Perché Facebook vale un abbandono

Cancellarsi da Facebook

«ASSENTE!»

[Tra i nostri “limiti potenzianti”, tra le constraintes che il collettivo Wu Ming si è imposto per circumnavigarle in modo creativo (es. il non andare in TV), c’è anche il non avere profili né pagine su Facebook. Non abbiamo dunque esperienza diretta di quel che racconta la nostra amica Claudia Boscolo, saggista e studiosa di letteratura. Nondimeno, o forse a maggior ragione, troviamo interessante e meritevole di dibattito la lettera aperta con cui motiva la propria diserzione dal dispositivo zuckerberghiano. Per questo ve la proponiamo. Il titolo qui sopra è nostro, come pure la scelta dell’immagine e la didascalia. Buona lettura. WM]

di Claudia Boscolo

Sono stata su Facebook per sette lunghi anni, durante i quali ho interagito, ho condiviso, ho riso e ho pianto con tante persone, ho stretto amicizie importanti, ho ritrovato amici del passato che mi mancavano e che mi dispiaceva avere perso, ma sono anche stata contattata da persone da cui per fortuna ero riuscita a svincolarmi. Insomma, al solito, tutto il buono e il cattivo di questa piattaforma, a cui in fondo devo tanto. Sette anni però sono lunghi, e l’energia che ho speso lì dentro è molta, per cui ritengo di dover accomiatarmi con una serie di riflessioni circostanziate.

La mia decisione non è stata estemporanea, e non è dovuta a uno stato emotivo, come ho visto interpretare da alcuni – in modo non sorprendente per me, devo dire: ho scritto qualcosa e studiato libri su Facebook, e so per esperienza che tutto quello che riguarda questo social network viene sempre interpretato come manifestazione di ondate emotive. È raro trovare chi accetti che ci sia anche dietro un ragionamento a freddo.

Il mio ragionamento a freddo riguarda due ordini di questioni, che vado a spiegare, perché secondo me è epoca di una riflessione approfondita sul mutamento antropologico che questo mezzo di comunicazione ha causato, ed è piuttosto miope non prendere atto che questo mutamento non è più in corso, ma è avvenuto, ed è tempo di storicizzarlo, come tutti i mutamenti significativi meritano.

Innanzitutto, c’è la qualità dei rapporti umani che si è come nebulizzata. Da tempo, mesi se non un paio di anni, ho notato che frequentare fuori dalla rete persone che si conoscono indipendentemente dalla rete, ma che per motivi di tempo ci si adatta a vedere quasi esclusivamente su Facebook, comporta un riadattamento, una riscoperta. È come se ogni volta avvenisse una agnizione, un “ma io ti conosco davvero!”, che all’inizio poteva essere simpatico o straniante in un modo non molesto, ma che ora trovo faticoso e il più delle volte irritante. Dover riscoprire ogni volta la corporeità, la fisicità dell’amico che si pixelizzato è per me fonte di una certa inquietudine. Sapere che l’amico conosce stati d’animo intimissimi che rendiamo pubblici, parti di noi che esponiamo pensando di essere in ogni caso inaccessibili, e quindi non c’è più darsi nulla, non c’è più neppure il gusto di raccontarsi le novità, rende i rapporti inerti e stanchi. E comunque, no, non siamo più accessibili su Facebook di quanto lo fossimo prima, il tempo è sempre poco, e le amicizie sempre sacrificate, e non è vero che tenersi al corrente delle cose triviali del quotidiano dà la sensazione di non essersi mai persi. Al contrario, amplifica la perdita.

Ma ancora più inquietante sono gli estranei che immaginano: quante volte vi è capitato di incontrare dal vivo, in certe situazioni, persone che avevate visto solo sulla vostra Home, e all’improvviso queste persone se ne escono con un’idea di voi che non riconoscete, e vi chiedete: perché questa persona dice questo di me? Ecco, per me il fatto di venire identificata con quello che lascio trasparire e che nell’economia della mia vita è assolutamente marginale, è diventato fonte di stress e di episodi spiacevoli. Quando lo stesso evento si ripete più di una volta non è più un evento, è una tendenza, e se si ripete diverse volte diventa una norma. Ne deduco che la norma di Facebook è restituire al mondo un’idea dell’individuo falsata e a volte dannosa: dannosa in termini di immagine pubblica, in termini di rapporti professionali, in termini di rapporti umani. Non menziono neppure le aziende che spiano il profilo social dei propri dipendenti, perché la cosa non riguarda me, non sono dipendente di azienda, non vivo in un contesto corporate, ma so per averne ricevuto conferma da chi invece è inserito in quel quadro sociale, che il comportamento su social è una delle prime fonti di valutazione, a dispetto della resa concreta.

Il secondo ordine di problemi riguarda una dimensione più intellettuale, ed è forse quello che mi sta più a cuore. Dai trending topic di Twitter ai thread infiniti di Facebook, la vita intellettuale e politica del nostro Paese si è trasferita in rete. Abbiamo un premier che diserta la festa nazionale del suo partito ma comunica, male e in maniera inappropriata, attraverso il suo smartphone, pensando di raggiungere milioni di utenti, in realtà raggiungendo solo chi è in grado di parcellizzare i suoi messaggi ed estrarne ciò che importa, ovvero la sua assoluta irrilevanza su un piano internazionale. E questo è l’esempio più clamoroso. Ma lo stesso avviene nella riflessione umanistica e purtroppo nelle scienze. Il valore della rivista scientifica è annullato a favore della divulgazione, dello status, dei 140 caratteri. Su Facebook c’è un gruppo (chiuso) che si chiama L’ordine del discorso, dove avvengono forse le più intense discussioni filosofiche del momento. Ebbene quel gruppo è e deve rimanere chiuso, perché quella è l’unica via per evitare l’incursione di semianalfabeti o del “popolo della rete” la cui abilità dialogica è nulla. Che differenza fa quindi che quel gruppo sia in rete e non su una piattaforma idonea che permetta anche di ritrovare i thread? Secondo me il fatto che sia su Facebook lo svaluta e non lo rende affatto più inclusivo visto che l’ingresso prevede comunque una selezione, e con questa lettera intendo anche rivolgermi a chi lo gestisce perché prenda atto di questa considerazione. Ci sono spazi e tempi per il dialogo intellettuale e ci sono spazi e tempi per la conversazione disimpegnata. A parere mio, Facebook rimane legato al disimpegno e catalizza il disimpegno anche di chi normalmente è impegnato in elaborazioni critiche importanti. In altre parole, fa emergere il lato leggero dell’intellettuale.

Direte, che c’è di male? Niente, non sto elargendo giudizi morali peraltro non richiesti. Quello che vorrei cercare di far passare con questa argomentazione è il fatto che il ruolo degli intellettuali in questo Paese è ridotto al nulla. Non ci sono spazi sui quotidiani, sui settimanali, sulle riviste, non c’è spazio nei luoghi degli incontri. Gli unici spazi sono quelli tradizionali, ovvero l’università nella forma del convegno, le riviste specializzate, gli atti, le collettanee. Delle monografie non parliamo neppure, nessuno sa che escono, a meno che qualche anima buona non le divulghi su Facebook, racimolando qualche like da parte di chi sa già che sono uscite. Facebook non ha modificato nulla dell’assetto tradizionale del lavoro culturale. Per la divulgazione intellettuale esiste in rete un altro spazio molto più efficace che è academia.edu, che frequento con molto piacere e dove incontro le persone con cui ho veramente voglia di confrontarmi e a cui non chiedo mai l’amicizia su Facebook perché non desidero trovarmi davanti a un loro aspetto leggero che confonderebbe la mia percezione della loro solidità argomentativa, che invece mi restituisce quell’ambiente. Rimane il fatto che in Italia oggi lo spazio del confronto intellettuale è ormai inesistente. Non c’è in TV, non c’è in radio, non c’è sui giornali, non c’è ai festival dove si va per sentire chiacchiere e non approfondimenti. La figura pubblica dell’intellettuale non esiste più. Per scovarne bisogna frequentare giri, coltivare amicizie, non è possibile accendere la TV e vedere un filosofo che spiega qualcosa di rilevante, accendere la radio e sentire uno scrittore che parla di qualcosa di significativo, in maniera seria, senza usare lessico accattivante. Tutto questo non esiste più. E parlo anche di programmi che ascoltavo e che non ascolto più perché il livello mi sembra infimo rispetto a dieci anni fa. Se è ancora possibile ascoltare ottima musica, vedere bei film, godere di ottime mostre, il discorso intellettuale è sparito dai media, e per media intendo anche i social media, dove per un periodo sembrava ricomparso. In Italia le riviste online che danno spazio a un dibattito critico vivace e alto si contano sulle dita di una mano di cui è stato amputato qualche dito. Non le nomino qui, ma almeno di una sono molto orgogliosa, perché resiste nonostante tutto.

In questo quadro desolante, Facebook non fa che peggiorare le cose, riducendo l’intellettuale a una macchietta. In questi anni ho constatato che – eccetto qualche raro e illustre caso – le persone con cui intrattengo un dialogo e di cui leggo materiali che ritengo importanti, non hanno un profilo social, o se lo hanno è solo nominale perché non lo frequentano. Questo a me dice tutto quello che c’è da dire sul rapporto tra socialità di rete e produzione intellettuale. È un rapporto che secondo una mia personale stima equivale a zero.

Mi direte che Facebook vi permette di intrattenere relazioni lavorative, di informarvi su progetti ai quali anche voi potreste partecipare, ecc. Vi rispondo che se partecipate a quei progetti è perché fate già parte di un ambiente e perché venite esplicitamente invitati a collaborare. Non si è mai visto un progetto che parta davvero da interazioni in rete. Persino l’ebook sull’educazione anti autoritaria che ho curato non è veramente stato frutto di un “call for papers” lanciato su Facebook: è stato frutto di una selezione fra le varie proposte, selezione che sarebbe potuta avvenire secondo i canali più tradizionali (mailing list, sito, invito esplicito).
In sostanza, le relazioni si mantengono perché c’è un’effettiva frequentazione dello stesso ambiente, e non perché ci si vede e ci si scambia battute su Facebook. Sarebbe il caso di prendere atto di questa realtà e di lasciare da parte le illusioni che cazzeggiare sui social porti davvero qualcosa di concreto nelle propria vita.

Queste sono le riflessioni che per alcuni mesi hanno interessato il mio rapporto con i social. Riflessioni a ben vedere piuttosto trite, un già detto tutto sommato. Per me si trattava di continuare a confondere il privato e il mio lato leggero, che chi mi conosce può apprezzare dal vivo (ne vado piuttosto fiera) con la vita professionale e la seriosità di quello che faccio invece nel mio studio, ogni giorno; oppure di scindere una volta per tutte, di rinunciare al caos in un’ottica più ordinata e strutturata, che è quello che mi caratterizza intellettualmente. Ho scelto l’ordine. Come si può notare l’ondata emotiva ha poco a che vedere con ragionamenti di questo tipo, e spero che una volta per tutte si rinunci ad imputare all’emotività la chiusura di un profilo Facebook.

Un caro saluto a tutti quelli che hanno letto e anche a chi si è stufato dopo la terza riga.

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102 commenti su “Perché Facebook vale un abbandono

  1. Curiosamente, poco più di un anno fa, pur senza (non ancora) abbandonare definitivamente Facebook, ho fatto lo stesso ragionamento a coronamento dell’esperienza (o meglio, esperimento) di curare una pagina facebook del mio blog parallelamente al blog stesso. Come Claudia, anch’io notavo le ripercusioni che l’affermazione dei social network in generale ha avuto e sta avendo sulla qualità dei rapporti interpersonali, e fin dall’inizio nutrivo dubbi sulla possibilità di usare Facebook come strumento di impegno intellettuale ed elaborazione critica. Anzi, come troverete scritto nel post che spiega l’abbandono di Facebook, si trattava di «un tentativo di fare breccia nelle maglie del gigante scardinandone la logica assoggettante, il ruolo sociale e la struttura che lo rendono un mezzo intrinsecamente inadatto alla costruzione critica del sapere». Un fatto curioso è che, almeno nel mio caso, ma credo questo valga per la stragrande maggioranza delle pagine Facebook che nascono con intenti più o meno dichiarati di ribaltamento della “logica da social network”, si è assistito al graduale e inesorabile assorbimento di tali intenti in una logica perversa. La mia impressione è che chi vuole giocare “dentro e contro” di fatto deve controntarsi molto più con la conflittualità dello stare “dentro” che sulle potenzialità dell’essere e agire “contro”, e questo vale non solo su Facebook.

  2. Ciao Claudia e a tutti i Giapster. Ovviamente trovo questo intervento molto interessante, tanto che mi ha fatto passare dalla condizione di lettore muto di GIAP (e della sua enorme sezione commenti), a quella di lettore partecipante. E questo è successo, ovviamente, perché sono in disaccordo con quanto scritto da Claudia.
    Sarò schematico e breve, per quanto possibile.
    Senza nulla togliere alla scelta di Claudia, e premettendo che non ho fatto le letture scientifiche che ha fatto lei e che quindi potrò fare una replica puramente empirica (ma empirica mi pare anche l’analisi), la mia impressione è che sia stia chiedendo a Facebook molto più di ciò che può dare. Provo a spiegarmi: anche io trovo che FB sia una vetrina dell’egotismo contemporaneo, dove moltissimo conformismo è messo in vetrina per gli astanti. E’, in fin dei conti, uno spazio occupato da persone mediocri – anche se di un’età media molto più bassa delle persone che calcano piazze o centri commerciali – con cui potremmo cercare, come no, un contatto. Ma tra la folla, comunque, si può sempre scegliere a chi avvicinarsi, con chi parlare, di che discutere, e con questi scambiare idee spesso con profitto. In questo senso, è pacifico che il comunicare sui social network non porti “qualcosa di concreto” nella propria vita, non è uno spazio di aggregazione o di azione politica, ma trovo tutt’altro che impossibile uscire arricchiti dalle conversazioni che si possono avere con alcuni contatti che non si sarebbero raggiunti altrimenti.
    Mi sembra quindi del tutto improprio il paragone con academia.edu, anch’esso una vetrina, ma che rispetto a Facebook incoraggia un conformismo più da curriculum vitae per un assegno all’università più che una reale interazione fra gli utenti. Anche io lo uso, e sono molto felice di poter leggere papers e interventi di studiosi che si occupano di discipline affini alle mie, ma le normali barriere che la “serietà” accademica impone mi sembrano perfettamente replicate anche lì. Senza contare che c’è pure un certo cedimento ai feticismi bibliometrici (“top paper”, “top 3%” ecc).
    Insomma, forse la soluzione migliore non è abbandonare uno spazio criticabilissimo, ma relativamente accessibile e aperto, per il semplice fatto che non si vogliono vedere le foto di Guido Melis al mare. L’importante è capire se Guido Melis, oltre alle foto, è disposto a discutere anche di cose serie. E mi sembra che lo sia.
    E questo permette di approcciarsi al social network senza dover chiudersi nel paradossale recinto della contro-cultura di facebook. Anzi, trovo che i conformismi indotti dai social network (comportamenti collettivi, abbozzi di pensiero politico), e dagli “influencer” che li presenziano, debbano essere analizzati da chiunque sia interessato al contemporaneo. E se l’obiettivo è storicizzare il mutamento antropologico indotto dai social network, presenziarli è necessario per comprenderlo, quel mutamento.

  3. Apprezzo sia il coraggio di Claudia che il pragmatismo di Longino. Sono ipocrita? Forse. O forse entrambi rappresentano la contraddizione in cui ci muoviamo in tanti. Concordo con quanto scrive Claudia: la mancanza di sorpresa delle relazioni, la finta sensazione di conoscenza, l’odiosa impossibilitá di fare richerche di archivio che caratterizzano FB mi mettono in difficoltá ogni giorno. Cosí come un elemento molto personale, ma che mi fa piacere condividere qui: la dipendenza. Ecco, come una vera tossica faccio il primo passo: “Ciao, sono Virginia, e sono dipendente da Facebook”. Non tanto la dipendenza da pubblicazione, quanto la dipendenza del gesto. So che la rete è piena di contenuti, curo con amore il mio Feedly ogni giorno e amo i Feed RSS come strumento per crearsi una timeline dai confini molto più larghi e liberi di quella create da Zuckerberg. Eppure, quando sono in attesa dell’autobus o quando fumo una sigaretta sul terrazzo sempre più spesso mi trovo a “scrollare” la timeline di Facebook. I tempi che prima erano dedicati all’osservazione del mondo o alla lettura di qualche riga di una pagina di un libro sono sempre più spesso dedicati alla creatura FB. E non posso non interrogarmi su questo comportamento. E non voglio giustificarmi con l’adagio dei tempi contemporarei, con il mantra dell’attention span e con l’overload informativo. So bene dove cercare le informazioni, dove leggere qualitá e approfondimento. Ma mi spavento da sola tutte le volte che mi ritrovo a compiere l’inesorabile pigro, vuoto, gesto dello “scrolling”. Vuoto perchè nella maggior parte dei casi è vuoto il mio sguardo. Ma poi quel vuoto si riempie di un contenuto che cattura l’attenzione. Magari proprio un post di qualcuno che richiama una di quelle “riviste online che danno spazio a un dibattito critico vivace e alto si contano sulle dita di una mano di cui è stato amputato qualche dito”.
    Non so, non ho una risposta. Non so ancora cosa farò del mio account facebook. Ma ringrazio Claudia per il flusso leggibile delle sue parole, che hanno acceso un altro angolo di riflessione. Quella sull’abitudine. E sempre più mi trovo a pensare che i mezzi di comunicazione, in questo caso intesi come device, che abbiamo a disposizione in questi anni sono fortemente “gestuali”. E il gesto cambia i comportamenti cognitivi, ma anche l’accesso ai “testi”, ai contenuti. Chiudo con questo interessante articolo (dalla padella alla brace, visto che qui si parla di Google): Google tries to save the web from the curse of ‘infinite scrolling’.

    • Scrollare è aihmé la nuova funzionalità del pollice opponibile. Spesso mi ritrovo a cercare di scrollare i libri stampati, e in ogni caso non credo sia una gestualità legata solo all’eccesso di utilizzo dei social network su dispositivo mobile, ma alla nuova modalità di lettura tramite e-reader e tablet. Anche questo è un mutamento antropologico, penso sia necessario prenderne atto.

      • Certo, non è legata solo ai social network, Ma sicuramente la somma social network + mobile ha portato il gesto alla sua espansione. L’ereader ha per esempio un gesto orizzontale, basato su una soluzione di continuitá: finisco una pagina e poi sfoglio lo schermo. E in qualche modo posso inserire annotazioni, segni, ricerche in profondità (su link se l’ebook è interattivo) o sul significato delle parole. Su Facebook da cellulare invece non funziona nemmeno l’opzione seleziona+copia.
        Mutamento antropologico dici. Esatto. Ma proprio in quanto tale dobbiamo analizzarlo, contestualizzarlo e cercare – narrativamente e scientificamente – di costrurie una critica del comportamento e delle sue conseguenze culturali. Di questa “Critica della ragion scrollante” credo che la tua lettera sia un capitolo centrale.

  4. Condivido le tue ragioni Claudia: FB è un dispositivo omologante, autoritario e persuasivo, crea dipendenza, dissolve i confini spazio-temporali, calpesta l’intimità. L’invasione su FB della pubblicità lo assimila alla tv: intontisce, ruba spazio alla riflessione e induce a comprare. Apprezzo il tuo gesto e il tuo volerlo comunicare a tutti tramite una lettera. Mi auguro che la tua voce possa comunque continuare a essere “virale”, possa raggiungere ancora molte persone perché la tua voce è libera e merita di restare tale. Chiedo, però: ammesso che gli intellettuali ancora esistano, siamo sicuri che debbano rimanere “distanti” dalle persone? Io credo di no, credo che debbano incontrare le persone, nelle fabbriche, nelle scuole, nelle città, là dove le persone sono e vivono. Credo debbano parlare e comunicare anche per ascoltare e capire. Forse anche attraverso i social. Perché escluderlo?

    • Anch’io lo penso, ma attraverso i social al momento mi risulta difficile crederlo, per una mera questione di linguaggi condivisi e di competenze comunicative nel senso indicato da Chomsky e non dal MIUR :) L’ODD è un caso emblematico di gruppo che vorrebbe essere inclusivo e invece proprio per la piattaforma su cui è situato esclude chi vuole tenersi fuori da FB (ad esempio, io non potrò più frequentarlo) e per il sistema di selezione (su cui come ho precisato concordo). Se fosse su un’altra piattaforma forse sarebbe diverso, penso a Edmodo che ha il motore di ricerca interno ed è uno spazio privo di distrattori. Ne parleremo.

      • Non sono su FB né sono mai stato attratto dall’aprirci un account. Principalmente perché non mi fido. La questione della privacy è una cosa molto seria e lo sarà sempre di più.
        Non ho interesse a rivedere chi ho smesso di frequentare. Se non ci si vede un motivo ci sarà (escludo le questioni legate alla distanza, sono un tipo stanziale). E per finire il tempo: credo che non ne abbiamo così tanto purtroppo. Meglio usarlo per cose più importanti. Almeno per me. Quindi temo che il punto sia: Claudia cosa ti aspettavi da FB che non hai trovato? Grazie.

