Oggi, secondo giorno di fiorile dell’anno CCXIX, offriamo ai nostri lettori una panoramica di recensioni e commenti su Anatra all’arancia meccanica.
Nelle prime settimane di avvistamenti in cielo e nei fiumi, i più disparati soggetti hanno risposto ai perentori “quack!” dell’incazzoso volatile. Alcune recensioni le avevamo già proposte/linkate nell’immediato, a inchiostro ancora tiepido sulle pagine del libro. Quivi proponiamo quelle del collettivo Militant, dello scrittore Nino G. D’Attis, del critico Renato Barilli (uscita sull’inserto TTL de La Stampa), di Mauro Trotta (uscita sul Manifesto), oltre a segnalare lo spin-off in stile Star Trek dello scrittore Angelo Ricci e l’articolata proposta cinematografica del blogger jumpinshark. Naturalmente, molte recensioni di lettori sono su Anobii, e se siete su Twitter, potete seguire l’hashtag #AaAM.
Noi non riusciamo ad essere obiettivi quando leggiamo un libro di Wu Ming. Figuratevi recensirlo. Per questo, commentare quest’ultimo lavoro del collettivo di scrittori senza nome è stato estremamente difficile. Maledettamente difficile, perché non possiamo, anzi ci rifiutiamo, di recensire un’opera di Wu Ming esclusivamente dal punto di vista letterario. I Wu Ming sono una specie in via d’estinzione, un animale collettivo da proteggere, non da giudicare. Nella più complessiva atomizzazione della vita sociale e culturale italiana, pochi hanno fatto notare come il bivio apertosi fra la cultura e la politica si sia allargato sempre di più. C’è tutto un mondo che fa cultura, e la fa bene; un mondo fatto di ricercatori, di economisti, di storici, di sociologi e via dicendo che ogni anno sforna una quantità di saggi inverosimile. Contestualmente esiste un altro mondo, che cerca di fare politica, che si batte nelle strade, nei quartieri, nei luoghi della produzione. Ecco, queste due strade non si incontrano più. Non si incontrano più anche perché sono scomparsi gli intellettuali. Che sostanzialmente, avevano una sola missione: quella di unire il colto al popolare, di portare le analisi che venivano fatte nei luoghi della produzione del pensiero alla gente, quantomeno a quella gente che poi faceva politica. Questo trait d’union, fondamentale in una società democratica, consentiva di rendere popolare ciò che veniva espresso dai ceti intellettuali, e soprattutto creare una coscienza civile e popolare. E invece oggi (da qualche anno) quel meccanismo virtuoso si è spezzato: chi fa cultura non frequenta più le dinamiche reali, perdendosi negli alambicchi intellettuali di chi non riesce più a comprendere la realtà perché non la vive più; chi invece fa politica, o semplicemente si tiene informato tramite i media di massa, non riesce più ad avere quegli strumenti culturali che consentivano un’interpretazione migliore di ciò che succede nel mondo.
Perché questa premessa? Perché invece i Wu Ming rappresentano quegli intellettuali militanti, che tramite le loro narrazioni costruiscono vedute d’insieme, miti, elementi di identificazione collettiva fra soggetti più disparati. Dunque, un libro di Wu Ming dovrebbe essere letto anche tenendo conto di questo. O almeno, noi lo leggiamo anche attraverso questa lente, per cui ritroviamo nelle storie narrate tutto quello che ci parla di noi, della politica, dell’oggi, della nostra situazione.
Quindi eccoci a parlare di questa nuova opera dei senza nome. Questa volta l’oggetto narrativo è una raccolta di racconti, quasi tutti già editi nel corso di questo decennio. Racconti, romanzi brevissimi, visioni collettive, già pubblicati su internet, o su qualche quotidiano o rivista. Qualcuno invece completamente inedito. A questo punto è necessario fare un’altra premessa: per quanto siano già in gran parte racconti editi, noi non li avevamo ancora letti. E per fortuna, a questo punto. Ci siamo ritrovati tra le mani qualcosa di completamente nuovo. Niente di già subodorato, di già letto, di poco attrattivo. No, per qualche favorevole congiuntura astrale, abbiamo potuto leggere questi racconti ancora vergini, non preparati e anche colti di sorpresa, possiamo anticipare. E questo ha un po’ bilanciato il pregiudizio col quale partiamo rispetto a tutti i loro lavori.
