Dalle foibe “pro loco” alla foibologia nazionale. Come un milieu di paragnosti, «angelologi» e uditori di «sussurri» dall’Aldilà ha avviato una narrazione poi divenuta legge dello Stato
di Lorenzo Filipaz
in collaborazione col gruppo Nicoletta Bourbaki *
INDICE
1. Pattume del Bus de la Lum
2. Storia di una campagna antipartigiana
3. Luci e ombre del CLN veneto
4. Foiba Kult
5. Foiba Ca$h
1. Pattume del Bus de la Lum
«Puliamo il buio». Ogni anno, con questo slogan, la Società Speleologica Italiana si dedica alla difficile opera di bonifica di grotte, abissi, cavità carsiche, ambienti ipogei spesso usati dalle comunità autoctone come immondezzai.
Il 28 settembre 2014 fra i siti scelti vi fu il Bus de la Lum, celebre voragine dalla grande e impressionante imboccatura, la più famosa ma non la più profonda fra le molte cavità dell’altopiano carsico del Cansiglio, situato tra le province di Belluno, Treviso e Pordenone, sulla Sinistra Piave. Un luogo misterioso, oggetto nel tempo di fantasie, superstizioni popolari e storielle inventate per spaventare i bimbi capricciosi, buone perlopiù a instillare paure irrazionali e indelebili. Si narra ad esempio che nel Bus vivano delle streghe orrende, le anguane, che ne emergerebbero a notte fonda per predare i bambini usciti da soli nel bosco. La leggenda fu ispirata dai fuochi fatui che si formavano attorno alla voragine per via dei gas di putrefazione degli animali morti che un tempo si soleva gettare nel baratro, fenomeni naturali probabilmente all’origine del suggestivo nome della cavità: il «buco della luce».
Nel 1902 il pozzo deteneva il record di profondità mondiale; il naturalista Luigi Marson, calandovi una corda, aveva stimato -450 metri. Solo con la prima esplorazione effettiva del 1924 si capì che si trattava di una cantonata marchiana: in quella spedizione, a cui prese parte anche la futura star dell’arrampicata Emilio Comici, la profondità misurata fu nientemeno che la metà di quella di Marson. Gli esploratori apposero comunque una targa sul fondo, a mesto ricordo dell’impresa. Sbagliarono ancora però, perché quando altri speleologi si portarono appresso strumenti perfezionati, i metri in passivo alla quota della targa risultarono solo 185. Pare che proprio in seguito a quella deludente impresa Comici avesse deciso di optare per le pareti alpine, la cui altezza era perlomeno stimabile ad occhio nudo, senza tema di sfondoni così madornali.
Da allora il Bus è rimasto comunque un’ottima palestra speleologica: è facilmente raggiungibile con la macchina e nel prospiciente pozzo dei Bellunesi, di forma scampanata, si può far sperimentare ai neofiti una calata sospesa nel vuoto di una trentina di metri. Tuttavia, detriti franosi, fango e immondizia accumulati negli anni all’interno della cavità ne inficiavano il pieno utilizzo. Si rendeva pertanto necessario lo sgombero di una decina di metri di rifiuti stratificati sul fondo.
– Sotto lo strato di rifiuti, a quota -180, si dice che inizi appena lo strato di ciò che invece vi gettarono giù i partigiani alla fine della seconda guerra mondiale, negli anni ’20 infatti misurarono -225m…
– Capo, guarda che negli anni ’20 avevano sbagliato le misure…
– Certo, questo è quello che ti raccontano, ma non è quello che dice il silenzio…
– Prego?
– Il silenzio, non senti il silenzio che sussurra?
Non appena si annunciò pubblicamente la data fissata per la “pulizia del buio” alle associazioni speleologiche coinvolte incominciarono a pervenire messaggi di insulti e minacce.
– Sacrileghi! Profanate la tomba dei nostri martiri!
– Ma quali martiri? I copertoni marci e le lavatrici rotte?
– Empî! Vi denunciamo per vilipendio!
– Ma che cazz… Ma chi siete?
– Siamo i sussurri, i sussurri del silenzio.
Silentes Loquimur è il nome di un «centro studi» privato che ha fatto proclamare il Bus de la Lum monumento «di interesse nazionale» con l’intercessione di OnorCaduti. Il centro trae il suo nome dall’effige scolpita sulla minacciosa croce nera eretta all’ingresso dell’inghiottitoio, alla cui ombra si svolgono inquietanti commemorazioni.
2. Storia di una campagna antipartigiana
Nel 1949 una spedizione speleologica recuperò dal Bus 28 «resti», stando a quanto comunicò il Ministero della Difesa al Comune di Tambre (BL) il 28 luglio 1988. Il che non significava 28 corpi, anzi, come spiegò l’ex partigiano e scrittore Emilio Sarzi Amadé in una conferenza pubblica rilasciata il 3 marzo 1989 (poco prima della sua morte), si trattava di 28 cassette delle quali solo una decina contenevano corpi completi, le altre raccoglievano frammenti ossei, per cui si trattava in totale di una quindicina di corpi, sui quali non erano stati condotti esami scientifici accurati.