  5. Io trovo che se non è emotiva la scelta di abbandonare facebook, lo sia invece questo scritto, per quanto riguarda la parte della riflessione sul discorso “intellettuale”. Intanto non si capisce perché mai il cazzeggio sui social avrebbe dovuto dare frutti, al di là dei frutti per i quali il tessere relazioni è essenziale. Poi l’ordine è anche stare su fb e cazzeggiare il giusto. In tutto ciò fb non c’entra nulla.

    Non capisco perché scrivi “se è ancora possibile ascoltare bella musica e vedere bei film”: sembra quasi che sia successo qualcosa per cui è una fortuna. Inoltre le cose belle si trovano anche oggi nei canali meno generalisti. E così i discorsi non sono spariti, ci sono ancora, ma disseminati. Poi non so quanti discorsi interessanti ci saranno stati nell’epoca pre-internet in tv. E questa idea della figura pubblica dell’intellettuale mi sembra più un mito costruito a posteriori. In radio ci sono ancora discorsi interessanti, e su youtube ci sono molte registrazioni di divulgazioni scientifiche, presentazioni di libri, dibattiti. Più appunto siti come academia (quando mai una volta una persona qualunque aveva accesso a pubblicazioni del genere?) Certo non c’è un canale unico e uno spazio che riunisce il flusso. Ma penso sia più una sensazione. Quando leggo racconti degli anni ’70 c’è spesso in quelle parole l’idea di trovarsi in mezzo a momenti decisivi. Probabilmente perché non avevano la possibilità di vedersi da fuori. Adesso questa possibilità c’è, nel senso che il proprio orizzonte è più largo, e si capisce la distanza tra le proprie parole e il mondo, e quindi sembra svanire l’idea di stare nel mezzo di qualcosa di decisivo.

  6. Forte perplessità.

    Claudia mette insieme due argomentazioni: Facebook peggiora le sue relazioni umane e Facebook mortifica il suo ruolo di intellettuale. Sono due temi diversi, perché il primo riguarda l’uso “normale” della piattaforma, il secondo, che mi sembra il vero punto focale di ciò che vuole dirci, riguarda un suo uso “creativo”.

    La festa di compleanno della mia nipotina è il luogo adatto a promuovere la pace nel mondo? Io credo di sì, tutto sommato, perché qualche discussione di politica internazionale ci scappa sempre e poi partecipano anche famiglie di etnie e religioni diverse ed è un’occasione per favorire il dialogo interculturale. Tuttavia, resta la festa di compleanno della mia nipotina e se anche la pace nel mondo non ne giovasse ci andrei lo stesso per la torta, per le candeline e per la nipotina.

    Ho usato Facebook anche per vedere le foto delle vacanze dei miei amici, per scoprire se quelli che vedo meno spesso avevano cambiato lavoro o fatto un bambino, per sapere se oggi si sentono tristi, per scrivermi con ragazze che mi piacevano. Non mi è chiaro perché dovrebbero essere attività deteriori e forse non essendo un intellettuale non capisco perché per loro possa essere umiliante che si sappia che fanno il bagno a Zoagli – ammesso che vogliano dircelo. Le persone si raccontano le vite, è un’attività profondamente umana e alla base di tutta la cultura umanistica. Che male c’è? Resta il fatto che la piattaforma è costruita per quello e non per fare la peer review di articoli accademici, non mi sembra quindi congruo un confronto con piattaforme completamente diverse negli scopi e soprattutto nella frequentazione.

    Lo sgretolamento dei rapporti umani che si racconta nella prima parte del testo non trova riscontro nella mia esperienza, di rado vedendo una foto “pixellizata” di un mio amico questo mi spinge a dimenticarmi che lui ha anche un’esistenza corporea, ma la letteratura è in effetti piena di racconti di relazioni epistolari dove l’altro viene pian piano a perdere la sua fisicità e immaginato solo come un gomitolo di parole. Stranamente questo era considerato molto romantico un tempo, oggi è visto come un’aberrazione; io dico che dipende un bel po’ dalla qualità di quelle parole.

    Anche la sensazione di straniamento quando vari nostri ruoli sociali collidono mi pare sia sempre esistita. Cercherò su academia.edu ma se non sbaglio ne ha scritto molto Pirandello. Ovviamente su Facebook è più difficile tenere a compartimenti stagni i vari aspetti della nostra vita, anche se mi chiedo se non sia un ideale un po’ bigotto e da doppia morale quello dei vizi privati e delle pubbliche virtù. Altro è il discorso di estromettere i propri superiori gerarchici da forme di controllo sulla notra vita privata, ma quella è una amara necessità, dovuta al fatto che nelle aziende si fa in genere una vita inumana, dove si deve far finta di non essere persone di carne ma robot. Bisogna rivendicare l’ipocrisia aziendale e propugnare un’esistenza scissa in varie individualità che non esondano una nell’altra? Il privato non era politico?

    Starei però di più sul secondo tema, perché le idiosincrasie personali su come strutturare la propria rete affettiva mi sembrano davvero un po’ difficili da discutere qua sopra – forse ne potremmo parlare meglio su Facebook! (E non sto scherzando così tanto…) E cercherei anche di resistere alla tentazione di confondere cultura e ruolo dell’intellettuale con politica e ruolo del militante, anche se nella mia testa sono temi affini. Che i social network siano uno spazio, non il principale ma neppure il più insignificante, di contatto con le masse e quindi di possibile militanza, a me sembra ormai dimostrato. Resta da vedere se questo contatto può produrre anche cultura oppure no.

    Devo dire che ho trovato infelice la formulazione «incursione di semianalfabeti» usata per giustificare la presunta necessità di fare un’accurata selezione all’ingresso nei dibattiti filosofici. Ero ingenuamente rimasto a una visione diversa del ruolo dell’intellettuale e specificamente del filosofo nella società contemporanea. Tutta la descrizione che segue del declino della cultura in Italia e forse nel mondo sembra viziata da un catastrofismo e da una specie di culto dei “bei vecchi tempi” quando non c’erano i trogloditi incursori. Semplicemente non è vero che non si fanno più riflessioni che vanno oltre i 140 caratteri. Non so molto del mondo umanistico, ma posso parlare di quello tecnico-scientifico e questa affermazione è semplicemente priva del minimo collegamento con la realtà: le scie chimiche impazzano su Facebook ma non hanno alcun effetto nei convegni e nella letteratura scientifica, gli stessi giovani ricercatori che mettono online le foto delle loro sbronze del sabato sera il lunedì mattina fanno ricerche straordinarie con grande impegno e pochissimi finanziamenti. Trarre collegamenti fantasiosi tra “diavolerie moderne” e declino degli antichi valori l’ho sempre ritenuto reazionario e inviterei alla cautela.

    È deresponsabilizzante dare la colpa al mezzo, quando è evidente da infiniti esempi che abbiamo tutti dei grossi limiti nel comunicare anche offline, anche in un’assemblea pubblica, anche attorno a un tavolo, anche scrivendo un libro. Sarebbe forse più utile una riflessione specifica sulle caratteristiche tecniche e soprattuto socioeconomiche della piattaforma e su come distorcono la nostra comunicazione, più che discorsi generali che per come sono impostati si potrebbero applicare anche al telefono, al suffragio universale o – perché no? – all’invenzione di Gutenberg.

    Faccio tre esempi:

    1. Filtraggio del news feed. Questo punto è banale e risaputo ma importantissimo: Facebook è un’impresa capitalistica che fa soldi sulle nostre relazioni. Non è l’unica: lo fanno anche le catene di ristoranti, i negozi di cartoline, i cinema, i fotografi dei matrimoni, le discoteche. Anche loro sono spinti dalla ricerca del profitto a manipolare le nostre relazioni a proprio vantaggio, per esempio McDonald’s organizza feste di compleanno, certi cinema fanno lo sconto di S. Valentino alle coppie, le discoteche fanno sconti alle donne e tengono la musica alta per non farci parlare, in generale tutta l’economia nei Paesi a maggioranza cristiana sfrutta in molti modi la ricorrenza del Natale ecc. Tuttavia, un software come quello usato da Facebook è capace di fare cose molto più invasive e sottili, e le fa a nostra insaputa. Se Facebook decide che guadagna di più favorendo gruppi allargati di amicizie superficiali, ci proporrà nella home un numero maggiore di post da parte degli amici meno connessi; se Facebook decide che le relazioni sessuali e romantiche sono il suo core business, darà enfasi al nostro status sentimentale e ai suoi cambiamenti, riconoscerà automaticamente i ritratti frontali con molti “Like” e li metterà in evidenza, potenzierà la chat privata; se Facebook trova che le pagine di cazzate complottiste o sessiste danno il volano a molta pubblicità, le favorirà e chiuderà un occhio sulla violazione del suo codice di condotta, se viceversa fanno degradare la qualità del sito darà un giro di vite con la funzione antibufala o con la repressione delle volgarità e delle nudità. Se non prendiamo in mano la topologia delle nostre reti sociali e la lasciamo gestire a qualcos’altro (cioè, in ultima analisi, a qualcun altro), prenderà la forma che serve a chi ha il controllo e non quella che desideriamo noi.

    2. Commenti nidificati. Da pochi mesi, anche i profili personali su Facebook hanno i commenti nidificati, cioè si può commentare sotto un post oppure si può commentare sotto un commento a un post. Sono previsti solo due livelli di nidificazione. Questo cambiamento è interessante, perché favorisce discussioni lunghe più ordinate e in qualche misura contrasta la logica ottusa del “Mi piace”, permettendoci di dire cosa ci piace o non ci piace di un certo commento e di stare su quel sottoargomento. Su Twitter in casi simili non si capisce una sega. Mi chiedo come mai sia stata introdotta questa cosa; la prima lettura che mi viene da dare è che l’utenza di Facebook sta cominciando a creare dei thread davvero lunghi e ad avere davvero molti amici (a occhio direi che oggi la gente abbia mediamente il doppio di amici rispetto a un lustro fa) e in questo modo si rende possibile strutturare queste discussioni. Ovviamente Facebook lo fa per i propri interessi, ma è un passo che lo allontana dagli usi più superficiali e lo avvicina alla logica di un forum di discussione. (Ehi, anche Giap ha i commenti nidificati da prima che Facebook li rendesse popolari!)

    3. Notifiche su commenti di amici ad amici. Nella mia home compaiono spesso post pubblici di persone che non conosco, perché un mio amico abbastanza stretto ci ha scritto sotto un commento. Questa funzione è potente perché rende qualsiasi cosa che noi facciamo su Facebook visibile con un’evidenza che non ci aspetteremmo a persone che non ci aspetteremmo. Facebook sta impollinandoci di proposito. Perché lo fa? perché secondo me punta a farci fare “amicizia” con gente un po’ fuori dalla nostra vera cerchia sociale offline, che conosceremo solo lì e solo virtualmente, rendendo quindi più prezioso e insostituibile il nostro collegamento via Facebook con loro. Che effetti ha? che le nostre affermazioni online diventano sempre più “pubbliche”, sempre più simili a interviste sul giornalino della scuola più che chiacchiere in cortile durante l’intervallo. A me pare che questo favorisca un uso del mezzo meno intimo e rozzo e quindi lo renda più adatto a proclami politici, manifesti artistici, esperimenti narrativi e dilettantismo umoristico. In effetti tutti si lamentano su Facebook e sempre più spesso su Twitter del fatto che la gente “sputi sentenze”; non condivido queste critiche perché se ci pensate bene è come dire che sarebbe meglio che la gente parlasse solo di cosa ha mangiato a colazione – e quando la gente parlava solo di quello sui social ci lamentavamo della loro superficialità. A me sembra che permettere ai “semianalfabeti” di fare “incursioni” ignoranti nel mondo degli sputasentenze professionali sia se non la base della democrazia almeno un suo inevitabile corollario.

    Io faccio riunioni settimanali vedendomi in carne ed ossa con un gruppetto di persone per parlare di politica; non potremmo rinunciarvi e farlo su Facebook, anche se abbiamo una paginetta dove diciamo volta per volta di cosa andiamo a discutere. Di solito stiamo a casa di qualcuno dei compagni, a turno. L’ultima volta uno di noi che di mestiere fa l’insegnante e il ricercatore gramsciano ci ha spiegato cosa diceva Gramsci sul ruolo dell’intellettuale nel Rinascimento contrapposto alla Riforma. Se ho capito giusto, Gramsci (che conosco poco) dice che gli intellettuali rinascimentali erano isolati dalle masse, quelli protestanti (di cui su questo sito abbiamo degli espertoni!) no, ma avevano una specie di disprezzo o disinteresse diffuso per la “cultura alta”. Gramsci ovviamente non si riconosce in nessuno dei due modelli. Chissà se è un discorso che c’entra qualcosa con questo.

    • “A me sembra che permettere ai “semianalfabeti” di fare “incursioni” ignoranti nel mondo degli sputasentenze professionali sia se non la base della democrazia almeno un suo inevitabile corollario.” Estraggo solo questo elemento del tuo articolato discorso con cui mi trovo completamente d’accordo (per quanto possa interessare). Credo che in questa paura degli analfabeti ci sia il grosso groviglio della sinistra, soprattutto intellettuale, totalmente distaccata dagli idioti che pasteggiano al Mc Donald’s, che non comprano Bio, che non decodificano le recensioni di Alias. Totalmente distaccata e senza nessuna voglia di interrogarsi sul distacco. Scusate gli stereotipi sugli idioti. Io naturalmente sono uno di loro.

    • Quando decidemmo di introdurre su Giap i commenti nidificati, chiedemmo alla comunità giapster cosa ne pensava. Può essere interessante rileggere oggi quella discussione.

      • P.S. La discussione durò tre mesi, proseguendo molto oltre la messa in pratica della decisione.

    • «Su Twitter in casi simili non si capisce una sega»

      Però la situazione è molto migliorata da quando Twitter ha introdotto la “riga” laterale che tiene congiunti i tweet di una discussione, e ancor più di recente, con la divisione dei thread in più sottothread, che a ben vedere è una sorta di nidificazione dei tweet.
      In ogni caso, è indubbio che Twitter non sia stato costruito per discuterci sopra. Funziona benissimo per altre cose, riguardo a questa sta giusto mettendo dei “rattoppi”.

    • Sono molto d’accordo con tutto quello che dice Mauro, in teoria. Perché poi in pratica da Facebook me ne sono andata per insofferenza e perché stavo iniziando a odiare tutti. Il problema è che la maggior parte dei miei contatti fb sono persone che conosco in carne e ossa, e su fb sono persone diverse. Di solito sono peggio che dal vivo, più banali, più superficiali. Più stupide proprio. E attenzione che con superficiale non intendo chi posta foto della cena della bocciofila, bensì chi divulga cazzate a caso senza porsi minimamente il problema della veridicità e dei danni che possono fare le bufale virali. Io non avevo proprio più voglia di sbattermi a litigare con chiunque quindi me ne sono andata senza salutare, anche perché pensavo che fosse uno scazzo temporaneo dato che lo consideravo un mezzo utile per svariate cose. Invece mi sa che durerà perché non mi manca per niente e ho altri mezzi per comunicare con chiunque mi interessi comunicare. Naturalmente non pretendo che la mia esperienza faccia testo, in quanto limitatissima, avevo anche meno amici della media.

  7. Solo una domanda: formulare un annuncio ufficiale in cui si comunica la propria uscita da FB, non è in qualche modo un gesto egotico e autocentrato? Non si rischia di riproporre, paradossalmente, un certo atteggiamento narcisistico ed enfatico in puro stile facebook?
    Non ha forse ragione Longino quando nel suo commento scrive: “la mia impressione è che sia stia chiedendo a Facebook molto più di ciò che può dare”?

    • Questo punto dobbiamo chiarirlo noi: questa è una lettera aperta che Claudia ha spedito via email, rigorosamente fuori da FB, a un indirizzario di suoi amici, conoscenti e “amici” facebookiani, dopo che la sua decisione di abbandonare FB aveva suscitato le prime reazioni, anche sul social network. Poiché sarebbe stato incoerente spiegare su FB perché se ne andava, lo ha fatto a latere, inventando ad hoc un ambito di confronto. La cosa ci ha incuriosito e le abbiamo proposto di pubblicare il testo su Giap, dove si è discusso più volte di social media, feticismo digitale, pluslavoro, efficacia dei mezzi, possibilità o impossibilità di stare “dentro e contro” ecc.

  8. Boh, sarà che sono stato un utente FB della prima ora e che ne sono uscito da un paio d’anni senza fanfare ma la domanda secondo me è più semplice: a cosa serve Facebook?

    Non è utile come sito di notizie, non serve come aggregatore sociale e francamente anche lo sbandierato slogan “trova amici che avevi perso” ha poco senso… Se li ho persi c’era sicuramente una ragione.

    Quindi qual è il controvalore della vendita dei propri dati personali?

    Francamente da quando ho abbandonato FB ho riscoperto internet: aree tematiche, opinioni argomentate e interessanti, siti di notizie non allineati, movimenti e manifestazioni senza contare l’enorme bonus di limitare l’esposizione a populismi, facilonerie e fascismi vari.

    Lavoro in IT e non sapete quante volte ho sentito la frase “non funziona internet” riferita al fatto che non si apriva FB; ecco, questo è il male di fornire armi di distrazione di massa a gente impreparata.

  9. Giusto ieri sera, e succede sempre più spesso, mi sono trovato attorno ad un tavolo con una coppia di genitori e abbiamo condiviso le nostre perplessità e i nostri dubbi sui funzionamenti dei social network, in riferimento a quello che sarà il loro utilizzo da parte dei nostri figli.

    Se una applicazione come ad esempio whatsup riesce a distrarre così tanto un adulto (messaggi a valanga, futilità delle conversazioni, impossibilità di fare un discorso di senso compiuto, costruzioni di decine di gruppi e, last-but-not-least i milioni di baci-bacetti-tiamo da parte di conoscenti superficiali) cosa può fare ad un adolescente?

    Continuamente al parco vedo genitori che smollano i figli e si distraggono sugli smartphone e non si accorgono delle richieste di attenzione dei loro figli. Io stesso devo obbligarmi a lasciare sulla scrivania il cellulare quando sono a casa con mia figlia o, peggio, a cena: ci siamo liberati a fatica della tv e stiamo tornando schiavi del web!

    A me sembra che siamo preda di un edonismo culturale tale che non riusciamo più ad affrontare mentalmente la sconfitta, nel senso di dolore o semplice emozione o il fatto che ci sia qualcuno a cui stiamo antipatici, ecc. Quindi ci rifugiamo nelle relazioni superficiali e finte dei social network. Questa cosa ha effetti devastanti in termini di crescita relazionale e mentale per quel che riguarda gli adolescenti.

    Però…però ho deciso che non abbandonerò facebook, non solo perché è l’unico mezzo di comunicazione (oltre alla cartolina) che ho col mio carissimo amico di Tokyo, ma anche perché voglio continuare a interrogarmi su come funzionano i social network e come potranno influenzare mia figlia in futuro.

    Poi ci sta che, in base alle proprie esigenze personali e lavorative, il mezzo facebook semplicemente non serva più. E qui si apre un altro problema della nostra attuale società: quello di confondere continuamente il mezzo con il fine.

  10. Capisco l’astio da facebook e per le discussioni incistate che si moltiplicano su questa piattaforma, tuttavia ci sono alcuni passaggi dell’articolo che non mi convincono e credo derivino da un assunto principale: la divisione tra facebook (e in generale i social network) e il resto della vita.
    Credo che tra le due cose non ci possa essere una cesura netta: sì è anche ciò che si scrive e si dice nei social network. La divisione che viene fatta conduce ad analisi discutibili: l’idea, a cui si fa accenno, che gli spazi di confronto migliori sono quelli tradizionali (le università) detta francamente, non corrisponde a realtà se non in rari casi. E anche in questi mi sembra che ci siano parecchi problemi a riguardo: relazioni di potere evidenti, linguaggio specialistico, chiusura del mondo accademico.
    Aggiungo che la nettezza delle posizioni di questa lettera crea anche altre divisioni secondo me troppo forti: quella tra “il lato leggero dell’intellettuale” e le elaborazioni critiche importanti, quello tra “ondate emotive” e “ragionamenti”. Io stesso faccio parte del mondo universitario e questo tipo di divisioni mi sembrano a volte necessarie ma al contempo letali e mi chiedo se marcarle così profondamente non sia fare un passo indietro rispetto a tante cose che andrebbero cambiate radicalmente.

    L’altra cosa che non mi convince è l’uso dell’etichetta “intellettuale” in maniera neutrale: in genere come intellettuale non si considera chi ha studiato e scrive cose interessanti, ma una persona che si pone e viene imposta come in grado di ricoprire questo ruolo, è una figura costruita e auto-costruita, che è conservatrice nella sua essenza e che va decostruita. Ora forse stiamo assistendo ad una stretta rispetto a questo processo di costruzione, la figura dell’intellettuale è mitizzata e falsificata e Baricco sembra Sartre. Ma è una battaglia persa da un punto di vista politico che poi ha ricadute su facebook, non viceversa. Il discorso intellettuale è andato perso nei social media anche per come le lotte degli intellettuali sono andate a quel paese: le riforme di scuola e università passano anche con il beneplacito e la complicità di molte persone formate, intelligenti o “intellettuali”. Questi passi indietro producono conseguenze.