Dopo aver letto di seguito questa serie di visioni collettive, risulta impossibile una reductio ad unum, che ci consenta di poter giudicare complessivamente l’opera. I racconti andrebbero recensiti uno per uno, presi singolarmente e analizzati. Non solo le storie, ovviamente, sono le più disparate. Ma anche gli stili, i propositi, gli ambiti letterari e immaginari affrontati sono dissimili, rendendo impossibile parlare di quest’opera in maniera omogenea, perché non è un’opera omogenea: procede a salti, a scossoni, salite e discese, cambi di ritmo e di stili. Prima comici, poi apocalittici, onirici, tragici. E poi ancora iperrealisti, e poi subito dopo visionari. Insomma, sembrerebbe un lavoro improbo cercare di trovare una sintesi in questo lavoro. Però un tratto comune, nonostante tutto, alla fine affiora dalle pagine del libro: è l’evoluzione di ciò che ci circonda avvenuta in questo decennio. Evoluzione che intravediamo negli atteggiamenti, nel modo di scrivere, negli argomenti che poco a poco leggiamo, addentrandoci nel testo. Prima esilaranti, comici, sarcastici, come sospinti da una leggerezza che si respirava al di fuori del contesto narrativo. Poi sempre più riflessivi, ora onirici ora ancorati alla realtà; un pessimismo che piano piano cresce, fino alla tragicità di certi racconti o alla ricerca di qualcosa d’altro, una sorta d’evasione dal mondo reale che sfugge di mano. E non possiamo non notare il percorso che in questo decennio abbiamo affrontato come movimenti: da un sobbalzo di energia collettiva positiva degli anni a cavallo del secolo, alla presa di coscienza del fallimento di un’esperienza, fino ad una realtà che supera man mano ogni più fosca previsione del futuro. Una realtà che abbiamo sempre più difficoltà a capire, e non ci resta, a volte, che rimanere sconcertati di fronte alla sequenza di eventi che ogni giorno di vengono vomitati dai media onnipresenti. Convinti di aver immaginato già tutto l’inimmaginabile, per essere smentiti quotidianamente e implacabilmente.
Questi racconti vale la pena leggerli. Alcuni di essi sono, sinceramente, qualcosa di eccezionale. Di eccezionale comicità, come Benvenuti a ‘sti frocioni 3 o Tomahawk, dove si fa fatica a finire il racconto senza provare dolore addominali per le risate; oppure di grandiosa visionarietà, come la parodia nera del mondo di Topo Lino e Anatrino, un mondo che non avevamo mai neanche immaginato in questi termini. Racconti che rompono col senso comune imposto, per ritrovarne un altro creato da chi è stufo del modello di unanimismo precotto. Un mondo che diventa violento dove vige la dittatura della bontà. E che invece riscopre valori e sensazioni umane dove regna incontrastato il mondo della cattiveria e dell’ignoranza umana, come nel racconto Momodou. E poi tanti altri, ma ci piacerebbe chiudere sul racconto Bologna social enclave. Beh, non vi sveleremo niente, ma dovrebbe esserne obbligatoria la lettura, in determinati contesti politici di movimento. Anche in poche pagine e in un contesto ironico, si possono capire certi errori e certe coazioni a ripetere (e a riperdere) che ci contraddistinguono, e che caratterizzano determinati luoghi di movimento, autisticamente chiusi in un mondo che è sempre più lontano dalla realtà.
Insomma, per concludere, ne vale davvero la pena. Vale la pena comprarlo, leggerlo, riderci o rifletterci sopra. Non tutto è perfetto, qualche racconto è chiaramente migliore di altri, ma nel complesso un insieme di visioni prodotte dal decennio appena trascorso, utile per capire cosa è cambiato in noi dal ’99 ad oggi. Il tutto, in una serie di racconti senza morale e senza la speranza del finale rassicurante, violenti e reali come è giusto che siano. Non è questo il momento per ripeterci che andrà tutto bene; è il momento di rimboccarci le maniche e ricominciare a capire.
L’anima punk dei Wu Ming riaffiora in superficie. Acida, surreale, spudorata, espressa attraverso 16 racconti scritti nell’ultimo decennio e sparsi in precedenza sul web e su carta. “Con la Nona del “Ludovico Van” in sottofondo, il libro va gustato freddo come la peggiore vendetta, così da esaltare i sapori di una comicità grassa, a tratti greve, sovente manesca e facinorosa.” scrive Tommaso De Lorenzis nella prefazione. Beethoven o i Residents, o magari i Dread Zeppelin di Tortelvis, perché no? Nell’insieme, il sound è lontano dal rigore epico-rutilante che caratterizza gran parte dei romanzi fin qui pubblicati dal collettivo; prevale piuttosto l’urgenza di raccontare (quasi) senza filtri il presente in tanti lapsus cortocircuitanti e molte sue sfaccettature: dal grottesco verosimile di Benvenuti a ‘sti frocioni 3 (nato dai primi contatti del collettivo con il folle universo del cinema) a Gap99, incursione nei temi familiari a Irvine Welsh (discoteca/buttafuori/spacciatori neri), passando per testi come Bologna Social Enclave, scritto poco prima del tragico vespaio del G8 a Genova nell’estate del 2001 e I Trecento boscaioli dell’Imperatore, donato alla campagna di Greenpeace “Scrittori per le foreste”. Dal reale, i Wu Ming prelevano mostri, maschere, pagliacci e li mettono in pista. Mutano e deformano i corpi da cartoon disneyani, ne storpiano i nomi, i tratti caratteriali, in aperta beffa al potere retrivo delle holding ma anche per ricordare come la coscienza di lavorare su storie di storie sia da sempre patrimonio di tutti. L’anatra è un’autobiografia in pezzi narrativi (atto secondo, dopo la sistemazione teorico-critica di articoli e saggi in Giap! nel 2003). Una selezione di dissolvenze/sovrimpressioni/cazzeggi a rilascio differenziato. Se ne consiglia l’uso (smodato) per combattere l’ignoranza meccanica del XXI secolo.