Secondo Giovanbattista Bitto “Pagnoca”, ex-vicecomandante della Divisione Nannetti (poi questore di Treviso), si trattava perlopiù di soldati tedeschi e repubblichini morti in combattimento nel ’44, ma c’erano anche corpi di partigiani caduti, sepolti sbrigativamente «nell’impossibilità di provvedere altrimenti durante rastrellamenti o sganciamenti», stando a quanto dichiarò ancora nel 1949 in risposta alle provocazioni della stampa.
Il 23 marzo 1949 il quotidiano locale “Il Gazzettino”, allora di tendenza democristiana, aveva infatti pubblicato il primo articolo di una serie – «Il Bus de la Lum nuovamente esplorato» – destinata a creare la base del mito del Bus de la Lum. Secondo l’articolista si vociferava che nell’inghiottitoio fossero state precipitate centinaia di «innocenti» a seguito di esecuzioni sommarie. Ma chi vociferava? Di fatto i «sussurri» furono diffusi proprio da quegli articoli. Quel primo pezzo menzionava già il termine «foibe» e rivelava en passant che la Divisione Nannetti operante nella zona comprendeva partigiani jugoslavi, un dettaglio inventato ma che ci testimonia la fortuna giornalistica di quella suggestione, che all’epoca imperversava nel dibattito pubblico nazionale, a dispetto del presunto lungo silenzio sull’argomento su cui insiste una certa vulgata. Bazzecole in confronto al successivo articolo del Gazzettino: «Mille cadaveri nel pozzo Bus de la Lum di Cansiglio».
La grande discrepanza tra mito giornalistico e realtà storiografica è stata oggetto di almeno una tesi di laurea in scienze della comunicazione. Il caso del Bus de la Lum è in effetti esemplare per comprendere il ruolo dei giornali locali nella diffusione sul territorio di una leggenda senza fondamento. La stampa estese e rese credibili ad un vasto numero di lettori le insinuazioni che un ristretto numero di persone aveva covato nel tempo per rancore politico.
L’agenda setting antipartigiano dei quotidiani locali rientrava nel quadro anticomunista nazionale promosso dalla DC almeno fin dalle elezioni del ’48, di cui resta celebre la storiella dei comunisti affamati di bambini. Non si trattò soltanto di qualche leggenda metropolitana un po’ troppo pompata, ci si misero anche Carabinieri e Prefetti, i quali, grazie alla mancata epurazione dei funzionari statali compromessi col passato regime e col collaborazionismo, erano in gran parte rimasti dove li aveva messi il duce. Non stupisce che molti fossero particolarmente solleciti nell’inviare rapporti tendenziosi su presunti massacri e piani sovversivi, prima ancora di qualsiasi verifica fattuale.
La tecnica più invalsa era conteggiare gli scomparsi di una determinata zona in seguito alla guerra attribuendone la morte a veri e propri rastrellamenti post-bellici attuati dai partigiani. Fu così che nel biennio 1949-50, mentre giornali e giornaletti si riempivano di storie dell’orrore ai danni della Resistenza al limite del verosimile, al Ministero dell’interno – all’epoca guidato da Mario Scelba – fioccavano note informative, rapporti e denunce di presunti eccidi. Una posta molto simile arrivava anche alla Farnesina dal confine orientale, ma lì la storia aveva ragioni diverse, nonostante seguisse lo stesso canovaccio.
Il mandato governativo democristiano era quello di mostrare alla popolazione l’incombenza di un sanguinario piano insurrezionale comunista – o di un’invasione slavo-comunista, nel caso del confine orientale – anche se le stesse autorità italiane, in privato, non attribuivano fondamento alcuno a quei progetti rivoluzionari. Si doveva inoltre cancellare il ricordo della comune lotta antifascista, al punto che non si esitò a reclutare per la campagna pezzi importanti dell’ex-apparato fascista.
Il discorso pubblico veniva così orientato dimodoché il partigiano apparisse buono solo se le buscava, se era un attendista che si limitava a sabotare manufatti insignificanti e a spargere volantini. Non appena fuoriusciva dal cliché arlecchinesco del buon popolano guascone ma mansueto, e dimostrava di essersi battuto efficacemente nella lotta antifascista, ecco che diventava di colpo un sanguinario sadico e cannibale, che passava le giornate a torturare donne incinte ed escogitare i modi più atroci per ammazzare poveri cristiani inermi. Si dava così un double bind per cui, per il fronte moderato, o i partigiani erano stati del tutto ininfluenti nella Liberazione e quindi non legittimati a ricavarne alcun credito politico, ma quando si dimostrava che avevano saputo combattere il fascismo, ciò diventava la prova di un’insidia pronta a calamitarsi sul presente e sul futuro.