    E però forse è vero che la battaglia su facebook è persa, in fondo rimane una macchina per fare soldi, una “psicopolizia” neoliberale che produce e fa esplodere mode. Però sono totalmente d’accordo con Mauro Vanetti che si possono mettere dei freni prendendo in mano “la topologia delle nostre reti sociali”. Inoltre ci sono persone come Giuseppe Genna, Christian Raimo, Gipi, Mazzetta, giusto per fare degli esempi, che mi sembra facciano un uso consapevole e intelligente del mezzo.
    Bisogna riconoscere che mancano le piattaforme per uno scambio critico e al contempo non settario. Academia.edu non è una soluzione: è un circolo chiuso, per persone tendenzialmente molto formate, assolutamente lento nel generare interazioni (tra utenti e con il mondo) e con un linguaggio estremamente tecnico. Ed è estremamente gerarchico: se non hai un tot di pubblicazioni non sei nessuno. Mi pongo anche il problema di come quella intelligenza possa uscire da lì: facebook in maniera scomposta (direi “flamely”) rompe questo settarismo, anche se non consente di essere produttivi. Tuttavia il gioco di “rimbalzo” che alcuni utilizzano per rimandare a blog o anche ad a eventi nella vita in tre dimensioni mi sembra che possa rappresentare una buona soluzione per chi vuole scrivere e discutere con maggiore calma.

    • @ plv
      (premessa, io non ho e non ho mai avuto una pag. Fb anche se l’eco di discussioni e scambi inevitabilmente giunge alle mie orecchie. Il mio quindi è uno “stare fuori” fino a un certo punto).

      Riguardo all’ultima parte del tuo intervento: l’effetto “rimbalzo” (postare il medesimo commento sulla propria pag. Fb e sul blog) credo che in quanto a partecipazione attiva l’espediente sia piuttosto fallimentare: chi lascia commenti, mi pare, preferisca farlo su Fb, alcuni per una sorta di fidelizzazione al medium, altri perché percepiscono la comunicazione sui blog non così informale e “protetta” come quella dei social (conosco persone che non si sentono a proprio agio a commentare sui blog, sono in qualche modo intimorite, mentre sui social scrivono in pratica con cadenza quotidiana). In sintesi, mi sembra che le 2 formule entrino in conflitto (potrei sbagliarmi, eh…) e che alla fine, a vincere siano sempre i social.

      A parer mio, in termini di produzione culturale accessibile, così come di approccio antigerarchico (gli “addetti ai lavori” che parlano con i “non addetti”, in un rapporto paritario esplicito), la formula blog resta la migliore.
      Se Wu Ming avesse una pag. Fb, credo che Giap sarebbe meno frequentato. Io apprezzo molto la scelta del collettivo di potenziare al massimo il loro sito on line e di aprirsi a collaborazioni esterne al gruppo. Negli anni questo è diventato davvero uno spazio capace di proporre cultura (ovviamente potrei citarne altri) all’interno di una cornice non elitaria. Da ultimo, fondamentale per me resta la costruzione di un archivio sempre consultabile (una ricchezza a disposizione di tutti) che è il limite principale di facebook, a meno che non si adotti la pratica del “rimbalzo” cui si accennava sopra.

      • Di questo ne sono certo: il “rimbalzo” su FB avrebbe impoverito Giap oltremisura.

        Proprio oggi, a pranzo con alcuni compagni e giapster, parlavamo dell’interazione automatica tra le discussioni su Giap e Twitter.
        Com’è noto, anni fa abbiamo collegato il feed dei commenti alla nostra TL, per cui l’incipit di ogni commento lasciato qui diventa un tweet, con tanto di link per leggere il seguito.

        Questa piccola, semplice mossa ha *innervato* Giap dentro Twitter e viceversa, conferendo a questo blog una dimensione aperta e “social”, moltiplicando gli aggiornamenti su cosa si sta dicendo qui e i possibili punti d’entrata nelle discussioni.

        A pranzo, dicevamo che questa cosa su FB non avrebbe funzionato.

        Certo, avremmo potuto collegare in qualche modo il feed dei commenti agli aggiornamenti di una pagina FB, ma con quali risultati?

        Su Twitter, di solito uno legge l’incipit e, se si incuriosisce, clicca il link, viene qui e può anche capitare che dica la sua. Twitter valorizza i link, anche con le modifiche degli ultimi anni è rimasto un mezzo “estroflesso”, un trampolino verso altri siti, un aggregatore *centrifugo* (anzi, “eccentrico”) di notizie e materiali vari. Anche per il limite dei 140k, che se usato bene spinge a “sbordare”, a proseguire altrove.

        Su FB, invece, non dico tutti, ma molti avrebbero letto la frase e… l’avrebbero commentata seduta stante, isolata dal resto. FB è avvolgente, ogni elemento della sua architettura incentiva a rimanere lì, l’algoritmo non valorizza i link verso l’esterno ecc.

        Mi capita spesso di vedere, su pagine FB di giornali e riviste (esempio a caso: Internazionale) lunghi thread dove non si commenta l’articolo di volta in volta segnalato, ma soltanto il sommarietto che compare nell’anteprima e, a seguire, si commentano i commenti degli altri. Diventa un metadiscorso sempre più lontano dal contenuto dell’articolo. E’ capitato anche con le tre puntate di “Cent’anni a Nordest”.

        Ripeto: molte realtà potrebbero prosperare su FB, ma non Giap. E nemmeno Wu Ming. Vedo il nostro modo di comunicare, la nostra ricerca di “frattempi”, il nostro rifiuto delle “corse di topi”, la nostra continua fuga dall’identità autoriale classica (mentre FB individualizza e “autorializza” *tutti*) incompatibili con la presenza diretta su quel mezzo.

        Il che non significa che non ci interagiamo in modi indiretti:

        1) offriamo la possibilità di condividere su FB i contenuti di Giap;

        2) usiamo FB per fare inchiesta. Oggi un compagno diceva: “Per certi versi FB è una grande fortuna, è come se vent’anni fa avessimo avuto a disposizione le intercettazioni telefoniche dei fasci! Oggi, spinti dall’euforia del mezzo, si dicono tutto in pubblico, senza freni inibitori, basta fare gli screenshot”.

        E, naturalmente, il fatto che noi non siamo su FB non significa che altri, con i dovuti accorgimenti, non possano usare il mezzo con qualche buon risultato.

        • Sul “rimbalzo” non avevo specificato una definizione precisa e mi rendo conto solo ora che ce ne può essere più di una. In effetti pensavo più alla divulgazione di un post che alla partecipazione attiva e ai commenti da parte di chi leggeva. In effetti il centro della questione risiede più in questo secondo aspetto.

        • “E, naturalmente, il fatto che noi non siamo su FB non significa che altri, con i dovuti accorgimenti, non possano usare il mezzo con qualche buon risultato.”

          Questo vale anche per me; non sono su FB, ma ben venga il tentativo di coloro che all’interno di quella dimensione riescono a disinnescare o a far deragliare certi automatismi verso forme comunicative imprevedibili: quelle pratiche di “social-entrismo” compendiate nell’espressione “essere irriducibili” usata da M. Vanetti.
          Lo dico giusto per precisare che sono assente da FB, ma non ho neppure un approccio apocalittico nei confronti di tale medium.

  11. L’orizzonte del discorso riguardo “facebook” e i cosiddetti “social network” è alquanto vasto. Le questioni richiamate dalla lettera di Claudia B. qui proposta (degrado dei rapporti umani e della dimensione intellettuale) sono solo una parte tra le tante questioni di enorme rilievo e portata implicate nel panorama “social” e nel contesto ancora più generale di quell’insieme di dispositivi turbocapitalistici, di condizionamento, controllo e potere, complessivamente noti anche come web 2.0.

    Questo commento vuole solo essere un invito rivolto a tutti noi, me compreso — in quanto soggetti le cui vite sono direttamente interessate e “coinvolte” da queste questioni — a voler esplorare e conoscere le questioni “social” “web 2.0” in modo maggiormente approfondito e da molteplici prospettive (politica, storica, sociale, economica, antropologica, culturale, tecnica…)

    In questo senso, mi permetto di indicare due testi interessantissimi (almeno per quanto mi riguarda) curati dal collettivo Ippolita:

    1) Nell’acquario di Facebook
    gratuitamente leggibile/scaricabile ai link:
    – Parte prima. Ho mille amici ma non conosco nessuno
    http://www.ippolita.net/parte-prima-%E2%80%93-ho-mille-amici-ma-non-conosco-nessuno
    – Parte seconda. Il progetto right libertarian alla conquista del mondo: social network, hacker, attivismo, politica istituzionale
    http://www.ippolita.net/parte-seconda-%E2%80%93-il-progetto-right-libertarian-alla-conquista-del-mondo-social-network-hacker
    – Parte terza. Le libertà della rete
    http://www.ippolita.net/parte-terza-%E2%80%93-le-libert%C3%A0-della-rete

    2) La Rete è libera e democratica – FALSO!
    libro acquistabile in libreria
    http://www.ippolita.net/libro/la-rete-%C3%A8-libera-e-democratica-falso


    Dalla presentazione de “Nell’acquario di Facebook” su ippolita.net:
    Facebook si avvia ad avere un miliardo di utenti. È uno straordinario dispositivo in grado di mettere a profitto ogni movimento compiuto sulla sua piattaforma. Nell’illusione di intrattenerci, o di promuovere i nostri progetti, lavoriamo invece per l’espansione di un nuovo tipo di mercato: il commercio relazionale. Nell’acquario di Facebook siamo tutti seguaci della Trasparenza Radicale: un insieme di pratiche narcisistiche e pornografia emotiva. Ci siamo sottoposti in maniera volontaria a un immenso esperimento sociale, economico, culturale e tecnico. L’anarco-capitalismo dei right libertarians californiani è il filo conduttore che ci permette di collegare Facebook ai Partiti Pirata europei, a Wikileaks. Gli algoritmi usati per la pubblicità personalizzata dai giganti della profilazione online, i nuovi padroni digitali (Facebook, Apple, Google, Amazon) sono gli stessi utilizzati dai governi dispotici per la repressione personalizzata.
    Nel nome della libertà di profitto.
    Tranquilli, nessun complotto: è solo il FAR WEST DIGITALE.
    (da: http://www.ippolita.net/libro/nellacquario-di-facebook)

    Dalla recensione de “La Rete è libera e democratica – FALSO!” su internazionale.it:
    Da qualche anno il collettivo Ippolita riflette su internet e sulle sue contraddizioni, con una particolare attenzione per le illusioni che genera nel discorso pubblico. Questo pamphlet prosegue nella stessa direzione, offrendo tre argomenti contro la tesi secondo cui la rete è una fonte di libertà e democrazia.
    Il primo argomento è che la rete non è solo il world wide web, il servizio che ci consente di muoverci da una pagina all’altra. Sotto la superficie del web ci sono molti altri servizi il cui scopo fondamentale è raccogliere dati sugli utenti per fare pubblicità mirate.
    Il secondo argomento è che i movimenti politici che nascono in rete di solito non generano partecipazione ed elaborazione di idee. La libertà di parola che consentono si traduce raramente in discussione e tende invece a suscitare una ricerca d’identità ossessiva e un certo rancore rispetto a tutto ciò che è fuori dal gruppo.
    Il terzo argomento, il più radicale, è che la rete non produce i due risultati che ci si aspetta dalla democrazia, cioè la deliberazione collettiva e la ricerca del consenso. Si limita a fornire l’illusione di una libertà di consumo che in realtà ha costi molto alti, in termini di privacy e di raccolta dati. Questo non significa che internet sia solo un sistema per renderci schiavi delle multinazionali, ma certamente che è nata, si è sviluppata ed è usata per scopi diversi dalla nostra felicità.
    (da: http://www.internazionale.it/opinione/giuliano-milani/2014/06/19/gli-illusi-della-rete)

  12. Evito discorsi intellettuali e complicati che non sarei assolutamente in grado di fare.
    Dico solo che, nel caso di Claudia, mi dispiace.
    Mi dispiace perché l’ho conosciuta in rete grazie a Facebook grazie alla sua recensione di un saggio su Wu Ming.
    La sua recensione non mi era piaciuta, ne abbiamo parlato online ed abbiamo mantenuto labili contatti fino a vederci un unica volta trascorrendo una piacevolissima serata insieme ad un festival letterario.
    In questi anni l’ho sempre considerata la mia principale pusher di contenuti culturali.
    Tutto questo per dire che se io, dal mio paesello toscano sperduto, riesco a mantenermi in contatto col mondo della cultura è anche grazie a Facebook.
    Quindi mi dispiace.

  13. “Ebbene quel gruppo è e deve rimanere chiuso, perché quella è l’unica via per evitare l’incursione di semianalfabeti o del “popolo della rete” la cui abilità dialogica è nulla. ”

    Premesso che mi sembra più un uscita da Umberto Eco che da una persona più o meno vicina ai movimenti sociali, chiedo scusa a Claudia per essere iscritto a tale gruppo pur non disponendo di un dottorato in Filosofia. Provvederò ad uscire dal gruppo.

    io sinceramente, e battutine a parte, credo che finchè non coglieremo la via di mezzo per il “potere al sottoproletariato” e i convegni inacessibili sul neocolonialismo ci ritroveremo sempre i soliti quattro gatti alle assemblee.
    E ve lo dice uno che sta dalla vostra parte.
    Saluti.

    • Scusa, per chiarirsi: “dalla vostra” di chi? Mi sembra che Claudia abbia detto la propria senza pretendere di parlare a nome di nessuno.

      • Ok, era un modo molto frettoloso di dire che ho anch io l interesse per i movimenti (anche Claudia da quel poco che ho visto mi pare lo sia) e su come trovare il modo migliore per essere più maggioritari possibili, dato che non mi interessa chiudermi in una ristretta cerchia di intellettuali di sinistra per risolvere i problemi, e non ne sento l esigenza oggigiorno.
        In questa direzione credo che lasciarsi un pò abbandonare in mezzo al mucchio selvaggio dell italia analfabetizzata intellettualmente possa essere utile, se non altro per il fatto che il deserto del reale che vogliamo cambiare è là fuori.
        tutto qui.

        • Poi comunque io questo post lo reputo molto interessante e per certi aspetti condivisibile, ma non ho potuto fare a meno di evidenziare quel passaggio virgolettato perchè mi è andato proprio di traverso per la trachea quando l ho letto.

  14. Qualche anno fa, periodo 2011 -2012, qui su Giap si ragionò molto sulla crescita dei social media, sul rifiuto della dicotomia apocalittici-integrati, sulle differenze tra i vari strumenti, sull’uso che ne facevano movimenti come il 15M in Spagna e Occupy Wall Street negli USA. Dopodiché, per vari motivi, quel filone non è più stato seguito in modo analitico, lo abbiamo un po’ lasciato all’empirismo. Per i tempi della rete quattro anni sono tanti, e non sono nemmeno stati anni facili. Dal 2011 a oggi si è detto ed è successo di tutto. Proprio per questo può essere interessante rivisitare quell’intenso dibattito, per vedere cosa è cambiato.
    Recupero un’intervista sulle differenze tra Facebook e Twitter che Loredana Lipperini fece al collettivo. Per quell’intervista ci preparammo lanciando un hashtag, #TwitterisnotFB, che finì anche in cima ai Trending Topic italiani. Fu una sorta di inchiesta, per quanto caotica, in cui centinaia di persone si espressero sulle differenze tra le due piattaforme, i loro limiti, i rispettivi codici e linguaggi. “Distillammo” i risultati a modo nostro nelle risposte alle domande di Loredana.
    http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2011/08/13/facebook-e-twitter/
    Quattro anni dopo, cosa è cambiato? Twitter si è in parte feisbuchizzato, come dicono alcuni? Facebook ha preso da Twitter alcune caratteristiche, es. gli hashtag. La fotografia che scattammo allora ha ancora una qualche utilità per guardare la situazione di oggi?

  15. Eccomi. Mi rivolgo in particolare a Mauro Vanetti, il cui commento almeno per un 50% non fa che confermare quello che ho scritto in modo molto sintetico nella mia lettera. Quando dico che ho riso, pianto, condiviso, ecc., fatto tutte quelle belle cose che si fanno con FB sto dicendo esattamente quello che lui illustra nella sua prima parte in cui, non capisce perché, pensa che le cose che fa lui siano diverse da quello che ho fatto io, e le sensazioni che ne ha ricavato lui siano diverse da quelle che ho ricavato io, quando in realtà si tratta della stessa cosa solo che a lui non dà fastidio. Non ho capito perché la mia sensazione debba essere classificata come idiosincrasia e la sua, che è uguale alla mia, no. Forse per quella piccola differenza che a lui il corpo pixelizzato non fa impressione come a me? Be’, è come dire che siccome non tollero l’horror (è vero) soffro di una idiosincrasia. Mi pare parecchio discutibile come affermazione. Molto più seria è la seconda parte del suo commento, in cui spiega bene – ad uso dei non utenti suppongo – come funziona il sistema del filtraggio, quello dei commenti nidificati e quello della visibilità delle nostre conversazioni che pensiamo di avere reso private. Nel primo punto dice “Se non prendiamo in mano la topologia delle nostre reti sociali e la lasciamo gestire a qualcos’altro (cioè, in ultima analisi, a qualcun altro), prenderà la forma che serve a chi ha il controllo e non quella che desideriamo noi”, in questo modo dando per scontato che io in sette anni non abbia imparato precisamente a gestire il sistema del filtraggio creandomi una home a mia immagine e somiglianza. Ebbene, notiziona: ho imparato a farlo nonostante la mia cultura umanistica e non tecnico-scientifica, infatti non ho mai incontrato fanatici delle scie chimiche se non attraverso screenshot divulgati dai miei contatti, che ho selezionato nel tempo con criteri selettivi piuttosto severi, ma nonostante ciò l’esperienza si è esaurita per i motivi che ho spiegato nella mia lettera e che non mi sembra il caso di riformulare con parole diverse.
    Vediamo il secondo punto: “l’utenza di Facebook sta cominciando a creare dei thread davvero lunghi e ad avere davvero molti amici (a occhio direi che oggi la gente abbia mediamente il doppio di amici rispetto a un lustro fa)”. Nella mia esperienza è l’esatto contrario. Infatti, ho partecipato alla stagione dei thread chilometrici, che data al 2009-2010 ed è ormai terminata e durante la quale forse i commenti nidificati avrebbero potuto essere utili per non dover dribblare tutte le varie diramazioni, cosa che in un commentario di 200-250 interventi forse fa la differenza. Tuttavia, FB è arrivato tardi sulla questione dei commenti nidificati, l’avrebbe dovuto fare prima, e il fatto che i commenti al Guardian (che cito come caso di studio perché al momento è ancora l’unico profilo in grado di generare thread di centinaia di commenti incluse le diramazioni) siano nidificati in fondo non fa che confondere le cose perché se ogni commento riporta venti/trenta risposte diventa spesso impossibile leggere tutto il commentario. Forse senza i commenti nidificati gli utenti sarebbero incoraggiati a rimanere più sul pezzo, senza divagare su questioni che spesso diventano personali. Inoltre, dici che gli utenti hanno il doppio degli amici rispetto a un lustro fa: non so da cosa ti derivi questa percezione, quando tutti i miei contatti nel corso degli ultimi anni hanno scherzato (ma anche no) sul fatto che bannavano a raffica. Il mio profilo si è mantenuto sotto i 700 contatti, sempre. Chi ne aveva 5000 ha iniziato a scremare selvaggiamente. In linea di massima, l’utente della prima ora tendeva a chiedere l’amicizia alla qualunque e tenere il profilo aperto. Oggi l’utente esperto non solo seleziona le richieste ma blinda il profilo, anche se lo usa esclusivamente per la divulgazione. Altra cosa è l’utente inesperto che sta sui social in maniera inconsapevole, ad esempio i commentatori di profili come “Informare per resistere”, un bell’esempio di quello che intendo per i semianalfabeti della rete. Scrivi ‘A me sembra che permettere ai “semianalfabeti” di fare “incursioni” ignoranti nel mondo degli sputasentenze professionali sia se non la base della democrazia almeno un suo inevitabile corollario’. Dici avere delle perplessità sul mio uso del termine “semianalfabeti”, ma ti rimbalzo la palla, e ti chiedo di motivare il tuo uso di “sputasentenze” riferito a uno dei massimi filosofi italiani viventi che gestisce uno dei gruppi di discussione più alti di questo paese. Possiamo innescare questa dinamica dell’insulto reciproco all’infinito che è tipica facebookiana, oppure possiamo provare a ragionare a capire a chi sono davvero riferiti questi termini. Da parte mia te l’ho spiegato fornendoti un esempio; da parte tua ti chiederei di motivare l’uso di un termine che male si applica all’attività della speculazione filosofica, a meno che non vogliamo eternare il reciproco disprezzo fra cultura umanistica e cultura tecnico-scientifica, alla maniera di Odifreddi. Eviterei questa deriva. Che l’inclusione sia la cifra della democrazia ce l’ha spiegato Clistene, ma se vogliamo chiamare anche lui sputasentenze facciamo pure, in effetti è vero che lo conosciamo per sentenze, non so le sputasse, questo le fonti non lo dicono.
    Mi soffermo anche sul refrain ormai classico “non è il mezzo è come lo usi”, critica abusatissima che ho ricevuto da più parti (anche nel 2009, quando disattivai il mio primo profilo, ritornando con un altro, perché i tempi evidentemente non erano maturi). Quando non si sa cosa dire si dice questa frase, fa sempre un certo effetto, è svalutante nei confronti dell’utente e quindi fa apparire molto fico chi la pronuncia. In sette anni credo di avere sperimentato di tutto, dalla stagione delle grandi discussioni che forse ti sei perso, a quella dei lolcats di protesta contro la vacuità del discorso politico su FB, a quella delle relazioni intime con amici e parenti, cioè quella per cui il mezzo è stato effettivamente creato. Mi sono stufata lo stesso per i motivi che ho appunto già spiegato e che dovrei, appunto, riformulare dicendo la stessa cosa con altre parole, ma mi vanno benissimo quelle che ho già scelto e mi pare di far torto annoiando chi quelle parole le ha comprese e le ha fatte sue.
    Il discorso di Gramsci sul ruolo dell’intellettuale nel Rinascimento è affascinante, ma risale a un’epoca in cui non era ancora nata la storia sociale e non aveva ancora preso piede l’approccio antropologico, che ha sfatato molti miti. Uno di questi era la presunta torre d’avorio in cui si ghettizzavano questi uomini di cultura dal tardo Trecento al tardo Cinquecento. Senza nulla togliere alle ricerche del tuo amico, lo inviterei a svincolarsi dalla visione gramsciana e avventurarsi nella magnifica selva delle numerose storie sociali, dove troverà che la commistione fra alto e basso era all’ordine del giorno nella società preindustriale.
    Concludo con un piccolo aneddoto molto significativo delle dinamiche facebookiane che alla lunga fanno cascare i maroni (scusate il grecismo). Recentemente è stato ucciso il leone Cecil dello Zimbabwe da un emerito imbecille. Nel giro di due giorni, il tempo di assistere a una sollevazione di massa a mezzo Facebook, una mobilitazione di migliaia, forse milioni di utenti in tutto il globo, che penso abbia parecchio preoccupato il dentista del Minnesota, c’era già chi scriveva che se i neri di America girassero travestiti da leoni forse riceverebbero tutta quell’attenzione quando un poliziotto gli spara. Mai letto una stronzata di tali proporzioni. All’improvviso è diventato “not cool” e non PC parlare del leone Cecil su FB (a cui avevo dedicato uno status devo dire un po’ apocalittico – ebbene sì, è la mia cifra, per cui non vedo alcuna ragione di giustificarmi). Ecco FB: il dispositivo dove è importante essere “cool” e non: esprimere una posizione chiara, definita. Non: distinguere fra ordini di problemi, tutti equamente seri e tutti equamente gravi. Penso che quello sia stato forse uno dei fattori che mi ha fatto salire la nausea. Mi saliva anche la nausea nei giorni delle varie commemorazioni. Dovete sapere, per chi non c’è mai stato, che il genere della commemorazione va molto forte su FB. Fa parte di quella costruzione identitaria di chi riesce a postare le ricette della torta di ricotta della nonna, ma si ricorda anche della defenestrazione di Pinelli. Va benissimo, per carità, rispecchia una natura più intima e una più politica, ma quando lo sfoggio della commemorazione diventa puro statement identitario, si trasforma in quel fenomeno da baraccone per cui i fan di Jovanotti si mettono la maglia del Che. Anche no, grazie.
    A chi mi chiedeva una bibliografia passo i seguenti titoli per me imprescindibili per comprendere le dinamiche di rete e una visione diacronica e genealogica del virtuale – in ottica filosofica-umanistica e non tecnico-scientifica, per chi ha ancora voglia di ribadire queste differenze:
    “Pratiche collaborative in rete”, a cura di M. M. Mapelli e R. Lo Jacono, Mimesis, 2008;”Dai blog ai social network. Arti della connessione nel virtuale”, a cura di M. M. Mapelli e U. Margiotta, Mimesis, 2009; “Per una genealogia del virtuale. Dallo specchio a Facebook”, di M. M. Mapelli, intro a di U. Margiotta, Mimesis, 2010; “Su Facebook” di F. Pintarelli, Duepunti edizioni, 2013. Si tratta di studi molto seri dove si può reperire una bibliografia di riferimento per ulteriori approfondimenti. Specifico che in questi studi si trova una visione di FB come dispositivo in senso filosofico e non tecnico, e una analisi di come la critica implichi la presenza, visione a cui ho aderito per anni ma da cui personalmente mi sono staccata (non Pintarelli e neppure Mapelli, che rimangono legati a questa visione). Ultimamente invece mi sento più vicina all’impostazione di Sherry Turkle, e le riflessioni che fa sulla cultura digitale come distorcente. Mi scuso per la lunghezza del commento e per gli eventuali refusi, e risponderò poi anche singolarmente a chi pone quesiti che non ho voluto toccare qui per non rischiare l’effetto minestrone.

