Summer of ’81 – di Wu Ming 5 | #londonriots


Qualche riflessione per comprendere l’origine di quanto viviamo ora.
Le rivolte inglesi dell’estate del 1981 – Brixton, Toxteth, Handsworth, Leeds – colpirono l’immaginario di molti, qui da noi, specie tra coloro che seguivano il punk. A quei tempi, in quei circoli, la parola “rivolta” era assai più praticata della parola “rivoluzione”. Almeno per quanto riguardava le strade del Regno Unito, le parole si mutavano in fatti.
Il 10 aprile 1981, a Lambeth, un sobborgo di Londra prossimo a Brixton, la polizia fermò un giovane nero, Michael Bailey, mentre fuggiva inseguito da altri “ragazzi di colore”, come si diceva allora. Era stato accoltellato e sanguinava. Si formò una folla che incominciò a lamentare il ritardo nei soccorsi. Michael Bailey venne portato fino a un auto in Railton Road, mentre scoppiavano i primi disordini.
Si diffuse la voce che il ragazzo fosse stato lasciato morire in ospedale. (Un rumour, se versomile, può incitare alla battaglia). Ne originò una rivolta feroce, che si protrasse per due giorni.
Fu una specie di miccia ideale. Le rivolte nelle altre città furono accese da episodi simili. Il 3 luglio Toxteth, Liverpool. Il 9 luglio, Sheffield. Il 10, Handsworth, il sobborgo di Birmingham che aveva già conosciuto episodi simili un anno prima e che esploderà con ancora maggiore violenza nel 1985.
La mano che accese le micce fu quella del governo di Margaret Thatcher, allora all’inizio di una meticolosa, trionfale e ingloriosa guerra alle classi lavoratrici. Su uno scenario di chiara marginalizzazione e in un clima di razzismo montante, la comunità nera (ma non solo quella) si trovò a dover fronteggiare una serie di provvedimenti legislativi che vanno sotto il nome di Sus Laws, che consentivano alla polizia di fermare e perquisire chi volessero sulla base del semplice sospetto. La legge traeva origine dal Vagrancy Act del 1824, che recitava:

Every suspected person or reputed thief, frequenting any river, canal, or navigable stream, dock, or basin, or any quay, wharf, or warehouse near or adjoining thereto, or any street, highway, or avenue leading thereto, or any place of public resort, or any avenue leading thereto, or any street, or any highway or any place adjacent to a street or highway; with intent to commit an arrestable offence, shall be deemed a rogue and vagabond and would be guilty of an offence, and be liable to be imprisoned for up to three months.

Il provvedimento si applicava dunque nel caso che l’accusato presentasse le seguenti caratteristiche:
1. avere un’aria sospetta;
2. prepararsi verosimilmente a commettere un delitto.
Occorrevano due testimoni: di solito i due poliziotti di pattuglia che eseguivano il fermo.
Da subito la Sus law fu un’arma di repressione e controllo sociale, non solo nei confronti delle comunità indoccidentali impoverite dalla recessione, ma anche nei confronti di larghi settori di quello che allora veniva chiamato, da noi, “proletariato urbano giovanile”. Quindi punks, skinheads, hippies, freaks di ogni tipo, eccetera eccetera. Il tutto in un clima di tensione montante tra comunità, e in presenza di una martellante campagna razzista da parte del National Front. Enoch Powell, allora deputato unionista, nel marzo dello stesso anno aveva prefigurato una guerra civile etnica: non era la prima volta che lo faceva. I segnali sembravano, da un punto di vista conservatore, dargli ragione.
Da subito si ebbe la percezione che la Sus law era uno strumento di guerra di classe: ricordo una maglietta dell’epoca che elencava tutte le categorie di persone che potevano essere bersaglio del provvedimento. Era una T-shirt molto popolare, all’epoca, le categorie passibili di sospetto erano in pratica tutte, tranne i borghesi.
Le rivolte dell’estate ’81 e la Sus Law sono passate alla storia attraverso una colonna sonora che comprende Summer of ‘81 dei Violators, One Law for Them dei 4 skins, Let’s Break the law degli Anti-Nowhere league. C’è poi il primo lp degli Steel Pulse, Handsworth Revolution, che risale al 1978 ma che testimonia bene la commistione di strada tra punk e reggae tipica di quegli anni.
Lasciamo le parole finali a Maggie Thatcher. In quegli anni, la disoccupazione in aree come Brixton si attestava attorno al 13%, ma le minoranze etniche la subivano in ragione del 25.4%. Tra i giovani neri arrivava al 55% . Rifiutando di investire nel risanamento dei nuclei urbani problematici, la Thatcher sostenne che “Il denaro non può comprare la fiducia e l’armonia razziale”. Ted Knight, allora a capo del Lambeth Borough Council, sostenne che le forze di polizia si erano comportate come una truppa d’occupazione e che questo aveva provocato le rivolte. “What absolute nonsense and what an appalling remark” rispose la Thatcher “… No one should condone violence. No one should condone the events … They were criminal, criminal.”
Mi accorgo che quanto scritto assomma a una specie di apologo. Il tempo del capitale non passa mai davvero, siamo ormai lontani da quegli anni ma non da quelle strategie repressive, e siamo ancora immersi nella stessa ideologia, nella stessa concezione del potere, nella stessa merda.

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Gli altri anni Ottanta: appunti da un cono d’ombra – di WM5 (2010)

Oi! The Cockney Kids Are Innocent! – di WM1 e WM5 (2002)

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118 commenti su “Summer of ’81 – di Wu Ming 5 | #londonriots

  1. Quando l’Evento riemerge, WM colpisce. Grazie come sempre per l’approfondimento su questo tema.

    “the final stage of capitalism is arson” – è la frase del giornalista americano Joe Conason, quando negli anni 70 il Bronx bruciava per l’epidemia di incendi dolosi e il taglio netto dei fondi ai vigili del fuoco.

    Io credo che le fiamme siano una sorta di *blob antropologico*, che raccoglie tutta la merda stratificata negli anni dalla politica economica di un paese ed esplode in un mix indefinibile di violenza, fuoco, sciacallaggio, follia. Le analisi di Zizek sulle balineu parigine e sulla new orleans post-katrina sono esemplari (v. Considerazioni politicamente scorrette sulla violenza metropolitana).

    Da qui, come avete fatto notare, il rischio di una strumentalizzazione politico-mediatica basata sulla solita “caccia alle streghe” o meglio, alla leggittimizzazione di misure restrittive verso una categoria di persone, prendendo come prova inequivocabile gli episodi di violenza e sciacallaggio. Zizek chiama queste tattica *menzogna mascherata da verità*: anche se quelle persone fossero davvero dei criminali-violenti-stupratori, i motivi per cui il potere politico li attacca partono da presupposti falsi (in lacaniano: anche se tua moglie ti tradisce davvero, il motivo della tua gelosia rimane lo stesso patologico).

    Il problema, come è accaduto nell’81 ma su scala molto più grande negli anni 70 nel Bronx, è che si rischia (volutamente) di decontestualizzare il fenomeno e spacciare il fuoco come una sorta di combustione spontanea (perpetrata da dei folli che saccheggiano e bruciano i loro stessi quartieri), cui è leggittimo prendere misure drastiche di difesa. Come al solito: si cura il sintomo, non la causa. Si guarda il dito, non la luna.

    Con questa idea di mondo “a camere stagne”, nel Bronx fu varato il Piano Shrinkage (da shrink: restringimento) e grazie al taglio dei serv.sociali, alla metà degli anni ’70 sovraffollamento diminuì nel South Bronx. In quel magico 1981, secondo le stime, nel North Bronx il sovraffollamento era duplicato. Il buon vecchio principio dei vasi comunicanti.

  2. Intanto c’è il primo morto…

  3. Il quotidiano argentino Pagina/12 ha commentato con una vignetta in fondo alla prima pagina: “Ieri a Londra sulla tomba di Karl Marx qualcuno ha messo un disco dei Clash”….
    http://www.pagina12.com.ar/diario/principal/index.html

  4. […] Angeles che inaugurarono gli anni 90. E WuMing5 giustamente ricorda, tornando in UK, gli scontri a Brixton nel 1981 e poi nel 1985. E se volete attaccare altre tessere al domino, possiamo andare indietro ancora e […]

  5. @alberto prunetti anche a me sono saltati agli occhi alcuni titoli dei Clash a cominciare da The Guns of Brixton per arrivare a White Man in Hammersmith Palace…

  6. Mah, io tra l’81 ed adesso non ci vedo nessuna similitudine. Forse giusto la miccia che ha innescato il tutto…

  7. @papero
    ci sono somiglianze e differenze, come sempre. Anche in UK in queste ore molti tentano un confronto critico tra le due sommosse. L’editoriale del Guardian di ieri era costruito sul parallelismo. C’era scritto che non aver capito la sommossa di allora ha contribuito a incancrenire le condizioni da cui nasce quella di oggi, che a sua volta non sarà capita. Ieri è ieri, oggi è oggi, ma l’oggi è figlio degli errori di ieri. Ed echi e coincidenze non mancano. Stessa miccia, cone hai detto anche tu. Rapida estensione al resto del paese. Ci sono i Tories al governo, come allora, con politiche di tagli draconiani che aumentano l’esclusione, come allora. E le contraddizioni di classe e razziali sono un’evoluzione trentennale di quelle di allora.

  8. Potrebbe essere vero se in strada ci fossero rimasti quelli della prima notte a Tottenham. Mi sembra abbastanza evidente che gli scontri delle due ultime notti londinesi siano abbastanza slegati dalla prima notte. Io nelle ultime due notti non ci vedo nulla di politico o sociale. Qui ci sono dei 14-15enni in strada. Poi sbagliero’…

  9. @ Papero

    non c’è mai stato un riot urbano dove i rivoltosi siano rimasti solo gli stessi delle prime ore. Ogni sommossa di questo genere ha un effetto contagioso, si estende, scatta l’emulazione, il “liberi tutti”, si aggregano cani e porci. E’ nella natura stessa di questi eventi. Come è nella loro natura essere “impolitici” – o meglio, “prepolitici” -, ma sul fatto che siano *sociali* non credo possano esserci dubbi.
    Le accuse che leggo in queste ore (“Questi non si ribellano contro la società o contro il potere, questi vogliono solo rubare PlayStation, smartphone, computer e schermi al plasma!”) sono le stesse che si sono fatte dopo *qualunque* riot, a partire da quello di Watts nel 1965: sono solo ragazzini che vogliono saccheggiare. Chiarisco che non parlo di te, ma di cose che sto leggendo su Twitter.
    Secondo me questi discorsi, oltre a ripetere vecchi errori d’interpretazione, sono intrinsecamente classisti e razzisti: il qualunquista medio critica quegli esclusi perché – dopo intere vite a subire il bombardamento pubblicitario, a sentirsi dire che chi non possiede il tale gadget è una merda – vogliono prendersi le stesse merci che lui stesso possiede ben volentieri. Il qualunquista medio si permette di disquisire sulla “mancanza di valori” dei rioters, e disprezza in quanto “consumista” gente che il più delle volte non ha un cazzo, vive in quartieri degradatissimi, fa lavori di merda oppure vegeta o spaccia o dà via il culo. Implicitamente, e a volte anche esplicitamente, dice che quelli non meritano le merci, mentre lui sì.
    I situazionisti di cazzate ne scrissero, ma dopo la rivolta di Watts scrissero un testo magistrale, intitolato “Ascesa e caduta della società spettacolare-mercantile”, dove difendevano i rivoltosi proprio dalle stesse accuse che leggo su Twitter in questo frangente, e ridicolizzavano gli editorialisti e gli ipocriti che le facevano.

  10. London: a map of deprivation index and riots
    http://bit.ly/qEBWYd

  11. Sì, grazie per il pro-memoria e le riflessioni, tutte molto utili. E vive.

  12. Nel bel mezzo del progresso
    Di diversi colori
    Fra i quali il verde, il nero, il moderno,
    Tifiamo rivolta!
    Tifiamo rivolta!
    Tifiamo rivolta!

    Certo i Clash, ma anche i cccp avevano qualcosa da dire…

  13. E per chi non ha voglia solo di canzoni, un po’ di analisi supplementare

    http://tarnac9.noblogs.org/gallery/5188/insurrection_english.pdf

  14. Versione in italiano per chi dovesse fare esercizio di lingua…

    http://www.livingeuropa.org/insurrezionecheviene.pdf

  15. Non voglio azzardare alcuna analisi approfondita, non sarei in grado, ma soltanto riportare qualche pensiero sparso, sollecitato dal post di WM5 e dagli ultimi interventi.
    La definizione data dal mio socio WM1 mi sembra calzante: il riot riesce a essere “prepolitico” e nondimeno “sociale”. L’impressione che ho avuto nei miei viaggi nel Regno Unito da metà anni Novanta ad oggi è che il proletariato urbano britannico sia più impoverito di quello, ad esempio, italiano, che vive ancora (per poco) nel mito della borghesizzazione possibile. L’impressione è che l’atavico classismo che contraddistingue culturalmente quel paese si sommi alle problematiche legate alle ondate migratorie da ogni parte del mondo verso le grandi e medie città inglesi. A questo aggiungerei il fenomeno di “desocializzazione” che in Gran Bretagna è in corso fin dai tempi dei governi Thatcher. La Lady di ferro teorizzò per prima l’inesistenza della società, in favore di una visione della vita fondata esclusivamente sugli individui e le famiglie, cioè sull’individualismo proprietario, a discapito di tutto ciò che fosse “common”. Da questo punto di vista forse gli immigrati di prima, seconda o terza generazione hanno ancora un parziale senso della comunità, magari vissuto in maniera contraddittoria (come ci mostra lo stesso cinema inglese), che di volta in volta può diventare un laccio vincolante oppure un sistema di difesa sociale e reidentificazione contro l’aggressività e l’esclusione circostante, magari a scapito della stessa coscienza di classe.
    Detto questo, la differenza tra i riots inglesi di trent’anni fa e quelli di oggi mi paiono appunto i trent’anni intercorsi, ovvero tre decenni di progressivo avanzamento delle tendenze suddette e di inasprimento delle dinamiche capitalistiche. Basta pensare a quello che è diventato il Partito Laburista nel frattempo (fenomeno che ha un certo quale equivalente anche in Italia, del resto). In un certo senso si potrebbe dire che oggi stiamo pagando le ultime, estreme, conseguenze della sconfitta che in Occidente si determinò tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta. Qualcosa allora andò perduto per sempre, l’Occidente imboccò una via senza ritorno. Un aneddoto valga su tutto. Negli anni Ottanta, durante il braccio di ferro tra la Thatcher e i minatori inglesi che scioperavano a oltranza, dalle fabbriche italiane vennero lanciate collette tra gli operai per mandare soldi alle famiglie degli scioperanti nel Regno Unito. Una cosa del genere oggi non si riesce nemmeno a immaginare… Ricordo che mio padre partecipò a quelle collette e come suo solito aggiunse anche una piccola forma di solidarietà personale: scrisse sulla fiancata del carrello elevatore che guidava in fabbrica “Dio salvi i minatori d’Inghilterra”. Dopo la loro resa, che segnò davvero, per quel paese, la fine di un’epoca, corresse lo slogan in un amarissimo e consapevolissimo “Dio salvi quella puttana della Thatcher”.

  16. Sul riot di Handsworth e le sue cause storiche c’é un notevole documentario dei Black Audio Film Collective (Handsworth Songs) con in colonna sonora la mitica (in)versione di Mark Stewart dell’inno Anglicano “Jerusalem” (martoriato dal remix dub-industriale).
    Altro film importantissimo (ed anticipatore, 1980) é “Babylon” dell’Italo-Inglese Franco Rosso, sound systems reggae e razzismo all’alba Thatcheriana.

