico, è la classica spiegazione musicologica dello swing. Ci vuole anche altro per swingare, certo, altrimenti potrebbe farlo anche una drum machine (e invece lo swing è una delle cose più irriproducibili elettronicamente che la musica conosca), però questo è un altro discorso.
Più in generale, ogni volta che all’interno di un ensemble c’è una sezione ritmica che agisce su un tempo regolare mentre lo strumento melodico o di canto, invece di fraseggiare anch’esso su quel tempo, si muove più liberamente, disegnando archi irregolari di note o parole, noi abbiamo la percezione di una tensione in atto, e scatta la carica ritmica che ci porta a oscillare il capo, battere il piede o muovere altrimenti e scompostamente il corpo. Se il solista, il cantante o nel caso di WM1 il locutore agisse sul tempo regolare come gli altri strumenti, sentiremmo comunque il ritmo, ma il suo impulso sarebbe più scarico, più resistibile.
Alzo la mano sopra lo schermo del computer, c’è lo scaffale dei cd: prendo “Tomorrow Is the Question!” di Ornette (non ne possiedo il vinile, ma una copia digitally remastered pubblicata negli anni ’90)… btw, non ho ancora elaborato il trauma dall’11 giugno… TitQ è un album che non ha troncato i ponti con i precedenti due decenni di jazz: i temi, benché angolosi, non si sono definitivamente allontanati dal canone; la sezione ritmica, con Percy Heath/Red Mitchell al basso e Shelly Manne alla batteria, suona come o meglio di altre sezioni ritmiche della west coast sue contemporanee, ma anch’essa alla maniera canonica. Blues/swing/bop/hard bop, gli elementi sono quelli. Ma quando Ornette e Don Cherry attaccano a improvvisare, lo fanno in totale libertà dal 4/4 che basso e batteria proseguono a srotolare imperterriti. È quest’attrito che genera una potenza ritmica raramente sperimentata prima. La stessa che, ai tempi del quartetto classico degli Weather Report, si ascoltava quando Wayne Shorter sgranava gruppi mutageni di note sopra al tempo solidamente quadrato della batteria di Peter Erskine, come improvvisasse in completa solitudine. È questo il bello di contrastare il tempo, giustissimo consiglio che ti è stato dato.
Secondo me, se parliamo di reading, il lavoro più interessante su parola e ritmo lo ha fatto Linton Kwesi Johnson, scrivendo e recitando i suoi versi in modo da evocare il reggae, i tempi in levare, la poliritmia della koinè musicale afroatlantica e, nello specifico, afrocaraibica. Ascoltando bene Linton quando declama senza musica, ci si rende conto che non si limita a trovare una cadenza dondolante, ma la lavora da dentro, ne esce e ci rientra, accelera e rallenta, senza mai far perdere il senso del beat. Magari tu, Luca, puoi dire qualcosa di più tecnico su questo. Ho già linkato in una vecchia discussione su Giap questa poesia, la ri-linko ora:
Linton Kwesi Johnson, If I Woz A Tap-Natch Poet
Qui sotto metto il testo e, di seguito, una mia indegna traduzione (nessuna traduzione sarà mai all’altezza):
If I woz a tap-natch poet
like Chris Okigbo
Derek Walcott
ar T.S.Eliott
ah woodah write a poem
soh dam deep
dat it bittah-sweet
like a precious
memory
whe mek yu weep
whe mek yu feel incomplete
like wen yu lovah leave
an dow defeat yu kanseed
still yu beg an yu plead
till yu win a repreve
an yu ready fi rack steady
but di muzik done aready
still
inna di meantime
wid mi riddim
wid mi rime
wid mi ruff bass line
wid mi own sense a time
goon poet haffi step in line
caw Bootahlazy mite a gat couple touzan
but Mandela fi im