    • Ringrazio Mauro e Claudia per il botta-e-risposta, che mi sembra interessante per le differenze di lettura e giudizio sui commenti nidificati e sull’aumento o meno del numero medio di “amicizie” su FB. Suggerisco però a *tutti* di rimanere su fatti, esempi, controesempi, esperienze concrete eliminando completamente “rimpalli”, sarcasmi, riferimenti personali, sfide ecc. Non è questo l’approccio di Giap. Ad esempio, fare l’esempio concreto e riscontrabile di una discussione partita bene ma finita male a causa dell’arrivo di più persone che l’hanno mandata in vacca, e mostrare quella dinamica, mi è sempre parso più utile di discussioni molto astratte su cultura alta e bassa, torri d’avorio vs. “andare al popolo” ecc.

      • (Sì, sono d’accordo con Roberto. La risposta di Claudia mi sembra stranamente aggressiva e davvero “da Facebook” e non da Giap, con un sacco di attribuzioni di pensieri e pregiudizi che non credo proprio di aver espresso, motivo per cui in modo molto pacifico mi tiro volentieri fuori dal botta e risposta, limitandomi a chiedere scusa per gli equivoci che ho evidentemente generato come avere offeso un misterioso filosofo e avere a mia totale insaputa ostentato disprezzo per la cultura umanistica.)

        Invece, stando sul merito delle cose: il filtraggio. Ma il filtraggio lo fa Facebook, non possiamo farlo noi! O meglio: Facebook decide i confini di quanto noi possiamo filtrare il suo filtraggio, per cui possiamo chiedere cortesemente a Facebook di non mostrarci certi contenuti o di mostrarcene altri, ma siamo sempre a valle di un algoritmo che non controlliamo.

        Non possiamo davvero controllare la topologia delle nostre reti sociali se ci limitiamo a delegare a un sito web di proprietà altrui la loro organizzazione. Per fortuna, la nostra rete sociale non coinciderà mai veramente con la sua rappresentazione che ne può fare Facebook; ci sono persone che Facebook crede nostri amici e che invece non lo sono, ci sono persone fuori Facebook che frequentiamo e sentiamo (anche in modo telematico) e che influenzano la nostra vita, ci sono persone a cui facciamo “Mi piace” per cortesia ma di cui non ci importa nulla ecc.

        Prendere in mano le nostre reti sociali significa appunto resistere all’irregimentazione da social network (o da discoteca o da dopolavoro o da famiglia tradizionale…) ed essere “irriducibili”. Ho scritto questo credendo di fornire frecce alla faretra di chi preferisce stare fuori da Facebook, anche se io invece pur pensandola così ci resto dentro e cerco di essere irriducibile in modi diversi – per esempio, valorizzando le relazioni che non passano da lì o sfuggendo ad automatismi tipici di quel dispositivo.

        Per esempio: se su un argomento di cui parlano tutti non abbiamo niente di utile da dire, o addirittura se dell’argomento non ci frega un tubo, si può benissimo non dire niente, neanche facendo la battuta su chi invece ne parla o evidenziando sarcasticamente altre cose più importanti di cui non si sta parlando. Questa dinamica è favorita dal mezzo, che ci dà l’illusione di essere ciascuno una piccola redazione di un quotidiano a diffusione almeno nazionale, ma non è che non esista anche offline: in quante assemblee pubbliche abbiamo dovuto sbuffare per l’intervento inutile di qualche egocentrico o per il solito fissato di qualcos’altro che interveniva del tutto off-topic spiegando che però è sbagliato fare un’assemblea sulla Sanità pubblica quando a Gaza si muore sotto le bombe oppure che era sbagliato fare un’assemblea su remote vicende palestinesi quando nei nostri ospedali pubblici si muore?

        Penso che sia vero che conta l’uso che si fa del mezzo, ma reputo che uno degli usi consapevoli di un mezzo sia anche il rifiuto motivato di usarlo. Darei però più importanza a “motivato” che a “rifiuto di quel mezzo”, anche perché motivazioni solide possono servire anche a chi il mezzo decide di continuare a usarlo, ma soprattutto possono servire anche fuori di quel mezzo. Abbiamo già affrontato questo discorso a proposito di vari feticismi digitali e antidigitali e continuo a pensare che se l’esodo diventa un esorcismo, per cui si pensa che tirandosi fuori da qualcosa si abbia acquisito un talismano che ci mette al riparo, si finirà invece per rievocare sotto altra forma le dinamiche che abbiamo esorcizzato. Non ditemi che non avete mai visto gente che vive anche offline come se il suo scopo fosse solo accumulare “Mi piace”…

        • In passato, qualcuno ha proposto di dare ai giapster la possibilità di “mipiacciare” i commenti qui sul blog. Ebbene, la troviamo una pessima idea.

      • Sottotema: perché ritengo che sia aumentato il numero medio di amicizie?

        Semplicemente perché molte più persone sono su Facebook rispetto a qualche anno fa, e quindi siccome la regola principale usata dalla gente per aggiungere o no qualcuno è «Lo conosco?», aumentando la percentuale di nostri conoscenti offline che vanno su Facebook aumenta il numero di persone che abbiamo come amici su Facebook.

        Ricordiamoci he il numero medio di amici è 350 [dati 2014] quindi quelli che arrivano a migliaia di amici aggiunti a caso e poi cominciano a sgrossare sono una minoranza infima, il caso tipico è che si aggiunge soltanto e molto lentamente, via via che si entra in contatto anche lì sopra con la propria rete sociale offline.

        Facebook sta attraversando una transizione di fase verso una rete molto più fitta che in passato, che punta a riproddure nell’insieme della società globale le dinamiche di rete fitta da campus universitario che erano il suo habitat iniziale.

  16. Ciao a tutt*, vorrei aggiungere un elemento alla discussione. Premetto che credo che ognun* dia la propria lettura dei contenuti di FB a partire dell’utilizzo che ne fa e quindi da ciò che si aspetta di trovare. Ad esempio io posso anche concordare con Claudia quando dice che le relazioni personali vengono modificate, o che le discussioni ‘intellettuali’ perdono di spessore, ma questo dipende anche dalle sue aspettative. Se lei (o chiunque altr*) si aspetta di intessere relazioni di amicizia, o fare discussioni degne di rilievo, è abbastanza facile che resti delusa. Io non uso Fb per mantenere contatti amicali né per fare discussioni filosofiche interessanti, lo uso come aggregatore di notizie su argomenti che mi interessano. Ho tra gli ‘amici’ quasi solo compagn*, che linkano notizie più o meno interessanti, articoli, comunicati e riflessioni da siti e blog ‘di movimento’ etc… Ed è lo stesso uso che più o meno ne faccio io: diffondere il comunicato o l’iniziativa del mio collettivo, o un’analisi che mi ha colpito e che vorrei che i miei contatti leggessero. Insomma uso fb come un volantinaggio virtuale. Ed è qui su questo aspetto che trovo la pecca più grande di fb (e degli altri social net) rispetto alla mia esperienza: la sensazione che dà di fare qualcosa, anche se non si esce da casa. L’illusione di stare portando avanti una lotta, di essere attivi, o addirittura ‘militanti’ semplicemente con qualche clic. Questa è una distorsione fortissima, un utilizzo tossico del mezzo, un ripiegamento e un isolamento mascherati da socialità. L’idea che mettere ‘parteciperò’ sotto un corteo sia la stessa cosa che andare al corteo. L’illusione che siccome si passa tutto il giorno a twittare #notav o #qualunquealtracosa, allora è fatta, ho dato il mio contributo. Stato d’animo a cui sicuramente ha contribuito la narrazione distorta che si è avuta sull’importanza e il ruolo dei social net nelle rivolte da altre parti del mondo. Ecco, io che non ho amici virtuali, che non rimorchio, che non metto una foto neanche sotto tortura, e che non sono un’intellettuale vorrei discutere su come i social net rubano il tempo allo spazio reale delle lotte pur rimanendo ottimi strumenti di diffusione, se ben utilizzati. Altro aspetto negativo legato a questo è che spesso anche le discussioni, le analisi, le litigate che normalmente si fanno in luoghi fisici vengono spostate su fb o tw, perché è più facile commentare da casa una posizione su cui discordiamo piuttosto che organizzare una riunione o indire un’assemblea. questo, per la mia esperienza, è un danno gravissimo che noi stess* ci procuriamo utilizzando i social net proprio come vorrebbero essere usati, invece che in modo critico.

  17. Credo che la difficoltà nell’accettare le motivazioni che ho offerto in questa lettera aperta da parte di questa comunità dipendano dal fatto che gli interlocutori a cui l’ho indirizzata sono alcuni dei miei contatti storici, con cui ho condiviso tutti o gran parte di questi anni di Facebook. Quando una lettera raggiunge destinatari diversi da quelli per cui è stata pensata genera teorie e interpretazioni. Sentirmi dire che sono delusa perché avevo aspettative ad esempio mi fa impressione, perché in questi anni ho interagito con una tipologia di interlocutore con cui interagisco anche nella vita reale. Per cui non avevo più aspettative di quante realisticamente ne abbia dal vivo. Questo però può saperlo chi è stato mio contatto lì dentro, e capisco che non risulti a chi non ho effettivamente frequentato né lì né altrove. L’uso di FB come newsfeed mi è molto famigliare perché è quello che ne fa mio marito e parzialmente lo facevo anch’io. Per quell’uso però continua a sembrarmi più adatto Twitter, o per lo meno io lo trovo più efficace perché sulla mia home di Twitter appaiono quasi solo account di quotidiani, riviste? case editrici ecc. e molto meno di persone reali. Su tutto il resto concordo con Lalla.

    • io voglio farti una domanda Claudia (considerando che non ti conosco), esattamente che intendi dire con ” la fisicità dell’amico che si è pixelizzato”?
      io ho studiato e lavorato in ambito scientifico e se qualcuno usa la parola “pixellizzare” a me viene in mente questo
      http://www.pureformsolutions.com/pureform.wordpress.com/2008/01/01/pixelatedExample.jpg

      ovvero che dall’immagine nitida di partenza, si inizia a perdere dati (ogni pixel ha lo stesso colore, allargando la dimensione fisica del pixel, si perdono dettagli). Mentre, da quello che posti mi sembra casomai il contrario: parti dal conoscere una persona in un ambito (accademico) e dopo scopri altri dettagli della sua vita: più che perdere dati, mi pare che ne vengano acquisiti.
      Un esempio più adatto, almeno secondo me, sempre volendo usare un termini tecnologico sarebbe quella dello “zoom out” (si parte dal dettaglio e si allarga l’immagine).

      Per il resto, io mi trovo concorde con maurovanetti, anche se capisco che la decontestualizzazione della mail possa generare confusione.

      • Hai creato una personaggio ibrido fra i due che ho descritto io :) Nella mia lettera parlavo dell’amico pixelato (che continuo a scrivere con una l) cioè una persona che conosco bene nella vita reale e che ritrovo su FB. E poi parlavo di persone il cui lavoro scovo su academia.edu e che non contatto su FB esattamente perché non mi interessano i dettagli della sua vita ma solo il loro lavoro. Invece la persona di cui parli tu, che partirei dal conoscere in qualche ambito (perché solo accademico?) e di cui poi scopro altri dettagli su FB, effettivamente esisteva come tipologia anche fra i miei contatti, anche se non ne avevo parlato nella lettera e non era quella a cui mi riferivo con l’aggettivo pixelato. Neppure io in effetti definirei quella persona un amico pixelato, prima di tutto perché non è un amico ma semmai un conoscente, quindi che si manifesti in formato digitale mi cambia in fondo poco, anche perché contatti così raramente li si reincontra dal vivo, almeno nella mia esperienza. Il termine l’ho usato come prestito dal vostro linguaggio settoriale, e lo uso con il significato di persona che da essere in carne e ossa si trasforma in una presenza fatta di pixel come tutto quello che c’è in rete. Forse è un uso sbagliato, ma la lingua italiana è fatta di tanti prestiti dai linguaggi settoriali che vengono distorti, anche dal mio settore si prendono in prestito molte parole usate con significati lievemente diversi dal modo in cui lo usiamo noi; d’altronde il significato è determinato più dalla frequenza (cioè dall’uso) del termine, che dalla sua esattezza (o almeno, questa è una posizione ampiamente condivisa dalla gran parte dei sociolinguisti, magari ce n’è qualcuno fra i giapster che può confermare o confutare, recentemente ne ho incontrati alcuni che la pensavano così).

        • Ho continuato a scrivere pixelato invece di pixelizzato, e non nemmeno se sono sinonimi o intercambiabili. Probabilmente stai inorridendo, ma il fatto che per me i due termini si possano confondere la dice lunga su come le parole dei linguaggi settoriali vengano trasferiti in altri contesti stravolgendoli anche da parte di chi di solito sta attento alle parole. Un linguista si divertirebbe, immagino tu di meno :)

          • leggendo il tuo commento ho fatto una breve ricerca su internet: il dizionario Treccani riporta che si scrive pixellato (due l) http://www.treccani.it/lingua_italiana/neologismi/searchNeologismi.jsp?lettera=P&pathFile=/sites/default/BancaDati/Osservatorio_della_Lingua_Italiana/OSSERVATORIO_DELLA_LINGUA_ITALIANA_ND_015169.xml&lettera=P mentre l’Osservatorio neologico della lingua italiana riporta entrambi i modi (una e due l) http://www.iliesi.cnr.it/ONLI/entrata.php?id=12234.
            Io ho usato due l per assonanza con la parola italiana “pisello”, ma senza dubbio non sono un linguista.

            In ogni caso, io non ho problemi con l’usare parole del linguaggio scientifico in altri contesti, però quando si usano in altri contesti bisogna specificare cosa si intende, altrimenti si genera confusione.
            Vediamo se ho capito quello che intendi tu: una persona è “pixellata” quando perlopiù si ha contatti con quella persona tramite internet e quando la si vede dal vivo, si continua a vederla per quello che ha postato/scritto/condiviso su internet piuttosto che da quello che dice/fa dal vivo.
            E’ giusto?

            Io non ho avuto questi problemi o, meglio, tutte le persone che conosco su fb (136) sono effettivamente miei amici o conoscenti nel quotidiano e tutte le ho conosciute prima dal vivo e in seguito aggiunte su fb.
            Io ho chiuso fb per circa 7 mesi, considerando che vivo all’estero da 6 anni, la maggior parte dei miei amici non sapeva più come contattarmi, alla fine ho dovuto riaprirlo. La mia decisione di chiudere fb si basava su una considerazione: come mai se posto il video di un gatto che balla il tango ottengo decine di “mi piace” (csa che comunque non faccio) e se condivido un articolo ben fatto o magari un thread di Giap, non ne prendo neanche uno? Questo ha portato a farmi pensare che la maggior parte dei miei amici fossere degli idioti (sia ben chiaro in quel periodo non stavo passando un bel momento personale). Ma non lo erano, le stesse persone che ignoravano i miei post (che poi non è che posti chissà quanto su fb, circa un post ogni 2/3 giorni), erano le stesse che andavano ai convegni sul Donbass e su Kobane, che partecipavano alle lotte dei lavoratori (nei loro rispettivi settori), etc.
            Il fatto è che fb non è proprio adatto a quel tipo di comunicazione, sarebbe come usare una penna per dipingere una casa (per questo condivido la scelta dei Wuming di esserne fuori), almeno su questo credo che siamo d’accordo.

            Sicuramente della tua lettera non ho apprezzato l’uso del termine “incursione di semianalfabeti”: io sono marxista e in tutto o quasi ci vedo un problema di classe e così è anche nella cultura e nello studio. E’ ovvio che persone che vengano da classi sociali più abbienti, possano provvedere per i proprio figli a insegnamenti migliori (sia in termini di qualità che in termini di tempo). Queste persone saranno in grado di fare ragionamenti più articolati o almeno a sapere utilizzare una dialettica migliore. Come detto io non ti conosco, quindi non so da quale contesto sociale tu venga, però io ho diversi amici che hanno dovuto lasciare l’università perchè la famiglia non poteva permettersi di pagargli tasse, libri e un pò di svago. Quelle stesse famiglie sono composte da persone che di cultura ne hanno poca e perlopiù autodidatta. Tra queste persone sicuramente ce ne sarà qualcuna che farà parte dei “semianalfabeti” di cui parli, ma già il fatto che li ritrovi su fb in un gruppo di letteratura o di scienza o di filosofia, piuttosto che in gurppo sui gatti o sui “politici ladri!!1!1”, a me sembra che indichi da parte loro una volontà di migliorare la loro cultura, cacciarli da quei gruppi o tenerli chiusi così che si parli solo tra noi, non mi sembra un’alternativa migliore.