Non è da sottovalutare poi la funzione di lavacro morale che la campagna mediatica pedagogizzante di marca democristiana ebbe per le masse popolari: rese dei conti private, linciaggi senza processo, vendette, atti di violenza e delinquenza commessi durante e immediatamente dopo la guerra venivano condonati e attribuiti unicamente a una minoranza, i comunisti venuti dal barbaro est slavo, dall’Emilia paranoica, o direttamente dallo spazio.
La gravità del pericolo rosso poteva essere mostrata nelle storture e nei delitti compiuti dove la presenza comunista era stata più forte e aveva dato luogo quindi agli scontri più cruenti con i nazifascisti. Il Cansiglio è per questo un caso da manuale: oltre a essere territorio garibaldino, l’altopiano aveva un’altissima rilevanza strategica in quanto situato a ridosso della Sella del Fadalto, passaggio obbligato nel collegamento tra la pianura veneta ed il Brennero. Non a caso dal 10 settembre 1943 i tedeschi avevano incluso tutta l’area nell’Operationszone Alpenvorland (OZAV), sottraendola alla RSI per metterla alle dipendenze dirette del Terzo Reich, al fine di controllarla meglio. Non a caso la RAF fu particolarmente prodiga nei lanci di armi e vettovaglie ai partigiani dal Cansiglio, soprattutto nella fase finale della guerra, quando bisognava tagliare la ritirata nazifascista. Allo scopo furono aviolanciati nella zona diversi ufficiali di collegamento britannici tra i quali il leggendario maggiore H.W. Tilman, alpinista e himalayista, che descrisse la sua permanenza presso la divisione Nannetti in diverse opere tra le quali il suo celebre When Men and Mountains meet del 1946, tradotto in Italia con il titolo Uomini e Montagne. Dall’Himalaya alla guerra partigiana sulle Alpi, CDA, 1997).
3. Luci e ombre del CLN veneto
Il partigianato locale, per quanto garibaldino, si sviluppò con un forte apporto del mondo cattolico, caratteristica presente fin dall’indomani dell’8 settembre, quando venne fondato il Battaglione Vittorio Veneto da don Giuseppe Faè – parroco di Montaner (TV) – assieme al già citato “Pagnoca”, per continuare con la costituzione della Divisione Nannetti il 17 maggio 1944, creata a partire da un’omonima brigata garibaldina proveniente dal Bellunese e che a seguito della morte del tenente colonnello Angelo Giuseppe Zancanaro accolse gran parte dei suoi partigiani di sentimenti cattolici.
Tra l’agosto e il settembre del ’44 un grande rastrellamento nazista spazzò il Cansiglio precedendo altri grandi rastrellamenti che nell’autunno falcidiarono le fila della resistenza veneta, infliggendo dure perdite alle formazioni partigiane e infierendo sulle comunità montane che le avevano appoggiate. Il 7 gennaio 1945 si ebbe inoltre l’arresto dell’intero CLN regionale Veneto, compreso il suo leader, l’azionista Egidio Meneghetti. Questi fatti determinarono la “svolta moderata” impressa alla resistenza veneta dalla chiesa, dalla Democrazia Cristiana e dalle forze conservatrici che avevano il proprio referente nel democristiano Gavino Sabadin. È a quest’ultimo che si deve la sistematizzazione di una narrazione della resistenza veneta come scissa tra “patrioti” autoctoni moderati e “partigiani” comunisti estranei al territorio, avventuristi e sanguinari (in particolar modo si insistette sulla presenza degli emiliani). Una narrazione che troverà larga diffusione nel dopoguerra, nel clima della guerra fredda.
In realtà più che uno scontro ideologico quello che divise la resistenza veneta fu il conflitto tra chi voleva davvero combattere i nazifascisti e chi era più interessato a preparare una transizione indolore al dopoguerra, a tutela del tradizionale ordinamento sociale. Nonostante le manovre anticomuniste delle forze moderate, al momento della liberazione le formazioni garibaldine del bellunese “Nannetti” e “Belluno” potevano contare su un effettivo di 3500 partigiani. Tra loro, nonostante quanto facevano e dicevano Sabadin e i suoi sodali, c’erano anche cattolici o addirittura aderenti alla Democrazia Cristiana, che preferivano militare tra i combattivi partigiani col fazzoletto rosso al collo anziché seguire la linea attendista del proprio partito.