    Qui due articoli che troviamo molto interessanti riguardo ai riots di questi giorni:

    Tariq Ali: http://www.lrb.co.uk/blog/2011/08/09/tariq-ali/why-here-why-now/ (articolo in Inglese)

    Federico Campagna: http://th-rough.eu/writers/campagna-eng/london-jacquerie (articolo in Italiano)

    Da una dichiarazione del BAFC:

    Our aim is to bring alive those nervous reflexes, to capture and reconstitute the sensibilities of those who were for over 30 years voiceless, or those who were given a voice when the BBC or other television companies said, “you may now speak, but don’t forget our narrator holds in his left hand a sword and in the right hand the winning card”

  17. @WM4: “Negli anni Ottanta, durante il braccio di ferro tra la Thatcher e i minatori inglesi che scioperavano a oltranza, dalle fabbriche italiane vennero lanciate collette tra gli operai per mandare soldi alle famiglie degli scioperanti nel Regno Unito. Una cosa del genere oggi non si riesce nemmeno a immaginare… ” già, infatti, si raccoglievano soldi pure per il Nicaragua e per altri, se é per quello. Oggi, per esempio, non si comprende nemmeno (?) il silenzio della Sinistra italiana (di ciò che ne rimane) sull’America Latina, dove qualcosa di interessante e di buono c’é. Comprese le ultime manifestazioni degli studenti cileni, politicamente più chiare di ciò che vedo a Londra.
    @CLF: l’articolo di Federico Campana sulla London Jacquerie é interessante, ci parla di questo “proletariato” o “masse impoverite” che non lotta per i beni necessari bensì per quelli superflui. Anche se ci sforzeremo di definirli necessari in virtù di politiche economiche decise ad altri livelli. :D
    @WM1: il mio commento sarà marxisteggiante. Non me ne dolgo più di tanto, visto il livello di antico odio di classe evidenziato dalla borghesia che dobbiamo sorbirci ogni giorno ad opera dei media che, ex-cathedra, classificano i componenti della società a seconda delle proprie (luride) convenienze di dominio. Quando qualcuno mette in dubbio questo dominio, allora é un criminale e basta ! (Cameron docet).
    1-Non faccio nessuna concessione all’ideologia dominante convogliata dai media, secondo cui coloro che si rivoltano sono, appunto, dei delinquenti. Se l’obiettivo é quello di oscurare la morte di un 29enne che non ha sparato, allora ce l’hanno fatta. Altrimenti uscirebbe un’immagine diversa della polizia inglese che non quella del bobby pacioso e disponibile coi turisti.
    2-Aggiungo che non credo all’esistenza politica delle “moltitudini”. Può essere un mio limite, non c’é dubbio. Le vedo come il risultato di un’analisi idealistica, corredata da un gioco linguistico di sostituzione delle primigenie categorie marxiste. Sulle moltitudini, inoltre, sento l’ipoteca del maoismo, nel senso più populistico del termine, laddove si afferma la necessità di alleanza di tutte le classi sociali contro la (famosa) borghesia imperialista, unica responsabile di tutto. A corollario di questa visione, si può aggiungere la “scoperta” della proletarizzazione del lavoro cognitivo – che pure c’é – ma che rischia di diventare più importante di chi come proletario, e a livelli bassi, già ci vive. Si parla dei problemi dei ricercatori, ecc. ecc., degli studenti come futuri disoccupati, ma non si parla mai, se non in termini cronachistici, di chi muore nei cantieri, di che vita faccia, di chi sia, che aspirazioni e sofferenze esprima. Non é forse questa assenza di interesse, sintomo di razzismo/classismo? Peraltro dovremmo anche parlare seriamente di questo lavoro cognitivo e dei ceti intellettuali a cominciare dalla posizione/ruolo sociale che ricoprono.
    3-Spero che coloro che si ribellano non pensino solo ad avere una “fetta della torta” per sè. Cent’anni fa si pensava che un’altra società fosse possibile. Siamo ritornati a prima della coscienza socialista, ad una sorta di luddismo di massa indiscriminato, piuttosto che ad una lotta per dei beni obiettivamente superflui ma ormai diventati necessari descritta dall’articolo di Campana.
    4-Faccio 2 ipotesi, fra loro in opposizione, un pò provocatorie sul filo rosso che lega quest’ultima rivolta a quelle degli ultimi lustri, passando per le banlieu parigine, e per il movimento degli studenti inglesi dell’inverno scorso. Teatro, una società post-moderna, consumistica, post-bellica dello sviluppo irripetibile, dove sembra che sia impossibile pensare ad una modificazione dei rapporti sociali, il tutto cassato dal tradimento degli intellettuali (non da voi, troppo giovani per avere responsabilità di questo tipo) e dall’integrazione della classe lavoratrice.
    Vediamo quale delle 2 ipotesi può essere più verosimile o, forse, se la verosimiglianza stia in una 3^ ipotesi che magari contenga qualche “verità”, anche parziale, delle altre 2:
    a-ciò che vediamo da tempo in Occidente, in queste improvvise fiammate di protesta, altro non é se non la manifestazione di una guerra civile interna alla borghesia, portata avanti da “moltitudini” che, accantonata ogni ipotesi di società “altra”, vogliono prendere il posto dei borghesi di oggi.
    b- siamo di fronte ad una classica, genuina, manifestazione della lotta di classe tra proletari e borghesi che, prima o poi, troverà (dovrà trovare, anche col nostro modesto aiuto) una sua espressione politica.

  18. @ alter,
    quello che scrivi mi trova d’accordo nelle linee generali. Mi verrebbero solo piccoli spostamenti di prospettiva, non so se dovuti al mio astigmatismo (che a volte mi fa anche sbattere sugli stipiti delle porte, e questa potrebbe essere una di quelle volte…).
    Mi sembra questo: 100 anni fa i proletari e i borghesi erano due gruppi sociali, due classi, due mondi separati e molto ben individuabili, principalmente per il loro censo e per il fatto di dover lavorare (gli uni) e di poter contare sul lavoro altrui (gli altri). Al di là di esistenze particolari, la nascita determinava la vita all’interno di uno di questi due mondi. Possibilità di uscirne, non ce n’erano poi molte. Quando si discute (giustamente) sulla sproporzionata quota di denaro che nostro malgrado versiamo ai parlamentari, dimentichiamo che all’inizio del Novecento i parlamentari non ricevevano nulla e quindi erano in gran maggioranza dei ricchi borghesi a sedere sugli scranni di camera e senato.
    I proletari lavoravano, i borghesi non facevano nulla, se non studiare all’università materie “utili”. Piccolo, misero, mondo antico, quello dei borghesi. Operosi, sì, ma solo a muovere le pale del loro mulino, solo a “muovere” denaro.
    Vediamo solo ora, noi che siamo i figli dei figli dei figli… di quelle persone, i bei risultati di tutto quel movimento.
    Con l’ampliamento della scolarizzazione, si sono ampliate le possibilità di uscire da una condizione antica di sudditanza. I due mondi non sono così totalmente impermeabili. Mi pare quindi che non si possa, oggi, leggere le categorie “proletari” e “borghesi” allo stesso modo. Per questo mi sembra che sia legittimo parlare della proletarizzazione del lavoro cognitivo, e sono convinta che solo da questo “aggancio”, solo da questa reciproca comprensione, possa venire fuori qualcosa di positivo, sia cioè possibile ricominciare a pensare una società diversa.
    Torno alla mia esperienza. Sintetizzo. Gruppo editoriale che riunisce casa editrice, riviste culturali, tipografia, magazzino, vendite. Un discreto numero di lavoratori, mansioni diverse, formazioni diverse, funzioni diverse. Gestione “familiare”, niente sindacato. Crisi del settore. Prime “mosse” della dirigenza. Necessità di mettersi insieme e lottare per salvare il posto di lavoro. Dopo l’entusiasmo iniziale, sono cominciati i problemi. Abbiamo dedicato ore a parlare, a discutere, ma alla fine, purtroppo, ci siamo arresi non alla chiusura della dirigenza (che c’è stata, non potevamo aspettarci nulla di diverso), ma a una frattura, una divisione, che – mi dispiace molto ammetterlo – veniva anche dagli operai. “Gli intellettuali ci hanno solo rovinato, a noi”, mi ha detto un giorno un mio collega, operaio del magazzino…
    Questo è un nodo fondamentale, secondo me, su cui dobbiamo intenderci. Senza voler mettere in piazza le “moltitudini”, è vero, è reale, è un fatto, che ora tutte le lotte sono una lotta sola. Il ricercatore precario è l’operaio di una catena di montaggio; l’edile arrampicato sui ponteggi senza protezioni è il redattore di una casa editrice. Combattiamo la stessa lotta. E scrivendolo posso assicurare che la mia non è la solidarietà della laureata che dalla spiaggia di Capalbio si asciuga la lacrimuccia pensando ai poveri raccoglitori di pomodori in Salento. Sono le parole di chi anche ad agosto deve lavorare, perché c’è il mutuo, una casa da rimettere a posto…
    E’ la stessa, identica lotta.

  19. E invece oggi Sofri liquida l’argomento con un editoriale dal titolo La violenza del niente…

  20. Un ottimo articolo, che consiglio vivamente, e’ il seguente:

    http://www.guardian.co.uk/uk/2011/aug/10/uk-riots-liberal-right-parent

    Non fatevi distrarre dal titolo; contiene quello ma non solo. E’ un ottima analisi di quello che e’ successo.

    Tra l’altro, secondo me, uno dei motivi per cui questi eventi sono diventati looting (saccheggi) e non veri e propri riots, e’ il fatto che la polizia ha avuto un approccio iniziale molto soft (criticato da molti, in primis dai residenti, che in molti casi si sono autoorganizzati per difendersi (con esiti drammatici a Birgmingham, dove 3 persone che volevano difendere la loro zona sono state uccise (http://www.guardian.co.uk/uk/2011/aug/10/england-riots-police-birmingham-dead))).
    Dicevo la polizia ha lasciato fare, abbastanza, e la cosa, partita come una protesta per l’uccisione del tizio a Tottenham, si e’ trasformata in saccheggio selvaggio e incendi.

    Se, al contrario, la polizia fosse andata giu’ pesa dall’inizio, ci sarebbero state tutte le ragioni per “politicizzare” il confronto.

    L’approccio “soft” in parte e’ stato cercato (“The way we police in Britain is not through use of water cannon. The way we police in Britain is through consent of communities.”, Theresa May, Home Secretary and Minister for Women and Equalities), in parte forse deriva anche dal fatto che semplicemente non avevano le forze per coprire un territorio cosi’ immenso, ed erano sempre in minoranza su tutti i fronti.

  21. Un paio di differenze tra i riot degli 80/90 e quelli di questi giorni: il fatto che il looting allora fu limitato e contenuto ad alcuni negozi nell’aree dove la rivolta stava accadendo. Oggi invece, con l’uso della tecnologia, il raggio di azione e anche la tipologia dei negozi attaccati si sono fatti rispettivamente piu’ ampi e mirati, segno, se vogliamo, di una certa “organizzazione”. Poi la reazione direi indignata di moltissimi e lo schierarsi di larga parte della popolazione dalla parte della polizia. Reazione “de panza”, voluta e stimolata dall’approcio delle forze dell’ordine con il pieno supporto dei media e della politica.
    Non un intervista, se non qualche grido fuori campo o da andarsi a cercare in rete, in favore dei rioters. Addirittura ragazzi giovanissimi che avvallano l’uso di proiettili di gomma e cannoni ad acqua per fermare la violenza. Ecco. ‘The times are a changin’ “

  22. @danae: se sei d’accordo sulle linee generali, meglio. Credo anche di aver colto nel segno, nel senso che hai afferrato il concetto, se rispondi
    “posso assicurare che la mia non è la solidarietà della laureata che dalla spiaggia di Capalbio si asciuga la lacrimuccia pensando ai poveri raccoglitori di pomodori in Salento. Sono le parole di chi anche ad agosto deve lavorare, perché c’è il mutuo, una casa da rimettere a posto… “
    E ti credo.
    Prima e dopo, comunque, affermi: “Combattiamo la stessa lotta” e “E’ la stessa, identica lotta. “.
    Forse si, forse, no. Magari hai ragione tu, ma lasciami dubitare. Per scrupolo. Per principio. Per prima cosa, non riesco a sentirmi “sulla stessa barca “, nel senso che non é vero che ragioni di disagio sociale in una società di tipo capitalistico avanzato abbiano tutte per forza la stessa origine, la stessa soluzione, lo stesso segno, la stessa valenza. Pure Marx diceva che, in fin dei conti, anche i borghesi sono vittime del sistema di cui essi stessi sono gli agenti attivi e conseguenti, impossibilitati a realizzarsi pienamente come esseri umani perché intrappolati nel loro ruolo, ecc. ma non affidava ad essi, il ruolo di agenti del cambiamento, se non in senso negativo, cioé come causa dell’incazzatura operaia. E’ probabile che tu ed io, assime a tanti altri, possiamo essere i più conseguenti alleati, di un ipotetico fronte di lotta in cui ci mettiamo dentro pure i raccoglitori del Salento ma mi é difficile immaginare che gli interessi in gioco siano proprio identici. Magari tu da una parte ed io dall’altra possiamo spendere, senza abbandonare i rapporti sociali di questa società…. (mi spiace, non esiste altro termine se non quello di capitalista), i nostri titoli di studio e le nostre professionalità che in una società – appunto – gerarchica come quella capitalista sono fattori di selezione di una classe dirigente. L’operaio in cima alla ciminiera, o il raccoglitore del Salento, non riescono a spendere un cavolo. Sono rotelline intercambiabili di un motore lanciato a folle velocità lungo un percorso di riproduzione potenzialmente infinita, ma concretamente finita quando non ci saranno più condizioni ambientali ed umane sfruttabili. Loro sono rotelline. Noi, invece, non siamo e non saremo mai in plancia di comando, siamo quelli che controllano che le rotelline girino bene. Quindi abbiamo ancora qualcosa da perdere mentre le rotelline no, hanno già perso tutto. Lasciami quindi dubitare della cosa.

    Più oltre dici:
    “100 anni fa i proletari e i borghesi erano due gruppi sociali, due classi, due mondi separati e molto ben individuabili, principalmente per il loro censo e per il fatto di dover lavorare (gli uni) e di poter contare sul lavoro altrui (gli altri). “
    Certo, comunque, esistevano anche le mezze classi, piccola e media borghesia, sottoproletariato. Il dibattito, infatti, é antico e continua solo perché non ancora risolto nella prassi. Inoltre, pure oggi ci sono coloro che devono lavorare e coloro che devono sfruttare il lavoro altrui. Anzi, direi che con l’estensione del modo di produzione capitalistico a scala globale la cosa si sia approfondita. Possiamo anche cambiare nome alle cose ma la sostanza non cambia: ai 2 poli opposti della società troviamo da una parte chi possiede i mezzi di produzione (multinazionali, Stati, ecc.) dall’altra chi altro non possiede che la propria forza lavoro. In mezzo una miriade di stratificazioni, la maggior parte tendenti verso il basso.
    Ci sarebbe poi da aggiungere il generale imborghesimento della società ad opera del nuovo corso capitalista dela secondo dopoguerra, quello che nei consumi delle cose superflue ha fondato la propria sopravvivenza e la propria salute. Quando si parla di genocidio culturale o di estensione del modo di produzione capitalista, si parla di globalizzazione, una cosa già presente nel Manifesto del Partito Comunista, con un nome diverso.

    Dici:
    “I proletari lavoravano, i borghesi non facevano nulla, se non studiare all’università materie “utili”.”
    Qui sono in disaccordo. I borghesi facevano eccome. Organizzavano un mondo, soprattutto in quella parte di che si occupava di produzione e commercio. Addirittura facevano gli esploratori, figurati, scoprivano quel mondo che poi doveva venire colonizzato e sfruttato dalla propria classe. Oggidì si presenta anche per la borghesia il problema di un ricambio adeguato, vista la decadenza che l’ha colpita.

    Ancora:
    “Con l’ampliamento della scolarizzazione, si sono ampliate le possibilità di uscire da una condizione antica di sudditanza. I due mondi non sono così totalmente impermeabili. Mi pare quindi che non si possa, oggi, leggere le categorie “proletari” e “borghesi” allo stesso modo. Per questo mi sembra che sia legittimo parlare della proletarizzazione del lavoro cognitivo, e sono convinta che solo da questo “aggancio”, solo da questa reciproca comprensione, possa venire fuori qualcosa di positivo, sia cioè possibile ricominciare a pensare una società diversa. “
    Le statistiche dicono che solo il 7% dei laureati proviene da famiglie operaie o assimilate. Questo nonostante oltre il 60 % delle risorse delle tasse provenga da quelle classi. Se non possiamo parlare di una polarizzazione sociale ai cui estremi ci siano quelle 2 categorie, per favore, trovami tu un’alternativa linguistica. Sulle reciproche comprensioni ti posso dire che, in linea di principio provo simpatia per il socialismo utopistico, per la filantropia e per l’ecumenismo ma politicamente non sono mai serviti a nulla se non a fornire il solito alibi al sistema da una parte e alle “anime belle” dall’altra. Guarda, sul lavoro cognitivo e sulla generale tendenza alla proletarizzazione di moltissime professioni o lavori, c’è una analisi di parecchi anni fa, ma sempre attuale che ti fa capire come, in fin dei conti, ri-scopriamo sempre le stesse cose: Lavoro e capitale monopolistico, La degradazione del lavoro nel XX secolo di Harry Braverman.

    Poi, scoprendo la bruttura del mondo operaio:
    “Abbiamo dedicato ore a parlare, a discutere, ma alla fine, purtroppo, ci siamo arresi non alla chiusura della dirigenza (che c’è stata, non potevamo aspettarci nulla di diverso), ma a una frattura, una divisione, che – mi dispiace molto ammetterlo – veniva anche dagli operai. “Gli intellettuali ci hanno solo rovinato, a noi”, mi ha detto un giorno un mio collega, operaio del magazzino… “
    Dipende di che intellettuali parliamo, ovviamente. Ma nella maggior parte dei casi gli intellettuali italiani (e non parlo dell’ingegnere o del medico…) hanno tradito e dobbiamo pure chiamare intellettuale uno come Veneziani! Dimmi il nome di un intellettuale uno che oggi in Italia attacca il sistema.
    Ma la classe operaia é brutta, danae, non a caso vota Lega. Le schifezze del capitalismo si scaricano in basso, mica ai vertici! Ma peggio sono stati i vari D’Alema e c. che un giorno hanno detto “ok, abbiamo sbagliato tutto, indietro tutta…”, tenendosi il posto istituzionale che si sono guadagnati a nome di quegli operai, tradendo in cambio di ciò che sappiamo.