  18. Per la cronaca: il gruppo “L’ordine del discorso”, ad ogni modo, non è affatto chiuso. Semianalfabeti di tutto il mondo, iscrivetevi liberamente: https://www.facebook.com/groups/299472966808748/ A quanto pare le incursioni non lo hanno danneggiato affatto…

    • Mi dice Mario Galzigna che è seduto di fianco a me (fondatore e amministratore del gruppo ODD) che funziona così: il gruppo è pubblico. Per leggere e commentare i post bisogna essere iscritti a FB; gli iscritti a FB possono leggere e commentare ma non possono pubblicare un post senza assenso dell’amministratore. Questo vale anche per i membri. Le restrizioni quindi ci sono. C’è poi una questione di netiquette, per cui se il dissenso o la critica degenera in insulto o in calunnia, questo causa l’essere bannati.

      • Fra l’altro io mi sono premurata di spiegare e corroborare con l’esempio cosa intendevo con semianalfabeti della rete, ma non ho ricevuto la stessa spiegazione circostanziata riguardo l’uso del termine dispregiativo sputasentenze.

        • Si è trattato di due espressioni parimenti generiche e parimenti infelici. Non credo proprio che Mauro intendesse insultare qualcuno, men che meno Mario. E se c’è un blog dove si è espressa stima per il lavoro pluridecennale di Mario, quello è Giap. Propongo di lasciar perdere i malintesi reciproci e riportare la palla al centro.

        • «Non vorrei mai far parte di un club che accetti uno come me tra i suoi membri.»

          Vedere che ODD, “gruppo aperto” nel gergo di Facebook ma comunque con delle ovvie limitazioni, ha più di 3mila iscritti fra cui da qualche ora anche il sottoscritto, e ricordandosi la succitata battuta di Groucho Marx che mi fa pensare che la selezione non sia così feroce come sembrava dal tuo post, mi pongo una domanda.

          La domanda è: ma non sarà possibile abbracciare un atteggiamento di apertura verso i “semianalfabeti” della rete, chiunque tu voglia includere in questa (a mio giudizio troppo sprezzante) definizione, senza che la possibilità di un discorso intellettuale di qualità venga per forza demolita? Sono davvero così preponderanti, minacciosi e irrecuperabili da costituire un problema insormontabile?

          Mi baso proprio sull’esempio che tu hai portato di ODD, uno spazio che francamente non conoscevo, che mi sembra interessante e che mi pare possa vivere serenamente su Facebook con una policy di ammissione lasca (ne fa parte addirittura quel famoso semianalfabeta rossobruno che va in TV a spacciarsi per filosofo marxista… sì sì, proprio lui!) senza essere divorato dal clima disimpegnato o dalle opacità dell’algoritmo.

          Faccio notare che anche Giap diventa un porcile appena Saint-Just il censore abbassa la guardia, e ciò avviene senza bisogno di trovarsi incistato in un social network generalista. Anche un assembramento umano offline diventa facilmente inospitale se manca qualsiasi forma di moderazione/organizzazione dall’alto o dal basso. Semplicemente Internet è piena di pirla entropici, come lo è la società in generale.

          Abbiamo avuto su Giap una discussione simile a proposito di Twitter, dove la linea prevalente era che la comunità di Giap dovesse abbandonare il medium, o perlomeno che dovessero farlo i Wu Ming, perché era ormai compromesso dalla combinazione di cattive frequentazioni e porcherie dell’algoritmo. Si diceva che dovevamo rifugiarsi in identi.ca. Difesi all’epoca l’idea che invece, senza farsi illusioni naturalmente, un po’ di spazio utilizzabile criticamente ci fosse. Dopo tot anni, siamo ancora tutti lì, inclusi i Wu Ming che anzi hanno aumentato la propria “potenza di fuoco”, e credo che abbiamo fatto delle cose interessanti.

          Detto questo, ovviamente ciascuno investe sforzi dove trova più soddisfazioni e in coerenza con un proprio stile di presenza pubblica; se tu non le hai trovate hai fatto bene a fare così, così come anch’io credo che i Wu Ming su Facebook sarebbero solo tormentati dai troll e dai fraintenditori seriali (cosa che tra l’altro in un certo senso succede lo stesso, ma “in contumacia”). Ma siccome si stava cercando di fare un discorso generale, e la tua lettera sembrava lanciare un appello a tutti coloro che avessero a cuore la scena culturale perlomeno italiana, io non vedo appigli universalmente validi nelle tue motivazioni per credere che quello sia per tutti quanti necessariamente uno spazio sterile per della semina culturale, o perlomeno che lo sia per i motivi che indichi.

          D’altronde hai poi spiegato che era una lettera privata e quindi probabilmente questo post è semplicemente nato male perché noi non siamo i destinatari della lettera e tu giustamente non hai voglia di riformulare i tuoi ragionamenti a beneficio nostro. Così stando le cose però aggiornerei la seduta a circostanze migliori.

          (Scusami ma sul resto evito invece di alimentare polemiche sterili e come ho già spiegato sopra accolgo l’invito di Roberto a non darne seguito, ti inviterei a fare lo stesso fermo restando che mi scuso nuovamente se ti ho indotto a equivocare le mie parole – come ti assicuro che hai fatto se credi che volessi offendere Mario o non so chi altri.)

          • Io credo sia valsa la pena ripubblicare qui, con la nostra breve premessa e con il permesso dell’autrice, la lettera aperta spedita da Claudia a un vasto indirizzario, che includeva in gran parte suoi contatti facebookiani ma non solo, visto che c’eravamo anche noi che su FB non stiamo. Penso sia valsa la pena, perché questa è una discussione stimolante e utile, una riflessione sui mezzi che esorto tutti a proseguire e arricchire.
            Una curiosità, Mauro: quand’è che Saint-Just ha abbassato la guardia? :-)

            • Concordo e confermo, da spettatore passivo trovo la pubblicazione della lettera, e soprattutto lo sviluppo della discussione venuta in seguito, molto interessante. Ci tenevo a farlo presente, a volte sono utili anche i feedback da chi non è parte attiva in una discussione.

  19. Confesso che non ho avuto il tempo di leggere tutti gli interventi, ragion per cui chiedo venia se ripeterò cose già dette altrove.
    Premetto che, oltre che per le attività più schiettamente ludiche e “di cazzeggio” e socializzazione alle quali accennava il Vanetti, uso facebook per fare politica e continuerò certamente ad usarlo.
    Detto questo, appunto perchè ho accumulato una certa esperienza di organizzazione di eventi e manifestazioni, devo dire che percepisco sempre di più la non-neutralità del mezzo. Vengo e mi spiego: il gruppo del quale faccio parte, prima dell’avvento di facebook aveva “colonizzato” numerosi forum nei quali aveva piazzato account collettivi che “portavano avanti” il proprio discorso. I forum avevano un effetto meno esplosivo in termini di aggregazione, ma permettevano (strutturalmente) un approfondimento sui temi che Facebook non permetteva. Ed anche, se devo dirlo, la nascita di rapporti e sintonie che erano sulle idee e cioè su quello che “scrivevi” e non sull’immagine (attorno alla quale è costruito tutto facebook). C’era la voglia i “scoprire” l’altro. Il corpo dietro le parole. Ma, detto questo, ribadisco che facebook i primi tempi “aggregava” di più e si prestava ad utilizzi “rivoluzionari”. Credo che la situazione abbia cominciato a cambiare dopo il 2011 e cioè dopo che le potenzialità di un uso eversivo del mezzo furono totalmente esplicate dalle rivoluzioni arabe, da occupy, dagli indignados e via dicendo. C’era un certo “digital divide” tra comunicazione e dominio, che veniva agito dal basso. Da quel momento in poi, per reazione, credo di sia scientemente operato per limitare determinati meccanismi e per trasformare facebook da veicolo di informazioni ed aggregazioni possibili ad agglomerato di piccole tribù che si autorappresentano all’infinito. Questo attraverso innumerevoli meccanismi ed algoritmi che non io da solo posso esplicare, per quanto li “SENTA” nella pratica. Adesso, ad esempio, gli eventi vengono “pompati” dal network solo se li “sponsorizzi”. Servono per “vendere” concerti o meeting o qualsiasi altra cosa e fanno circolare un’aggregazione che è sostanzialmente molto legata ai canali del profitto. Cioè circolano gli eventi che uno paga per fare circolare e quindi certamente l’evento di una discoteca circolerà molto più del mio corteo. Questa è per dirne solo una. Su questo si deve riflettere senza smettere di usare facebook ma rendendosi conti che in esso il dominio lavoro. Poi, esistono posti che sono utili nelle “retrovie”, è giusto che sia così. Giap rimanga come “Granburrone”. Ci si deve arrivare con un minimo di ispirazione.

  20. Aggiungerei alla bibliografia indicata da Claudia per un approccio critico ai social e ai poteri di fascinazione delle immagini e del virtuale:
    1. il numero di “aut aut” dedicato anche a FB e in particolare l’articolo di Nello Borile http://autaut.ilsaggiatore.com/2011/09/347-web/
    2. Fogg B.J., Picture Persuasion in Facebook , Corso alla Stanford University, California, Psychology of Facebook, September 17, 2007, http://credibility.stanford.edu/captology/notebook/archives.new/2007/09/picture_persuas_1.html
    3. Fogg B.J., Persuasive Technology, Elsevier Inc., San Diego 2003; tr.it. Tecnologia della persuasione, Apogeo, Milano 2005;
    4. Tisseron S., (1997) Psychanalise de l’image. Des premiers traits au virtuel , Dunod, Paris, 2005;
    5. Stoichita V., The Pygmalion Effect, University of Chicago Press, Chicago, 2006; tr. it. L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio e Hitchcock, Il Saggiatore, Milano 2006.

  21. Dalla mia esperienza di diversi anni su Twitter,facebook, blog ecc traggo la semplice conclusione:facebook è il luogo ove girano le peggiori cose,meno ragionate, più di pancia,meno lucide, più impulsive, meno di sinistra, più razziste,fasciste, nazionaliste. Facebook ha capitalizzato, almeno in Italia, lo schifo dello schifo, facebook è in parte il vero volto dell’Italia, su twitter, sarà per la formula dei 140 caratteri, questo fenomeno reale non è così diffuso. E comunque ciò meriterebbe uno studio approfondito. Facebook, specialmente tramite il settore gruppi, consente di raggruppare, identificare,schedare,monitorare, condizionare, orientare, governare e determinare meglio determinate situazioni,azioni ecc.Facilita la ghettizzazione della società. Però, ho notato, che anche facebook tende a promuovere meglio, in termini di diffusione, post con 140 caratteri. Ma, a parte la questione meramente tecnica, che all’inizio comunque è stata fortemente limitante, ma non sempre sintesi è sinonimo di nozionismo e semplicismo, nonostante abbia più volte pensato, ed anche scritto, di lasciare facebook, personalmente ci rimango, perché lo uso come strumento per divulgare ciò che scrivo. Lo considero come uno strumento tecnico in più, in senso divulgativo, per la pagina che gestisco.Nulla di più, nulla di meno.mb

  22. Buongiorno Giapsters,
    mi unisco alla conversazione molto interessante e ricca di spunti perché sono davvero incuriosito da questo mondo social di cui direttamente o indirettamente, chi più chi meno, tutti siamo parte oserei dire attiva. Talmente curioso che con altri interessati ho aperto un blog storyfilters.wordpress.com in cui tentiamo di offrire una disamina di questo digitale che ci attanaglia. Quando siamo partiti con le nostre riflessioni, una dei nostri primi ingorghi fu sui filtri (ma guarda un po’) di Instagram e di come essi aggiungessero uno strato manipolatorio alla fotografia che già di per sé manipola la realtà. E tenendo bene a mente questo doppio livello di manipolazione, mi stupisco molto nel leggere tutto questo stupore nei confronti della fallacia e superficialità di facebook che fin dalla sua nascita è stato visto e vissuto come una vetrina personale del nostro negozio, che magari non aveva nulla da offrire, ubicato nella via più periferica del villaggio globale, diventata improvvisamente centro del mondo.
    Sono d’accordo sul fatto che ormai sia finito il tempo dei pionieri e dei dilettanti allo sbaraglio e che sia doverosa una riflessione critica (e ancor più un’educazione) sull’uso dei social media, tuttavia ritengo anche che l’importanza dei social network stia proprio nella valorizzazione (ahinoi intesa pure come monetizzazione capitalista) dei legami sociali deboli. Mi sembra strano che nessuno in questa discussione ne abbia ancora parlato (non ho ancora letto gli altri post di Giap sull’argomento): Facebook è la messa in pratica della teoria dei 6 gradi di separazione e, a differenza di Twitter che è un trampolino per il contatto o un approfondimento tramite link (come è stato detto), si basa sul fatto che mondi lontani, tramite i legami deboli delle persone, prima o poi si incontreranno. L’incontro tra mondi diversi per forza è superficiale, soprattutto se il tempo è poco.
    A proposito dei commenti e sulle commemorazioni “forzate” che creano identità, noto che in generale i social siano degli enormi commentarii in cui spesso è difficile trovare realmente il fatto o l’oggetto della discussione e per me vale sempre il principio morettiano “io non parlo di cose che non conosco” allargato anche al mettere like o condividere o parteciperò a un evento/corteo/convegno…

    • La fotografia non è affatto manipolazione della realtà, semmai è interpretazione della realtà, tanto quanto scrivere un libro o un commento su Giap. L’oscenità di Instagram sta semmai nel far credere che un filtro possa migliorare una brutta foto. La tecnologia come surrogato dello sguardo, ne parlava già profeticamente Renoir 70 anni fa a proposito dell’ascesa e declino dell’arte dell’arazzo in Francia come metafora del pari processo che avrebbe investito il cinema. Qualche tempo fa avevo postato una foto di Wynogrand su Instagram senza citare la fonte (e senza filtro naturalmente) riscuotendo ben pochi “like”, infinitamente meno dei selfie delle celebrity di turno.

      • Tra manipolazione e interpretazione il confine può essere sottile. Per me voler bloccare su un supporto fisso un istante della realtà che è sempre in movimento, è concettualmente più manipolatorio che voler descrivere la realtà con parole. È un’opinione personale, ma credo ci sia una differenza di fluidità tra una fotografia e un libro che, per quanto finito e chiuso, può avere al suo interno più spazio di movimento. Provo a farti una metafora per spiegarmi: se la realtà è un mare, io vedo la foto come un bacinella e un libro come una vasca da bagno. Sono approssimazioni entrambe, ma una ha uno scarto minore dell’altra (oltre alla possibilità di creare realtà totalmente nuove e diverse). Per Instagram poi sono d’accordo: le foto scattate con un cellulare vengono male e il motivo dei pochi like della foto pubblicata da te, è forse perché risultava evidente che non fosse scattata con un cellulare. Noi Storyfliters ci eravamo soffermati su Instagram perché usa il concetto di filtro in modo distorto (esattamente come gli algoritmi di Google e Facebook): da filtro interpretativo a filtro manipolatorio.

        • Zavattini diceva che per fare cinema bisogna girare in tram. Immagino che lo stesso valga per scrivere un libro o una poesia. Notare il mondo, interpretarlo e condividerne il senso con gli altri. Ancor prima di inventare la scrittura, i nostri antenati graffitari delle caverne si affidarono all’immagine. Ma davvero non vedo né dualismi, né gerarchie, al massimo predilezioni personali e singole preferenze. Personalmente poi alla fotografia da posa preferisco il cinema perché ne amo la dimensione collettiva, il lavoro con gli altri e per gli altri, nell'”industria di prototipi” (felice definizion di Citto Maselli). Ma anche qui si tratta di preferenze personali, che contano quel che contano. Il discorso dei filtri mi pare invece una preoccupazione ben più grave. Non sono un esperto di logaritmi, ma intuisco che alla base del loro funzionamento ci siano i comportamenti pregressi di ciascun utente, le ricerche già effettuate. Ciò significa, sintetizzando, che Google darebbe precedenza, nella ricerca di ciascun utente, a ciò che è già noto o comunque contiguo alla sua sfera di interessi, a danno dell’ignoto, dell’inesplorato e dunque negando in sostanza il senso di ogni vera ricerca. Tornando all’esempio di cui avevo scritto a proposito di Instagram, ovvero la foto di Wynogrand, temo invece che si tratti essenzialmente di una piccola dimostrazione pratica di come il mezzo lavori a favore di una standardizzazione ed omologazione degli sguardi.

  23. […] e studiosa di letteratura.  ha scritto un classico articolo di critica dei social media dal titolo “Perché Facebook vale un abbandono”, in cui sostiene che – per motivi puramente razionali e non emotivi – ha deciso […]

  24. Leggo ed ammiro il modo in cui Erri De Luca, Franco Piperno, Barbara Balzerani o financo la Banda Bassotti, per citarne alcuni, utilizzano il mezzo in questione. Qualcuno ha utilizzato la definizione “social-entrismo”, mi pare molto azzeccata. Nei suddetti casi mi pare infatti che la minore fluidità di FB rispetto a Twitter permetta, di converso, una maggiore regolarità e sistemicità delle discussioni e aggiornamenti. Se poi tra un feed e l’altro l’algoritmo mi propone dilemmi assoluti come: “l’amatriciana si fa con la pancetta o il guanciale?” o peggio, cioé le campagne emotive e gli sfogatoi di massa a commento dell’ultima dichiarazione del cretino parlamentare di turno, ci metto poco ad ignorare o rimuovere dalle news. Sono su FB dal 2006, quando vivevo a londra per lavoro, e l’ho sempre utilizzato soprattutto per promuovere e diffondere il mio lavoro (settore cinema): perdonatemi il cinismo. Nonché per mantenere contatti con collaboratori e partner in giro per il mondo. Ed un paio di lavori li ho ottenuti proprio tramite FB, o meglio tramite la facilità ed immediatezza dei contatti che la piattaforma permette. In particolare, rispetto a Twitter, non andrebbe sottovalutata la funzione di Messenger che ha reso l’email un mezzo quasi obsoleto. A parte questo, non ho mai pianto per o su FB, né riso o condiviso stati emotivi particolari. Qualche diatriba, non lo nego, da contare sulle dita di una mano. Per controllarmi tengo sempre a mente il proverbio buddista secondo cui se litighi con un idiota chi ti osserva non capirà chi è l’idiota. Ed ad osservare su FB sono davvero tanti.

  25. Ciao Claudia. Chiedo scusa a Wu Ming se uso Giap per salutarti ma è grazie a loro se ci siamo “conosciuti” anche se solo in maniera pixelat. Non avendo tue e-mail o altri contetti è questo l’unico modo per salutarti. Mi mancheranno molto alcuni tuoi post intelligenti e arguti. E’ anche grazie ad alcune tue segnalazioni se ho letti bellissimi libri e se in qualche modo sono migliorato. Un saluto

    • Vedo che la locuzione “semianalfabeti della rete” suscita reazioni contrariate, e quindi mi sento in dovere di spiegarla meglio. Mi ha stupito anche vederla bollare da Roberto come “termine infelice”, senza considerare tutta l’espressione e non solo una parola che la compone, soprattutto tenendo conto che Girolamo de Michele nel suo libro “La scuola è di tutti” (minimumfax, 2010) aveva parlato diffusamente di analfabetismo funzionale. Sulla differenza fra analfabetismo primario, funzionale e digitale invito a leggere questa intervista un po’ datata ma sempre illuminante a Tullio de Mauro: http://nuovoeutile.it/istruzione-tullio-de-mauro-se-un-mattino-di-primavera-un-governante/, in cui spiega anche come il termine sia considerato non politicamente corretto (cosa che forse spiega le reazioni qui), ma illustrando anche quali sono gli usi propri, al di là degli usi estensivi, della parola analfabeta (applicabile anche a semianalfabeta). Personalmente distinguo fra gli analfabeti digitali (quelli ai quali sono rivolti gli interventi da parte del sistema scolastico italiano anche nell’orrida L. 107/2015, l’ormai famigerata “buona scuola”) che partono da diversi studi condotti dall’Indire (Istituto di ricerca che fa capo al MIUR) e i semianalfabeti digitali (della rete li ho chiamati io), ovvero quelli che dispongono delle competenze e delle risorse minime per accedere al digitale (ad esempio posseggono uno smartphone, sanno creare un account su FB e sanno scaricare l’app di FB per android e quindi ricevono le notifiche), ma confondono il dispositivo/supporto con l’ambiente on/offline (dei classiconi sono “l’ho letto sul computer” o “ti scrivo sul cellulare”). Il caso da manuale è l’utente a cui sfugge quale modalità comunicativa si usi sui SN: anche qui alcuni esempi classici sono chi scrive tutto maiuscolo, ignora i segni di interpunzione, commette errori ortografici a volte drammatici pensando che non sia importante (cioè, che non sia visibile), confonde la scrittura per sms con quella su SN, ad esempio abbreviando -ch- in -k-, e via dicendo.
      Per me la frase “sono marxista quindi amo i semianalfabeti” non ha molto senso: se non si riconosce la gravità del fenomeno ben difficilmente si potrà porvi rimedio. E questo dovrebbe riguardare soprattutto i marxisti (a questo proposito, vorrei ricordare che la sociolinguistica ha dei padri illustri nella sociologia dell’educazione neo-marxista, come Basil Bernstein). Inoltre, non sarei molto tenera verso una certa tipologia di semianalfabeti della rete: si tratta molto spesso di xenofobi, oppure gente che inneggia allo stupro delle donne rom o delle nostre politiche (casi ormai classici sono quelli di Boldrini e Kyenge, sempre su FB). C’è, e giova a poco negarlo, una correlazione fra incompetenza espressiva in rete e ideologia di destra: basta avere avuto l’occasione di esplorare svariati contesti su Facebook come pagine xenofobe, complottiste, antisemite, ecc.