Senza dubbio vi erano contrasti politici, anche assai acuti: già nel dicembre 1943 si ebbe ad esempio l’eccidio di Fontanelle di Conco, nel vicentino, in cui quattro organizzatori delle brigate Garibaldi vennero assassinati a sangue freddo da partigiani “moderati” e anticomunisti. Ma si trattò di casi isolati; prevalse piuttosto l’urgenza di lottare contro il nazifascismo. Nel Cansiglio queste premesse fecero sì che l’azione partigiana fosse sottoposta al controllo incrociato di svariati osservatori, come ricordò Sarzi Amadé nella conferenza dell’89:
«intanto il controllo delle spie e degli infiltrati fascisti, ma nel Notiziario della Guardia repubblicana non c’è fino all’aprile ’45 nessun cenno al Bus de la Lum. Poi le missioni alleate, e il maggiore Tilman fu a lungo in Cansiglio e mai ebbe a riferire di atrocità. Poi il clero, e il vescovo di Vittorio Veneto era in perenne contatto con le brigate partigiane: se avesse saputo di uccisioni in massa non avrebbe certo mandato i suoi preti a celebrare la messa e a assistere i combattenti. Soprattutto la pluralità delle formazioni armate, la Nannetti e la Garibaldi composte da cattolici e da comunisti, dove diventava impensabile una qualsiasi complicità per nascondere eccidi o cose del genere».
Pare insomma che il mito giornalistico del Bus de la Lum dell’immediato dopoguerra celasse un mandato governativo ben distante dal territorio e che mirava forse proprio a spaccare l’anomala adesione cattolica locale a un partigianato a guida comunista.
Ad ogni modo i mille infoibati del Bus de la Lum sparirono di colpo dalla stampa negli anni ’50. Vi fu una breve estate indiana sul finire dei ’60, ma negli anni del centro-sinistra “organico” i toni furono ben diversi: sparì il termine «foiba» dal lessico giornalistico, con una sola eccezione – «Cinquecento persone infoibate in una grotta del Pian Cansiglio», Il Messaggero Veneto 25/7/1966 – che probabilmente tradiva una primissima tentazione commerciale. Lo stesso giornale richiese una spedizione speleologica per dirimere per sempre la questione, spedizione che come un’altra di poco successiva escluse categoricamente la presenza di altri corpi oltre a quelli rinvenuti nel ’49. Il capo della spedizione del ’49, Silvano Mosetti, aveva dichiarato che le ricerche non erano proseguite a causa della presenza di bombe a mano inesplose, ma anche la presenza nella cavità di qualunque residuato bellico fu smentita. L’atto finale lo scrisse il Commissariato del Ministero della Difesa per le Onoranze ai Caduti, che proibì altre ricerche.
4. Foiba-kult
Marco Pirina nacque a Venezia nel 1943, figlio di un ufficiale repubblichino ucciso dai partigiani nel ’44. Negli anni ’60 frequentò l’Università La Sapienza di Roma dove fu presidente del FUAN, rimase nella capitale per molti anni militando nell’MSI finché non rientrò a Pordenone dove “scoprì” il Bus de la Lum.
All’epoca le leggende antipartigiane s’erano del tutto acchetate, limitandosi solo a qualche “sussurro” sedimentatosi nel volgo accanto alle vecchie storielle sulle anguane. Nel suo libro 1945-1947, guerra civile: la rivoluzione rossa (2004) Pirina descrive il suo primo incontro con il Bus de la Lum come un’esperienza mistico-iniziatica:
«Rientrato nella mia terra d’origine, nel 1982, appassionato di vicende storiche e stimolato dalla ricerca della Verità, sentii parlare, anzi sussurrare di una grande foiba, che si sprofondava per quasi 200 metri nelle viscere della terra, situata nei boschi del Cansiglio […]. Mi venivano raccontate storie tremende di persone portate su nottetempo, fatte salire su un “tolon”, una tavola od un tronco spezzato e poi precipitate, tra urla disperate e ghigni sguaiati degli assassini, nel fondo della foiba […]. Un giorno salii nel bosco umido e scivoloso, su un sentiero nel quale le radici degli alberi si avvolgevano come serpenti a sassi… mentre salivo cercavo di rivedere le scene che mi erano state raccontate… uomini e donne condotte ad una orribile sorte, pungolati dalle canne dei fucili da uomini senza pietà né umanità […] poi… all’improvviso si aprì l’orrore del buco… grande, con i suoi bordi slabbrati che cedevano verso la profondità muschiata nero-giallastra, con i rami dei pini e dei frassini, con le loro pendule matasse verdi e gialle di umidità rappresa… il buco, circondato da una natura silenziosa, pervasa dai profumi delle essenze del bosco ed accompagnata dal cinguettio degli uccelli montani… la foiba.. dal silenzio sembrava salire il sussurro dei vivi: “…SILENTES LOQUIMUR…” questo il mio primo pensiero… come non fare parlare “i morti scomparsi senza un fiore”? Bisognava accertare le “storie” degli scomparsi e le “imprese” delle formazioni partigiane comuniste operanti nella zona»
Più che una foiba sembra un’enorme vagina pelosa, lussureggiante e malefica, in cui si potrebbe cogliere interessanti risvolti psicoanalitici, ma a Pirina forse interessava di più la tradizione spiritista e parapsicologica che vede nelle spelonche un simbolo di rivelazione demiurgica. Per lui la sola vista dell’abisso fu l’origine di un vero e proprio credo, una religione esoterica: la foibologia. Principio e fine del culto erano i sussurri, quelli che Pirina diceva di sentire fra i vecchi, nei paesini della pedemontana, e quelli che udiva dentro di sé alla vista della voragine: una sintesi perfetta tra dispositivo giornalistico della maggioranza silenziosa e suggestioni esoteriche nelle quali vivi e morti si confondono, a instillare l’idea di una memoria popolare dissonante rispetto alla storia ufficiale, memoria alimentata con un frasario di concetti senza parole, punti sospensivi che spezzano le frasi come squarci improvvisi sull’indicibile, allusioni a una realtà alternativa piena di massacri spaventosi sottaciuti.