touzans a touzans a touzans a touzans
if I woz a tap-natch poet
like Kamau Brathwaite
Martin Carter
Jayne Cortez ar Amiri Baraka
ah woodah write a poem
soh rude
an rootsy
an subversive
dat it mek di goon poet
tun white wid envy
like a candhumble/ voodoo/ kumina chant
a ole time calypso ar a slave song
dat get ban
but fram granny
rite dung to gran pickney
each an evry wan
can recite dat-dey wan
still
inna di meantime
wid mi riddim
wid mi rime
wid mi ruff bass line
wid mi own sense a time
goon poet haffi step in line
caw Bootahlazy mite a gat couple touzan
but Mandela fi im
touzans a touzans a touzans a touzans
if I woz a tap-natch poet
like Tchikaya U’tamsi
Nicholas Guillen
ar Lorna Goodison
an woodah write a poem
soh beautiful dat it simple
like a plain girl
wid good brains
an nice ways
wid a sexy dispozishan
an plenty compahshan
wid a sweet smile
an a suttle style
still
mi naw goh bow an scrape
an gwan like a ape
peddlin noh puerile parchment af etnicity
wid ongle a vaig fleetin hint af hawtenticity
like a black Lance Percival in reverse
ar even worse
a babblin bafoon whe looze im tongue
no sah
nat atall
mi gat mi riddim
mi gat mi rime
mi gat mi ruff bass line
mi gat mi own sense a time
goon poet bettah step in line
caw Bootahlazy mite a gat couple touzan
but Mandela fi im
touzans a touzans a touzans a touzans
Traduzione di Wu Ming 1:
SE FOSSI UN POETA DI PRIM’ORDINE
Se fossi un poeta di prim’ordine
come Chris Okigbo
Derek Walcott
o T.S.Eliot
Scriverei una poesia
così dannatamente profonda
da essere agrodolce
come un prezioso
ricordo
che ti fa piangere
ti fa sentire incompleto
come quando la tua amata ti lascia
e anche se ammetti la sconfitta
implori e preghi
finché non ottieni una proroga
e sei pronto per il rock-steady
ma la musica è già finita.
Intanto
io ho il mio ritmo
ho la mia rima
ho la mia grezza linea di basso
ho il mio senso dell’andare a tempo
il poetastro dovrà mettersi in fila
perché forse Bootahlazy ne aveva duemila
ma Mandela ne aveva
migliaia e migliaia e migliaia e migliaia.
Se fossi un poeta di prim’ordine
come Kamau Brathwaite
Martin Carter
Jayne Cortez o Amiri Baraka
scriverei una poesia
così rude
e popolare
e sovversiva
che il poetastro
diventerebbe bianco per l’invidia.
come un canto candomblè, voodoo o kumina,
un vecchio calypso, una canzone da schiavi
che è messa al bando ma
discende dalla nonna
giù fino ai nipoti
e tutti quanti possono cantarla
quanto gli pare.
nel frattempo
io ho il mio ritmo
ho la mia rima
ho la mia grezza linea di basso
ho il mio senso dell’andare a tempo
il poetastro dovrà mettersi in fila
perché forse Bootahlazy ne aveva duemila
ma Mandela ne aveva
migliaia e migliaia e migliaia e migliaia.
Se fossi un poeta di prim’ordine
come Tchikaya U’tamsi
Nicholas Guillen
o Lorna Goodison
Scriverei una poesia
tanto bella quanto semplice
come una ragazza dall’aspetto normale
con un bel cervello
e belle maniere
con un atteggiamento sexy
e tanta empatia
con un sorriso dolce
e uno stile sottile.
eppure
non mi inginocchierò né chiederò elemosine
non farò la scimmia
non chiederò una puerile pergamena di etnicità
con soltanto un vago sentore di autenticità
come un Lance Percival nero a rovescio
o peggio ancora
un blaterante buffone con la lingua sciolta.
nossignore
proprio no
io ho il mio ritmo
ho la mia rima
ho la mia grezza linea di basso
ho il mio senso dell’andare a tempo
il poetastro dovrà mettersi in fila
perché forse Bootahlazy ne aveva duemila
ma Mandela ne aveva
migliaia e migliaia e migliaia e migliaia.