      Vorrei aggiungere una coda personale su un’osservazione secondo me bellissima che mi è giunta per posta dal mio caro amico Massimo Giuliani, che mi scrive “Forse [FB] agisce sulla nostra percezione del tempo, in una dimensione dove nulla sbiadisce ma è tutto contemporaneamente disponibile. Una specie di rivoluzione quantistica: tutti gli stati in cui ho vissuto in ciascun istante della vita sono tutti qui dentro”. Come ho risposto anche a lui, a me questa “rivoluzione quantistica” crea dei problemi non indifferenti. È una percezione del tempo che non mi appartiene forse perché (piccolo detour autobiografico) nella vita ho vissuto situazioni così diverse e per certi versi traumatiche, che essermi lasciata alle spalle equivale anche a un vivere nel presente, con quello c’è qui e ora, e non con quello che c’era prima e che vorrei/non vorrei rivivere. Questo comprende naturalmente anche le persone che popolano il passato. Il passato non è un luogo mitico, un verziere filosofico in cui ci si intrattiene in conversazioni immaginarie con chi lo popola. Il passato è un luogo della mente per lo più cristallizzato e popolato da persone che non ci sono più, perché sono morte, scomparse, oppure abbiamo smesso di vedere per qualche ragione precisa. Alcune le si ricorda con piacere, ma rimango dell’idea che se nel presente, ripeto: qui e ora, non ci sono più, ci sono delle motivazioni il più delle volte validissime. Chi vuole rimanere nelle nostre vite ha il tempo e il modo di rimanere. Basta una email ogni tanto, anche una all’anno. Basta un caffè, una telefonata, anche molto di rado. Se non si manifesta neppure più il minimo sindacale per poter chiamare una relazione “amicizia”, si vede che quel minimo sindacale è avvertito come una pratica obsoleta, che non è più in grado di soddisfare e gratificare su nessun piano. A me è accaduto con persone che sono venute a scovarmi su FB. Quindi questa “rivoluzione quantistica” per cui il tempo si annulla e si vedono persone che di fatto non esistono più nelle nostre vite, che non hanno partecipato ai momenti di gioia per essendone al corrente, che non hanno partecipato ai dolori pur conoscendoli, ebbene, questa contemporaneità produce effetti che personalmente trovo molto dannosi, perché invita a deresponsabilizzare le persone verso i propri comportamenti privati e pubblici, a delegare a un mezzo pratiche fondamentali per la comunità come la partecipazione, la solidarietà, l’espressione dei sentimenti. Secondo la mia personale visione del mondo (che potrà essere considerata eccessiva da chi ha una visione puramente utilitaristica di questo mezzo), il fatto che l’utente medio di FB si sia adattato ad accettare il “mi piace” come conferma, o il silenzio come disconferma, sostituendolo completamente al rapporto sociale, è grave. Secondo me, è precisamente questo adattamento – e non l’utilizzo di FB ai fini della manutenzione di una rete sociale, cioè il pretesto su cui si basa il successo di Zuckerberg e su cui poggiano tutte le argomentazioni a favore che ho riscontrato qui – forse un fenomeno secondario rispetto ad altri più importanti, forse solo un by-product in fin dei conti, ma proprio su questo adattamento al ribasso dei rapporti umani si gioca un momento importante della presenza in rete di molti utenti. Ecco, da un punto di vista antropologico, e rimanendo quindi sul versante privato del mezzo (cioè sulla prima parte della mia lettera) a me questo sembra un danno che la maggior parte degli utenti molto attivi subisce in maniera inconscia e di cui non mi stupirei di riscontrare dei risvolti negativi sulla qualità delle relazioni in presenza. Forse uno studio quantitativo di questo tipo potrebbe aiutare a capire quali sono i danni effettivi sulle relazioni umane che ha causato FB sul lungo periodo. Anzi, credo ci siano già giovani studiosi di antropologia che si occupano proprio di questo.

      Riguardo i settemila membri di ODD (che nel frattempo saranno anche aumentati, vista la valanga di richieste arrivate dopo la pubblicazione di questa lettera), a me pare un’ottima notizia: significa che almeno settemila utenti di FB sono stati autorizzati a postare materiali loro sulla bacheca degli sputasentenze, mi pare un risultato non da poco in termini di inclusività nel dialogo filosofico :)

      Volevo salutare Marco Meacci e Pino Valente, due fra i miei amici preferiti di FB, con cui la relazione è stata invece bellissima e non finirà con la mia diserzione :)

      • L’ho trovata infelice non di per sé, in astratto,
        (è del tutto ovvio che i semianalfabeti digitali esistano, e anche i semianalfabeti tout court), ma perché usata in modo generico e facilmente equivocabile, e se anche a tuo dire tutti gli intervenuti l’hanno equivocato e hai dovuto spiegare cosa intendevi, non credo che il problema sia l’ignoranza degli interlocutori (non penso che Giap aggreghi una comunità di ignoranti) ma un equivoco a monte.

        • Ho scritto che suscita reazioni contrariate e in nessun luogo ho scritto che questo è attribuibile a ignoranza. Ho invece scritto che il termine è considerato non politicamente corretto, citando una fonte, e ipotizzando che questo sia il motivo per la contrarietà che suscita. Non attribuirmi cose che non ho scritto per favore, mi pare poco corretto.

          • E chi te le ha attribuite? Ho spiegato i motivi per cui secondo me l’uso dell’espressione è stato infelice. Poiché *tutti* gli intervenuti qui l’hanno interpretata nello stesso modo, ed è da scartare a priori l’ipotesi dell’ignoranza, ne ho concluso che c’era un equivoco a monte, che rinvengo nell’uso generico del termine, dovuto anche alla parziale decontestualizzazione della lettera, che ripubblicata su Giap produce nuove letture. Succede.

            Permettimi un’integrazione. Lo dico con la massima propositività e amicizia, da persona che ti conosce anche off-line, ti apprezza e ti vuole bene: secondo me sarebbe il caso di reimpostare la modalità di confronto tra te e i giapster che stanno leggendo e intervenendo. Questo è uno spazio dove, se non si dà l’impressione di stare sulla difensiva e calare dall’alto la propria cultura (ho ricevuto mail, frettolose ma sintomatiche, dove riguardo ai tuoi commenti si parlava di “aggressività” e “name-dropping), le discussioni possono andare lontano. Appunto, non siamo su Facebook: se ci si dispone bene, gli spunti che vengono fuori sono frequentemente preziosi, e tutt* ne escono arricchit*.

          • A me pare che il punto sia che hai scritto che ai semianalfabeti debba essere impedito intervenire in certe discussioni, non che hai usato quel termine. Quindi non c’entra nulla il politicamente corretto.

            E mi pare per l’ennesima volta confermata l’idea che fb c’entri poco, che le discussioni prendono le pieghe che prendono molto più per i comportamenti delle persone, che non per i mezzi sulle quali avvengono.

      • Sarò un po’ provocatorio ed estremo, lo ammetto, ma vorrei chiederti questo: hai scritto che “C’è, e giova a poco negarlo, una correlazione fra incompetenza espressiva in rete e ideologia di destra: basta avere avuto l’occasione di esplorare svariati contesti su Facebook come pagine xenofobe, complottiste, antisemite, ecc.”; in pratica, asciugando molto, stai dicendo che il sapere (anche il sapere esprimersi) e la cultura sono di sinistra e che l’ignoranza è destrorsa? Sarebbe un sillogismo tipo: i sapienti sono pochi, quelli di sinistra sono pochi, i sapienti sono di sinistra. Io potrei anche essere d’accordo (non ho mai avuto una discussione con qualcuno di destra che finisse con un “hai detto una cosa intelligente” da parte mia), però mi rendo conto che è un problema. Primo per un discorso di snobismo (tipico della sinistra!), secondo per un discorso di comunicazione: come lo spieghi al volgo analfabeta che quello che digita è di matrice destrorsa (perché credo che tutti i commenti che puzzano di pseudofascismo non siano totalmente consapevoli)? Se sono analfabeti o semianalfabeti (in senso stretto, come spiega De Mauro), non hanno di certo le basi di conoscenza per capirlo.

        Quello che dici sulla percezione del tempo mi ricorda un po’ Baumann quando dice che il tempo non è più come un fiume che scorre, ma come un insieme di pozzanghere. Passiamo da una pozzanghera all’altra, che se sei Peppa Pig può anche essere bello, ma non abbiamo più la dimensione temporale continua, solo esperienze nel presente. Baumann lo dice in senso negativo, come una fuga dalla fissità e dai legami alla ricerca del disimpegno e del piacere; tu invece capovolgi il concetto oppure ho capito male io?

        • ” come lo spieghi al volgo analfabeta che quello che digita è di matrice destrorsa (perché credo che tutti i commenti che puzzano di pseudo fascismo non siano totalmente consapevoli)? Se sono analfabeti o semianalfabeti (in senso stretto, come spiega De Mauro), non hanno di certo le basi di conoscenza per capirlo”

          Sto leggendo Diario di Zona di Luigi Chiarella, e non posso che associare l’esempio citato sopra con l’esperienza vissuta quotidianamente per strada, con persone vere. Il razzismo inconscio delle perone, quello oserei dire, involontario, inconsapevole della portinaia di settanta anni che impreca contro i Negri che spacciano, ma rimane a bocca aperta e interdetta quando le si fa notare che forse, se sono li a spacciare, è perché qualcuno (magari italiano) ci lucra sopra.

          Allora ci si può chiedere; quanto è distante dalla realtà FB e quello che contiene? Non credo che quella portinaia abbia, o abbia mai avuto un account FB, eppure ritroviamo le stesse dinamiche.

          Forse su FB queste cose sono molto più accentuate, te le ritrovi davanti, sbattute in faccia, anche senza volerlo. Forse nella vita reale sono più nascoste, magari le trovi solo se entri dentro un portone per chiedere dove si trova il contatore dell’acqua.

          Forse FB è il Nordest della nostra società, come dice Wu ming 1, per capire veramente dove sta andando l’Italia, bisogna capire il Nordest …. forse per capire dove sta andando la nostra società bisogna capire FB, o perlomeno i suoi lati più negativi.

          Non so se può essere uno spunto questo, sulla quale soffermarsi.

      • “Per me la frase “sono marxista quindi amo i semianalfabeti” non ha molto senso”

        ma chi l’ha mai detto? io ho detto che sono un marxista e quindi vedo nell’analfabetismo un problema di classe e come problema di classe lo affronto. E ho fatto un esempio (che tu hai ignorato).
        E’ ovvio che l’analfabetismo (in tutti i sensi che vuoi dargli) sia un problema ma dileggiare gli analfabeti dall’alto della propria cultura, a me sa tanto di reazionario.

        Sinceramente, sono stanco di questa discussione, che sa molto di facebook, mentre su Giap mi aspetto un altro tipo di commenti, quindi smetto semplicemente di seguire questo thread.

        • Non c’è una sola discussione in corso, in questo thread. Di spunti interessanti ne sono venuti fuori svariati. Io stesso ho cercato di porre quesiti ulteriori, aprire finestre, corollari di quel che si discuteva (o si cercava di discutere) al centro della stanza. Non penso ci sia bisogno di abbandonare questo thread, penso invece ci sia bisogno di cogliere gli spunti e reindirizzarlo dove può essere utile per le pratiche di tutti noi.

  26. Ho cominciato Lettere dopo un anno di Ingegneria e forse per questo (o forse è il contrario) ho il pallino dello scambio tra scienze “tecniche” e “umanistiche” (uso le virgolette per capirci meglio: personalmente, non mi sembra che siano stati ancora trovati aggettivi adeguati a spiegare che “facciamo la stessa cosa”, seppure in ambiti differenti).
    Per questo, della lettera di Claudia mi interessa la parte più legata alla ricerca.
    Mi ricordo i miei anni in un dipartimento di italianistica particolarmente famigerato come anni di un apprendistato duro ed essenzialmente individuale e solitario: un infinito numero di pagine da mandare giù, per rivomitarlo al momento dell’esame; seminari in cui ci si scaricavano addosso informazioni e nozioni; l’impressione che l’obiettivo fosse quello di arrivare a verità indiscutibili. Ho sempre combattuto questo modo di procedere: mi convince di più quello per approssimazioni successive. In questo senso, “l’intelligenza collettiva al lavoro” per me non è solo uno slogan. Quali mezzi deve darsi e usare l’intelligenza collettiva? Può usare i social network? Quali?
    Non frequento FB, quindi non ne ho esperienza diretta: mi sembra che però possa essere uno strumento utile per ragionare insieme su temi particolari. Certo, senza dimenticare il momento della “ruminazione” personale.
    Penso che sia importante “far vedere”, senza timore, l’intelligenza collettiva all’opera: il pensiero che si va formando, i vari “pezzi” che pian piano si compongono in una descrizione generale, gli scazzi anche, i modi di dialogare. Servono anche a far capire che tutti abbiamo la possibilità di pensare e ragionare (chiedo venia per la mia componente settecentesca), altrimenti possiamo pure ripeterlo alla nausea che la torre d’avorio non esiste più, ma alla fine proprio da lì sembra che parliamo…

    Sul linguaggio (perché alla fine è sempre una questione di linguaggio). Sappiamo che esistono linguaggi settoriali, sappiamo che esistono gerghi, ma sappiamo anche che i linguaggi ci servono per comunicare, per entrare in contatto con le persone. Sì, certo, se uno “smanettone” vuole spiegarmi qualcosa del suo lavoro impiegherà più tempo che parlando con un* su* collega, ma quanto avremo imparato di più, sia io che lui, e non solo perché avremo aggiunto concetti e conoscenze al nostro bagaglio personale, ma anche perché avremo trovato parole nuove e diverse per spiegare e capire… Rinuncio a una parte della comunicazione, per guadagnare da altre parti. Non mi sembra poco.

  27. Premetto: entro in un solo spicchio della discussione (o su una sola sfoglia delle molte discussioni, forse), quello sul quale @Claudia ha avuto la cortesia di citarmi: l’uso del termine “analfabeta”. Claudia, mi sembra, parte da un dato di fatto: l’analfabetismo di ritorno, o funzionale, nelle sue diverse varianti (digitale, ecc.), che di fatto significa “non avere la capacità (o competenza) di…”, o “aver perso la capacità (o competenza) di…”. Un fatto che è anche un enorme problema, che ho affrontato nel mio libro sulla scuola appoggiandomi a numerosi studi (cui rimando), e che in soldoni significa: come reagire a una società che crea in modo strutturale l’analfabetismo (di ritorno e non)? Questo, però, non è il problema di cui qui si discute (ma viene senz’altro sfiorato da @Kente, in modo corretto).
    Il problema che pone @Claudia è la mutazione funzionale dell'”analfabeta” (o “incompetente”). Negli anni Sessanta/Settanta, l’analfabeta è colui che è escluso dal circuito della produzione, circolazione, fruizione attiva e critica del sapere – punto. L’analfabeta non sa leggere, o non sa leggere abbastanza, o sa leggere ma non comprendere, e dunque è escluso dal mondo della cultura, se non come oggetto passivo al quale si rivolgono le emissioni radiotelevisive o una certa stampa, giornale o libro, della quale fruisce solo in modo passivo passivo.
    Poi arriva la rivoluzione digitale, e le cose cambiano, perché la rete – non solo fb, non solo i social: anche i siti che consentono la discussione, vedi ad es. questo nel quale stiamo discutendo – partecipano, bene o male, al circuito e al mercato culturali. E le modalità della rete consentono al “semianalfabeta” di interagire, orientare, pre-giudicare: questo è un fatto nuovo, col quale bisogna fare i conti. Banalizzo: non tutti i troll sono stronzi: ce ne sono anche di quelli in buona fede, che davvero credono di partecipare a una discussione in modo onesto. Ma che sono sintonizzati su un diverso livello culturale (quello della loro specifica “incompetenza”): quel livello funge da filtro, e pre-giudica la comprensione, la valutazione, la risposta. Beninteso, ogni azione e ogni giudizio politico, etico, estetico ecc., è pre-giudicato dal bagaglio di conoscenze, dalle pratiche preesistenti, ecc.: ma il nostro “semianalfabeta” può entrare in un contesto dal quale fino a ieri era escluso. Noi insegnanti ne abbiamo esperienza ogni volta che vediamo l’alunn@ stralunare gli occhi davanti a una “rivelazione”, un po’ come Fantozzi quando legge nel Capitale di Marx lo sfruttamento e il plusvalore e capisce che i padroni l’hanno sempre sfruttato (succede anceh allo@ student@). Solo che, in parte, noi insegnanti abbiamo tempo e modo per interagire con quello stupore pre-giudicante, cosa che nella rete non accade, o accade solo di rado, e in esperienze non sempre replicabili (quale è Giap).
    A quel punto, che si fa? Io stesso ho un blog locale (che peraltro tace, non per caso, per periodi sempr epiù lunghi) dal quale banno non solo i fasci e i razzisti, ma anche i troll, pur capendo che alcuni di loro non si percepiscono come tali, ma agiscono in base a pre-giudizi derivanti dalla mancanza di competenze adeguate. Però (credo che questo volesse poi dire Claudia), dal punto di vista funzionale un troll è un troll, non importa quali sono le cause remote (fra le quali non sottovaluterei il profondo disagio psichico, il panico sociale, la depressione come fattore massivo che spinge a produrre nuove solitudini nell’illusione che la rete sia il l’uscita dal tunnel, e non, spesso, un nuovo tunnel): si comporta da troll, e genera effetti da troll, cioè fa allontanare i discutidori mandando in vacca la discussione.
    Ora, la questione è che la figura del troll in buona fede (il semianalfabeta che non si percepisce come tale) concerne di certo fb e i social, ma come aspetto particolare di un problema ben più generale, che riguarda non solo la rete, ma l’intero sistema dei media che consente al semianalfabeta di partecipare in modo attivo alla produzione non solo di cultura (foss’anche trash), ma di consenso politico, di percezione di valori e livelli etici (“quello che dice gente”, “quello che vuole la gente”, cose così), quantomeno a partire da un certo momento della televisione italiana (L’Edicola di Funari e il Maurizio Costanzo Show in modo esplicito, ma anche, a un più subliminale livello, il Drive In di Ricci). Che si fa? Bannare il troll, ovvero respingere l’irruzione del semianalfabeta è una soluzione per certi ambiti: ma a volerla generalizzare, significa ritornare alle corti cinquecentesche, nelle quali si discuteva sì di tutto, ma dopo aver selezionato i partecipanti all’ingresso – e alla fine ci si parlava addosso senza produzione di sapere, reiterando il già detto e già noto (non a caso Bruno e Galileo simulavano dei dialoghi per dire il nuovo, mentre nei dialoghi cortesi si riportavano davvero le discussioni avvenute, e quindi le voci plurali).
    Non ho una soluzione, ma intuisco che se ce ne fosse una, non potrebbe essere che di medio o lungo periodo. D’altro canto, un antropologo direbbe che quella digitale è solo la terza rivoluzione (dopo il neolitico e la macchina a vapore) accaduta all’essere umano, quindi inutile sperare di risolverne i problemi in pochi mesi o anni. Però è importante che il problema sia percepito come tale.

    • scusa eh, ma un troll che fa, salta sui tavoli, prende a cazzotti gli studiosi e molesta sessualmente le studiose? Il massimo che può fare è scrivere idiozie. Che qualcuno si allontani da una discussione perché c’è un troll a me fa prima di tutto ridere e poi preoccupare della salute mentale di costui. L’altro giorno su LPLC Cortellessa interveniva tra i commenti per dire che era da un po’ che non partecipava perché vi era rimasto scottato, dai toni o chissà che. Per dei commenti on-line, stiamo al livello della fragilità di un adolescente che si ammazza dopo che l’hanno smerdato on-line, con la differenza che qui parliamo di una delle infinite discussioni su un qualsiasi blog. E sarà un pregiudizio mio, ma queste reazioni ce l’hanno soprattutto accademici abituati al principio d’autorità che non sopportano di essere messi in discussione, perché se quello che dici si basa sui fatti ti importa solo di quelli, non che sotto il tuo commento su uno schermo ce n’è un altro stupido o offensivo.