Per Pirina e sodali anche la ricerca storica aveva un aspetto iniziatico, una discesa negli inferi alla ricerca della Verità con la V maiuscola, contenuta in un qualche documento schiacciante e definitivo o in qualche reliquia ossea, visti entrambi come dei graal dai poteri gnostici, anziché come una qualunque carta o reperto da confrontare con mille altri come è prassi per qualunque ricercatore storico. Pertanto i loro saggi erano imperniati su documenti e testimonianze presentate in maniera apodittica e irrefutabile (ora non potrete più negare!), anche se non si trovavano mai due testimonianze identiche.
Nel culto esoterico del Bus de la Lum un’altra figura importante fu don Corinno Mares, parroco di Tambre (BL). Fu lui a far erigere la croce “Silentes loquimur” posta all’imboccatura della grotta il 29 agosto 1987 (lui e Pirina si contendevano il conio dell’epigrafe latina, cfr. il giornale «La Squilla» di Tambre, novembre 1988, «Cansiglio: una croce al “Bus de la Lum”»). A partire da allora ogni anno in quella data il parroco vi celebrò una messa in suffragio delle «centinaia di civili» immolate nella cavità.
Alla stampa il prete presentò la croce e le messe come atti dovuti di pietà e carità cristiana, senza colore politico, ma in realtà le sue prediche grondavano discredito e criminalizzazione della Resistenza. Il parroco portava le scolaresche in visita al Bus e narrava loro di 230 teschi ritrovati nel dopoguerra, tra cui quelle di donne incinte, nonché di intere camionate di persone scaricate nel buco, un crimine da far impallidire le Fosse Ardeatine. Il partigiano Eliseo Dal Pont “Bianchi”, esasperato, lo denunciò per vilipendio alla Resistenza, il caso finì alla Camera, portato in palmo di mano dall’MSI-DN.
Anche don Corinno più che basarsi su fonti storiche si lasciava andare alle suggestioni mistiche del luogo, i sussurri. In seguito, grazie al ritrovamento di una madonnina nel bosco del Cansiglio, diventò guaritore miracoloso, capace di trasmettere dopo la morte i poteri che si attribuiva anche ai luoghi che aveva frequentato. Fu allora che i suoi adepti lo proposero addirittura per la beatificazione, con tanto di raccolta di firme.
A tutt’oggi attorno al Bus si aggirano “sensitivi angelologhi” in cerca delle anime delle vittime e l’artista Nico Vascellari al Bus de la Lum ha dedicato un’installazione, imperniata enigmaticamente sull’incapacità di distinguere fantasia da realtà in chi si avventura nell’abisso: Anyone brave enough to venture here finds it hard to distinguish between imagination and reality, recita la nota stampa. Gli speleologi che vi si calano quotidianamente e lo considerano un “pozzo scuola” potrebbero offendersi a sentir messa in dubbio la propria capacità di discernere, che generalmente vacilla invece proprio in chi rimane fuori dal Bus.
Alla benedizione della croce nell’87 era presente il Comitato per le onoranze Caduti Infoibati nel Bus de la Lum fondato da Pirina e dall’ex-repubblichino Giuseppe Cavini. Dal comitato, nel giro di un anno (1988), sorse il Centro studi Silentes Loquimur la cui prima fatica fu il Libro Bianco del Bus de la Lum, pubblicato da Marco Pirina nel 1989. Il fulcro del libro era la testimonianza dell’ex partigiano Carlo Prian da cui nacque la “leggenda del tolòn”, ovverosia la presunta pratica partigiana di far camminare le vittime su una passerella posizionata sulla voragine, da parte a parte, per poi rovesciarla all’improvviso. Una storia che sembrava uscita da un romanzo per ragazzi di Stevenson, improbabile anche dal punto di vista tecnico, come aveva rilevato Sarzi Amadé: date le dimensioni dell’imboccatura sarebbe stata necessaria una trave di oltre trenta metri, che peraltro non si sarebbe potuta porre in orizzontale data la discontinuità e il forte dislivello dei bordi dell’inghiottitoio.