  23. Permalink della vignetta argentina citata sopra (non è più in home): http://miguelrep.blogspot.com/2011/08/marx-en-londres.html

    Qualche spunto:

    – ci sono parallelismi (con le debite differenze o proporzioni) con la fenomenologia ultras? A me la narrazione del *rumour* che si diffonde ha ricordato il «derby del bambino morto» (cfr. il libro di Valerio Marchi), con successivi riots cittadini e disordini. (Per non parlare dei riots post-morte di Raciti.) Con questo non intendo semplificare, solo far notare un ulteriore “filo nella matassa”…

    – la polizia in UK: da un lato è “temibile e odiata” (un articolo letto in questi giorni ricordava le più di mille “death in custody” dagli anni Novanta ad oggi; per non parlare dell’arbitrarietà – e spesso dell’arroganza – delle perquisizioni “stop and search” effettuate per strada); dall’altro lato, l’approccio «soft» nella gestione dell’ordine pubblico allo stadio aveva dato ottimi risultati, impensabili in Italia — forse è stato tentato nella gestione dei riots (non ho seguito bene i primi giorni), e non ha sortito alcun effetto;

    – un intervistato, sul Guardian mi pare, alla domanda «Perché questi giovani saccheggiano?» rispondeva «Because they can». Tenendo per buone le analisi fin qui fatte sulle cause soggiacenti (disoccupazione, ecc ecc – secondo me WM1 ha centrato e descritto bene la questione) il punto è che questi ragazzi – a volte parliamo di quindicenni – riescono a coordinarsi in modo MOLTO rapido con le nuove tecnologie, mettendo in campo forze numeriche soverchianti (rispetto ai poliziotti) in veri e propri “raid toccata e fuga”. Il termine che usano gli inglesi è *loot*, saccheggio. Secondo me non è irrilevante che qui c’è una generazione molto più brava e svelta – nell’uso di alcuni mezzi – della precedente (quella dei poliziotti) e dell’apparato statale. A quel punto il vincolo a fermarsi diventa morale («Non ti saccheggio/depredo il negozio perché non è giusto farlo, non perché non *riesco* a farlo»)…una sorta di hacking nella “vita vera”, in un certo senso. [Ovviamente questa parte dell’analisi non tiene conto di altre componenti demografiche presenti nei riots — dubito che i cinquantenni bianchi disoccupati con le spranghe si diano appuntamento con tweets dai blackberries]

    @ danae / (alter):
    Quando parli di maggiore permeabilità/mobilità fra classi sociali, o fra borghesia e proletariato (dal cell non riesco a vedere le tue parole esatte mentre commento), ti stai riferendo alla realtà *italiana* (ammesso e non concesso che tale mobilità ci sia). La Gran Bretagna è uno dei Paesi con meno mobilità sociale – e in cui si sente maggiormente la divisione in classi – AL MONDO.

  24. Abbiamo raccolto in uno storify i nostri tweet (in inglese) più significativi sui #londonriots:
    http://www.wumingfoundation.com/english/wumingblog/?p=1843

  25. Il parallelismo fra i riots di questi giorni e quelli dei primi ’80 permette di ricordare una volta di più che la Gran Bretagna è la patria di Margareth Thatcher, una delle più “brillanti” e determinate innovatrici in materia di macelleria sociale.

    L’individualismo proprietario della Thatcher aveva degli ascendenti filosofici ben precisi. Guardando i progetti di smantellamento del welfare e di “Big Society”, in filigrana si scorgono i sofismi di von Hayek e Buchanan.

    In fondo, i riots sono la conseguenza logica – oserei dire il *rovesciamento dialettico* – di questa insistenza sull’individuo e sull’inesistenza della società. Nelle strade di Londra, Birmingham, Manchester… sono esattamene delle “individualità coordinate” ad esprimersi, in una specie di caricatura beffarda del meccanismo impersonale del mercato capitalistico.

    Il consumismo “auto-assolto” dei benestanti si rovescia nel consumismo “inassolvibile” dei rivoltosi, come sottolinea WM1. La violenza oggettiva del regime proprietario genera la violenza soggettiva degli espropriati di tutto (per citare Zizek).

  26. velocemente (purtroppo…)

    @Taliesin,
    sì, certamente! e mi raccontano persone che vivono negli USA che la situazione della Gran Bretagna è stata “portata” lì esattamente uguale. E ci sono prof. universitari che sono molto meno ricchi dei loro studenti.

    @alter,
    evidentemente, nella mia sintesi ho tagliato molto con l’accetta.
    Non riesco ora ad articolare meglio e più a lungo le mie riflessioni (che, insomma, davvero potrebbero essere solo astigmatismi di piena estate). Nella descrizione del passato penso che non ci possano essere molti dubbi. Le cose sono sempre andate in un certo modo… Va bene. Ma bisogna procedere, nel ragionamento e nella prassi. E sono convinta che ora, in questo tempo che ci tocca vivere, estremizzare la polarizzazione proletari – borghesi non sia utile, non serva a niente.

  27. Link belli che avete suggerito via Twitter (li ripubblico qui ad uso e consumo degli altri, ma anche perché altrimenti, nel giro di pochi giorni me li perdo):

    Zoe Williams, «The UK riots: The psychology of looting», in The Guardian, 9 agosto 2011 http://bit.ly/pxIqRl

    Situationist International, «The decline and fall of the spectacle-commodity economy (The 1965 Watts Riot)» http://www.bopsecrets.org/SI/10.Watts.htm

    Ponticelli, Voth, «Austerity and anarchy: Budget cuts and social unrest in Europe, 1919-2009», in International Macroeconomics http://www.voxeu.org/sites/default/files/file/DP8513.pdf

    Tutti in inglese.

  28. Non sono d’accordo con Danae. Proprio quello che ci manca oggi è categorizzare, tornare ad una analisi del sociale attraverso delle categorie ben precise (e stabili, non di quelle che cambiano ogni cinque anni come gli ultimi scampoli del pensiero debole ci ha insegnato).
    Dobbiamo tornare guardare la società attraverso una serie di categorie mentali che ci possono subito far comprendere la situazione.
    “..estremizzare la polarizzazione proletari – borghesi non sia utile, non serva a niente..”
    Ok, possiamo trovare un altro nome a tutto questo, ai modi in cui sono stratificate le società capitaliste, (i borghesi non sono più quelli di una volta, così come il proletariato ha ampliato el sue sfaccettature)ecc.., però quello che non possiamo permetterci è di non estremizzare la situazione. Non denunciare la polarizzazione esistente nella società divisa in classi è proprio ciò che desidera chi ci governa. Ci hanno fatto credere non solo che non esistono più le classi e di conseguenza il conflitto fra classi, ma che esiste unicamente un unico ceto medio con alle estreme i molto ricchi e i molto poveri, ma soprattutto che la contraddizione fra capitale e lavoro è stata risolta dall’avvento dell’era del consumo diffuso.
    E invece non è così (ovviamente), e quello che dovremmo fare noi è proprio rendere evidente la polarizzazione esistente nella società e alimentare i conflitti che questa produce.
    Detto questo, però, non stiamo di certo assistendo ad una rivolta “di classe”, o quantomeno non è una rivolta della “nostra” classe. Questi riot che saltuariamente esplodono dalle periferie delle capitali mondiali sono una delle contraddizioni più evidenti che produce il capitale stesso, prodotti da pezzi di società già individuati due secoli fa (anche qui, cambiano le contingenze ma la sostanza rimane più o meno quella).
    Sebbene a-politiche e rafforzanti l’apparato repressivo stesso, costituiscono comunque un evento nel quale noi dovremmo inserirci. Quindi, nonostante la teoria, nella pratica dovremmo invece avere un atteggiamento tendente ad alimentare queste rivolte. Ora, non so se i compagni inglesi lo stiano facendo, ma in ogni caso dovrebbero farlo. Anche perchè se ci lasciamo sfuggire anche queste di occasioni sarà difficile che dal nulla salti fuori la perfetta lotta di classe con tutti i crismi necessari per poterla giudicare marxisticamente perfetta.

  29. Riguardo al commento di Taliesin sulle disuguaglianze in Gran Bretagna, mi è venuto naturale il parallelo con la Spagna: se consideriamo le proteste dall’autunno in poi il frutto dell’impoverimento generalizzato dovuto alla crisi economica globale, è interessante anche notare come le forme di difesa siano differenti e come l’accentuata disuguaglianza sociale porti a una risposta in qualche modo “meno politica” (o più “prepolitica”, secondo ciò che ha detto Wu Ming 1) rispetto a paesi in cui invece il tessuto risulta meno sfilacciato. mai come in questi casi mi sembra vero che chi semina vento…
    Sulle contraddizioni di questi riot ho letto un messaggio interessante sulla mailing list “Radical Europe” (purtroppo non c’è l’archivio a cui linkare):

    personally i’m kinda tired of people with no idea about london/the affected areas/etc. giving 2-dimensional, black and white opinions on them. not just here but seemingly everywhere, every list, every tv station, every website! the situation is not the same in tottenham as it is in croydon as it is in barking as it is in birmingham. racism and poverty are there, but in different ways in different neighbourhoods. it is complicated, and not all happy smiley liberation struggle as some want it to be. it’s not all mindless criminality like others want it to be either. more of a messy mix. more political in some places, more zombie-consumerist in others.

    E poi:
    but, it’s not all so clear cut.
    – a cool homo bookstore got their shopwindow smashed in and pelted with eggs (the local kids in my neighbourhood seemed to discover a new pride in yelling homophobic abuse in those days too. a lot of this stuff reeks of macho bullshit, btw.):
    so, yeah, everyone wants to explain it, project their world-view onto it. personally i think its more a depressing sign of how deeply fucked england is, but its fucked in a complicated way that doesn’t fit nicely with anyones neat theory/explanation.

    i think i’m even less willing to agree with the easy ‘look it’s the multitude! we’re all in it together’ analysis after the student riots, where most people were fighting the cops and parliament square turned into what should have been a temporary autonomous zone. the kids in hoodies that had come for the fun weren’t even minimally interested in fighting the cops, or ‘the system’ in any way. in gangs of 10-15 people they just started randomly chasing people and beating them up with bits of wood because they could. sometimes stealling or smashing their cameras or phones, sometimes not. i had to help some kids who got beaten and they were really traumatised. the cops saw what was happening and very explicitly did nothing. but that for me was a depressing moment. if we wanna move forward i think we need some kinda minimal solidarity, and i think we have a long way to go in this town to even recognise that other people are human :(

    Scusate la lunghezza, spero non sia un problema

  30. @ Collettivo Militant,
    premetto che le questioni nominalistiche non mi piacciono, così come le infinite ore passate a dare definizioni, a scannarsi su “cosa intendiamo con”, però forse non riusciamo a capirci proprio perché non ho dedicato tempo a definire “cosa intendo con”.
    A mio parere, se si continua a intendere “proletari” e “borghesi” secondo realtà sociali diverse da quelle attuali, la lotta non potrà essere efficace.
    Se io, che sono laureata, che leggo i libri, che ho un padre laureato, vengo considerata dal mio collega (operaio del magazzino) un’intellettuale = una borghese = una nemica, come potrò allearmi con lui per combattere, contro i nostri padroni, la stessa battaglia? La stessa, nel senso che io e lui siamo dalla stessa parte.
    Questo è il punto, per me. Sento un gran bisogno di cose concrete, di pensieri tangibili che possano mettere in moto un cambiamento reale ora, in questo momento storico.
    Se il mio lavoro intellettuale viene pagato 1 e chi lo usa ci guadagna 10, non sono sfruttata anch’io? Davvero appartengo a un’altra “classe”?
    E mentre ci dividiamo, chi detiene il capitale continua i suoi giochi…

  31. La discussione su “riot” Vs “rivolta di classe” rischia di essere fuorviante, come quella su “moltitudine si/moltitudine no”. Cerco di spiegarmi partendo dalla seconda. Se usiamo il concetto di “moltitudine” come surrogato sostitutivo di quello di “classe” (dimenticando che i nomi sono sempre conseguenza delle cose), finiamo per cadere nel teleologismo di chi presuppone che la moltitudine sia già finalisticamente orientata al conseguimento di un destino ancora latente: e dunque sia “moltitudine” solo quel soggetto capace di comportamenti sociali virtuosi, tra i quali non può certo mancare la “coscienza di classe”. Dimenticando così che esiste, accanto a una moltitudine “virtuosa” (quale potrebbe essere quella che ha animato le piazze tematiche durante le scorse elezioni e referendum, o quella che da tre anni si scontra con il potere in Grecia, o gli indignados, ecc.), una moltitudine perversa, che esprime comportamenti conseguenti a passioni come rancore, risentimento, invidia, paura, incertezza… Il fondo oscuro (Fuocault) che sottende le pratiche, come gli apparati, i dispositivi, le diverse episteme che agiscono nel sociale è comune tanto alle pratiche “virtuose” quanto a quelle reattive o rancorose. E, sempre per riferirci a Foucault, l’importanza delle rivolte londinesi, così come di quelle mediorientali o mediterranee, deriva dalla fondamentale pratica metodologica inaugurata da Foucault: il potere si studia a partire da chi si oppone al potere, dalle forme di resistenza al potere. I riots sono una chiave di lettura che rivela i dispositivi di assoggettamento, e al tempo stesso la friabilità del terreno attraverso e su cui il potere produce pratiche di assoggettamento. Il ragazzo inglese con la felpa a cappuccio che ruba i cellulari o i televisori al plasma è al tempo stesso insorgente contro il potere, e assoggettato (e come potrebbe non esserlo?) a un potere che lo costituisce come consumatore di merci. Che poi il consumo delle merci gli sia negato NON è un altro paio di maniche: serve a generare quella lotta di tutti contro tutti nella quale i diversi soggetti sociali sono giocati gli uni contro gli altri – finché la corda si spezza e i suoli cominciano a franare.
    A titolo personale, non mi permetto di giudicare il rivoltoso inglese, del quale so troppo poco, né mi chiedo cosa fa la sinistra inglese. Ma se qui in Italia mi trovassi di fronte non a una rivolta come quella della Val di Susa, ma come quella britannica, non chiederei ai rivoltosi conto delle loro pratiche: chiederei a me stesso in cosa il mio lavoro politico è (ancora) insufficiente, per quale ragione i singoli conflitti non assumono una pratica generalizzata. Insomma, cosa MI manca, non cosa GLI manca.

  32. Mi sembra che vi siano già alcuni elementi chiari che emergono dagli avvenimenti.

    Il primo, forse il più chiaro, è che l’odio per la working class del ceto medio britannico ed Europeo di cui parla il bel libro di Owen Jones: Chavs, The demonization of The working class è, nella prima fase, riuscito ad imporre la lettura degli eventi. La retorica conservatrice che dice “questi non sono gli operai di una volta, belli e da manifesti, sono brutti, razzisti, omofobi, ignoranti, Chavs, rednecks, tamarri” ha provato a depoliticizzare gli eventi. Questo tentativo è fallito grazie anche a video come questo

    http://www.youtube.com/watch?v=biJgILxGK0o&feature=youtube_gdata_player

    dove l’odio di classe, il tentativo di censura e il razzismo vero della middle class emerge con tutto il suo odio per la diversità.

    Il secondo punto è che l’odio per questa società senza futuro si manifesta contro la merce e i suoi simboli. Come riappropriazione o come distruzione. E contro cos’altro dovrebbe manifestarsi l’odio del proletariato urbano se non contro la merce che domina le relazioni sociali? E quale ribellione se non la distruzione della merce in quanto tale?

    Il terzo punto è che la reazione del governo inglese, e il suo terrore dei social networks, dimostra che la rivolta è reale, che i rivoltosi non sono ragazzini sfaccendati, e che il terrore per i poveri non è già più confinabile nella narrazione post 9/11 e l’islamofobia.

    Per tutto questo, inviterei a dimenticarsi della Thatcher. Questa non è una rivolta contro il neoliberalismo per difendere il vecchio e morto stato sociale. Questa è una rivolta contro la fine della storia e la tirannia della merce.

    Ce n’est qu’un début

  33. PS. Nel poco che so della sinistra britannica, questo punto di vista mi sembra interessante:
    http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2011/jun/01/voice-for-emerging-precariat. Riporto un passo:
    «The global precariat is not yet a class in the Marxian sense, being internally divided and only united in fears and insecurities. But it is a class in the making, approaching a consciousness of common vulnerability. It consists not just of everybody in insecure jobs – though many are temps, part-timers, in call centres or in outsourced arrangements. The precariat consists of those who feel their lives and identities are made up of disjointed bits, in which they cannot construct a desirable narrative or build a career, combining forms of work and labour, play and leisure in a sustainable way».
    Guy Standing è autore, tra le molte cose quasi tutte non tradotte, di “The Precariat – the new dangerous class” (Bloomsbury), che sembrerebbe meritevole di lettura (e traduzione).