      • Questo è un commento semplicistico, Jackie, e finto-ingenuo. Tutti noi abbiamo visto troppe discussioni mandate in vacca irreversibilmente per il vero e proprio inquinamento segnico prodotto da numerosi commenti cialtroni, benaltristi, passivo-aggressivi, platealmente sconnessi al tema, vogliosi di capri espiatori, bordeggianti il vero e proprio spam. Tutti questi commenti, che siano della stessa persona o di un mini-branco che ridacchia in gruppo dei propri peti, fanno “muraglia”, costringendo a un sempre più lungo scroll e a spendere crescenti quantità di tempo (che non tutti hanno in abbondanza) e concentrazione per ritrovare gli altri commenti, quelli dove si cercava di mantenere il filo del discorso. Il risultato era l’abbandono della discussione da parte di chi inizialmente l’aveva trovata interessante. Lascia perdere Cortellessa, quello è un trombonazzo sopravvalutato; io sto parlando di meccanismi, di precise strategie retoriche distruttive, portate avanti in modo anche inconsapevole. A fronte di questo, se molte persone non riescono più a seguire un thread, è un problema oggettivo, di strategie a cui rispondere con altre strategie che le prevengano. Spiegare tutto con la spocchia di questo o le paturnie para-adolescenziali dell’altro è qualunquistico. Non solo: è anche una pseudospiegazione venata di darwinismo sociale, perché la conclusione logica sarebbe: in rete rimane solo chi è più forte, chi ha la stamina per affrontare il trollaggio.

        • Aggiungo: non stiamo affatto parlando di discussioni tra “studiosi”, questi meccanismi li vediamo all’opera continuamente in discussioni tra [cliché]semplici cittadini [/cliché] su argomenti di interesse generale.

        • Ammetto il semplicismo e il qualunquismo. Non il darwinismo sociale. Ma continua a sembrarmi un fastidio trattato come qualcosa di più grande, soprattutto in contesti già filtrati nei quali i troll sono una minoranza sporadica. Che le persone abbandonino e non partecipino alla discussione (su LPLC, Lipperatura, qua, Vibrisse eccetera, mai visto discussioni mandate in vacca o disturbate dai troll, solo personalismi e scazzi per divergenze di opinioni) lo riconosco, ma ne metto ugualmente in discussione l’atteggiamento (e non parlo di spocchia, perché ci sono studiosi che stimo che hanno insofferenza ad intervenire – e mi sembra una stupidaggine -, così come l’insofferenza di chiunque), non per farne una questione di “forza”, ma di senso delle proporzioni. E mi ha lasciato perplesso leggere che qualcuno ti ha scritto in privato per dirti dell’aggressività di Claudia. Va bene tutto, e questo è uno spazio encomiabile pieno di impegno che mi ospita, ma questi sono atteggiamenti che io non comprendo. Claudia non si riferiva ai troll comunque, e qui mi pare che si faccia confusione tra uno che provoca (e l’esempio di Tuco è un caso ancora a sé, ma mica metto in discussione il problema quando si presenta) e uno che non si è mai esercitato nel ragionamento o è ignorante – a questi si riferiva Claudia – la “cui abilità dialogica è nulla” (il semianalfabeta non deve intervenire, perché disturba la discussione e perché la svaluta, perché se l’intellettuale scrive nello stesso spazio di chi intellettuale non è, il suo ruolo perde di valore). Io questo non lo comprendo, prima ancora di non condividerlo. Poi oh, mi sbaglio e pazienza, ma questo mi sento di dire. Grazie comunque

          • 1. Su Giap non hai visto discussioni mandate in vacca da troll perché i WM applicano il metodo Saint-Just verso i troll: il che preserva uno spazio di discussione, ma lascia intatto il problema, perché come metodo è difficile da generalizzare. Se su Lipperatura non hai visto discussioni danneggiate o vanificate dai troll, ti sei perso qualcosa. Idem, se non hai notizia di blog che hanno chiuso (o chiuso gli spazi di discussione) per la medesima ragione.
            2. Claudia non parla di troll, sono stato io a nominarli, spiegando che l'[virgolette]analfabeta[/virgolette] o [virgolette]incompetente[/virgolette] è, dal punto di vista fattuale, analogo al troll “doc”, perché produce gli stessi effetti. Per fare un esempio, è (cito Bertrand Russell) come l’anziana signora che alla conferenza sulla scienza contesta il relatore perché, spiega, non è vero che la terra è una sfera sospesa nel vuoto grazi al gioco di attrazione delle forze, la gravitazione ecc., ma uno scudo piatto che non precipita nel vuoto perché poggia su un altro scudo, e così via; e alla domanda su dove poggi l’ultimo scudo (che il relatore crede sia dirimente), risponde: sul dorso di una tartaruga. In che senso l’anziana è “analfabeta”? Non solo perché ignora una verità scientifica che non si può non dare per acquisita (in caso contrario, nessuna discussione sarebbe possibile, perché per fondare il fondamento del fondamento dovremmo regredire all’infinito, non potendone porre uno come punto di partenza); ma soprattutto, perché ignora alcune basilari regole del ragionamento (non solo scientifico: in ogni caso, stiamo parlando di Newton): nella sua testa, crede che finché non viene confutata l’ipotesi della tartaruga, il suo ragionamento vale tanto quanto l’altro. E quindi, se le dai in mano i commenti di un blog, o altro, continuerà a intervenire sostenendo che sta a te dimostrare che la tartaruga non esiste, e naturalmente non accetterà (perché in parte non le conosce) argomenti tratti dalla fisica newtoniana. Ora, di anziane come quella di Russell ce ne sono a bizzeffe: l’intero item “cos’è veramente successo l’11/2001 alle Twin Towers” (demolizione controllata organizzata dal proprietario delle torri per incassare l’assicurazione, ad es.) si basa su pseudoragionamenti del genere. Qui, a parte qualche complottista per contratto con Dio, siamo nel campo della “buona fede analfabeta”. Ma anche (e qui la buona fede condivide una larga zona grigia con la malafede), una gran parte della discussione “creazionismo vs evoluzionismo”, o di quella sul tema “esiste una teoria gender da cui dovremmo difendere i nostri figli” si basano su questo mix di ignoranza dei fondamenti scientifici, e ignoranza della logica scientifica e argomentativa. Idem, riferito al diritto, al codice penale e al codice di procedura penale, per i processi in diretta televisiva o in differita ad libitum, sui quali si sono costruite carriere politiche. Qui non c’entra nulla la presunta supponenza degli “sputasentenze” o degli “intellettuali”, perché dall’analfabetismo di chi sostiene che la terra è piatta non si deduce alcuna intoccabilità o superiorità a prescindere di chi sa che essa è tonda (con un leggero schiacciamento sui poli): però il fatto che io condivida uno spazio astratto con un creazionista o un fautore del disegno intelligente non mette sullo stesso piano i reciproci contenuti e metodi di argomentazione – e questo non credo di dovertelo dimostrare, perché se lo facessi cadrei in un circolo vizioso.
            Se poi continui a non vedere il problema, pazienza: sono io quello che ha affermato che è un problema il fatto che sia percepito come tale, proprio perché non lo è.

            • tl;dr

              Vorrei portare alla vostra attenzione un caso di community che secondo me funziona bene, con una metodologia alternativa al rimedio Saint-Just, che qui apprezzo, ma che non vedo applicabile in scala più grande (Giap mi sembra piuttosto grande, ma probabilmente Saint-Just non riuscirebbe a monitorare due milioni di utenti, che dovrebbe essere più o meno il numero di contributori del sito di cui voglio parlare). Insomma, un grande network che secondo me ha trovato la formula per non far andare in vacca le discussioni e da cui si può imparare molto.

              Si tratta di http://stackexchange.com, network di siti Q&A (question and answer), dei quali il più famoso è stackoverflow, da cui è partito tutto e che chi lavora in campo informatico sicuramente conosce. Stackoverflow è per domande e risposte sulla programmazione, ma ora Stackexchange è composto anche da decine di altri siti, su ciascuno dei quali si parla di un argomento diverso (ad esempio http://politics.stackexchange.com, http://hermeneutics.stackexchange.com, http://worldbuilding.stackexchange.com, http://islam.stackexchange.com) ma che funzionano tutti allo stesso modo.

              Secondo me la chiave del suo buon funzionamento è che, in base a un principio di “gamification” (“ludicizzazione”), a ogni utente è assegnato un punteggio che rappresenta la sua “reputazione”: chi si è appena scritto inizia con reputazione 1 e può solo fare tre cose: porre domande, rispondere a domande, rispondere a commenti sotto le proprie domande. Se si riesce a incrementare la propria reputazione si ottengono altre autorizzazioni: commentare le domande degli altri, votare positivamente le domande e le risposte degli altri, votarle anche negativamente, correggere errori di altri, cancellare discussioni non costruttive e via salendo man mano che aumenta la reputazione. I voti positivi degli altri utenti alle proprie domande o risposte fanno aumentare la reputazione, i voti negativi la fanno diminuire. Inoltre chi pone una domanda può accettare la risposta che lo ha aiutato di più, facendo aumentare la reputazione del risponditore.

              La reputazione è molto difficile da guadagnare! Questo responsabilizza le persone, che prima di scrivere cose di bassa qualità ci pensano due volte. Ci sono delle linee guida spiegate in modo molto chiaro sul modo giusto di chiedere, di rispondere, o di fare qualsiasi altra cosa, e la community vota i tuoi contributi in base a questi criteri.

              Ecco cosa succede a un troll che arriva sul sito, con l’intenzione di dare fastidio a un utente che ha posto una domanda: per prima cosa si accorge che non può commentare perché non ha ancora reputazione. Allora scrive quello che avrebbe voluto dire in una risposta. Ma una risposta che in realtà è un commento va contro le linee guida e per questa ragione il troll riceve voti negativi. Allora pone una domanda in cui si lamenta del trattamento ricevuto, ma peggiora solo la sua situazione ricevendo altri voti negativi, perché le linee guida spiegano che non si possono fare domande off-topic. Intanto un utente con sufficiente reputazione chiude la domanda perché off-topic. Il troll che non si rassegna scopre che per ogni sito di Stackexchange esiste un sito fratello che si chiama “meta” (ad esempio http://meta.anime.stackexchange.com), fatto per le domande che non riguardano l’argomento del sito in sé, ma sono richieste di chiarimento, proposte, discussioni. Lì chiede perché è stato trattato così male e questo gli viene spiegato, con indicazioni sul materiale da leggere per imparare a comportarsi in quella community. A questo punto o il troll si scoraggia e se ne va, non rimpianto, o capisce e inizia a porre domande e risposte in linea con le istruzioni, ma a questo punto non è più un troll.

              C’è forse troppo potere in mano agli utenti con alta reputazione, che possono fare il bello e il cattivo tempo? Può darsi, ma resta il fatto che molti voti negativi possono spodestarli se non si comportano in modo consono (il diritto di dare un voto negativo non si ottiene subito ma non non serve troppa reputazione per arrivarci). Mi sembra un livello di rischio molto più basso in confronto a quello che ho letto riguardo alla wikipedia italiana qui su giap.

              Ultima nota: esiste un sito di Stackexchange che si chiama Area 51 (http://area51.stackexchange.com), dove si può proporre la creazione di una nuova community per un argomento che ancora non è coperto.

              Spero di non avervi annoiato troppo!

          • È evidente che Lipperatura l’hai frequentato ben poco, o almeno, non lo frequentavi quand’era in atto, tutti i giorni che Dio mandava in terra, un assalto collettivo contro Loredana, con il preciso intento di farle chiudere il blog. C’era un ben identificato branco, si trollava ogni discussione, si usavano fake, si mandava in vacca sistematicamente ogni argomento. Loredana c’è stata male, poi, giustamente, ha cominciato a bannare come non ci fosse un domani, e a cancellare commenti offensivi (lei non ha la premoderazione). All’inizio i troll – capeggiati da un noto stalker veneziano (adottivo) – sono esplosi, hanno creato blog interamente dedicati alla character assassination di Loredana, e al contempo hanno spostato l’azione su FB. La prima strategia si è rivelata un boomerang, perché ha reso chiara a molti la natura ossessiva (e… ossessista) della cosa. La seconda strategia ha costretto Loredana ad adire le vie legali. Alla prima querela, gli scarafaggi si sono dispersi come quando accendi la luce and they run for cover.
            Quanto a Giap, qui non vedi discussioni mandate in vacca perché questa è la nostra piccola dittatura del proletariato, che ha vissuto la sua fase di Terrore Rosso, e ora è in una fase successiva, quella dell’estinzione dello stato :-)
            Per tutto il resto, non stai rispondendo a Girolamo, stai ancora commentando la lettera di Claudia, mentre la discussione è andata avanti.

            • Lipperatura lo leggo ogni giorno, da anni, e quando ho cominciato a leggerlo mi sono letto l’archivio. Fino a che uno che si firmava hqr non ha cominciato a diventare pesantemente offensivo non c’è mai stata discussione mandata in vacca dai troll, e neanche i commenti di hqr mandavano in vacca le discussioni. Le uniche discussioni lunghe e sfilacciate sono state per monnezzoni, fantasy, Tolkien e King. E scazzi con Regazzoni. E ci stavano, penso che per un lettore siano state fruttuose. Mi dispiace quello che ha provato Loredana, come l’ho appreso dopo nella presentazione che avete fatto del suo libro. Ma questo è un caso a sé. Da tempo c’è uno che si firma k. che interviene ogni volta che si parla di gender, ed è di coccio e disinformato, e non ha rovinato nulla, le discussioni si sono fatte e ognuno ha potuto intervenire. Sto rispondendo in questo a Girolamo, come ho già fatto, perché non credo sia vero quello che dice, che il semianalfabeta produce gli stessi effetti del troll (lasciando stare le mie contrarietà anche sugli effetti dei troll, che sono un problema mio), e obiettando alla sua interpretazione del pensiero di Claudia (per questo sono rimasto a quel punto). Le cose che dice Girolamo sono di ordine diverso, e nessuno pensa di far cogestire o coesistere alla fonte i ricercatori e i divulgatori con i semianalfabeti. Faccio l’esempio di Brassanini che lascia lo spazio online del Fatto non perché nello spazio commenti ci sono troll, il suo blog è un casino in cui comunque le discussioni vanno avanti, certo non come su Giap, ma perché il Fatto stesso ospita opinionisti di senso contrario, e per uno scienziato non è ammissibile dare legittimità a certe cose.

              • No, Jackie, nessuno qui parlava di Hqr, firma che infatti non ricordo nemmeno. Tu hai visto le discussioni al netto delle bonifiche. A un certo punto della storia del blog, a ogni commento che leggi ora corrispondono almeno dieci commenti rimossi, lo so perché Loredana mi ha mostrato la dashboard, era impressionante la carica di livore, come era impressionante la quantità di tempo che in particolare una testa di cazzo dedicava all’impresa. Le discussioni erano rovinate eccome, perché il tempo e l’attenzione dedicati alla bonifica erano sottratti al confronto e causavano stress. Thread che si sono fermati a 20 commenti avevano la potenzialità di esprimerne 200 e tutti interessanti, come alcune fortunate volte è accaduto. Tra l’altro mi sembra pure difficile tu abbia visto tutto l’archivio. Ci sono state almeno 3 fasi di trollaggio intensivo, due nel decennio passato e una all’epoca del caso Lara Manni. Due-tre wannabe writers frustrati avevano aggregato un branco che ha tormentato Loredana per anni.

                • mi sono sbagliato, intendevo i post precedenti alla mia scoperta del blog, non l’archivio. E d’accordo, l’ho fatta troppo facile sul trollaggio e non mi rendo conto del lavoro dalla parte produttiva. Non riesco a essere d’accordo sulle discussioni, poiché se io non ho avvertito alcun problema, lo stesso può valere per qualsiasi altro commentatore e lettore, e se così non è, la colpa va a chi si astiene. I Thread non hanno vita propria, se ti interessano intervieni, non esiste che su uno spazio in cu la maggior parte delle persone è ben disposta smetti di commentare e dài la colpa al troll. Questo per me è un atteggiamento mentale peggiore di chi trolla. Pace e saluti, non vi preferivo come scrittori

                  • Però ripeto: “non hai avvertito alcun problema” perché hai visto la situazione post-bonifica, al netto della merda, dello stress e della fatica. Non conta che la maggioranza dei commentatori sia ben disposta se la maggioranza *dei commenti* (che possono essere lasciati da una minoranza determinata a devastare) è liquame. Ogni centilitro di quel liquame contribuisce ad avvelenare l’acqua che dovrebbe irrigare il confronto, finché quest’ultimo non viene soffocato. Anche “l’assente ha sempre torto” è un principio sbagliato, le persone hanno le loro vite, il loro lavoro, la loro famiglia, non sono commentatori full-time, non stanno sui blog o sui social per il 100% del loro tempo, per forza devono selezionare, non puoi obbligarli a partecipare “per spirito di servizio” a discussioni piene di troll, di rancore, di violenza psicologica, di idiozia.

  28. Concordo completamente con la falsa intimità (o intimità fredda ;) )che in fondo è solo un’altra faccia dell’indifferenza. Pero’ credo che la scrittura sui social sia scrittura di se stessi, persino nel senso di invenzione di se stessi. Tra qualche anno luce, la cosa potrebbe avere dignità letteraria.

  29. Scusate, mi pare che ci sia un “convitato di pietra” in questa discussione. Se assumiamo che facebook sia diventato un “medium” dei rapporti sociali e vogliamo dimostrare che sia “regressivo” rispetto ad altre dinamiche di socializzazione, per i suoi effetti sulla persona o sull’aggregazione, dobbiamo prima rendere conto di alcune altre cose che accadevano ed accadono in altri modelli di socializzazione e con altri “medium”. Io, se penso alle piazze della mia gioventù, non le vedo solo come un luogo idilliaco nel quale si socializzava con facilità e si costruivano veri rapporti umani. C’era questa possibilità, c’erano anche le altre: c’erano i fascisti, in piazza, che potevano menarti; c’era il lato maggioritario che apparteneva ai “discotecari”; c’erano gli spacciatori. E, nei quartieri, c’erano meccanismi di esclusione ed emarginazione e violenza verso “i diversi” che non erano leggeri. E gli altri luoghi di aggregazione erano le parrocchie, per dire. Magari quella piazza la rimpiango ma, se dobbiamo dare un giudizio, non è tanto semplice trasporla ed assumerla come valore positivo in toto da contrapporre ad un universo virtuale del tutto negativo. Magari quello che, anche per via della propria ignoranza o condizione, sarebbe stato un emarginato a vita, su facebook acquista una finestra sul mondo. Trova delle affinità, al di fuori del proprio ambito “fisico”. Riguardo all'”ignoranza”, certamente il veicolo di comunicazione “facebook”, per come è strutturato, implementa la sua esplosione e veicolazione ( o forse anche “mostra” qualcosa che c’è sempre stata e prima era “censurata” dalla faccia ufficiale delle relazioni sociali). Ma io credo che lì dobbiamo porci il problema di quello che accade alla scuola, prima di quello che accade sui social network. Personalmente, anche se un mio conoscente fa affermazioni razziste o simili, di solito evito di bannarlo o bloccarlo perchè mi pare giusto che si confronti anche con quello che dico io. Esattamente come accadrebbe se stessimo in una piazza, della quale non si decide da soli come sono delimitati i confini.

  30. ho aspettato un po` per commentare perche` sentivo che mi mancasse qualcosa dalla lettera iniziale. e in effetti leggendo tutti i commenti mi e` molto piu` chiaro il primo intervento di Claudia,
    di cui a questo punto penso di capire le motivazioni.
    Una parte pero` vorrei avere piu` chiara: l`uso di puro “cazzeggio” a corto raggio.
    Mi spiego: io uso addirittura piu` account facebook, almeno un paio che contino piu` di un centinaio di contatti,
    piu` qualche altro account one=shot per trollare magari la pagina di red ronnie o simile..
    In uno ho i contatti chiamiamoli “imposti”, colleghi e capi di lavoro (e venendo da situazioni di precarieta` sono decine) e conoscenti di paese, la timeline quindi puo` essere sintetizzata in
    foto di matrimoni, fesserie simil salviniane, forconi e altra merda destrorsa che pero` e` anche ben spiegato precedentemente da Claudia ed altri come si riproduca facilmente, velocemente e
    per breve periodo sul mezzo FB.
    E questo e` uno, motivo: ti chiedono se hai fb, glielo dai e condividi poco o nulla.
    Altro account e` quello delle amicizie reali, l`uso principale e` la messaggeria o la condivisione di eventi.
    In pratica lo si usa per organizzarci per andare a una presentazione, un festival, un barbeque. E magari scambiarsi le foto dell`ultimo weekend in barca.
    Qui si puo` obiettare che esistono mille altri modi per scambiarsi le informazioni o le foto in un gruppo ristretto, ma facebook e` molto comodo (sono mesi che cerco di convincere i miei amici
    piu` stretti ad usare Telegram invece di Wazzap, che tralaltro e non a caso e` di facebook).
    Non ho mai preteso dalla piattaforma nulla di piu`, non credo si sia mai prestato all`approfondimento, sia strutturalmente sia per l`uso che se n`e` fatto negli anni.
    Trovo il messaggio di un festival interessante su fb e poi vado sul sito a leggere il dettaglio
    E` questo tipo di uso, chiamiamolo organizzazione pizzata amici calcetto, di cui non capisco le motivazioni di un abbandono dichiarato (la chiarificazione sui destinatari iniziali e` stata molto utile in ogni caso).