Pirina stabiliva poi che la differenza tra la quota di profondità misurata nel Bus prima e dopo la guerra – come sappiamo un puro errore di misurazione – erano metri cubi di cadaveri attribuibili alle 250 persone che a suo dire sarebbero scomparse durante e dopo la guerra dai paesi circostanti, un trucchetto usato a suo tempo anche per la foiba di Basovizza. Il Bus de la Lum diventava così un grande aspirapolvere che risucchiava tutti i morti di una terra battuta da rastrellamenti e deportazioni nazifasciste.
5. Foiba Ca$h
L’arma vincente di Pirina era la visione strategica del mercato dei media: negli anni ’80 il principio del marketing stava sostituendo quello pedagogizzante e “ideologico” che aveva contraddistinto i giornali della prima repubblica. Il venir meno dei due poli tradizionali della politica italiana – DC e PCI – aveva fatto del mercato il vero arbitro della cosa pubblica, per cui una posizione politica valeva l’altra senza alcuna pregiudiziale etica o storica, purché vendesse. Le posizioni politiche divenivano semplici merci allineate sullo scaffale, la ricerca del consenso rimpiazzava il confronto dialettico e i media promuovevano chi si adeguava al nuovo principio, così come premiavano chi forniva a gettito continuo nuovi scoop giornalistici e nuove dichiarazioni polemiche: il lievito naturale delle copie vendute.
Con la pubblicazione del Libro Bianco Pirina inaugurò una tattica di presenzialismo costante sui giornali locali, a partire dall’articolo «Quella strage dimenticata», prima pagina su Il Gazzettino del 5 marzo 1989 . L’occhiello recitava «Tornano le ombre. Un nuovo libro bianco e interrogativi mai sopiti su una foiba piena di cadaveri. Chi sono? Chi li ha uccisi?» Ora, «ombra» in veneto sta per bicchiere di vino, ma è improbabile che l’articolista Francesco Jori fosse in vena di sornionerie (forse al massimo un’inconscia associazione con litro bianco?): a leggerlo più che un giornalista sembrava un promoter del libro, teso a solleticare il pubblico sul tema più che a indagarne il perché e il percome.
L’articolo riprendeva pari pari le tesi di Pirina: le riesumazioni del ’49 erano state bloccate dalla presenza di bombe inesplose, rimaneva pertanto da chiedersi – concludeva Jori – se la domanda sull’entità degli infoibati nel Bus avrebbe trovato mai una risposta, «aldilà di ogni colore politico». Eppure era stato lo stesso Gazzettino negli anni ’60 a pubblicare la notizia della spedizione speleologica che aveva escluso la presenza nel Bus di altri cadaveri («Non esistono resti umani nel leggendario Bus de la lum», 9 luglio 1967), oltre ad aver smentito categoricamente la presenza di ordigni bellici sul fondo.
Qualche giorno dopo Emilio Sarzi Amadè organizzò con l’ANPI la conferenza pubblica in cui smontò dettaglio per dettaglio il revival foibologico di Pirina. Jori pubblicò a riguardo un articolo di tono diametralmente opposto allo stesso che aveva personalmente vergato giorni prima, descrivendo la vicenda del Bus de la Lum come
«una vecchia storia di cui la gente parla da più di quarant’anni… nutrita di fantasmi e di voci che non hanno mai preso corpo in modo definitivo e incontrovertibile»,
spostandosi dunque verso il punto di vista dell’ANPI. Il giornale avrebbe cambiato ancora opinione svariate volte, anche nel corso di uno stesso numero, schierandosi sempre dalla parte di chi aizzava la polemica. Il principio commerciale “post-ideologico”, a cui viene sempre più attribuita imparzialità, in realtà favorisce i bari.
Sarzi Amadè morì poco dopo la conferenza, mentre Pirina, don Corinno e i membri del Comitato Infoibati si lanciavano in un’escalation di “nuove rivelazioni”, presunti documenti riesumati, testimonianze di seconda generazione e tutti gli altri ritrovati del loro andar per ombre, al punto che al Gazzettino misero in piedi una vera e propria rubrica di confronto con i lettori intitolata «La foiba del Cansiglio», su suggerimento ideale di Pirina che invitava i lettori a uscire allo scoperto pubblicamente, per far emergere finalmente la Verità.
La febbre della foiba contagiò gli altri giornali locali, Il Messaggero Veneto in Friuli e la Tribuna di Treviso in Veneto. La corsa al Bus tracimò anche sul piccolo schermo, quando l’emittente locale TelePordenone invitò il pubblico da casa a chiamare. Un freakshow di mitomani, presunti ex-partigiani pentiti anonimi e testimoni per procura che ebbero il loro minuto di celebrità mentre Pirina gongolava. Mentre nel pubblico si sedimentava l’idea che al Bus i partigiani avessero fatto “le porcherie”, la voce dell’ANPI si faceva sempre più flebile e sulla difensiva fino a sparire del tutto nel momento in cui la polemica approdò su giornali nazionali.