  34. continuo a vedere analogie tra la narrazione di blogger inglesi (tipo penny red) delle rivolte e dei “chavs” con la narrazione di facebook da parte di molti su twitter, hashtag #twitterisnotFB. risposta inesistente a domanda inascoltata in fb, ce lo dice carta.org, un po’ come quelle ragazzine che dicono: “facciamo vedere ai ricchi che noi possiamo quello che vogliamo”

  35. @Taliesin

    Parallelismi con il mondo ultras? Cosa vorresti dire? Scontri post Raciti? Non ci sono stati scontri nel post Raciti… Le similitudini tra Londra e riots riconducibili ad eventi successi allo stadio e dintorni ci sono solo nel caso nell’omicidio di Gabriele Sandri… Approccio soft della polizia inglese negli stadi? Mi sa che ne hai girati pochi di stadi inglesi…

  36. @ Danae
    Il fatto di essere laureata non ti rende automaticamente una “borghese”, questo è evidente, così come non rende “proletario” uno che ha la terza media e magari è miliardario. E’ appunto per questo che dobbiamo ragionare per categorie. Gli individui, in sè, possono avere mille sfaccettature, da Feltrinelli miliardario ma rivoluzionario all’enorme massa di lavoratori arricchiti berlusconiani. Questo non elimina però alcune categorie che, in termini generali e di massa, sono ancora evidenti. Per cui il singolo laureato potrà anche essere proletario, ma in generale chi si laurea ha più probabilità di comandare colui che non si laurea. E infatti, il tuo buon operaio di magazzino, ragionando giustamente, ti vede come una futura “padrona” (cioè non sto dicendo che tu diventerai chissà quale capitalista, ma sicuramente hai più possibilità di lui di diventarlo, per questo gli stai sulle palle). Non sta a lui cambiare modo di pensare (che è giusto, ha un sacrosanto odio di classe, ben venga, cazzo se pure l’odio gli togli al lavoratore del magazzino cosa gli rimane?), sta a te ,che hai una coscienza politica più sviluppata, trovare ciò che ci unisce e lavorare per la sintesi.
    Per mia esperienza, fatico a trovare “proletari” fra i compagni dei movimenti (altrimenti non sarebbero “compagni dei movimenti” ma starebbero tutto il giorno a lavorare), ma detto questo non cambia di una virgola il ragionamento per cui esiste una società divisa ancora nettamente in classi e noi sappiamo da quale parte stare (e quindi, avendo in mente determinate categorie, anche analizzare le varie situazioni che la realtà di propone).

  37. @ Collettivo Militant,
    non lo so se l’odio di classe sia sacrosanto, questo punto per me è ancora un interrogativo. Capisco la questione della “coscienza politica più sviluppata”, ma non riesco a seguirla: mi sembra cioè che alla fine questo sia il problema, oltre al fatto che il mio collega operaio veda in me un’eventuale futura “padrona”. Questa sorta di “superiorità” non riesco a mandarla giù, mi sembra che riproduca la verticalità gerarchica della società che si vorrebbe combattere. Vorrei ascoltare il mio collega, provare a trovare un punto di incontro sul piano orizzontale… (e certamente mi interrogo e giudico/valuto/critico il mio comportamento, non il suo).
    Mi rendo conto della caoticità dei miei rimuginamenti, ma li percepisco inevitabili, in questa fase della mia vita, perché la necessità mi spinge a trovare prassi, più che a procedere in teorizzazioni… Ti ringrazio (e ringrazio anche @alter) per il confronto

    @girolamo,
    grazie del link!

  38. d’accordissimo con Girolamo, anche a me è tornato in mente Guy Standing e la sua idea di “politica del paradiso” come unica alternativa alle passioni tristi che ci affliggono.

  39. “The day after the 11/9 outrage George W. Bush, when calling Americans to get over the trauma and go back to normal, found no better words than “go back shopping”
    Riflessioni di Zygmunt Bauman sui London Riots
    http://www.social-europe.eu/2011/08/the-london-riots-on-consumerism-coming-home-to-roost/

  40. @ danae:
    secondo me una traccia interessante si trova nell’articolo del Guardian che ha linkato girolamo (quello che parla dell’emergere di una nuova classe “trasversale”, il precariat). Quello che chi continua a ragionare con le categorie borghesia/proletariato si ostina a non capire, è che c’è uno scollamento fra la classe sociale “tradizionalmente percepita” (chi ha studiato, che titoli di studio possiede, quanto è “prestigioso” il suo lavoro) e una classe sociale – molto più prosaicamente – definita dal *reddito*.
    Ti posso citare un’infinità di esempi di amici che hanno studiato, hanno titoli di studio più che ragionevoli, si sono fatti il culo *per anni*, che l’ormai proverbiale “stipendio da metalmeccanico di quinto livello” (cfr. WM1) se lo *sognano*… E spesso fanno i giornalisti, i dipendenti di case editrici, i ricercatori universitari, gli insegnanti, i teatranti…tutte professioni tradizionalmente ritenute “medio-alte” (penso a quando parlavi di «proletarizzazione del lavoro cognitivo»).
    Questa è gente che – senza l’aiuto dei genitori – a fine mese non mangia.
    Però se tenti un’aggregazione sindacale (sto pensando alla tua esperienza) trovi ancora il cretino che diffida di te perché hai letto molto, hai un titolo di dottorato, o sei banalmente più consapevole della corda con cui ti (ci) stanno impiccando (sto pensando a esperienze, molto concrete, di amici).
    Questa è una situazione win-win per chi vuole tirare il nodo scorsoio: “guerra tra poveri”, e coloro che avrebbero lucidità e strumenti cognitivi per capire ridotti a pensare a come riempire il frigo a fine mese.
    Per questo, capisco le prassi che tanto desideri e invochi :-) …ma penso che sia necessario non stancarsi di sforzarsi di analizzare, capire, spiegare (ed eventualmente creare nuovi concetti, categorie).

    @ Papero:
    intanto, un po’ più di gentilezza nel rispondere sarebbe gradita – qui non siamo al Bar Sport, dove la gente parla a caso di cose che non conosce :-)
    I riots inglesi sono partiti da una “voce”, un rumour che si diffonde tra la gente (ce ne sono molti altri esempi, anche a Genova 2001 ne circolavano diversi, ecc ecc)…istintivamente mi ha ricordato le dinamiche descritte in questo libro di Valerio Marchi: http://bit.ly/qsspB0. Se non lo hai letto, te lo consiglio caldamente. Qui c’è un resoconto sui deliri e i riots di quella giornata, da un po’ più “dentro” la realtà ultras: http://bit.ly/qGfKc9.
    Questa dinamica del rumour (a mio parere) è interessante – anche perché non sembra essere importante *se* sia vero, o fino a che punto sia vero: nel filmato della BBC che qualcuno ha linkato sopra, il signore indiano parla ancora del fatto che la polizia, rispetto al ragazzo ucciso, «blew his head off» (rumour che circolava all’inizio – che esagera i fatti realmente accaduti).
    Lo stesso modo mediatico di gestire e “normalizzare” quelli che potrebbero, se interpretati in una certa ottica, essere veri e propri «riots» è similissimo («sono solo dei criminali» viene detto ora nella Londra di oggi…e a me ricorda molto il «è solo violenza ultras», di fronte a una Roma o una Catania messe a ferro e fuoco – poi magari è solo un’associazione mia, eh! – eppure mi pare tanto un voler minimizzare e circoscrivere, per non vedere la realtà soggiacente).
    Con «riots post-morte di Raciti» intendevo proprio gli episodi legati alla morte di Gabriele Sandri (forse sono stato troppo criptico). Sui disordini di Catania pre-morte di Raciti ho invece un’opinione più confusa, su cause, concause, ecc.
    Rispetto alla polizia inglese negli stadi: a me risulta che negli ultimi anni avessero adottato un approccio «soft» (niente cariche, non sono armati, non esiste che avvengano pestaggi a colpi di manganello come quelli descritti da Valerio Marchi all’interno degli spalti dell’Olimpico – o quelli famigerati a Roma col Manchester Utd). Questo approccio «soft» era poi permesso da misure d’altro tipo (telecamere, posti rigorosamente numerati, aumento del prezzo dei biglietti – uno spostamento del pubblico negli stadi verso una versione “intrattenimento per famiglie”). Laddove in Italia era comune il confronto ultras/polizia, in Inghilterra a me gli scontri risultavano, principalmente, fra gruppi di ultras rivali, e solo raramente con la polizia (parlo dell’ultimo decennio). Se hai esperienze personali ben diverse, mi fa molto piacere ascoltarle. (Non sono sarcastico: mi interessa molto sul serio!)

    ‘Notte a tutt*. Ora metto su i Clash e me ne vado veramente in branda…

  41. @ Taliesin

    Visto che non siamo al bar dello sport, e me ne rammarico, un paio di precisazioni su quanto scrive qua:

    “nel filmato della BBC che qualcuno ha linkato sopra, il signore indiano parla ancora del fatto che la polizia, rispetto al ragazzo ucciso, «blew his head off» (rumour che circolava all’inizio – che esagera i fatti realmente accaduti).”

    1) Il signore, che non è proprio un passante qualsiasi ma è Darcus Howe e non è indiano, a meno che non abbiano spostato le indie occidentali (West Indies);

    2) Anche se poi ci si diverte a fare i letteralisti, “to blow somebody’s head off,” è un’espressione abbastanza normale che difficilmente suggerisce l’idea di una esplosione della testa: solo l’essere uccisi. Gli hanno sparato al petto, non alla testa: ma il tizio è morto, mica è una voce..

  42. @girolamo: “Ma se qui in Italia mi trovassi di fronte non a una rivolta come quella della Val di Susa, ma come quella britannica, non chiederei ai rivoltosi conto delle loro pratiche: chiederei a me stesso in cosa il mio lavoro politico è (ancora) insufficiente, per quale ragione i singoli conflitti non assumono una pratica generalizzata. Insomma, cosa MI manca, non cosa GLI manca.”
    Hai colto nel segno. I conflitti, la rabbia, la frustrazione sociali devono essere incanalati verso un progetto politico che punti al superamento delle cause che le generano, quindi, al superamento del capitalismo. Giocoforza.

  43. @erota: “dove l’odio di classe, il tentativo di censura e il razzismo vero della middle class emerge con tutto il suo odio per la diversità. ”
    Infatti. E’ lo stesso processo di produzione capitalistico che distrugge le differenze e la middle class che agli interessi dell’ordine capitalistico é ferreamente collegata ne riproduce il meccanismo. Peraltro della perversa ma chiara connessione fra il razzismo e il classismo Etienne Balibar ne aveva già ampiamente scritto.

  44. @danae: io invece penso che lo scambio di battute sia molto interessante, e delinei delle fratture politiche e sociali. Più se ne parla, più emergono. E’ bastato che usassi un linguaggio marxista per… scandalizzarti (almeno un pochino, dai!). E questo mi fa pensare ai decenni durante i quali ci hanno fatto credere che la lotta di classe era finita (mentre il capitale la lotta di classe la faceva inserendo il turbo!) che dovevamo sentirci in colpa perché stavamo dalla parte degli oppressi e volevamo un mondo migliore che per noi era socialista (su Stalin e lo stalinismo eravamo nettamente in disaccordo tra di noi e ci accapigliavamo di brutto) che dovevamo pensare al nostro culo e basta, arricchirci contraendo debiti, che la competizione e la pugnalata alle spalle faceva parte del gioco, che la solidarietà era una malefatta dei comunisti, che gli operai dovevano diventare come i padroni (un processo di identificazione forzata che ha prodotto una serie di Frankenstein e che intanto ha dirottato enormi energie da tutte le lotte possibili), il tutto corroborato da non esigui settori della sinistra, mentre il PCI nell’ultima fase (anni ’80) disorientatissimo per la presenza di diverse anime e correnti ed attaccato politicamente da tutte le parti, si stava spegnendo per ragioni di realpolitik. Il fatto é che a quelle stronzate hanno abboccato in tanti, troppi, ed appena si tocca l’argomento scatta il riflesso pavloviano di svicolare, far cadere il discorso…
    Invece di auto-censurarci dovremmo avere il coraggio di raccogliere e sbattere in faccia le nostre bandiere a chi non solo ha un’ideologia MOLTO più anziana della nostra ma da secoli costruisce sfruttamento e guerre.
    Ma scusa: anatra all’arancia meccanica, paperino, la presa di coscienza proletaria. L’avrai forse letto. Ma allora, oltre al piacere edonistico di scrivere un testo che raggiunga certe persone piuttosto che altre, non c’é proprio un minimo di impegno civile e politico, per quanto semi-serio? Oltre al vezzo letterario il vuoto? Passa tutto come acqua sulle piume di un uccello?
    …Sull’intellettuale e sul ruolo che esercita la trattazione sarebbe lunga ma ne riparleremo.
    “A mio parere, se si continua a intendere “proletari” e “borghesi” secondo realtà sociali diverse da quelle attuali, la lotta non potrà essere efficace.” Scusa, delineami tu quali sono le realtà sociali attuali. E “Se io, che sono laureata, che leggo i libri, che ho un padre laureato, vengo considerata dal mio collega (operaio del magazzino) un’intellettuale = una borghese = una nemica, come potrò allearmi con lui per combattere, contro i nostri padroni, la stessa battaglia? La stessa, nel senso che io e lui siamo dalla stessa parte. “ Nessuno ti impedisce di allearti con chi senti esprima meglio i tuoi interessi, é chiaro. Al momento non sei nemica di nessuno se non, forse, di qualcuno solo per questioncelle personali della tua vita privata, quindi, tranquilla. Però, suppongo, già da come ti esprimi (spero di sbagliarmi) che non sarai tu a cercare l’alleanza. Tuttavia non é necessario andare d’accordo o trovarsi reciprocamente simpatici per allearsi e lottare. Questo é pacifico. Lo schierarsi avviene su un terreno materiale immediato. Alleiamoci.
    Sui proletari. Scusate, fate un viaggio nelle grandi città italiane, andate soprattutto al sud, fate conoscenza con un pò di gente, parlateci, condividete la loro vita. Ma vi/ci rendete/rendiamo conto di che percentuale veramente mostruosa c’é, e soprattutto al sud, di gente senza lavoro o con paghe da 400 € al mese in nero impiegate in lavori servili, dalle pulizie, ai camerieri, all’edilizia, gente che lavora nelle cooperative sociali ed aspetta per mesi il salario, gente che si fa 12 o 14 ore al giorno (mica solo extracomunitari) per quelle famose 400 € al mese portando pizze ai tavoli tutto il giorno, gente così che passa tutta la vita a contrarre debiti da una finanziaria all’altra? Ma questi qui come li chiamiamo? “Nuove figure dello sfruttamento capitalista”? Un escamotage lessicale al pari di “diversamente abile” o di “non vedente”? Io li chiamo proletari.
    “Se il mio lavoro intellettuale viene pagato 1 e chi lo usa ci guadagna 10, non sono sfruttata anch’io? Davvero appartengo a un’altra “classe”? “ Certo che sei sfruttata. Hai perfettamente ragione. E’ il rapporto di capitale che genera lo sfruttamento. Non c’é scampo. Tuttavia dovremmo ridefinire il valore del lavoro intellettuale e di tutti i lavori fuori dalle categorie di mercato, cioé capitalistiche, per cominciare a capirci meglio, cosa ora un tantino complicata, per come siamo…”abituati”.
    “E mentre ci dividiamo, chi detiene il capitale continua i suoi giochi… “ eee no! Non é corretto questo richiamo ad un ipotetico senso di responsabilità dal sapore ricattatorio. Ci dobbiamo unire stando al passo con gli ultimi e non fare una media astratta delle posizioni di tutti.

  45. @ tutti

    Ok, allora facciamo così: mozione d’ordine (ma non quello di Cameron, of course). La questione di cui si dibatte qui è calda e complessa. Per di più si fa riferimento a una realtà non italiana, rispetto alla quale le esperienze e le conoscenze (anche linguistiche) di tutti possono essere varie. Quindi proviamo a evitare i toni sarcastici e le risposte trancianti, nonché vari ed eventuali impermalosimenti. A latere e nel merito delle analisi, inviterei però anche a cogliere gli elementi di complessità in gioco, ed essere quanto meno riduzionisti e schematici possibile.
    Thanks.

  46. Se la Val di Susa fosse stata una metropoli e non un insieme di piccoli centri abitati, ci sarebbe stato il rischio di un Italianriots come quello di Londra?
    Ovvero: secondo voi, a che livello è arrivato il “capitale di rabbia” del nostro paese e quali “scintille” potrebbero scatenare riots?

  47. A proposito di “merito” (@ alter, in particolare): qua non è che dobbiamo convincerci o farci le pulci a vicenda, si sta più che altro, con tutti i limiti del mondo, provando a imbastire una discussione, un tentativo di analisi. Allora ti dirò che benché condivida il tuo discorso di fondo sulla rimozione della lotta di classe in Occidente, intravedo però nelle tue parole un’atteggiamento che non mi convince tanto. E cioè: avevamo già capito tutto un secolo e mezzo fa, le lotte proletarie sono andate a ramengo per colpa dei soliti traditori della giusta causa, altrimenti… Non dico che hai affermato questo, ma è un retrogusto che rimane in bocca – magari altri confermeranno o smentiranno – leggendo i tuoi commenti. Ecco, sinceramente credo che oggi dovremmo pretendere da noi stessi un passaggio critico (e autocritico) in più. Quello che secondo me danae cercava di dire, anzi mi pare che ci sia proprio riuscita, è che comunque il mondo è cambiato e continua a cambiare. Parte delle teorie, delle ideologie, delle analisi, del passato sono senza dubbio utili e vanno anzi recuperate dall’oblio in cui le si è volute relegare, ma non basta. Serve uno sforzo in più: e questo è il problema immane del presente, del post-Novecento. Io ad esempio trovo illuminante un pesiero di Zizek che cito spesso. E’ quando dice che il problema dei rivoluzionari del passato non è l’essere stati troppo estremi, ma non essere stati abbastanza radicali. Non sono cioè riusciti a mettere in discussione radicalmente anche se stessi, ad essere cioè fino in fondo rivoluzionari. Ecco, non è soltanto il tradimento o il “rilassamento” (passami il termine) dei processi rivoluzionari a farli fallire, ma anche la buona fede che impedisce la messa in discussione di se stessi, magari per troppa fiducia nelle proprie analisi o nella necessità della storia (solo per fare un esempio).

  48. @ alter,

    permettimi, tra compagni:

    1) Meno “eccezionalismo”.