RENATO BARILLI SU AaAM
(da TTL, 9 aprile 2011)
A suo tempo non sono stato certo un sostenitore della New Italian Epic, lanciata dal collettivo che si cela dietro il nome di Wu Ming, semmai le mie preferenze andavano e vanno al fronte opposto di un New Italian Realism, però ho riconosciuto che, in tema di romanzo storico, le prove di questo gruppo sono sempre apparse come le più serie, col rischio di apparire addirittura seriose, troppo laboriose, perfino cupe. A ritrovarmi tra le mani una loro raccolta di racconti, già usciti ma in luoghi marginali, mi sono chiesto come
potevano concentrare in breve spazio le loro maestose cattedrali, ma mi sono subito ricreduto, queste prove, minori di spazio e di spirito, sembrano stese con un’agile «mano sinistra», in un’aria di libertà attraverso cui si manifesta una piacevole New Actuality [?]. Oltretutto, l’occasione minore permette di sciogliere la disciplina di gruppo, ovvero si manifestano molte personalità che pizzicano corde diverse in una piacevole cacofonia.
Il nucleo più sostanzioso sta nei primi scritti, tra cui quello assunto come eponimo dell’intera selezione, Anatra all’arancia meccanica. I Nostri vi narrano le traversie di quello che gli capita, come autori coinvolti in proposte cinematografiche, o in una serie di presentazioni, avendo a che fare con editori pasticcioni e improvvisati. E’ una chiave agile, spigliata, ricca di tante piccole invenzioni verbali, attraverso utili deformazioni di nomi, quasi un omaggio al nume propiziatore che vigila sulla città felsinea, Stefano Benni, con cui i Wu Ming entrano in gara quanto a celerità di mente e di proposte.
E’ anche il ricalco del noir, con ampio sfruttamento della parlata più becera. Su questa via del basso si distingue il racconto La ballata del Corazza per una total immersion nell’universo dei suini, fatti ingrassare artificiosamente nelle porcilaie padane, e prelevati per il macello da delle gru entro cui rischia di
essere catturato perfino il malcapitato narratore.
Ma ci sono anche i racconti seri, che toccano corde molto diverse, come la ricostruzione della parabola di un povero extracomunitario, Momodou, sottoposto a tutte le possibili ingiurie dalle forze dell’ordine.
Forse però la perla della raccolta è American Parmigiano, dove il non dichiarato autore è quasi sul punto di infilarsi nella solita tentazione retrospettiva, in quanto vi si racconta di un giovane scienziato che deve sventare losche manovre statunitensi con cui si vuole dimostrare che il parmigiano era già prodotto negli USA ai tempi di Franklin.
Questo acuto indagatore scopre che in realtà a ciò aveva provveduto un immigrato emiliano che aveva portato là le vacche del paese, e che si era lasciato fucilare dalle giubbe rosse, dai soldati della corona inglese, non per difendere la nascente bandiera a stelle e strisce, bensì per impedire il macello delle bestie prodighe di latte. Intanto, al riparo tra gli insorti, il generale Washington poteva portare alla bocca un prezioso frammento del formaggio requisito al povero colono, trovandolo decisamente di suo gusto.Una soluzione leggera, di cui vorremmo tanto che i Wu Ming si ricordassero nell’erigere le loro prossime cattedrali, magari all’inseguimento, come avviene nell’ultimo racconto, di una arzestula, cioè di una cinciallegra, come si dice in dialetto locale, invece di un rapace pretenzioso e sofisticato come l’Altai da cui il titolo della loro ultima fatica.
MAURO TROTTA SU AaAM
(dal Manifesto, 14 aprile 2011)
Si tratta nella quasi totalità di racconti, scritti tutti nel decennio appena trascorso. Emerge, dalla loro lettura – come, tra le altre cose, nota Tommaso De Lorenzis nel bel saggio introduttivo – una sorta di affresco della prima decade del terzo millennio. I rimandi non soltanto agli eventi, ma al mood, alle atmosfere di quegli anni, con le loro speranze e delusioni, vittorie e sconfitte, sono naturalmente innumerevoli. Si affrontano, così, questioni relative all’ambiente, al copyright, alle privatizzazioni, alle lotte, alla nuda vita di ognuno. Si ride e ci si arrabbia, si mescola amarezza, disperazione e divertimento, oppressione e voglia di riscatto. Emerge, insomma, pienamente quella caratteristica così tipica della scrittura dei Wu Ming che lega appunto in maniera inestricabile la letteratura alla vita.