    @maurovannetti non pensi che anche twitter si presti alla distorsione con l`importanza che si da ai retweet/favoriti come i mi piace di facebook?
    Tralaltro io uso un`applicazione come tweetdeck per cui mi divido a piacere le tab per argomenti/utenti per cui non ho molto idea di come funzioni la normale pagina web principale

  31. Ho scritto qualche giorno fa, qualche breve considerazione all’articolo in questione che, sebbene sollevi numerose e interessanti questioni, dice cose anche molto questionabili. Secondo la mia modesta opinione, ovviamente.

    http://sguardotecnologico.technonews.it/

    • Sì, però qui il dibattito è andato molto oltre il “gancio” iniziale. Ok linkare quel che hai scritto altrove in una fase iniziale, ma sarebbe più interessante valorizzare e portare avanti gli spunti emersi qui nel frattempo.

  32. Segnalo questa roba con 188 commenti di semianalfabeti che mi linciano per la mia lettera, a titolo di esempio e anche come monito a me stessa, nel caso in futuro mi venisse in mente ancora di dare in pasto riflessioni personali alla rete: http://www.hookii.it/lintellettuale-ai-tempi-di-facebook-torri-davorio-e-relazioni-leggere/

    • Il mio consiglio è: concentriamoci sul dibattito in corso qui.

      • Ad ogni modo, non tutti i 188 commenti sono la consueta lordura, alcuni si staccano dal coro, colgono aspetti importanti e invitano gli altri utenti a ragionare senza personalizzare. Ritenevo giusto precisarlo.

    • “La roba con 188 commenti di semianalfabeti” è una discussione postata su un sito che ha come scopo quello di commentare liberamente vari articoli proposti dagli utenti, più un feed automatico da Il Post. Questa comunità, che si autogestisce, si è formata in seguito alla chiusura dei commenti del Post, decisa qualche mese fa.

      I toni sono spesso sarcastici, a volte violenti, ma solitamente a tema. Nella comunità ci sono moltissimi ricercatori, dottorandi, docenti. Tantissimi sono poi i professionisti nell’ambito del digitale e dell’IT in generale presenti. La comunità è molto variegata e aperta a chiunque.

      Definirli seminalfabeti solo perché critici nei tuoi confronti squalifica molto il tuo discorso dimostra che spesso anche i migliori hanno abilità dialogiche nulle.

      P.S. Sì, sono uno degli utenti di quel sito, nonché un vecchio giapster molto silente.

      • Essendo tu un vecchio giapster, comprenderai bene il senso della nostra esortazione, più volte ripetuta: stiamo alla discussione in corso qui, sviluppiamo i tanti spunti validi, niente sfide, niente personalizzazioni, niente deragliamenti. A cosa serve, settimane dopo, venire ad attizzare un potenziale sotto-thread polemico che avevamo invitato a non estendere?

        • Arrivo settimane dopo perché sono stato fuori.

          Hai ragione, potevo essere meno polemico, però capirai non faccia piacere ritrovarsi additati come semianalfabeti, quando avrebbe potuto entrare nella discussione e parlare anche di là. Avrebbe anche potuto semplicemente invitare gli utenti a questa di discussione per non disperdere troppo le forze (cosa che avrei francamente capito).

          A cosa serve mi chiedi?
          “Non ci sono spazi sui quotidiani, sui settimanali, sulle riviste, non c’è spazio nei luoghi degli incontri.”
          Nel suo piccolo quello è uno spazio di discussione. Non è uno spazio dedicato ad un argomento solo, perché nasce da una comunità variegata, ma come facevo notare ha uno zoccolo duro di gente che anziché perpetrare le discussioni solo in ambito accademico spesso si mette in gioco proprio per portare fuori le discussioni. E anziché approfittarne, è stato solo messo all’indice come “roba da analfabeti”. Onestamente lo trovo un enorme controsenso e sminuisce il discorso che lei faceva e su cui mi trovo anche molto d’accordo.

          • Sulla questione dei “semianalfabeti” si era già andati oltre da un pezzo, in generale (con i commenti stimolati da Girolamo) e nello specifico (con la precisazione di WM1 qui sopra).

  33. Sinceramente della polemiche riguardo all’uso di facebook mi sono stancato.
    Sarà che ho vissuto i tempi dei primi forum di discussione on line e vi assicuro che i flame e le bufale e i troll che giravano li non erano diversi. Anzi.
    C’era chi teorizzava che il tutto era dovuto ai nickname (quasi nessuno allora si iscriveva con il vero nome e cognome) e il giorno in cui si avesse avuto il coraggio di presentarsi con il vero volto e il vero nome le litigate sarebbero sparite. Ricordo i primi forum su macchia nera, ricordo le chat del Mirc, ricordo il forum dell’Unità che è stato chiuso dalla direzione perché era troppo più avanti rispetto al giornale e i politici Ds che provavano a confrontarsi li venivano ridicolizzati.
    Ricordo i primi blog, gli interminabili flame di discussione su Trozky e Stalin ma anche sull’argomento “Batman è di destra o di sinistra?”.
    La differenza con facebook è che questo social network è un fenomeno realmente planetario, e il pubblicarsi con nome e cognome ci rende più identificabili. Ma le aziende da tempo controllano il tuo pc del lavoro e vedono se commenti sul sito “scomodo” di controinformazione. Non ci voleva facebook per svegliarsi.
    Poi c’è chi dice Facebook è un rischio per la privacy… e magari lo dice su wazzup.
    Poi c’è chi come voi ha fatto la scelta di prediligere twitter a facebook. ho letto le spiegazioni che date… ma Sarà che io in 140 caratteri non riesco neanche a dire buongiorno…
    Insomma, nel mio piccolo gestisco il gruppo e la pagina della mia associazione, ho 450 iscritti da una parte e 210 dall’altra e posso dire che la differenza sul livello di discussione e sui contributi sta nelle mani del moderatore. In questo non cambia con i vecchi siti, blog e forum. Se c’è un troll lo cacci. Certo questo vuol dire meno commenti e meno visibilità ma una qualità indiscutibilmente maggiore.
    Come tutte le cose, il social network è uno strumento. Poi c’è chi lo usa come uno sfogatoio, chi pensa che sia il sostituto di una insostituibile cura psichiatrica, chi lo usa per commentare il reality di turno, chi per il cazzeggio, chi per trovare da scopare, chi per diffondere le bufale e chi posta articoli interessanti e anche chi cerca di promuovere un ragionamento o una discussione.
    Forse per questa ultima cosa non è il luogo migliore, così come non lo erano i forum di discussione o lo spazio commenti dei blog.
    Per me è comodo per tante cose.
    Di certo qualcuno ancora non ha capito qual è la funzione del social network. C’è chi pensa ancora che può mettere su il suo mercatino di cannabis da dietro la tastiera, quello che pensa che non mi devo offendere se lui dice “negri di merda” perché sono un suo amico di vecchia data, e quello che pensa che può scrivere sulla mia bacheca miei fatti personali senza chiedermi prima il permesso.
    Ma insomma… tutta roba che chi è sul web dagli anni 90 ha già visto, solo amplificata.

    • A me non convince tanto questa idea che Facebook sia il vecchio mondo del web con i social che lo supportavano negli anni novanta che assume una dimensione ancora più globale. Non si possono, secondo me, parificare le dinamiche di un forum a facebook. Quello che un forum mostra di te, sostanzialmente, è quello che scrivi. Sulla base di quello si entra in relazione e tutta la struttura del forum è anche materialmente improntata (grandezza delle finestre, dei caratteri, ad esempio) a mettere in rilievo la parola scritta. Facebook è sempre stato caratterizzato maggiormente dall’immagine. Entri in relazione con una persona per la sua icona (gli status non è detto che tu possa vederli) e tramite le foto. Di più, giudichi e valuti la persona per il reticolo di amici e di reti di relazioni che gli sta intorno. Gli spazi nei quali si muove la scrittura sono ridotti e faticosi da leggere rispetto ad un forum. Non a caso hanno marginalizzato sempre più le “note”. Il mezzo, anche senza parlare degli algoritmi (che hanno una sempre maggiore influenza) ma nella sua impostazione grafica, nella sua scelta del medium privilegiato che non è la scrittura, dà la propria impronta alle relazioni che crea. Sono d’accordo che sia necessario starci, però esso implica livelli di comunicazione diversi rispetto al web punto uno e per lavorarci bene ne dobbiamo essere consapevoli.

  34. Dopo una spericolata rimonta degli 87 commenti di questo thread, tento ora la volata senza guardarmi indietro ma limitandomi ad alzare il pollice in direzione dell’amico Mauro Vanetti, di cui condivido a pieno i contenuti, e a strizzare l’occhio a Wu Ming 1, che dalla sua postazione di camera-car ricorda certamente il progetto “Futuro Anteriore” in cui affrontammo il problema Facebook da un punto di vista media archeologico e tecnico-scientifico.

    Ora si affronta invece la parte “fenomenologica”, ovvero quella legata all’esperienza qualitativa, incarnata e, di rimando, socio-politica dell’esserci sui social media. Parto da alcuni spunti tratti dai commenti per poi pedalare per conto mio ;-)

    1. Facebook è un dispositivo:
    Le esperienze su Facebook sono molteplici (intrattenimento, memoria, creazione identitaria, arena politica, ecc.), il “default power” (come lo chiama Ippolita) è lo stesso, ma cambia a sua volta per venire incontro alle esperienze. I social media sono dei dispositivi di soggettivazione. L’ultimo Foucault li avrebbe chiamati “blocchi” di comunicazione, relazioni di potere e attività-orientate-a-un-obiettivo. Fb come una caserma militare: attraverso un segno convenzionale come il pulsante “share”, lancio l’ordine alla mia “truppa” di amici di seguire quel determinato topic. Allo stesso tempo, l'”innervazione” con gli apparecchi, non è a senso unico. La timeline di Facebook è stata introdotta da un’esigenza degli utenti a ricordare facilmente le loro interazioni. L’uso “mobile” di Fb ha decretato la nascita di nuove interfacce e la maggiore predisposizione a condividere foto e video dell’ambiente in cui si trova l’utente (grazie alle fotocamere integrate negli smartphone), piuttosto che status e note. Corpo, ambiente e mente umana giocano un ruolo essenziale nella decriptazione del dispositivo Facebook, in cui…

    2. I rapporti sono tutti “reali”
    L’approccio ecologico delle scienze cognitive contemporanee e la fenomenologia continentale sono d’accordo su questo punto: la “presenza” è una sensazione transitoria e malleabile. Il corpo, la mente e le relazioni posso estendersi e contrarsi ad una velocità estrema ma non sempre quello che “sentiamo” corrisponde con quello che “sappiamo”. Quando “likiamo” duecento post di amici, la nostra relazione in realtà si contrae per qualità dell’interazione e per diffusione (come si diceva, l’algoritmo tende a farci interagire con chi ha i nostri interessi, una gentrificazione socio-fenomenologica); altresì, quando incontriamo il tizio per strada che “ci conosce” tramite il nostro profilo social, pensiamo (come Claudia) che abbia una visione “intossicata” del nostro io e invece (come penso io) sta moltiplicando ed estendendo il nostro inconscio, facendoci scoprire zone chiaroscurali del nostro essere-nei-mondi. Ecco perché…

    3. Facebook non è un sito.
    E’ una piattaforma che si estende oltre il web. E’, come notava Detta Lalla, anche uno spazio di aggregazione/dispersione militante. Almeno qua a Roma, tutti gli spazi sociali occupati lavorano anche attraverso le loro pagine social e spesso si innescano circoli viziosi di like e retweet che non sfondano il muro extra-militante. Questo è un problema che va risolto: 1. Promuovendo un uso creativo della pagine (personalizzare lo stile di scrittura, fare domande, inserirsi in cerchie non prettamente politiche, ecc.); 2. Smontando i tempi imposti (cosa che Wu Ming fa molto bene).Pensare ad un’uscita “collettiva dei collettivi” da Facebook è pressoché irrealizzabile, almeno finché Fb rimane sulla cresta dell’onda. A mio parere quindi, elaborare un uso dentro/contro i social media da parte dei movimenti è una vera e propria responsabilità politica dei nostri tempi.

    Facebook poi non è un sito poiché è impregnato nelle conversazioni vis-a-vis, nei loghi su flyer ed eventi, e presto lancerà la prima piattaforma di realtà aumentata che assottiglierà ancora di più la differenza ergonomica tra la vita digitale e quella reale. Leggere per credere:

    “After games, we’re going to make Oculus a platform for many other experiences. Imagine enjoying a court side seat at a game, studying in a classroom of students and teachers all over the world or consulting with a doctor face-to-face — just by putting on goggles in your home. This is really a new communication platform. By feeling truly present, you can share unbounded spaces and experiences with the people in your life. Imagine sharing not just moments with your friends online, but entire experiences and adventures.” (M. Zuckerberg, 25 Marzo 2014)
    (https://www.facebook.com/zuck/posts/10101319050523971)

    Questo “proclama” segue l’acquisto da parte di Facebook dell’azienda leader nella realtà virtuale “Oculus”. Il dispositivo in progettazione prevede una copertura completa dello spettro di visione, e un sistema di input/output basato sulla voce e su controller touch. Cosa succede quando Fb, invece che offrire un’esperienza semplificata di socialità a distanza, inizia a promuovere una convivialità avanzata e multimodale, basata su sistemi di realtà “aumentata” e non “virtuale”? Se la critica al dispositivo si concentra solo sulla presunta perdita di realtà, di qualità dell’esperienza soggettiva, cosa succederà quando questa limitazione verrà varcata? Si rimprovererà a Fb di essere “troppo oltre la realtà”?

    Questo per dire che un’analisi dell’esperienza soggettiva deve procedere di pari passo con quella tecnico-scientifica sul funzionamento del dispositivo. Poi bisogna domandarsi: politicamente, che si fa? ;-)

  35. Giorno Giapsters. Mi presento e sintetizzo (tantissimo) il mio pensiero: ho il profilo Fb credo da 10 anni, ma non lo uso; tra le amicizie reali ho anche mezzi amici (quelli buoni per una birra e partita, per intenderci); se cerco qualcosa in rete non uso fb; twitter è un’altra roba.
    Detto questo, approfondisco la questione nata dalla scelta di Claudia, premettendo che se Claudia ha ritenuto così importante discutere con altri e mettere nero su bianco il suo abbandono di fb è perché per lei è stata una scelta difficile e coinvolgente e penso anche più importante di quanto lei stessa possa credere. Personalmente non ritengo ne utile ne interessante fb ed i suoi contenuti, ma mi rendo conto che può diventare una sorta di “droga” (anche lo scrollare di Gilla) nel momento in cui assume un ruolo di importanza rituale, come ad esempio la sigaretta, controllare l’email, vedere che tempo farà o fare 25 partite a ruzzle. Nel bene o nel male, nell’utile o nell’indispensabile, fb come altre piattaforme o nuovi bisogni che ci siamo creati, è diventato un rito personale. Fb agisce sulla nostra necessità di avere delle ritualità, delle manie, delle sicurezze. Secondo me questo è il punto di forza, anche maggiore della tanto sbandierata “socialità” della piattaforma. Ciò che non è rituale invece è più “intellettuale” nel senso che è gestito da un’altra regione del cervello, quella predisposta all’essere critici e curiosi. Fb è una sorta di mega-cuscino che ci fa star bene. Claudia, vorrei sapere cosa ne pensi. Non serve alle amicizie o alla cultura o alla critica. Poi uno dice, cosa l’hai aperto a fare il profilo e perché lo tieni se non lo usi. Risposta: nel 2005 ero curioso di fb e non me ne frega di cancellarmi. Sta storia dell’oblio digitale è una discussione stimolante come può esserlo quella su Balotelli al Milan: zero.
    Come dicevo, le amicizie con o senza fb sono un’altra cosa; anche nel mondo reale ci sono quelle vere e quelle da “birra e partita”. Se poi fb è stato la scintilla per la nascita di un’amicizia ben venga, ma anche la coda alla posta o il pronto soccorso possono fare la stessa cosa. Per quanto riguardo l’utilizzo di piattaforme culturali (hai citato academia) non sono d’accordo. Penso che academia come altri, siano solo un gradino meglio di fb solo perché restringono la cerchia di utilizzatori, ma sono comunque piattaforme che sfruttando degli algoritmi e secondo me per cercare delle informazioni specifiche è meglio usare altri mezzi (pubmed ad esempio in ambito biomedico). Dimostrazione è la funzione che hanno molte piattaforme e siti di consigliarti: ” se hai letto questo allora potrebbe interessarti..”. Lo trovo molto fastidioso. Ma se leggo i Wu Ming, potrò anche leggere il libro di Ibrahimovic? O per forza devo leggere tutta la produzione di Giuseppe Genna, prima? Ma saranno cazzi miei? Questa funzione è la base di fb e fa felice tante società, ma qui sto criticando il consumismo e capitalismo estremo e non è il momento.
    Molte volte parlando di fb si tira in causa twitter, ma è un’altra roba. Personalmente lo trovo intelligente e divertente, perché obbliga alla sintesi, cosa non da tutti. Senza non ci sarebbe Gazebo e sarebbe un gran peccato. Poi, potrebbe essere utile per l’informazione, ma parliamone. Se uno twitta al volo di un attentato o di una scossa di terremoto ok, ma sarebbe comunque cronaca e non approfondimento, ovvero solo un lato dell’informazione. Poi se uno nel bel mezzo del terremoto ha in mano lo smartphone e a tutti i costi deve twittare che lui è nel bel mezzo di un terremoto, parliamone.
    Facebook, twitter, controllare le email o il meteo 10 volte al giorno, sono interessanti aspetti antropologici che secondo me riflettono tre necessità centrali: di socialità (sentirsi accettati dagli altri), di prevedere il futuro (avere la meglio sulle forze della natura), di ritualità (sicurezza in noi stessi). Cose di cui il genere Homo ha bisogno da 200.000 anni (Neanderthal compreso). Forse senza saperlo Zuckerberg è il più grande antropologo ever.
    In conclusione #claudiastaiserena.

  36. Aggiungo una cosa sulla potenzialità dell’uso conflittuale di facebook. Riguarda il nome: chi viene da 20 anni di internet come me ed altri probabilmente non riconosce la necessità dell’uso dei nomi veri, anzi il nickname ha un suo ruolo fondamentale, pensiamo ai mille gert dal pozzo che ci sono in giro, o ai luther blissett, così è per facebook. In ogni caso questa è la tremenda mail che si riceve quando improvvisamente viene disattivato l’account che non presenta un nome vero(simile):
    Hi,

    Facebook is a community where people use their authentic identities. We require everyone to provide their authentic first and last names and birthday so you always know who you’re connecting with. Your account is temporarily suspended because your profile doesn’t list your authentic name.

    To reopen this account, please reply to this email stating your authentic name (as it would be listed on a government-issued ID like a passport or drivers license). Once we know your authentic name, we can update your profile and reactivate your account.

    Your name can’t include:

    – Symbols, numbers, unusual capitalization, or punctuation
    – Characters from multiple languages
    – Professional or religious titles

    Other things to keep in mind:

    – Nicknames can be used as your first or middle name if they’re a variation of your authentic first, middle, or last name (like Bob instead of Robert)
    – You can always list another name on your account:

    https://www.facebook.com/help/131728300237162?ref=cr

    – Only one person’s name should be listed on the account – profiles are for individual use only
    – Pretending to be anything or anyone isn’t allowed

    If you ever come across another profile with a name that doesn’t follow our policies, feel free to report it by using the “Report/block This Person” link located on that profile.

    We won’t be able to open your account until you respond to this email with your authentic name. Once we update the name on your account, you won’t be able to change it again without contacting us.

    For more information on our name policies, please visit:

    https://www.facebook.com/help/292517374180078/?ref=cr

    Thanks,
    The Facebook Team

  37. A proposito della presenza neofascista su FB, vorrei segnalare un articolo di Giampiero Cazzato apparso lo scorso 14 settembre sul sito del giornale dell’ANPI. Come tutti sanno, su Facebook esistono numerosissime pagine che hanno per scopo la propaganda nazista e fascista, la promozione della xenofobia, l’istigazione all’odio razziale ecc. Cazzato rileva come sia inutile segnalare queste pagine a FB perché provveda ad oscurarle. La risposta che si ottiene è che i contenuti segnalati non sono incompatibili “con gli standard della comunità”.
    Questo il link:
    http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/inchieste/facebook-e-moschetto-fascista-perfetto/

  38. Sono stato eliminato da fecebook pochi giorni fa.

    Con l’accusa di fingere un’altra identità che non fosse la mia.

    Mi hanno detto che per riottenere il profilo serviva una certificazione d’identità tramite documenti validi secondo il proprio stato anagrafico.

    Io Risposi che si possono tenere il profilo.

  39. Ps: facebook ha cancellato anche Blepiro. Perché ho un nome fittizio, strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Al momento mi sono trasferito su twitter. C’è un tempo diverso.