    E’ da quando sei entrato in questa discussione che indulgi in meta-commenti tipo: “Sto per dire qualcosa di provocatorio”, “Ho detto qualcosa di scandaloso”, “E’ bastato che dicessi questo per suscitare la tale reazione, segno che…”
    Lo scandalo quale sarebbe? Che parli di borghesia vs. proletariato, di padroni, di lotta di classe, di marxismo? Sarebbe uno scandalo… su Giap?
    Quei concetti qui sono moneta accettata e corrente: nel maelstrom di Giap sono intervenuti, intervengono e interverranno il collettivo Militant, membri di Battaglia Comunista, trotzkisti, “vetero”-operaisti… E sono concetti che cerchiamo di riproporre in modo non banale (non “alla boia vigliacca”, per capirci) anche noi WM. Di certo quel frasario non turba nessuno. Danae mi è sembrata criticare altro, cioè quella che le è sembrata meccanicità dualistica.
    [En passant: a mio avviso, non si può parlare di classe in modo sensato senza partire sempre e comunque dalla *composizione* tecnico-politica della classe, altrimenti si fa dell’essenzialismo. Il proletariato è molteplice, comprende tante figure diverse e concrete del lavoro.]

    2) Meno supposizioni implicite sugli interlocutori

    Scusami, ma ho avuto più volte l’impressione che, anziché su Giap, tu credessi di essere (absit iniuria!) su Uninomade. Ad esempio, quando hai indirizzato nello specifico a me, premettendo che intendevi essere provocatorio, una critica del concetto di “moltitudine” (nella sua declinazione negriana, mi è parso di capire). Ma io non mi riconosco nel post-operaismo tardo-negriano almeno dal 2003. La critica della narrazione ottimistica di Negri & Hardt e dei loro epigoni è una costante esplicita e implicita di tutti i miei interventi più “teorici” da un bel po’ di tempo a questa parte. Ho cercato di riassumerla in questo commento, e poi c’è l’audio del mio intervento “Toni Negri sull’autostrada”.
    Esiste anche il “Comune” cattivo, esiste – come diceva anche Girolamo, che pure è più vicino di me a quel pensiero – una “moltitudine” cattiva, che non realizza il sogno bagnato iper-teleologico di un comunismo secreto direttamente dallo sviluppo “socializzante” del capitale etc. etc. Io sono per un recupero del “negativo”.
    Detto ciò, io del post-operaismo non intendo affatto buttare tutto quanto. Quel filone contiene anche intuizioni e analisi feconde, anche nei libri scritti insieme da Negri & Hardt, separando il grano dal loglio (Hardt è persona generosa e squisita, peraltro).

    3) Meno “eravamo belli e fichi, abbiamo perso perché traditi

    Sì, perché mi sembra che tu pencoli in quella direzione. Questa è una narrazione consolatoria e auto-assolutoria. “Abbiamo perso” per tanti motivi, importati e “fatti in casa”. “Abbiamo perso” perché il nemico era forte, e perché il progetto aveva enormi difetti intrinseci. Noi abbiamo più volte scritto (ad esempio nel post e nella discussione qui) che dobbiamo *farci carico*, senza rimozioni, di tutti gli errori e orrori del nostro phylum. Sono parte di noi. Dobbiamo elaborare quei traumi senza concedere nulla all’avversario storico. Né rinnegare né replicare. C’è un solo album di famiglia, sarebbe ipocrita dire che ce ne sono diversi e che Stalin e Pol Pot non sono nostri parenti, più o meno lontani a seconda di chi sfoglia le pagine.

    4) Commenti meno “mattoneschi”

    Anche questo commento che sto scrivendo è lunghissimo, e infatti ho cercato di spezzarlo in capoversi numerati, quindi uno potrebbe dire “Da che pulpito!”, e avrebbe ragione, ma io almeno alterno interventi più densi ad altri più rapidi. I tuoi commenti sono *generalmente* lunghissimi e monoblocco, e infusi di tutto quello che ho segnalato sopra.
    Poi, vedi tu. Io mica scrivo la verità colata. Queste sono le mie impressioni leggendo i tuoi commenti.

  49. Io e WM4 ci siamo incrociati, anche lui ha avuto la sensazione che ho riportato io al punto 3.

  50. Non so se può esservi utile uno storify sui #londonriots visti dall’Italia…

    Però l’ho fatto. :-D

    http://storify.com/puncox/london-2

  51. Vi linko le parole “perversamente virtuose” di due elementi di quella moltitudine. Forse involontariamente colgono nel segno i concetti della lotta di classe di cui si discute qui.
    http://www.bbc.co.uk/news/uk-14458424

  52. @ erota:
    grazie per la precisazione su Darcus Howe…sono bilingue, ma ho visto il video ieri notte e dal telefonino, lui non lo conoscevo, grazie per avere corretto le mie castronate.

    @ Nexus: qualcuno sopra citava le differenze fra UK e Spagna. Io i riots in Italia non ce li vedo – tessuto sociale, per ora, *molto* meno sfilacciato, qui da noi (rispetto all’Inghilterra). Ma non vedo nemmeno forme di organizzazione “dura e pura” costruttive e che funzionino nel lungo periodo, modello movimento 15M…troppe idiosincrasie “all’italiana” e campanilismi. Per chiarire: se penso a tre realtà che conosco abbastanza bene – Bologna, la Brianza e la Calabria – e ipotizzo uno scenario per cui le persone, metti anche l’intera città, a Bologna prendessero coscienza, ne avessero le palle piene della “crisi”, e occupassero in modo permanente Piazza Maggiore e Piazza del Nettuno con comitati autogestiti, *so benissimo* che la maggior parte delle persone che conosco in Brianza penserebbero che «è la solita cosa nostra, “da comunisti”», e la maggior parte di quelle che conosco in Calabria nemmeno saprebbero che cazzo sta succedendo perché nel loro paesino non arriva internet – ovviamente può darsi che sia una mia percezione *soggettiva*, ma l’impressione è che siamo ben lontani dall’esplosione del riot britannico, ma anche da un tentativo di risposta «consapevole e partecipata», da quel famoso «è tutto un’unica lotta».

    @ Punco:
    quel video in cui la donna critica il comportamento dei looters («Perché non ci stiamo riunendo per combattere una causa, ma stiamo scappando da Footlocker con le mani piene di scarpe. Come sporchi ladri.») mi pare sia *molto* significativo.
    Quando ti rapinano in un modo che nemmeno comprendi, attraverso scatole cinesi di società partecipate che finiscono alle Cayman, oscuri meccanismi di borsa o – addirittura – dicendoti (o facendoti chiaramente percepire) che tu non avrai un lavoro, o i tuoi figli un futuro, una pensione, la possibilità di iscriversi all’università….ma in un modo talmente vago e complesso per cui nessuno è “accountable”, nessuno è *mai* colpevole in prima persona, con nome e cognome, “responsabile” – quando la responsabilità è troppo vaga, o troppo difficile da analizzare, io credo che il looter medio spenga il cervello, reagisca alla «vaffanculo, allora spacco tutto», ci sia un desiderio di semplificazione, almeno nell’immediato: «tanto sono fottuto ugualmente, almeno oggi mi mangio il prosciutto del signorotto, dormo nel suo letto e piscio nel suo cortile; se mi va fatta bene, domani ho un paio di scarpe in più; se no, amen».
    Quello che la donna critica, è molto bello a livello retorico, ideale: “sarebbe molto bello se ci organizzassimo per una causa”. Ma, nella pratica, è proprio l’opposto di quello che il looter medio, che ne sia consapevole o lo senta “a livello di pancia”, vuole fare: «per anni sono stato buono, ho boicottato McDonald’s e protestato contro il G8, ho visto i miei diritti erodersi uno a uno, ho accettato la povertà, il precariato, lavori e salari di merda, questo e quel diritto che mi toglievi e mi mettevi a pagamento…ora mi sono rotto le palle e rovescio il banco».
    Se arrivi a rovesciare il banco, è perché pensi che *qualunque forma* di organizzazione sociale, di “combattere per una causa” (quella che la donna invoca) non abbia la minima probabilità di riuscita. Meglio le nike gratis oggi dopo aver bruciato il negozio del paki, e il 10% di farla franca e riuscire a tenersele. Il sistema non lo sconfiggo, almeno ho un paio di belle scarpe.
    Ahimè. :-(

  53. Uno scambio che ho letto citato da qualche parte (ora non lo ritrovo):
    «You there, does rioting achieve anything?»
    «Yes: you wouldn’t be talking to me now if we didn’t riot.»

  54. @Taliesin
    Quoto la mancanza di coscienza collettiva che impedirà azioni organizzate come in Spagna. Vedo anche tanti possibili “vaf, adesso spacco tutto” nelle comunità di immigrati che *abbiamo* ghettizzato nelle metropoli o nei paesini sperduti (penso a quello di mia nonna nelle marche, dove il centro storico è popolato in prevalenza da stranieri + qualche marchigiano classe ’20-’30). A me pare che trattiamo gli immigrati letteralmente come monnezza: se possiamo la nascondiamo sotto al tappeto e quando emerge la strumentalizziamo politicamente.
    Qui a Roma, quando Alemanno ha cacciato di casa una decina di famiglie rom come regalo di pasqua, c’è stata un’occupazionciucola simbolica (a S. Paolo) e sono state le ass.zioni cattoliche a metterci la pezza. Ma al paese di mia nonna, se gli abitanti del centro storico si incazzassero, non ci metterebbero molto ad occupare. Magari giustamente.

  55. @ alter,
    non posso che accodarmi a WM4 e WM1…
    Non aggiungo altro, se non qualche riga su AaAM.
    Ho già avuto occasione di dire qui quanto per me sia importante (dal punto di vista letterario e dal punto di vista politico), e nella discussione si è sottolineato anche come la varietà di generi, registri, voci sia *di per sé* il motivo per il quale la raccolta è importante: perché ci restituisce gli “anni zero” nella loro complicata complessità.
    (ah, poi… no, è ovvio: il linguaggio marxista non mi scandalizza!)

  56. @Taliesin
    Innanzi tutto mi scuso se ti sono sembrato scortese, non era assolutamente mia intenzione (ogni tanto esce il mio animo rude…:-) ). Il libro ed il sito che mi hai linkato li conosco molto bene, ma, a mio avviso, le vicende di quel derby non hanno molto a che fare con gli ultimi accadimenti inglesi. La cosa che spicca, in quella vicenda, e’ l’assoluta mancanza di credibilita’ della Fdo rispetto a coloro che si trovavano allo stadio. E fu una cosa che in pochi rimarcarono. Come ti ho gia’ scritto e’ l’omicidio Sandri quello che ha moltissimi punti in comune: fumose ricostruzioni della polizia, dichiarazioni che scaricavano le eventuali colpe di qualche agente coinvolto ( e se in piu’ ci aggiungiamo una conferenza stampa al limite del ridicolo e del grottesco…). Proprio come le dichiarazioni della polizia inglese la notte tra sabato e domenica. Ed identica e’ stata la reazione della gente. Assalti alle caserme a Roma, tentativo di assalto alla stazione di polizia di Tottenham a Londra… Per quel che riguarda Catania e Raciti, sarebbe interessante sapere perche’ non si indaghi piu’ per scoprire veramente la verita’ sull’episodio. Scoprire che, quasi certamente, si tratta di “fuoco amico” pottebbe essere imbarazzante, no? Parli di approccio soft della polizia all’interno degli stadi inglesi. Beh, all’interno degli stadi inglesi la polizia praticamente non esiste, hanno tutto in gestione steward gestiti dalla societa’ che ospita l’incontro. Per questo non hanno armi, manganelli, ecc. e se ti devono espellere lo fanno portandoti via a braccia. Poi e’ vero quello che dici tu, il confronto polizia/ultras e’ molto piu’ marcato in Italia rispetto all’Inghilterra, ma anche la’ esiste (soprattutto fuori dallo stadio…). Ce ne sarebbero un bel po’ da dire, ma non voglio ammorbare te e gli altri, anche perche’ qui non si sta parlando di scontri allo stadio ed e’ molto meglio leggere le vostre considerazioni sui riots rispetto alle mie “stupidaggini”…

  57. @ wu ming 1

    “Scusami, ma ho avuto più volte l’impressione che, anziché su Giap, tu credessi di essere (absit iniuria!) su Uninomade. Ad esempio, quando hai indirizzato nello specifico a me, premettendo che intendevi essere provocatorio, una critica del concetto di “moltitudine” (nella sua declinazione negriana, mi è parso di capire). Ma io non mi riconosco nel post-operaismo tardo-negriano almeno dal 2003. La critica della narrazione ottimistica di Negri & Hardt e dei loro epigoni è una costante esplicita e implicita di tutti i miei interventi più “teorici” da un bel po’ di tempo a questa parte. Ho cercato di riassumerla in questo commento, e poi c’è l’audio del mio intervento “Toni Negri sull’autostrada”.
    Esiste anche il “Comune” cattivo, esiste – come diceva anche Girolamo, che pure è più vicino di me a quel pensiero – una “moltitudine” cattiva, che non realizza il sogno bagnato iper-teleologico di un comunismo secreto direttamente dallo sviluppo “socializzante” del capitale etc. etc. Io sono per un recupero del “negativo”.
    Detto ciò, io del post-operaismo non intendo affatto buttare tutto quanto. Quel filone contiene anche intuizioni e analisi feconde, anche nei libri scritti insieme da Negri & Hardt, separando il grano dal loglio (Hardt è persona generosa e squisita, peraltro).”

    Sembra interessante. Io non ci riconosco Negri e Hardt che conosco io. Se volessi aprire un thread sulle letture estive per il movimento, ci parteciperei volentieri…

  58. @ alter

    Non sopporto Balibar (anche come persona) che mi è sempre sembrato il poliziotto che il PCF aveva attaccato alle costole di Althusser. Anche in Italia, “Leggere il Capitale” l’hanno pubblicato solo con l’intervento di Balibar per riportare il libro nell’ortodossia.

    Per quanto riguarda il libro a cui ti riferisci, mi piace molto quello che scrive Immanuel wallerstein, che mi è invece molto simpatico : )

  59. @ erota
    non ho capito bene: in *cosa* non riconosci Negri e Hardt? Nel mio commento che hai riprodotto non c’erano particolari descrizioni della loro teoria. C’era al massimo uno sketch rapidissimo di quel che, nel mio piccolo, penso io. Le letture estive no, ma ho adocchiato due testi in inglese che mi paiono interessanti e che mi piacerebbe affrontare e commentare in autunno. Il tema di entrambi e’ l’overdose di “affermazione” (a scapito del negativo) e di retorica “in maggiore” (per usare una metafora musicale) che ha alterato la neuro-chimica della teoria/filosofia radicale negli ultimi.vent’anni. Siccome anch’io penso che il cocktail operaismo + Nietsche + Spinoza, per quanto rinfrescante, produca anche brutte sbornie se bevuto a stomaco vuoto e in assenza di antidoti, e conosco gente che non li recupera piu’ nemmeno il Centro Betty Ford, son contento di vedere che c’e’ chi la pensa come me e invita a un consumo piu’ variegato di liquori. In Italia, quando cerco di articolare questa sensazione, a parte Girolamo tutti mi rispondono: “Uh?!” o mi dicono che esagero. Sara’ che non riesco a spiegarmi, boh :-/

  60. @ wu ming 1

    Bon. Ne parliamo in autunno allora.
    Buone vacanze a tutti coloro che se le possono permettere e un abbraccio di solidarietà a chi non se le può fare.

  61. C’è arrivato persino Gramellini (chissà che non lo vada a dire a Fazio): «Quando i teppisti diventano un esercito e mettono a ferro e fuoco una metropoli occidentale, significa che è successo qualcosa che non si può più combattere solo aumentando il numero dei poliziotti e delle celle. E’ il segnale di un mondo, il nostro, che si sgretola. Un mondo senza politica, senza cultura, senza solidarietà. Il teppista griffato non si rivolta per ottenere un impiego, del cibo o dei diritti civili. Reclama soltanto l’accesso agli status-symbol della pubblicità acquistabili attraverso il denaro. Dal giorno infausto in cui il capitalismo dei finanzieri ha soppiantato quello dei produttori, il denaro si è infatti sganciato dal merito, dal lavoro e dall’uomo, trasformandosi in un valore a sé. L’unico. Quel ragazzo è il prodotto di questa bella scuola di vita. Mettiamolo pure in galera. Ma poi affrettiamoci a ricostruire la scuola» [ http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/grubrica.asp?ID_blog=41&ID_articolo=1029&ID_sezione=56%5D
    @ WM1
    «In Italia, quando cerco di articolare questa sensazione, a parte Girolamo tutti mi rispondono: “Uh?!” o mi dicono che esagero. Sara’ che non riesco a spiegarmi, boh :-/»
    Beh, io però ti capisco: almeno non fai dei soliloqui :-P
    (purtroppo capisco anche perché gli altri interlocutori non vogliono sforzarsi di capire)

  62. Certo che Gramellini è pur sempre un editorialista della “Busiarda”: “Dal giorno infausto in cui il capitalismo dei finanzieri ha soppiantato quello dei produttori, il denaro si è infatti sganciato dal merito, dal lavoro e dall’uomo, trasformandosi in un valore a sé”. Mi piacerebbe chiedergli a che data, con esattezza, risalirebbe questo “giorno infausto”… :-D

  63. I riot di Londra? Un esercito di teppisti. Teppisti griffati. Che non chiedono lavoro, cibo o diritti. Ma solo accesso a credito e diritto al superfluo. Mettiamoli pure in galera
    ma quando escono assicuriamoci che abbiano una scuola come si deve da frequentare. Un chiaro esempio del qualunquismo a cui accennava WM1?