Non solo, Anatra all’arancia meccanica offre anche l’occasione per seguire ed apprezzare i modi, le forme in cui si attua il processo di scrittura del collettivo dei senza nome. La grande facilità, l’estrema leggerezza, la varietà con cui gli autori riescono a modulare il proprio stile, ibridandolo con i generi e le forme più diversi. Così a volte più che leggere un racconto sembra di assistere a una graffiante pellicola, di quelle più riuscite della cosiddetta commedia all’italiana, come in Benvenuti a ‘sti frocioni 3 o Tomahawk. Oppure a un film a metà tra Leone e Von Sternberg, come nel caso di In Like Flynn. Altre volte pare di avere tra le mani un fumetto, di quelli, splendidi – come Perché Pippo sembra uno sballato? – che faceva Andrea Pazienza rileggendo i personaggi Disney. E poi si passa al noir, ancora al cinema, ma a quello del primo Moretti, alla science fiction post-catastrofistica, alla favola, fino alla poesia civile che riesce a colpire come un pugno nello stomaco, mettendo in scena l’indecente balletto dei potenti intorno a un corpo innocente e comunque inviolabile.
Sconfinamenti, ibridazioni da cui però vien fuori sempre un’originalità di scrittura sorprendente. Non si tratta di raccontare «alla maniera di…», ma di appropriarsi di strutture, stilemi, forme rielaborandole profondamente, facendo emergere in maniera cristallina il proprio marchio di fabbrica, la propria, inconfondibile voce. Si tratta di usare tutti gli strumenti per rendere una volta di più la letteratura viva, donandole carne e sangue. Si tratta ogni volta di riscoprire e utilizzare il potere taumaturgico della parola, di far sì che le storie adempino al loro compito più vero e profondo, quello di incidere sulla vita, sulla realtà, sul mondo.
N.B. Jumpinshark ha anche compilato questa rassegna dei post su AaAM presenti in rete.
Approfitto di questo post per mettere giù, in ordine sparso, alcune idee non ancora compiutamente formate, che mi girano in testa da ieri pomeriggio, e che mi sono venute ascoltando WM1 e WM5 presentare AaAM a Roma (e le domande che sono seguite).
Sono riflessioni che inevitabilmente riguardano anche gli interventi di WM1 e WM2 sulle rivoluzioni e sulle narrazioni disintossicanti (sintetizzo).
Chiedo venia da subito della lunghezza che presagisco di questi appunti.
1. Concordo con l’impianto del post di Militant: le narrazioni di Wu Ming, il loro stare sul fronte intellettuale, è militante, certamente, sia nelle intenzioni che nelle realizzazioni concrete. Insomma, Wu Ming fa quello che dice (che sembra uno slogan di una banca, ma “i miei piccoli lettori” mi perdoneranno… ☺)
2. Da letterata uscita dal Dipartimento di italianistica della Sapienza, conosco benissimo le torri d’avorio dell’Accademia. Ne ho frequentato i guardiani, i custodi, i costruttori. Ne ho letto i progetti e i proclami. Ma, poco incline a fare la vestale, non mi è mai neppure balenato il desiderio di custodire il fuoco sacro e immolare la mia candida (appunto, eburnea) purezza al Mito della Letteratura. La letteratura prima di tutto si scrive con la minuscola, e poi “si fa”, “si maneggia”, “si ciancica” (diciamo a Roma). Perché la letteratura è arte nel senso antico del termine, artigianalità (come si diceva ieri). E da questo punto di vista va studiata.
Una lunga premessa che mi serve a spiegare questo: la necessità della letteratura di Wu Ming non solo per la politica, per l’agire rivoluzionario, ma per la letteratura stessa. Voglio quindi procedere nel discorso di Militant, in un certo senso superarlo e contenerlo (o contenere il mio discorso nel loro) al tempo stesso.
3. Diceva Tommaso ieri che in fondo, visto che l’importante è la narrazione, come una cosa viene narrata, che lo si faccia con un libro, con un film, o altro, conta in via secondaria. Sì. Sì e no. Cioè, per me è importante “tenere sotto controllo” come la letteratura narra, in che modo la letteratura reagisce al presente. Wu Ming dimostra che la letteratura ha gli strumenti per poter narrare. Il “problema” sono i narratori, a mio parere.
Sempre più di frequente mi sento dire da lettori “forti” qualcosa a cui anche il post di Militant accenna: “non leggo più narrativa, non c’è più niente di decente da leggere: meglio i saggi”. Mi ritrovo e non mi ritrovo in questa considerazione perché sì, il livello è scaduto, ma in ogni caso di narrativa continuo a leggerne tanta. Perché i lettori “forti” stanno abbandonando la narrativa? Credo si debba cercare la risposta nell’ambito largo, politico, nell’ambito culturale, ma anche altrove.
4. Ecco una cosa che avrei voluto dire ieri, anche approfittando della presenza dell’editore di Wu Ming. Certamente la politica è altrove, la cultura è altrove. Certamente, come si faceva notare sempre ieri, la “sinistra” non ha lavorato sull’immaginario tanto quanto altre aree politiche. Ma è anche il caso di cominciare un discorso serio e profondo sull’editoria; un discorso da portare avanti con chi l’editoria la fa: con gli editor, con i redattori, con i responsabili commerciali, con i direttori editoriali, ecc. (su Lipperatura ogni tanto ci si prova, ma si arriva sempre a un punto morto, a relitti spiaggiati, a conchiglie ormai vuote che trasmettono solo echi lontani di onde ormai andate…).