Credo che Linton abbia pensato la performance in modo che ad ogni ritornello l’allontanamento dal beat fosse sempre più marcato. Come se stesse dicendo: “ok, ti ho fatto sentire il tempo sotteso alla poesia, ora puoi batterlo tu, mentre io lo deformo, mi muovo plasticamente al suo interno, improvviso metriche diverse”.
E infatti: dopo il verso 1, scandito liberamente a mo’ di intro, le prime due strofe sono tutte a tempo. Tipo 100 bpm (battute per minuto), una cosa così, sto andando a spanne. Magistrale il modo in cui si appoggia sulle sillabe lunghe per legare i tempi forti ai tempi deboli: lo si sente benissimo al verso 11, dove la parola “incomplete” cade tra battere e levare, e lui fa perno sul “ple” per marcare il tempo forte. Idem sul primo “touzan” della seconda strofa: “tou” tempo debole, “zan” tempo forte.
Al secondo ritornello le cose cambiano: la quarta strofa è ancora al tempo di prima, ma la terza no. La lettura della terza strofa è “offbeat”: c’è una metrica implicita, ma Linton, recitandola, la frammenta, rallenta e accelera a seconda delle necessità del testo. Addirittura c’è un verso, “like a candhumble/ voodoo/ kumina chant”, che è letto a tempo, però è un tempo più rapido, diverso dal reggae su cui è impostato tutto il resto delreading. Nessun altro verso è letto così. Ora, non vorrei esagerare, ma azzardo che l’effetto sia assolutamente voluto, cioè che LKJ avesse proprio in mente di evocare il tempo dei canti e delle danze candomblé.
Con il terzo ritornello, strofe 5 e 6, il beat è dissolto: anche i versi “mi gat mi riddim” etc, che alla ripetizione precedente servivano per riagganciarsi al tempo di partenza, qui sono svincolati da una lettura metrica rigida.
Comunque, considerazioni tecniche a parte, ascoltare questa roba è entusiasmante…
Mariano Tomatis su «Emilio Comici Blues» – e su #PointLenana @Einaudieditore
Mai titolo fu più azzeccato. Il reading musicale che avete dedicato alla vicenda umana di Emilio Comici è a tutti gli effetti un blues e, allo stesso tempo, è costituito degli elementi fatali della tragedia.
Quello di Comici appare come uno studio matto e disperatissimo delle rocce e del modo di scavalcarle per portarsi sempre un po’ più in alto, nella maniera più elegante possibile. Un’ossessione così forte – nell’accezione in cui se ne parla ne “I falliti” di Motti – non può che far pensare al suicidio.
Quando ho letto Point Lenana, di Comici non sapevo nulla di nulla, ma – così come emergeva dalle pagine – ho sentito da subito addosso al personaggio quel peculiare odore di disperazione di chi ha difficoltà a vivere del proprio talento, di chi è costretto a vivere lontano dalla propria missione. Ora, ascoltando il reading, quell’odore si è concretizzato in due figure esemplari. Una è quella di Piero Ciampi, con il suo suicidio lungo una vita. Emilio Comici, come il cantautore livornese, “ha tutte le carte in regola” per essere un artista, un eroe maledetto, un depresso che vola troppo in alto.
La seconda figura, con quella morte grottesca, è quella di Durruti, del Durruti di Hans Magnus Enzensberger che, destinato a morte gloriosa, si spara per errore.
La “falciata della morte” già alla prima lettura mi aveva commosso, qui ad alta voce e inquadrata dalle musiche dei Funambolique, mi ha molto impressionato, come anche la lunga marcia funebre finale: delicata, scura, intima, torbida, toccante.
Go’ de devul in mah soul an Ah’m full uh bad booze
Go’ de devul in mah soul an Ah’m full uh bad booze
AH’m out heah fo’ trouble, Ah’ve go’ de Emilio Comici Blues