    Per la cronaca (e provero’ a farla molto breve) un ragazzo viene ammazzato per strada; la famiglia e la comunita’, esasperate dal silenzio, si riuniscono per chiedere spiegazioni alla polizia che si barrica all’interno della caserma. Passano ore. Accade poi che tra la folla, davanti alla porta socchiusa del comando, una ragazza urla “tell us why” con le braccia tese lungo i fianchi e i pugni chiusi.
    Il polizziotto la spinge via, di forza. E’ allora che i pugni si schiudono e afferrano un sasso, poi un bastone, infine una molotov. Il primo atto di violenza e’ stato da parte della polizia. Una pallottola contro un uomo. Il secondo anche, una spinta a una donna. Nessuna denuncia. Non una dichiarazione. Nessuna criminalizzazione. I primi atti di violenza della gente di Tottenham, la consequenza, sono contro macchine della polizia. Contro simboli. A ribadire che la polizia in quei quartieri, per certa gente, non e’ mai stata garante della sicurezza ma aggressore. Bully. A volte killer.
    A quel punto arrivano immediatamente i rinforzi, le telecamere, i microfoni. Non serviranno ad arginare la rabbia.

    MLK diceva che “Rioting is the language of the unheard”. Si sbaglia pero’ chi crede che gli inascoltati siano soltanto quelli che si sono affrettati ad accaparrarsi scarpe e felpe, tappeti e tv al plasma. Quelli sono coloro sui quali si e deciso, strategicamente, di puntare le telecamere per criminalizzare l’evento. Minoranza. Gli inascoltati sono invece la stragrande maggioranza dei ragazzini (dagli 8 anni in su) che per le strade di Londra (e non solo), si sono lasciati trascinare dagli eventi. Dall’euforia di un momento di pura avventura e ribellione. Contro un sistema che li definisce “chavs”, “scum”, “criminals”, tutti, indiscriminatamente. Ragazzini che nascono e sono costretti a vivere in una realta’ fatta di violenza concreta, dolorosa e giornaliera. Sono stati presi da un senso di follia liberatoria, che ha assalito chiunque fosse per strada, anche i meno giovani e piu’ abbienti. Criminale o meno.
    Le statistiche provano una cosa: la violenza ai danni di persone e’ stata limitatissima. Nonostante cio’ si parla di attacchi criminali alle comunita’. Da parte di elementi delle comunita’ stesse. Della violenza perpetrata dalle istituzioni non un accenno. Non sono un esperto ma mi sembra che la terminologia sia errata.

    La realta’ e’ che da quelle “comunita’ galera” chi ci vive e’ consapevole di non avere alcuna possibilita’ di uscita, se non all’interno di un cellulare della polizia. O in un ambulanza. O una bara. E non sono solo parole. Alcuni dati: piu’ di 20 omicidi tra adoloescenti l’anno scorso (nella metropoli che ospitera’ le Olimpiadi miliardarie a pochi km da Tottenham). Morti spesso per ragioni futili, come un telefonino o l’accesso ad una festa a cui non si era invitati.
    Il piu’ alto tasso di gravidanze minorili in europa da 10 anni a questa parte. Violenze carnali e aggressioni mai denunciate alle autorita’, anche perche’ spesso subite all’interno delle famiglie. L’assistente sociale che in molti casi e’ l’unico essere umano, adulto, a cui fare riferimento, nel quale sperare (e nell’area di Tottenham sono recentemente stati chiusi 3/4 dei comunity centres)
    Gangs che diventano l’unico rifugio, l’unica vera comunita’. Le uniche realta’ a garantire un minimo di senso di appartenenza. Gang culture is *The Culture*. Appena fuori da quegli estate poi, accerchianti la miseria, shopping centres, negozi e business di ogni tipo, insensibili e inaccessibili. Siamo ben oltre la soglia di l’alienazione.

    E’ pero’ l’incendio dei negozi e il saccheggio dei beni che va in prima pagina, che diventa protagonista nei commenti. Non i veri problemi. Quelli all’origine.

    La denuncia chiara e netta delle vere politiche criminali rimane limitata anche nei blog, nei tweets, sui social network. Ma, come si accennava sopra, e aggiungo fortunatamente nonostante tutto, pare anche ritornare per le strade; nei pub, in giro si discute, si articolano argomenti altri. Non piu’ solo gossip, calcio, tv. La speranza non e’ una gran cosa. Ma in certi casi e’ gia’ qualcosa. Fingers crossed.

    @ Girolamo. Grazie per il tuo bellissimo ultimo libro. Mi e’ costato una cifra con la spedizione ma vale ogni centesimo.

  64. @ don cave
    mi hai tolto la battuta dalla testiera: vorrà dire che userò la tua, per il pezzo che sto scrivendo, visto che sei arrivato primo :-)
    @ dude
    grazie 1000. Mi sa che si possono scrivere e pubblicare buoni libri, nonostante tutto, anche senza essere TrentaQuaranta (è un OT, oltre che una battuta).

  65. @ girolamo e Don Cave:

    In effetti il commento di Gramellini è illuminante su dove è rimasta incastrata certa sinistra, che contrappone il buon capitalismo dei produttori al cattivo capitalismo degli speculatori finanziari. Come se le premesse della finanziarizzazione capitalistica non fossero implicite nella cosiddetta “modernizzazione” degli ultimi trent’anni. E come se certe dinamiche non si fossero diffuse più rapidamente e in misura maggiore proprio nei paesi anglosassoni, le patrie dell’industriosità capitalistica, weberianamente parlando. Così non gli resta che alludere a “un giorno infausto”, quello della Caduta dall’Eden capitalistico dei bei tempi che furono. Aiuto.

  66. Ecco uno dei due libri a cui mi riferivo nella risposta a Erota:
    http://www.radicalphilosophy.com/uncategorized/the-better

  67. Sembra interessante e me lo leggerò volentieri. Vale la pena ricordare che i pendoli storici oscillano. Una volta erano i maestri del pensiero negativo ad essere accusati di indurre alla passività.

    Vedi il buon Lukács della “teoria del romanzo” che scriveva:

    A considerable part of the leading German intelligentsia, including Adorno, have taken up residence in the ‘Grand Hotel Abyss’ which I described in connection with my critique of Schopenhauer as ‘a beautiful hotel, equipped with every comfort, on the edge of an abyss, of nothingness, of absurdity. And the daily contemplation of the abyss between excellent meals or artistic entertainments, can only heighten the enjoyment of the subtle comforts offered.’

    Oggi, proprio gli autori che stanno cercando di muovere il Marxismo occidentale dalle secche dello hegelismo e della dialettica, inclusa quella negativa, sembrano essere accusati di essere responsabili di una teoria che invita alla passività. Ho letto però solo la review e magari l’autore dice tutt’altro…

  68. @ Wu Ming 4, Girolamo e Don Cave

    Io sono d’accodo con voi e con quanto scrive a questo proposito il brillante Christian Marazzi. Però, uno supersveglio e superacuto come il compianto Giovanni Arrighi, nel suo “The Long Twentieth Century” parla proprio di fasi di oscillazione fra capitalismo industriale e finanziario e non è facile scartare il marxismo ortodosso su questo punto.

    Uno studio interessante si può fare sulla letteratura popolare: quanti romanzi, a la Stiegg Larsson, rappresentano un mondo di buoni capitalisti industriali contro cattivi finanziari nei momenti di crisi economica? Quante rappresentazioni dell’avidità diventano centrali nella letteratura popolare per spiegare/sostenere il sistema nei momenti di crisi?

  69. A proposito dell’ultimo commento di Wu Ming 4 di recente ho letto un bel libro di Benjamin R. Barber, CONSUMATI – da cittadini a clienti, che ha come tema centrale il cambiamento da un capitalismo basato sull’ethos protestante ( appunto Weber ) ad un capitalismo basato sull’ethos “infantilistico”. Barber considera il capitalismo odierno malato, non certo una malattia, dal suo punto di vista conservatore ( come mi è parso ). Curiosamente critica spesso il libro di Johnson “Tutto quello che fa male ti fa bene” e il rimprovero ( metto questo link che ne parla in breve ) fatto da Lakoff ai Democratici circa l’uso del linguaggio.

    Comunque essere di sinistra è più difficile :-)

  70. @ erota
    Più che di fasi di oscillazione tra industria e finanza, nel libro di Arrighi mi sembra si tematizzi un’alternanza tra fasi in cui la merce si converte in moneta, e questa ritorna merce, e fasi in cui la moneta si converte in produzione di merci, che a loro volta si ritraducono in moneta. Finanza e produzione industriale, in altri termini, sono correlate tra loro, anche se in certe fasi la prevalenza è sui processi produttivi, in altre su quelli industriali. Ma (con l’eccezione della transizione dal periodo di egemonia britannica a quello americano) la transizione da un modello all’altro è tutt’altro che pacifica. In altri termini, non vedo alcuno scarto tra l’ipotesi del capitalismo finanziario oggi prevalente, le tesi di Arrighi, e i testi di Marx.
    Però (lo dico per correttezza) non ho ancora trovato il tempo di leggere l’ultimo lavoro di Arrighi, “Adam Smith a Pechino”, che in qualche misura riformula le conclusioni del “Lungo XXI secolo” (anche se mi fido molto di alcuni pareri ricevuti). In ogni caso Arrighi è un grandissimo, e uno sguardo come il suo, oltre a colmare il vuoto lasciato da Braudel, ci aiuta(va) ad assumere un punto di vista non fissato sulla schiuma dell’onda contingente, ma sulla durata medio-lunga scandita dai ritmi delle maree.
    Nel frattempo, niger in fabula, è arrivato il parere di Negri sulle rivolte inglesi (e non solo): http://uninomade.org/il-comune-in-rivolta/. E mi sembra che, post-operaismo o meno, sia coerente con molte cose dette qui dentro.

  71. @ erota

    io, come dicevo, quel libro non l’ho ancora letto, può anche darsi che si riveli non all’altezza dell’idea di fondo, ma a me interessa principalmente come *sintomo*, e col sintomo “bisogna saperci fare”, diceva quel tale.

    In diversi si stanno rendendo conto di un problema, e non si tratta di biechi vetero-hegelomarxisti (questi fantomatici babau, tribù estinta da decenni ma che viene evocata con raccapriccio ogni volta che si contesta una certa impostazione), ma di persone che come me nell’affermativismo ci sono cresciute (Nietzsche assimilato per il tramite di Foucault e Deleuze; l’operaismo conosciuto a ritroso partendo dai centri sociali dell’ex-Autonomia; Negri esplorato fin dai primi anni ’90; Bifo letto con avidità e frequentato sempre volentieri etc.) e che tuttora riconoscono la grande importanza di certe “rotture”.

    C’è un problema soprattutto nell’epigonato teorico post-operaista (anche se non negli stessi modi in tutto il post-operaismo, ad esempio l’epigonato di Bifo… non esiste, e Bifo stesso meriterebbe un discorso a parte), problema che ha più volte condotto in vicoli ciechi strategici e ha disarmato le persone di fronte a depressione e sconfitte, ossia di fronte al manifestarsi del negativo.

    C’è un problema, ma per definirlo non parlerei di “passività”, perché non rende l’idea. Quando l’autore del libro recensito parla di “accelerazionismo”, sta cercando di nominare una “tara” che ho visto più volte manifestarsi, e di cui si possono trovare fulgidi esempi nel Negri peggiore (ça va sans dire che esiste anche un Negri migliore, il punto è che i due vanno a braccetto ed è difficile separarli).

    Un esempio? Quando il Negri peggiore (e ça va sans dire che esiste un Negri migliore) si schierò per il SI ai referendum sulla “costituzione” europea liberista, finanzocratica e anti-sindacale, accusando i movimenti che vi si opponevano di arretratezza e “sovranismo”, a colpi di dichiarazioni imbarazzanti come le seguenti, tratte da un’intervista a Libération del 13 maggio 2005:

    «La Costituzione ha effetti positivi e li avrà immediatamente! Poiché la vera questione è che regolerà il mercato mondiale. La resistenza nazionale non è più un baluardo. Solo la continuazione della costruzione europea consentirà di costruire alternative globali per quelle che io chiamo le Moltitudini, i movimenti della resistenza all’Impero. Cambiamenti che definiscono uno spazio politico nuovo nel quale sparirà questa merda dello Stato-nazione.»

    «“Sì”, o la politica del peggio. “Sì” è la comparsa di uno spazio nuovo di lotta contro l’egemonia dell’Impero. “Sì”, o abdicare di fronte ai neocons americani. Non si può essere antimperialisti e altermondialisti, ignorando questo rapporto di forza. Il “No” distrugge questo equilibrio; distrugge tutto; il danno sarebbe enorme. Qualunque sarà il risultato, ci sarà una crisi. Se la Costituzione viene bocciata, la crisi sarà europea. Avremo il ritorno di lacerazioni interne, in Francia, ma anche tra Francia e Germania. Se vince il “Sì”, ci sarà crisi, inevitabilmente. Ma allora sarà internazionale. Sarà quella che opporrà due modelli: l’europeo e l’americano.»

    Bene, la pseudo-costituzione ha vinto anche se ha perso (dove è stata messa ai voti dai cittadini, come sarebbe stato giusto fare ovunque, è stata bocciata, ma i tecnocrati di Bruxelles avevano già deciso preventivamente che quei voti non valsi a nulla). L’Europa descritta dalla pseudo-costituzione è l’Europa della BCE, di Trichet, dello smantellamento del welfare, delle politiche di tagli selvaggi e di tutte le schifezze che abbiamo visto dall’inizio della crisi.

    Effetti positivi della pseudo-costituzione? Non pervenuti. Né “immediatamente”, come vaticinava Negri con tanto di punto esclamativo, né in seguito.

    Nient’altro che una svista, per quanto grave? Magari fosse. Invece quella scelta di campo da parte di Negri era logica conseguenza di un’impostazione teorica che ha vieppiù rimosso il negativo, si è ubriacata di “potenza” e ha trasformato l’affermativismo in “accelerazionismo”. Di previsione scazzata in previsione scazzata, si continua a vaticinare, ma intanto i più “deboli” intorno a te esperiscono la violenta discrasia tra vaticinio ed esperienza del reale, e iniziano a prendere psicofarmaci e/o vanno in depre senza sapersi spiegare che gli succede e/o bevono come spugne, ma a parole tutto va bene, continuano a esprimersi nel gergo appropriato, e a rimuovere il negativo, “fin qui tutto bene”, “fin qui tutto bene”, come nell’apologo del tizio che cade dall’ultimo piano (cfr. La haine, 1985)… finché non cedono del tutto. E a quel punto non c’è “potenza” che li salvi.

  72. @Girolamo
    Sì, il tuo riassunto di arrrighi è certo più completo e articolato del mio ma credo che la sostanza non cambi: Arrighi’s vedeva momenti di preminenza del finanziario e momenti di prevalenza dell’industriale. I primi li vedeva come periodi più cupi.
    Ad esempio c’è la storia raccontata Da Baucom in “specters of The atlantic” che baucom racconta quasi come una parabola del lungo ventesimo secolo di Arrighi: schiavi comprati in Africa, assicurati alla partenza e buttati a mare dal capitano a poca distanza dalla terraferma perché già “valorizzati” finanziariamente dall’assicurazione. In questo capitalismo, in altre parole, si distrugge il lavoro vivo, e i suoi corpi, perché la produzione immateriale è stata già realizzata e se ne frega della produzione di beni reali. Arrighi, e chi lo segue, vede questa fase capitalistica, non il capitalismo ma questa sua fase, come diversa e peggiore da quella “industriale Comunque credo che siamo proprio d’accordo: è solo che, secondo me, la percezione di un capitalismo migliore e uno peggiore va trattata, tatticamente ma anche teoricamente, con le molle perché è radicata, è anche della tradizione antagonista etc…
    Mo’ mi vado a leggere Negri anche se mi viene voglia di dire con Oscar Wilde che il socialismo è sì una bella cosa, ma ci sono troppe sere impegnate…

  73. @ wu ming 1

    È divertente perché si rischia di farsi prendere dalla cattiveria delle piccole differenze. Per esempio io ho un passato convinto da hegelomarxista e alcuni dei miei migliori amici sono hegelomarxisti. Il mio maestro, Martin Jay, che non è né hegelo né marxista, ha passato la vita a studiarli e io ero andato a studiare con lui anche per questo. Poi ho cambiato idea ma ho grande rispetto per il mio passato e per i miei amici. Poi uno scrive su un forum un riferimento che diventerebbe troppo noioso esplicitare e si va a fine col dare l’idea sbagliata.
    Così potrei dire che io adoro soprattutto il Negri di quella intervista a Liberation. Lo trovo delizioso politicamente ed eticamente. Delizioso perché lo stato nazione è invero una merda e anche se mi isola dal movimento maggioritario che, con buone ragioni, è contro quell’Europa, lo voglio poter dire. Tu, se mi permetti un commento forse superficiale, che hai così a cuore di non mescolarti con i fascisti mascherati, puoi forse capire la soddisfazione di lasciarsi indietro tutti i fascisti che sognano lo stato nazione impermeabile anche se pensano di essere di sinistra. Io, con questi, non c’ho niente a che spartire e se dicono “difendiamo la democrazia nazionale” io rispondo che è ora di farla finita con quella merda di stato nazione! Poi, delizioso perché, anche se accellerazionista, sono convinto, come è convinto Negri, che il capitalismo non ha più l’energia per riformarsi senza l’antagonismo della classe operaia. Io credo, come Negri, che se si chiedono riforme serie, questi qua si sfasciano senza riuscire a mobilitare la paura dell’aleatorio. Per questo, in forum meno caratterizzati, chiedo piuttosto la riforma del sistema bancario che la lotta di classe. Chiedo l’europa postnazionale piuttosto che l’estinzione dello stato etc. Etc..