Le narrazioni diventano un libro se un medium le rende tali (di nuovo: sintetizzo). E, lavorando nell’editoria, non posso far finta che il mio lavoro sia ininfluente sul ruolo politico (termine che in questo momento uso come contenitore ampio di tutto il resto) di quella narrazione. Quando dico che il discorso dovrebbe essere serio e profondo, dico che non dovrebbe ridursi a “è tutto di Berlusconi”.
5. Mi convinco sempre di più che le persone siano ormai totalmente disabituate a riconoscere e comprendere i discorsi retorici (= i discorsi costruiti con figure retoriche). Non si coglie il tono di una frase, il sarcasmo, il grottesco; non si capiscono le metafore, i simboli. Quindi, “scambiare la parte per il tutto” è inevitabile, la tossicità è inevitabile, da un certo punto di vista. Ben venga, quindi, la fantasmagoria di racconti di AaAM. Sarebbe da adottare nelle scuole, nelle università persino. C’è di tutto: ogni racconto potrebbe essere spunto per una lezione. E non di scrittura creativa, ma di comunicazione, di linguaggio, di pensiero dunque.
Mi fermo, va.
@ danae
Sì, in effetti, a Garbatella, la roba sulla “convergenza” tra cinema, tv e letteratura era buttata lì. Ed era malamente reattiva. Volevo palesare in pubblico una risposta al pregiudizio – più o meno esplicito – che enfatizza l’autonomia del letterario rispetto al narrativo. Del tipo: quello che conta è come dici una cosa indipendentemente da quello che stai raccontando. (E anche questa è una banalizzazione del punto di vista avverso, lo so).
Detto ciò, provo a fare un esempio extra-Wu Ming che magari ci intendiamo.
Nessuno schermo, piccolo o grande che sia, renderà mai la complessità del tessuto retorico di un romanzo come *Nelle mani giuste* di Giancarlo De Cataldo. Mi riferisco a quella trama di anafore, allitterazioni ed elencazioni che costruiscono la lingua. A noi il compito di notare quella ricerca, quella sperimentazione, specifico del romanzesco . Certo. “A noi”… che ci piacciono le storie, che ci raccontiamo storie, che proviamo ad ascoltare prima di parlare, che contribuiamo – occhi fissi sul testo, sguardo basso sulla “quarta” da scrivere – a che i libri escano. Noi tutti, insomma…
Però, perdonami: se Sollima e – soprattutto – i suoi sceneggiatori (che bisognerebbe menzionare uno per uno) sono stati dai maestri nell’accentuare la coralità della narrazione, questo va detto, no? Partivano con l’handicap. Partivano col film di Placido che, non solo enfatizzava la centralità narrativa di Libano, Freddo e Dandy , ma arrivava a proporre il Secondo sulle macerie della stazione di Bologna. Quasi a ricalcare l’immaginetta dell’”Eroe”: mentre il punto è che sono tutti schifosi figli di puttana e che il bene non esiste, perché l’unico bene è solo una gradazione minore del male.
Partiva con l’handicap Sollima, eppure ha fatto un prodotto superbo, accentuando allo spasmo la molteplicità dei punti di vista e mischiando l’epica col grottesco. Bufalo che ruba la bara del Libano col sottofondo di *Total eclipse of the heart* (ecco il link, speriamo lo prenda:
http://www.youtube.com/watch?v=dgYfFH5C-OQ)
Beh, qui non c’è il tema omerico del portare a casa le spoglie dei morti? E questa cos’è? Televisione? Oppure è narrazione tout court?
E se dovesse essere narrazione, non credi che l’interagire delle due, tre, quattro forme espressive finisca per arricchirle tutte?
Voglio dire: dai western di “posse” ai grandi romanzi italiani degli anni Zero, passando per le saghe televisive d’oltreoceano, non è sempre lo stesso discorso? E la cosiddetta “dittatura” della fiction contro cui si scagliano alcuni, al contrario: non è una gigantesca risorsa che, conservando le specificità dei codici, apre soluzioni al virtuosismo della convergenza? Il fatto che si tenda a complessificare il meccanismo narrativo, moltiplicando i punti di vista, esasperando la coralità, mischiando i generi, pretendendo concentrazione, sforzo, partecipazione da parte dei fruitori, per me è un gran bene. È una delle poche cose sui cui abbiamo vinto…
“La bara del Libanese dov’è?”
Ultima cosa.
TOTALMENTE d’accordo sulla necessità di aprire un discorso circa l’editoria, come dici tu. Sull’industria culturale, dico io. Purtroppo, credo che non sia possibile. Io ci ho rinunciato. La narrazione tossica del “lavoro culturale” suona ancora… “annosa questione”…
Anzi, non vorrei far danno, evocando la “Bestia”…
Tommaso
p.s Dicono: “non leggo più narrativa, non c’è più niente di decente da leggere: meglio i saggi”… ma oggi la distinzione tra l’una e gli altri ha ancora senso?