Fin dal Libro bianco era spuntata la storia di Nella de’ Pieri, una donna di Ponte nelle Alpi (BL) fucilata perché sospettata di essere una spia fascista. Fino ad allora il caso non era mai stato ricondotto al Bus de la Lum, già Sarzi Amadé aveva iniziato a rintuzzare la prima ondata di fango contestualizzando con riscontri storici puntuali quella triste storia – la donna fu sottoposta a regolare processo il quale però fu sospeso per inadeguatezza dell’avvocato difensore, per poi concludersi con un’esecuzione sbrigativa nelle fasi concitate del grande rastrellamento nazista del Cansiglio – ma dopo la morte dello scrittore partigiano la marea fu inarrestabile, la de’ Pieri non solo divenne un’infoibata del Bus, ma pure incinta e stuprata. Di più: si moltiplicò. Nell’aprile 1989 Roberto Fiasconaro firmò per la Domenica del Corriere l’articolo che segnò il primo passaggio del Bus de la Lum sulla ribalta nazionale, intitolato «Li massacravano a centinaia, c’erano anche donne incinte». Più di recente, questa storia è stata recepita acriticamente e rilanciata a mezzo stampa dall’immancabile Simone Cristicchi.
L’apice del battage si ebbe però nel gennaio 1992 quando Beppe Gualazzini firmò una serie di tre articoli per Il Giornale di Indro Montanelli. Pirina ringrazierà il giornalista ed esporrà gli articoli in riproduzione anastatica in una successiva pubblicazione, come veri e propri trofei.
Nel primo articolo – «In quella fossa i partigiani gettarono centinaia di persone», Il Giornale, 21/01/1992 – si presentava l’opera di Pirina, alzando l’asta delle vittime a 323 – cifra mai vista prima che Gualazzini riferiva essere avallata da documenti, senza citare quali – nonché sfoderando dal bigoncio un testimone di cui non si era mai sentito parlare, un parroco che avrebbe confessato le vittime prima dell’infoibamento.
Nel secondo articolo – «Così spingemmo nella fossa i condannati», Il Giornale, 23/01/92 – veniva riportata la denuncia di “Bianchi” a don Corinno per vilipendio alla Resistenza . La redazione diede ampio spazio al prete per difendersi, il quale ringraziò generosamente con uno scoop: Francesco Pesce “Milo”, comandante della Divisione Nannetti, gli avrebbe telefonato di persona per confessargli le centinaia di infoibamenti al Bus de la Lum. «Io da solo ne ho mandati là più di cento», gli avrebbe detto. Bum!
Milo era troppo malato per controbattere, e morì di lì a poco, ma ci pensò la vedova a smentire sia l’ammissione del marito di aver infoibato chichessia sia il fatto che egli avesse mai telefonato a don Corinno.
Il terzo articolo del 29 gennaio era un reportage del viaggio che lo stesso Gualazzini aveva condotto a Pordenone, per accompagnare l’amico Pirina presso la locale Procura, al fine di consegnare un dossier inerente non solo il Bus de la Lum, ma ben 15 foibe del Cansiglio. Il pezzo si intitolava «Sono 15 le foibe su cui si deve far luce» e ciò è rimarchevole, perché mancavano 12 anni all’istituzione del Giorno del Ricordo e il termine «foibe» era totalmente scomparso dal lessico giornalistico nazionale da almeno 40 anni. Sopravviveva solo nell’agone politico locale di Gorizia e Trieste, dove venivano costantemente invocate, e in pubblicazioni di nicchia come il mensile Storia Illustrata, menzionate di tanto in tanto da giornalisti come Antonio Pitamitz o Arrigo Petacco.
Nel 1992 la campagna mediatica iniziata nel marzo dell’89 fu coronata dal ritrovamento di 68 resti ossei da parte dello stesso Pirina, che li stimò appartenere a non meno di 6 persone. Ben presto però si fece passare il messaggio che appartenessero a 68 corpi diversi.
Tempo prima il gruppo grotte “Solve” del CAI di Belluno, capitanati da Enrico Foggiato, aveva rinvenuto quattro elmetti nel Salone Lanterna, un ampio cavernone il cui collegamento con il fondo del Bus de la Lum era stato interrotto da una frana nel 1959. Per Pirina era la prova lampante che collocava i resti rinvenuti nella seconda guerra mondiale, ma Foggiato era di parere diverso: gli elmetti erano della prima guerra (e negli anni ’20 erano spesso utilizzati dagli speleologi triestini, NdR). Inoltre, a suo parere, i pezzi di osso trovati da Pirina non erano facilmente distinguibili da ossa di animali, nella migliore delle ipotesi potevano essere i frammenti mancanti dei cinque corpi incompleti riesumati nel ’49.