    Detto tutto questo ritorno al punto iniziale. Queste mi sembrano piccole differenze a cui cerco di non affezionarmi. Che tu conosca quell’articolo e che io lo conosca con te mi sembra la cosa importante. Poi, come credo faccia anche tu, io discuto per passione e per capire meglio e, magari, imparare qualche cosa. Mica perché voglio avere ragione.

  74. @ erota

    io tengo fermo l’assunto che siamo tutti compagni e tutti dalla stessa parte, altrimenti non starei nemmeno a discutere.

    Il problema è che con banalizzazioni e semplificazioni tipo “lo stato nazionale è una merda”, anziché sottrarre spazio a fascisti e cripto-fascisti, gliene si concede a iosa.
    Lo stato nazionale è stato costretto a riconoscere e inscrivere in sé diritti civili e sociali, conquiste, servizi strappati ai padroni nei precedenti cicli di lotte. Se anziché spiegare questo e difendere quelle conquiste si sceglie – in nome di una Tendenza astratta e di una petizione di principio ideologica – di schierarsi a favore di un sovranazionale-senza-se-e-senza-ma che li distrugge, non solo questo discorso non viene capito dai più, ma quelle necessarie resistenze vengono gettate alle ortiche, da dove le raccoglieranno movimenti ambigui, populisti etc.
    Il discorso da fare sarebbe stato (e sarebbe): lo stato-nazione è una merda, ma se “stato-nazione” è – tanto per fare un esempio – la sanità (o la scuola) pubblica mentre “Europa sovranazionale” è la tendenza a privatizzare la sanità (o la scuola), quello è un piano su cui far esplodere conflitto e contraddizione. Se “stato-nazione” si traduce con servizio gratuito, mentre “Europa sovranazionale” si traduce con monetizzazione di quel servizio, non si può dire astrattamente che va assecondata l’Europa sovranazionale.

    Inoltre, il Negri di quell’intervista (che, ripeto, per me è il peggior Negri) ha un’impostazione tutta geopolitica e zero classista (Europa vs. USA) che, con le dovute “depurazioni”, non dispiacerebbe affatto ai rossobruni, perché anche loro amano ragionare in termini tutti geopolitici: la Russia, la Cina…

    Infine, a questo punto io comprendo bene perché ti piaccia soprattuto *quel* Negri: perché quello è il Negri che, muovendosi sempre dritto in uno spazio che però è curvo, finisce per somigliare davvero tanto, ma proprio tanto, a un hegeliano :-) Perché quella presa di posizione non è tanto in nome di rapporti di forza concreti, quanto in nome di un Geist.

  75. Da profano rispetto al dibattito su Negri e il post-operaismo, penso che oggi in Europa la (non impossibile) dissoluzione di alcuni stati nazionali non porterebbe ad una superiore fase di lotte sociali transnazionali, bensi’ ad uno scontro tra “piccole patrie”, tra supposte “comunita’ etnicamente omogenee”, e merde varie. Sono anche convinto che uno scenario di questo tipo, che definirei tecnicamente fascista, sarebbe “anacronistico” solo nel linguaggio e nella simbologia, ma nella sostanza sarebbe molto, molto funzionale proprio al capitalismo globale ipermoderno, e del tutto compatibile con l’ impostazione tecnocratica della costituzione europea.

  76. A proposito degli stati-nazione, la realtà dei fatti ci ha mostrato che la retorica contro questi ha portato alla nascita dell’ideologia dei micro-stati-nazione (dunque, dalla padella alla brace). Siamo contro lo Stato ma difendiamo il “nostro” territorio, le nostre piccole patrie, esaltiamo le nostre autoreferenziali comunità e l’Europa è infestata di regionalismi a tutti i livelli, come se questi non riproducessero, in piccolo e in peggio, l’ideologia della nazione, ma oggi senza neanche la Stato. Insomma, come essere riusciti a creare un mostro ideologico di cui si sono imbevuti tutti i peggiori populismi europei. (Ovviamente non è colpa di Negri, ma se il tema ha sfondato a sinistra lo si deve anche a certe teorizzazioni..)

  77. Lo Stato-nazione borghese (assolutistico o democratico in fondo poco importa) è uno scoglio pericoloso che incrocia la rotta del pensiero di sinistra praticamente dalle origini. C’è chi lo aggira con abilità, chi naviga ben alla larga, chi ci si va volentieri a schiantare contro, e chi tenta di attraccarci.

    Ogni affermazione sullo Stato fatta da sinistra, ragionando con un interlocutore di sinistra, secondo me ha mille rischi.

    Se lo si nega nei termini usati da Negri, si finisce per “allearsi” idealmente con le élite tecnocratiche votate allo smantellamento delle conquiste sociali; se si argomenta in senso opposto si presta il fianco all’accusa di nazionalismo; se si critica il centralismo statale, ci sarà per forza qualcuno che ti guarderà storto sospettando una specie di leghismo latente; se si dice al contrario che il welfare state tutto sommato qualcosa di buono ha ottenuto, ci si tira addosso il marchio d’infamia di borghese reazionario…

    Forse un po’ di “pulizia concettuale” su questo tema spinoso sarebbe opportuna da parte di tutti coloro che si riconoscono, con diverse sfumature, nella galassia della sinistra radicale.

    Da anarchico, ad esempio, ho un conto aperto con il libertarismo americano, che nelle varianti di destra come in quelle di sinistra è impegnato in una forma di anti-statalismo piuttosto imbarazzante, fino a trovare pericolose adiacenze con il movimento dei Tea Party. La critica anarchica allo Stato era tutt’uno con la critica nei confronti del Capitale; guai a dimenticarlo…

    Più da vicino, ho un conto aperto con i “federalisti” della destra identitaria… il pensiero federale è stato uno dei cavalli di battaglia dell’anarchismo ottocentesco, senonché il federalismo di cui parlavano allora i socialisti libertari era fondato precisamente su quell’uguaglianza nei rapporti sociali che gli identitari negano in accordo con le loro concezioni comunitarie…

    Ho fatto questi esempi giusto per dire che la questione dello Stato è un terreno scivoloso, un “oggetto del contendere” che si presta difficilmente a soluzioni semplici, date una volta per tutte.

    @ erota, girolamo

    Arrighi ha sempre visto le due fasi oscillanti del capitalismo come fattori quasi correlativi, nel senso che sarebbe impossibile immaginare l’uno senza l’altro. Se, in aggiunta, si rifiuta il capitalismo nella sua essenza, distinguere fra il capitalismo “buono” dei produttori e quello “cattivo” dei finanzieri non ha proprio nessun senso, secondo me…

    Anche a me manca “Adam Smith a Pechino”… per giunta l’ho ordinato qualche mese fa, ma deve ancora arrivare in libreria; l’hanno già messo fuori distribuzione, se non sbaglio…

  78. Infatti bisognerebbe trattare l’apparato statale come strumento, e non come fine. E’ esattamente ciò che ci contraddistingue da chi esalta lo Stato in quanto tale.
    Se la sconfitta storica a cui sta andando incontro l’organizzazione statale è rimpiazzata dal capitale globale che si autorganizza sul territorio senza più bisogno della mediazione statale, allora mi tengo il vecchio e caro Stato centralizzato. Se invece la scomparsa dello Stato è il risultato di un processo virtuoso di superamento delle strutture coercitive, allora vedremmo già la meta. Ma oggi, nel 2011, stiamo vedendo la meta?

  79. @militant 14/08/2011 at 2:11 pm

    Se il tema ha sfondato a sinistra lo si deve a molte cose. Da una parte c’e’ quel che dici tu, ma dall’ altra c’e’ anche la teoria della decrescita, con tutte le sue ambiguita’. Poi c’e’ la rinuncia a qualsiasi forma di universalismo, dettata inizialmente dalla necessita’ di difendere le lotte anticoloniali, ma degenerata presto nell’ accettazione acritica di strutture sociali oppressive e patriarcali. Infine, c’e’ stata la deriva di alcuni movimenti altermondialisti, che hanno introiettato l’ etichetta “no global” e ne sono rimasti prigionieri. Questo per quanto riguarda la sinistra “di movimento”. Per quanto riguarda la “base operaia”, c’e’ stata una vera e propria operazione propagandistica, organizzata scientificamente dal padronato e accettata senza grosse resistenze da pezzi importanti del sindacato, che ha usato l’ identitarismo per mettere gli operai italiani in competizione al ribasso con quelli immigrati.

    Ah, c’e’ un’altra cosa (ne parlavo l’ altro giorno con wm1): la sinistra ha snobbato la “cultura popolare”, quando questa ancora esisteva ed aveva ancora una connotazione “di classe” (vedi il lavoro di Alan Lomax, o di Roberto Leydi…); salvo poi “riscoprirla”, quando era gia’ un cadavere putrefatto, riesumato imbellettato e tecnicizzato da leghisti, comunitaristi, nazionalitari e compagnia.

  80. Quanta roba! Dal mio punto di vista, il rifiuto radicale dello stato nazione è stato invece un punto di uscita da Hegel e da quanto di hegeliano vi è nel marxismo. Lo stato nazione gioca un così chiaro ruolo nell’idea di una Storia dalla tribù allo stato all’universale che rende l’aleatorio impossibile.

    In questo passaggio l’idea della società civile nazionale gioca un ruolo fondamentale. Mi immagino i membri della mia nazione come membri “immaginari” della mia famiglia quindi mi prendo cura di loro. Mi faccio carico della loro salute, dei loro problemi economici etc.

    L’operaismo italiano, come i neoliberisti, trova questo socialismo nazionale soffocante e, anche se storicamente importante, parte del problema, non della soluzione. L’idea di popolo, che è sempre popolo/nazione, è una falsa universalità che impone una unità “trascendente,” (l’Italia come tutti gli altri stati si presenta come eterna, una e indivisibile come un dio biblico) alla moltitudine di soggettività irriducibili alla totalità. Questo è dove Negri, Agamben e la Arendt sono d’accordo: gli uomini e le donne e non l’Uomo vivono sulla terra. Parla dell’Uomo e le singole soggettività diventano superflue ed eliminabili. Per realizzare L’Uomo si possono uccidere un sacco di persone.

    La richiesta di “comune,” manipolata dal capitale, genera dei mostri comunitari, questo è vero, ma mica possiamo rimanere noi e Napolitano a difendere lo stato nazione. Lo scambio sanitá nazionale/ difesa della razza nazionale; senso di identità/antiimmigrazione non è una degenerazione: è l’essenza dello stato nazione.

    Per tornare alle rivolte in Inghilterra si rimprovera l’assenza di politica ma a me sembra che il livello nazional/politico sia in effetti già morto nelle coscienze delle periferie come dei centri. Rimane solo la polizia che ti sorveglia. E a me non viene in mente che sia lì a proteggermi. Ma penso che sia lì a proteggere lo stato nazione come dispositivo del capitale.

    So bene però che la storia della sinistra è una storia plurale su questo. Marx e i liberali, contra Hegel e i socialisti, lotta di classe contro sintesi nazionali.

  81. Mi domando come Negri e la Revel possano scrivere così tanto per non dire nulla di concreto.
    Comune in rivolta, molto interessante,
    Mi sembra però che rappresentino abbastanza bene il movimento cattedratico dei compagni: Sassen, Bauman, Arrighi, Lukacs, Foucault e Marx dicono che…

    Sono cassette degli attrezzi utilissime ma qualche volta questi attrezzi sono usati come un vezzo narcisistico per affermare la propria opinione e la propria persona.

    “Ciò che tuttavia queste rivolte insegnano è che “ l’uno si è diviso in due”, che la compattezza apparentemente senza faglie del capitalismo è ormai solo una vecchia fantasmagoria – che non c’è modo di riunificarla, che il capitale è definitivamente schizofrenico, e che la politica dei movimenti non può che situarsi immediatamente dentro questa rottura.
    Noi speriamo che i compagni che ritenevano le insurrezioni un vecchio arnese delle politiche dell’autonomia sappiano riflettere su quanto sta avvenendo. Non è sfiancandosi nell’attesa di scadenze parlamentari, ma inventando nuove istituzioni costituenti del comune in rivolta, che tutti insieme potremo comprendere l’a-venire. ”

    Io non ci capisco niente.
    A parte la critica che c’è nell’articolo alla rappresentazione dei mass media agli avvenimenti in questione.
    Non capisco come si possa unire la Tunisia, la Spagna e Londra. Cioè lo capisco a livello di crisi strutturale del capitalismo ma voler metter insieme queste cose appare come un fare rientrare la realtà nei propri schemi cognitivi.

    Il meccanismo è lo stesso dei giornali e dei politici quando parlano degli ultras, dei saccheggi o di qualche corteo che finisce in scontri. Sono dei folli che deviano dall’implicita normalità che io rappresento: il cittadino integrato, il giornalista, il politico, l’imprenditore insomma tutte le categorie che possono parlare e autorappresentarsi nella società.
    Il meccanismo è lo stesso solo che è rovesciato: i rivoltosi di Londra e i saccheggiatori stanno rivoltandosi contro la tecnocrazia bce fmi etcetera. Lo stanno facendo ma non ne sono “consapevoli” perché la fase di queste lotte è ancora iniziale.
    I giornalisti e i politici non vanno mai parlare con queste classi pericolose, basta l’etichetta che imprimono perché i rivoltosi in questione difficilmente hanno accesso al discorso dei media per potersi difendere.

    Ma Negri ci è andato?
    Negri che dice che il passamontagna gli ricorda l’odore della classe operaia, c’è andato a parlare?
    Le insurrezioni un vecchio arnese dell’autonomia… sì ma oggi l’autonomia organizzata non c’è più, a parte qualche efficace esempio sparso in Italia. E soprattutto le rivolte in questione non hanno nulla a che fare con l’autonomia, è inutile farcele rientrare a forza (perché c’è una sorta di autorganizzazione, perché sono i quartieri a muoversi, perché nuovi soggetti sociale a muoversi…).

    E la conclusione:

    “inventando nuove istituzioni costituenti del comune in rivolta, che tutti insieme potremo comprendere l’a-venire.”

    Verrebbe da dire: grazie al cazzo!
    E poi: cioè?
    Mi sembra un mucchio di fumo.

    Ma soprattutto mi sembra un linguaggio criptico proprio perché non si hanno le idee chiare, non un linguaggio tecnico-politico-filosofico utilizzato perché serva chiarire la realtà.

    Ma soprattutto gli inglesi rioters che ne pensano?

    Non voglio affermare che bisogna per forza essere in mezzo al lumpen di Hackney per parlarne ma sicuramente queste definizioni cattedratiche hanno il difetto di farci sembrare tutti d’accordo quando invece c’è necessità di chiarezza soprattutto.

    La crisi in sè non è la soluzione. La soluzione può essere solo politica. E c’è la soluzione di Lenin alla guerra mondiale e quella di Friedmann alla crisi del ’73.

    I riots in sè non significano nulla o significano se stessi e le parole dei soggetti che vi partecipano e non si può trasformarli in volontà di potenza costituente o albori di comuni in rivolta perché fa molto Deleuze.

    Scusate la lunghezza.

  82. @ erota
    giusto per precisare: lo Stato è stato importante per l’hegelismo quando lo Stato era visto come culmine della storia umana e massima espressione dello spirito. Oggi un vero hegeliano non guarderebbe allo Stato perché il culmine è pensato altrove e oltre. Già Kojève era intrippato col governo mondiale, figurarsi. Insomma, vedo forte il rischio di una battaglia di retroguardia contro le gabbie concettuali dell’altroieri. Oggi un vero “hegelismo deteriore” dello Stato quasi non saprebbe che farsene. Comunque, mi sembra che ragioni troppo per antinomie e coppie oppositive: da una parte c’è questo, dall’altra c’è il suo contrario, prendere o lasciare, o si è disposti a gettare ai piranha il welfare oppure si crede a patrie e comunità immaginarie, “Stato” vuol dire una cosa sola, l’Uno, e quell’Uno è merda e allora le contrapponiamo un altro Uno, il Comune… Più molteplice, su! Stiamo parlando di istituzioni pubbliche complesse, che hanno diverse articolazioni, contraddittorie tra loro, alcune delle quali sono state strappate con lotte epocali, iniziativa dal basso, conflitto durissimo, scioperi… Non si può ridurre tutto questo a uno “scambio” come quello a cui accennavi tu. Tra l’altro, in questo momento è in corso una *lotta transnazionale in difesa del welfare*: Grecia, Spagna, Islanda, i movimenti studenteschi continentali dell’inverno scorso, contro i tagli, contro l’Austerity. Nel tuo schema, come ci entrano queste lotte, con la loro tensione al transnazionale e, al contempo, la loro strenua difesa del welfare?