@ Tommaso,
La domanda nel tuo p.s. apre un discorso infinito, urgente da percorrere.
Non so (rifletto ad alta voce) se ha senso interrogarsi sulla distinzione “in sé”. Indubbiamente la narrativa e i saggi sono cose diverse – versante “retorica” -, mentre indubbiamente possono essere la medesima cosa se diamo per assodato il punto che dici tu all’inizio. Esiste l’Autonomia del Letterario? E’ mai esistita? Cosa conta di più? Cosa si dice o come viene detto?
Vorrei mettermi sul crinale, perché penso che le narrazioni di Wu Ming lì stiano: sul crinale. Nei libri di Wu Ming possiamo distinguere “cosa” si dice da “come” si dice? Io non credo. E su questo insisto sempre, sul “come”, perché non è che voglio che le narrazioni di Wu Ming entrino nella torre eburnea, ma che la torre eburnea si rompa, si spezzi, prenda aria anche leggendo i libri di Wu Ming.
Poi, concordo su quanto dici su Sollima e i suoi sceneggiatori. E infatti, la mia prima reazione, ascoltandoti, ma anche scrivendo ieri, è stato un “sì”. Di recente ho partecipato a una riunione tra “addetti ai lavori” in cui si parlava proprio di questo: lo stato attuale della narrativa e della saggistica, cosa si legge di più e cosa di meno, ecc., e ho detto che – pur leggendo tanta narrativa – alla fine ci sono serie TV o film che mi “acchiappano” di più, in cui l’intreccio narrativo, la costruzione, la definizione dei personaggi sono di gran lunga superiori a quelli della “letteratura” che si fa ora (quindi sì, moltiplicare le possibilità narrative è una risorsa a cui non dobbiamo rinunciare!). E ho ipotizzato che forse, ora, i giovani autori talentuosi preferiscono dedicarsi a quel tipo di linguaggio, piuttosto che a scrivere racconti e romanzi. Mi sembra cioè che a fronte di una narrazione televisiva o cinematografica in miglioramento (nel senso dell’efficacia pratica, non della pura contemplazione estetica), in ampliamento di possibilità espressive, ecc., la narrazione letteraria ha il fiato corto, in special modo in Italia, arranca, si affatica (e la torre sta sempre lì, inquietantemente fissa nella sua ebete felicità)…
l’avete letto il trafiletto del Fatto sul “flop” di AaAM?
No. In rete non lo trovo. Che dicono?
@ Axel Shut
no, ci è sfuggito e va bene così :-)
E’ curioso: non c’è un solo libro della nostra produzione che non si sia cercato di descrivere come “flop” (su vari livelli), eppure siamo ancora in circolazione, e soprattutto sono in circolazione i libri.
Ricordo che nel 2001, su una rivista “de movimento”, due tizi ci dedicarono una lunga invettiva scritta a quattro mani, in cui tra le altre cose dicevano: si dice che Q abbia venduto tanto, ma se sottraiamo dal totale le numerose copie spedite gratis ai recensori, vediamo che si tratta solo di una bolla. Interessante teoria: sottrai cento da centomila, ed ecco che si disvela un incredibile Complotto! :-D
fedelmente trascrivo:
Ma dove vanno a finire le anatre del laghetto di Central Park d’inverno quando ghiaccia? Se lo chiedeva il giovane Holden. L’Anatra all’arancia meccanica, di Wu Ming (Einaudi StileLibero), il collettivo bolognese reduce da una tournèe accademica negli Stati Uniti, non ha mai preso il volo, restando nella palude della bassa classifica (generale) per poi colare a picco: da 91 esima (a un paio di settimane dall’uscita) all’attuale 547esima posizione. Dopo i successi di Q e Altai, il macchinoso uccello del collettivo segna una parabola discendente?
I dati non fanno una piega, ma forse bisognerebbe chiedersi: una raccolta di racconti fatta per il 95% di materiali già editi e disponibili on-line gratuitamente, può avere come obiettivo quello di “volare alto” nelle prime settimane? Non sarà che gli autori e l’editore hanno voluto “fissare” un lavoro, metterlo a catalogo, in modo che quei racconti restino disponibili negli anni, per di più tenuti insieme da una cornice che li storicizza?
AaAM è il classico prodotto da “coda lunga”: la valutazione – anche solo commerciale – del suo successo non andrebbe fatta dopo un paio di mesi…
Stile Chiaberge, direi. E’ la sua tiritera del “non durano, vedrete che non durano”. I riferimenti alla tournée americana e al “macchinoso” uccello del collettivo sono nettare di bile a prova d’equivoco e Denominazione d’Origine Protetta :-) Mah, contento lui…
Per AaAM non ci siamo mai aspettati né abbiamo mai annunciato “sfracelli” best-selleristici, anzi, abbiamo dato per scontato che i risultati li avremmo visti solo sulla lunga durata, per quattro motivi:
1. siamo ben consapevoli che in Italia le raccolte di racconti vendono molto meno dei romanzi;
2. nelle intenzioni doveva essere un’operazione particolare, non “di sfondamento” ma di riflessione e consolidamento;
3. non ci sarebbe stato un mega-tour di presentazioni, per le difficoltà che qui su Giap abbiamo spiegato.