Pirina denunciò il rinvenimento dei frammenti ossei ai Carabinieri. Tuttavia, la Procura di Pordenone sentenziò che fosse impossibile stabilire a chi appartenessero, chi fossero gli eventuali assassini, il motivo e il momento della loro morte. Insomma, nulla di ciò che Pirina aveva presentato aveva una vaga e minima consistenza, eppure il Gazzettino riuscì a impacchettare il tutto come un risultato schiacciante, ma senza seguito per le difficoltà pecuniarie di un eventuale scandaglio completo del Bus. Inoltre intervenne il Commissariato del Ministero della Difesa per le Onoranze ai Caduti, meglio noto come OnorCaduti, avviando la pratica per il conferimento al sito dello status di monumento ai caduti della seconda guerra mondiale, benché nessuna delle tesi sostenute in merito ai pochi corpi recuperati fosse stata confermata e certificata.
Pirina poteva ritenersi soddisfatto e infatti da tutta la vicenda ricavò una lezione esemplare da applicare ad altri contesti. Dopo di allora, infatti, spostò la sua attenzione direttamente sui modelli a cui si era ispirato per il Bus de la Lum, le foibe dell’Istria e del Carso giuliano, riallacciandosi direttamente ai precetti del suo maestro, il primo vero foibologo del dopoguerra: Junio Valerio Borghese.
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La seconda parte è qui.
Bibliografia selezionata
- Matteo Spinazzè, Bus de la Lum. La costruzione giornalistica della memoria collettiva, tesi di laurea in Scienze della Comunicazione, Università degli studi di Trieste, a.a.2004-2005, relatore Livio Vanzetto.
- Emilio Sarzi Amadè, Conferenza stampa sul bus de la Lum, 10-3-1989 (dattiloscritto) in archivio ISREV, (Vittorio Veneto), Busta 55 fascicolo B, in indicem.
- Mirco Dondi, La lunga Liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano. Editori Riuniti, 2008
- Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, 1989
- H.W. Tilman, Uomini e Montagne. Dall’Himalaya alla guerra partigiana sulle Alpi, CDA, 1997
- Lorenzo Gardumi, All’ombra della svastica. La Resistenza nella zona d’operazione delle Prealpi. Belluno, Bolzano, Trento 1943-1945, Fondazione Museo Storico del Trentino, 2015
* Nicoletta Bourbaki è il nome usato da un gruppo di inchiesta su Wikipedia e le manipolazioni storiche in rete, formatosi nel 2012 durante una discussione su Giap. Con questa scelta, il gruppo omaggia Nicolas Bourbaki, collettivo di matematici attivo in Francia dal 1935 al 1983.
La seconda parte di questa inchiesta sul Bus de la Lum, Marco Pirina e le origini della moderna “foibologia” verrà pubblicata mercoledì 11 maggio.
I commenti verranno aperti in calce a quel post 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura non frettolosa e una discussione meditata e – soprattutto – pertinente.
Ricordiamo le puntate precedenti del Viaggio nelle nuove foibe:
1. Chi sogna una foiba in Maremma? Il caso Roccastrada – di Alberto Prunetti
2. La foiba volante del Friuli orientale – di Nicoletta Bourbaki
[…] il viaggio d’andata al Bus de la Lum, quello di ritorno conclude la nostra miniserie di tre puntate sulle “nuove foibe” e […]
[…] partigiani erano mostri”. Senza alcun ritegno si ricorre a falsificazioni fotografiche racconti basati sul nulla, totale assenza di analisi critica, propaganda antislava ed anticomunista, attribuzioni false […]
[…] 3a. Le nuove foibe, 3a puntata | Viaggio d’andata al Bus de la Lum – di Lorenzo Filipaz e Nicol… […]
[…] si tratta di quel Pirina, l’uomo dedito a cogliere sussurri. Il suo libercolo, pubblicato nel 2004, è edito dal famigerato Centro studi e ricerche storiche […]
[…] 2016, qui su Giap, Nicoletta Bourbaki e Lorenzo Filipaz hanno ricostruito (in due puntate: 1 – 2) la genesi di uno dei falsi storici più assurdi in tema di «violenze partigiane», […]
[…] circuito mainstream attraverso scrittori come Marco Pirina [del quale abbiamo tracciato un profilo qui] e, soprattutto, Giampaolo Pansa (che ha scritto del Manfrei principalmente in I figli […]
[…] documentale reperibile, aggiunti a piene mani ogni volta che si racconta la vicenda; fosse comuni vuote, introvabili e addirittura “mobili”; vittime non solo mai trovate ma addirittura mai […]