4. il prezzo di copertina (con nostro disappunto) è alto, e diverse persone ci scrivono che lo compreranno quando potranno.
Ciò detto, constato due cose:
– finora AaAM è il nostro libro con maggiore successo (lato sensu) di critica, quello su cui il consenso sembra essere più unanime;
– a occhio e croce, nelle prime settimane dovremmo aver venduto tra le 5000 e le 6000 copie, che è un risultato pienamente all’altezza di un romanzo solista, e ho l’impressione che il passaparola vero stia cominciando ora.
State certi che l’anatra continuerà a volare, incurante degli uccelli del malaugurio appollaiati sui rami secchi delle pagine culturali :-)
Io e WM2 abbiamo risposto in contemporanea e, come sovente accade, scritto le stesse cose. Inevitabile, dato che ce le siamo *dette* in diverse occasioni :-)
@WuMing2: ma infatti, visto che si parla di tutto tranne del contenuto del libro, mi sa che non l’hanno manco aperto e hanno solo commentato ad minchiam i dati di vendita
che poi, vista che quella del libro Flop è una rubrica settimanale, venerdì scorso era stato il turno del romanzo di Emanuele Filiberto
se questa vicinanza vi fa piacere lo lascio decidere a voi, sperando di non avervi sconvolti con la notizia che il nostro Principe non-Regnante ha scritto un romanzo (adesso almeno ha tutti i requisiti per diventare segretario del PD)
@IlFattoQuotidiano
don’t worry, ora che finalmente ho tempo (2 giorni) corro a comprarmelo e fotto Il Fatto Alzando le vendite ;)
Detto ciò, la possibilità di leggermi “10 anni di fila” è troppo ghiotta per perdermela…
L’altro ieri un giovane compagno mi ha detto: “siamo peggio del Bologna Social Enclave” – a parte che siamo MOLTO peggio – ma si può dire che “Bologna Social Enclave” è diventato l’unità di misura di ogni collettivo che si rispetti :)))
per me il difetto maggiore di AaAM è che non se ne può fare una maglietta
Il commento di “figuredisfondo” non si capisce senza leggere la prima risposta di questa relativamente antica intervista:
http://www.scarichiamoli.org/main.php?page=interviste/Wu_Ming
E l’aggiornamento di qualche anno dopo:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/giap10_VIIIa.htm#finizio
E pochi giorni fa ci ha spedito il pdf della maglietta di Altai. Presto metteremo on line pure quello…
Ma… in che senso non si può fare una maglietta di AaAM?
erm… non è che non si possa fare, ma dovrei recuperare tutti i testi dalle singole pagine…
Non si può pensare di fissare un criterio prescindendo da chi è l’autore e dal contenuto del libro. Non è un caso che il giornalista faccia un paragone sciocco e sbagliatissimo con Q e Altai, che sono un altro mondo rispetto ad AaAM.
@ figuredisfondo
ma prossimamente noi metteremo on line il file del libro scaricabile, come abbiamo fatto per tutte le altre opere :-) Tempo al tempo.
In attesa di ricevere il file completo e pulito, qui c’è una registrazione grezza e priva di inizio della presentazione romana:
http://gigathink.wordpress.com/2011/04/20/anatra-allarancia-meccanica-wuming/
La mia percezione dice che #AaAM è un successo. Sarà che ne ho letto recensioni entusiastiche anche da chi non mi aspettavo le facesse, sarà che ho amici che non riescono a leggere Altai e che si sono divorati #AaAM, sarà che io in primis mi son trovato a mio agio come non mai nella lettura di questi racconti, o sarà per qualche aneddoto dei giorni in cui uscì. Ricordo ad esempio che la giovine commessa della “bottega del libro”di Macerata quando lo comprai disse alla collega: “sta andando a ruba, ma chi è sti wu ming”. La collega: “non so come hai fatto a trovare sto lavoro”. Bella risposta. Quel giorno poi, anzi, prima, ero passato alla Feltrinelli sperando nello sconto di 5 euro che facevano sugli Einaudi: “esaurito, c’ho Altai sei vuoi” la risposta, piuttosto idiota. Di certo c’è che quando tiro fuori il libro dallo zaino tutti vi destano lo sguardo attratti dalla copertina sgargiante e dal titolo criptico. Sono solo sensazioni, i numeri forse “dicono” di più ma credo fortemente nell’effetto “coda lunga” sopracitato.
Ps: gli amici de “Il Fatto” , nello stesso numero – venerdi 15 aprile – in cui parlano di Furio Jesi e “cultura di destra” definiscono Badiou, tra le altre cose, “brutto, arrabbiato, inutilmente polemico e fumoso … ” Ma questo è un altro Topic, magari continuo sul post di “nessuna corsa ai topi”
Onoratissimo di avere gli stessi detrattori che ha Badiou :-)
ma il melenso giovane Holden che c’azzecca?
uno dei motivi per i quali i ragionamenti sull’editoria (anzi, come giustamente diceva Tommaso, sull’industria culturale nel suo complesso) sono assolutamente necessari è proprio questa pecetta di straforo del Fatto.
Si giudica un libro dalle vendite, dalle vendite delle prime settimane, senza neanche aprirlo, solo per sventolare per l’ennesima volta la propria bandiera di “adesso ve li solleviamo noi i veli! ve lo facciamo vedere noi cosa c’è dietro!”. Il Fatto non sta parlando di AaAM, sta ancora una volta mettendo in scena se stesso! Paradossalmente quella pecetta sarebbe il degno ultimo capitolo del volume…
Va detto che siamo noi i primi a parlare di vendite, classifiche, copie vendute. Ogni anno facciamo l’operazione Glasnost, dove rendiamo pubblici i rendiconti dei nostri libri. E’ un atteggiamento che consideriamo laico e salutare: scrivo un libro perché qualcuno lo legga, dunque perché far finta che il suo esito in libreria non m’interessi? Campo (anche) scrivendo libri, dunque perché far finta di vivere sulla Torre d’Avorio?
Quando esce un nostro romanzo, diamo conto ai lettori anche del suo andamento in classifica. E’ un dato come gli altri, ci interessa vedere come viene recepito, quando parte il passaparola, che rapporto c’è tra vendite e recensioni su Anobii, classifica e critica…
Ci sono però libri che non ci interessa analizzare da questo punto di vista, per il semplice fatto che non possono produrre effetti interessanti sul breve periodo. AaAM, NIE, Il sentiero degli dei, Giap, L’eroe imperfetto… Da questi testi ci aspettiamo altro. Può darsi allora che quelli del Fatto si siano insospettiti: com’è che Wu Ming a ‘sto giro non esulta per la classifica? Vuoi vedere che gli è andata male? E allora ecco l’articolo.
Può essere andata così, oppure in un altro modo. Poco importa.
Se in futuro faremo altre raccolte come AaAM, mi auguro davvero che il flop possa ripetersi.
for your reference, io dopo AaAm mi sono comprato su amazon Giap e toto’, peppino e la guerra psichica, anzi se ci sono altre raccolte di racconti fatemelo sapere.
io l’ho comprato assieme a cultura di destra su bol. visto il 25 per cento di sconto.
e comunque il fatto ha fatto plof
preso su amazon a 13 euro…i miei amici ne parlano con entusiasmo. e poi il Fatto non mi ha mai stimolato granché come giornale…
Chissà che le frecciate di Chiaberge non abbiano l’effetto-boomerang… :-)
Va bene, Chiaberge il commento se lo poteva evitare.
Però ciò non toglie che il Fatto sia un ottimo giornale, almeno per quel che riguarda la descrizione delle nefandezze della politica italiana. Nonostante sia un giornale con poco più di un anno di vita, ha già fatto vari scoop, senza contare che è l’unico quotidiano di rilievo senza padroni.
E’ pur vero che la pagina culturare non mi piace un granchè, ma pazienza.
E c’è da dire che le critiche positive che ho letto nel vostro post mi sembrano alquanto influenzate dalla “simpatia” nei confronti degli autori (a parte quella di ttl), quelli di Militant hanno l’onestà di dire che non sono obiettivi, gli altri no. Ma è solo una mia impressione.
Ma scusa, non ti sembra che lasci il tempo che trova l’arringa difensiva in soccorso del Fatto, come se qui qualcuno avesse accusato il giornale nel suo complesso di qualche nefandezza? E comunque criticare il Fatto non e’ tabu’, a meno che l’essere contro B. non sia un salvacondotto preventivo per qualunque scelta. Di demeriti informativi e vizietti ideologici di quel giornale potrei elencarne qualcuno pure io ma non stavamo parlando di questo, e nemmeno del riciclaggio di certi paraculi… Comunque, Chiaberge non e’ il Fatto, e a me il suo livoretto diverte, spero anzi che continui cosi’. Riguardo alle recensioni, immagino saprai che noi segnaliamo volentieri le stroncature dei nostri libri… E guarda in cima alla colonna destra. Comunque, pacem in terris, su… :-)
Ho letto oggi Benvenuti a sti frocioni 3..m’avete fatto ridere amaro, amarissimo perchè io quel mondo lo amo nonostante tutto (non dico De Gaudentiis, ma il mondo dello spettacolo in generale e del cinema in particolare) e non mi dispiacerebbe farne parte anche se finora non mi sono mai veramente impegnato a realizzare le mie aspirazioni (sto facendo una tesi in storia del cinema che procede a rilento, ho fatto teatro amatoriale ma niente di più, ho idee molto vaghe sul “dopo”).
[…] una prima ondata di recensioni, omaggi e spin-off, torniamo a passare in rassegna i giudizi sulla nostra uscita più recente, Anatra […]