  83. @erota

    guarda, in altre occasioni qui su giap io sono stato tra quelli che hanno insistito maggiormente sulla necessita’ di non cadere nella brace dell’ italianita’ per sfuggire alla padella del leghismo. se ti dico che vivo a trieste/trst, capirai anche il perche’. ma qui si tratta di difendere delle conquiste sociali, mica la nazione. intu ‘u culu la nazione! quel che io non voglio perdere e’ ad esempio il diritto ad essere curato gratis in un ospedale, diritto che i miei nonni e i miei genitori hanno conquistato con lotte e sacrifici. io voglio che questo diritto venga esteso a tutti i migranti che vivono qui. e appoggio le lotte di chi difende questo diritto, o cerca di ottenerlo, in grecia, in cina, in tunisia, ovunque. qui, oggi, in questo mondo, questi diritti possono essere difesi o conquistati solo in rapporto ad una struttura politica e amministrativa come lo stato. in questo la nazione non c’entra proprio nulla.

  84. @ tuco, Wu Ming 1

    D’accordo sull’esigenza di essere plurali e realisti, però guai ad abbassare la guardia. Non è un rimprovero diretto a voi – ci mancherebbe altro – ma un “caveat” che secondo me dovrebbe risuonare instancabilmente all’interno dei movimenti per evitare di cacciarsi in vicoli ciechi e battaglie di retroguardia.

    Mi è capitato di sentir dire in tutta serietà da militanti impegnati nei movimenti – e non certo fra i più moderati – che vabbé la critica all’Europa, però l’Europa è anche l’unico possibile interlocutore per sperare di tradurre in norma vincolante per le politiche sociali nazionali il principio del basic income… ora, non so quanto queste posizioni siano diffuse, ma a me fanno rizzare i peli delle braccia.

    In fondo, è niente più che la trasposizione “a conti fatti con l’oste” del principio affermato da Tuco: “questi diritti possono essere difesi o conquistati solo in rapporto ad una struttura politica e amministrativa come lo stato”. In Europa che margine d’azione hanno ancora gli Stati di fronte al monstrum tecnocratico di Bruxelles? Se si passa quindi dal piano dei diritti conquistati e da difendere a quelli da conquistare (o da riconquistare) bisognerebbe riformulare il principio in questi termini: “questi diritti possono essere difesi o conquistati solo in rapporto ad una struttura politica e amministrativa come l’Unione Europea”.

    La sanità gratuita e garantita a tutti, la scuola pubblica, il libero accesso ai beni comuni ecc… sono conquiste fondamentali anche per me, e guai a metterle in discussione. Però secondo me non sono “valori assoluti”. Mi spiego meglio per non dare adito a fraintendimenti: si tratta di conquiste che hanno una precisa carratterizzazione storica, e sempre in rapporto con la storia vanno analizzati e, se necessario, sottoposti a critica.

    Forse la mia è una lettura semplicistica, ma mi sembra che se da un lato – quello positivo, diciamo – queste conquiste sono scaturite dalle rivendicazioni dei lavoratori, dalle lotte operaie ecc., dall’altro lato – quello negativo – la sussunzione delle forme di sicurezza sociale da parte dello stato borghese e del suo apparato amministrativo e repressivo ne abbia modificato profondamente il significato e il valore, al punto da convertire il potenziale liberatorio ed emancipatorio di quelle conquiste in strumento di oppressione e ammansimento potente come pochi.

    Tanto per fare un esempio concreto e forse un po’ banale di quanto certa retorica sia penetrata nel senso comune: c’è la tendenza, quando si parla ad esempio di sanità, scuola, beni comuni “pubblici”, ad assecondare l’equazione tutt’altro che scontata per cui pubblico equivale a “gestito dallo Stato”. Questo implica l’accettazione del principio liberaldemocratco della rappresentanza: in una democrazia ben funzionante, sono i cittadini a nominare in modo trasparente e consapevole coloro ai quali sarà demandato l’onere di gestire correttamente questi beni “pubblici”.

    Ad essere invece sistematicamente rimosso dalla coscienza collettiva, è il fatto che una “gestione pubblica” di certi beni e servizi non implica necessariamente la fiducia incontrastata nei benefici della macchina amministrativo-repressiva dello Stato democratico…

    Un discorso analogo si potrebbe fare sul tema della tassazione. Perché io dovrei considerare il versamento delle tasse come una specie di imperativo categorico, di obbligo morale indiscutibile? Anche dietro questi ragionamenti, vedo la completa interiorizzazione dell’idea liberale del “contratto sociale” tramite cui i cittadini alienano una parte della loro libertà ad un apparato di potere trascendente.

    Ora, è chiaro che giù di questo passo si rischia di assecondare le cretinaggini dei sostenitori dello sciopero fiscale “à la Berlusconi”, o le fetenzie ultraliberiste di coloro che appoggiano la privatizzazione di beni e servizi pubblici… ma quale posizione “radicale” non ha i suoi rischi in questo senso? Come dicevo prima, stiamo navigando a vista (io, almeno…) in mezzo a scogli pericolosissimi.

    Insomma: occhio sempre a non prendere per realismo politico la resa a certo senso comune in salsa vagamente liberaldemocratica che tanto piace al popolo viola, ai grillini, al pubblico plaudente del Palasharp, ai lettori di Repubblica o del Fatto Quotidiano.

  85. Scusate, ma ho un presentimento che mi sento di esprimere e che forse qualcuno più colto di me potrebbe chiarirmi. Io temo che ragionando di hegelismo e tenendo l’idea di Stato nazione strettamente connessa al filone di pensiero continentale rischi di sfuggire, appunto, il molteplice concreto, come qualcuno ha già fatto notare. Innanzi tutto mi pare che sfugga una distinzione, una diversità, nel manifestarsi storico-culturale della forma stato moderna.
    Lo dico perché poi il dibattito prende le mosse dai riot inglesi dei giorni scorsi e – sempre nella mia limitata e parzialissima conoscenza delle cose – a me non pare che lo stato nazione hegelianamente inteso calzi con la Gran Bretagna. Un poco di storia inglese la conosco, e potrei dire che il concetto stesso di “Stato nazionale” da quelle parti è assai più blando di quello che si è affermato nell’Europa continentale e perfino negli USA (che hanno subito molti più influssi culturali “francesi” all’atto della loro costituzione, rispetto all’ex-madrepatria). L’idea di un’identità tra popolo, suolo e apparato politico-istituzionale come espressione storica di uno spirito più o meno innato è piuttosto astratta per un inglese. Esiste il popolo, esiste il governo, ed esiste la monarchia: sono tre cose ben distinte e non necessariamente espressione di un’identità monolitica. Questo perché fin dalla sua nascita come entità politica nel Medioevo, quello che sarebbe diventato il Regno Unito si è presentato come un aggregato progressivo e una stratificazione di popoli, lingue, e entità preesistenti. Per di più in un sistema istituzionale privo di costituzione scritta e fondato sulla “consuetudine”. Principio questo che l’impero britannico poté negare ex abrupto solo quando si trovò a sopraffarre culture e popolazioni estremamente arcaiche, come ad esempio gli aborigeni australiani. Ma anche in quel caso dovette pur sempre ricorrere al concetto di “terra nullius”, per non contraddire i propri stessi principi fondativi e poter fingere appunto che l’Australia non fosse di nessuno.
    Credo che questo sia uno dei motivi per cui, ad esempio, un nazionalismo “inglese” non abbia mai potuto esistere. Esiste ovviamente il nazionalismo “britannico”, come quello del BNP, ma è in sostanza una contraddizione in termini, dato che proprio la britannicità – qualunque cosa possa significare – non si adatta né storicamente né idealmente a uno stato-nazione come possiamo averlo concepito e conosciuto nell’Europa continentale (men che meno alle sue concretizzazioni nazional-socialiste e fasciste). Se non altro perché si è trattato di un’ideologia imperialista i cui confini erano assai estesi e malleabili.
    Ecco, chiedo scusa se ho un po’ divagato, ma tutto questo discorso era per ribadire che parlare di “Stato nazione” in termini astratti, o hegeliani, se si preferisce, basandosi su dualismi netti, è in effetti un esercizio un po’ teorico e che lascia il tempo che trova.

  86. @ Wu Ming 4

    Secondo me le precisazioni che hai fatto possono sia agire in senso pluralista, sia configurare un’altra idea generale, non meno astratta, di “Stato”. Idea che, lo ammetto, non mi dispiace affatto :-)

    Mi spiego, sperando di non fare strafalcioni: il principio di “terra nullius” è il fondamento delle “robinsonate” del pensiero liberale, da Locke in avanti. E’ l’idea del pioniere (homesteader) che affonda la vanga nella terra vergine e si costruisce una vita ex novo con la sola forza delle proprie braccia e del proprio cervello; rivestimento ideologico per ricoprire con una bella foglia di fico il “diritto” all’appropriazione violenta.

    Ora, da questo principio deriva ad esempio l’idea di “Stato minimo” dei miniarchici, per cui l’unica funzione che potrebbe svolgere lo stato sarebbe appunto la garanzia di difesa della proprietà “legittimamente acquisita”. Considerato che si tratta di un’idea che sta alla base anche di concezioni più articolate dello Stato, si potrebbe quasi vederci una specie di “nocciolo duro” dell’idea stessa di Stato… quello che resta dopo che, come da una specie di mega-cipolla culturale, si siano pelati via i livelli più esterni – conditi di nazionalismo, patriottismo, dialettica hegeliana ecc.

    Ecco allora che lo Stato diventa nulla più che il garante supremo del diritto all’appropriazione violenta, e la negazione dello Stato (che torna così ad essere ricondotto ad un’essenza generale) diventa funzionale alla ribellione contro questa appropriazione.

  87. “Tra l’altro, in questo momento è in corso una *lotta transnazionale in difesa del welfare*: Grecia, Spagna, Islanda, i movimenti studenteschi continentali dell’inverno scorso, contro i tagli, contro l’Austerity. Nel tuo schema, come ci entrano queste lotte, con la loro tensione al transnazionale e, al contempo, la loro strenua difesa del welfare?”

    A me sembra questo il nocciolo: questi movimenti difendono diritti (salute, etc.). Classi dirigenti nazionali furbe e capaci attribuiscono tutti i mali all’esterno: “La colpa dell’attacco ai vostri diritti è la globalizzazione, la Cina, i lavoratori indiani, gli immigrati. Se fosse per me, non farei nulla di tutto questo… Io le tasse le abbasserei e il lavoro lo darei a voi…”
    Il risultato, in alcuni casi, è che le classi dirigenti più screditate si ri-legittimano (temporaneamente) grazie a questo appello al “dentro” contro il “fuori.” Persino Bossi capisce che si rilegittima se appare come il difensore delle pensioni dai cattivi speculatori internazionali.
    Io credo che tutti ormai sappiano che sono tutte balle, ma nessuno ci crede (mossa alla Zizek qui) perché nessuno ha il coraggio di dire che gli stati nazionali sono già morti e sopravvivono solo come schermo ideologico. Il corriere dice che il governo italiano è commisariato e nessuno dice

    1) è da tanto che il governo italiano non governa altro che lo spettacolo del potere di elites senza funzione. Divertenti e inutili come i personaggi di una telenovela;
    2) è falso. Non c’è un fuori che commissaria e un dentro che è commissariato. Non vi è membrana che assicura la sicurezza di passaggi fra il dentro e il fuori: tutto circola senza controllo. In alcuni casi, con violenza, (contro il lavoro vivo), in altri, semplicemente (capitale).

    Non farsi fregare e lottare per i diritti senza pensare che la chiusura nazionale risolva alcunché è una sfida contro l’immaginazione nazionale.

    @ Wu Ming 4
    È vero che c’è una differenza fra stati di forte tradizione liberale/imperiale/federale e stati di altra tradizione. Direi però che 1) persino gli USA hanno subito forte involuzione nazionale; 2) che il problema è proprio lo stato liberale e la sua tradizione, e non lo stato prussiano che non esiste più.
    Gran parte della tradizione politica occidentale si basa su pensatori britannici (Hobbes and Locke) che hanno teorizzato, prima dei francesi e da cui i francesi e i tedeschi dipendono storicamente, che la funzione dello stato è di proteggere da una condizione di guerra civile permanente. Il problema è che lo stato di eccezione, la guerra civile, non deve essere inteso come un prima, ma come un “durante.” Lo stato è il principio di una guerra, una guerra di classe marxianamente. Questo è troppo lungo, e so già che mi si accuserà di pressapochismo, ma se uno pensa solo a chi è il piu grande responsabile di uccisioni nel ventesimo secolo, uno vede che lo stato, che si legittima come il protettore della nazione, è in realtà il lupo che protegge il gregge. Lo stato nazione è il mecanismo che fa dei lupi/pecorai i guardiani legittimi agli occhi delle belle pecorelle.

  88. @ Don Cave

    “Forse la mia è una lettura semplicistica, ma mi sembra che se da un lato – quello positivo, diciamo – queste conquiste sono scaturite dalle rivendicazioni dei lavoratori, dalle lotte operaie ecc., dall’altro lato – quello negativo – la sussunzione delle forme di sicurezza sociale da parte dello stato borghese e del suo apparato amministrativo e repressivo ne abbia modificato profondamente il significato e il valore, al punto da convertire il potenziale liberatorio ed emancipatorio di quelle conquiste in strumento di oppressione e ammansimento potente come pochi.”

    pero’ resta il fatto che la “borghesia” (qualunque cosa voglia dire oggi) non vede l’ora di fare piazza pulita di queste conquiste.

    aggiungo anche che (e dammi pure del moderato, se vuoi :-)), se io fossi un malato di cancro, la possibilita’ di curarmi senza dover accendere un mutuo non credo la vedrei come strumento di oppressione ed ammansimento.

  89. @ erota
    sinceramente: se c’è una cosa che movimenti come gli Indignados spagnoli o gli incazzati greci (o i No Tav italiani, se è per questo) NON stanno assolutamente facendo, è rilegittimare le classi politiche nazionali, che anzi vengono contestate violentemente con una pervicace *critica pratica della rappresentanza*. Nessuna stronzata del nemico tutto esterno, in quelle lotte. Si difendono conquiste sociali e beni comuni da un’aggressione liberista che non ha “interno” o “esterno” e vede complici tecnocrati euro, banche nazionali, politici, padroni e pseudo-sinistre asservite. Chiunque abbia seguito l’evoluzione del movimento spagnolo sa di questa poderosa sfiducia nei confronti della classe politica nazionale. Quel movimento sa distinguere tra risorse pubbliche e diritti sociali da un lato, e “nazione” dall’altro. Ecco, questo è un approccio che valorizza la molteplicità del reale e non fa prevalere concetti astratti con la maiuscola.

  90. @ erota

    concordo con quanto dici sulle origini teoriche dello stato moderno, ma ribadisco che in Gran Bretagna non è il modello hobbesiano che ha trionfato, quanto forse piuttosto quello lockiano (ammetterai che c’è una qualche differenza). Ma soprattutto la teoria ha dovuto fare i conti con la storia imperiale di quella “nazione”, nella quale è molto difficile far coincidere popolo e terra, sangue e confini. Se non altro perché la sovranità risiede nella monarchia e il monarca britannico è tale anche per popolazioni che non soltanto non sono “inglesi”, ma in molti casi nemmeno europee.
    Sono esistiti certamente anche imperi nazionalistici, come ad esempio quello francese o, in sedicesimo, quello italiano, ma non è il caso dell’impero britannico. Non per niente quest’ultimo è quello che storicamente si avvicinò di più all’idea imperiale dell’antica Roma.
    Gli Stati Uniti fondono i due modelli, perché da un lato fanno propria l’idea dello stato nazione, dall’altro proseguono l’imperialismo britannico in Nordamerica. Quello americano è in sostanza un “impero” nazionale che ingloba e include territori e popoli (provenienti però dall’esterno, occhio, popoli immigrati) dentro confini nazionali che si espandono progressivamente verso ovest, nella ipotetica terra nullius. L’impero britannico invece non ha conosciuto una continuità geografica dei propri confini e si è misurato molto di più con la necessità di confrontarsi e a volte perfino mediare con le culture e i sistemi politici che andava inglobando (e non mi riferisco solo all’India: basti pensare che, per antico diritto consuetudinario, il monarca britannico deve ancora chiedere il permesso prima di sbarcare nelle isole della Manica). Questo ovviamente non lo rende né migliore né peggiore degli altri modelli imperialistici, ma lo colloca al di fuori dello schema “stato-nazione” a cui siamo soliti fare riferimento. Certamente, come ricorda Don Cave, lo rende magari più permeabile all’idea dello stato leggero ultraliberale, e sappiamo quanto questo filone di pensiero abbia fatto fortuna proprio negli Stati Uniti, ma allo stesso tempo mantiene anche una sorta di paradossale – e certo contraddittorio – “rispetto” per le comunità che si trovano o vanno costituendosi al suo interno, rendendo più difficoltosa la contrapposizione molare tra stato centralizzato e piccole patrie.
    Ora, non è che io tenga a queste precisazioni per mero puntiglio, ma perché, per parafrasare il Bardo, credo ci siano più cose tra lo stato nazionale/nazionalistico e il liberismo sovra-nazionale di quante ne concepisca la nostra filosofia politica. Allora, invece di ipostatizzare una contrapposizione molare e (ribadisco) un po’ teorica, un po’ astorica tra i due aspetti, io credo che sia utile considerare l’uno e l’altro come terreni di conflitto praticabili e da praticare. Anche perché, tra l’altro, storicamente è quello che è accaduto e che continua ad accadere.
    L’errore invece sarebbe quello nel quale sembra che pensatori come Negri siano caduti in un particolare momento storico, cioè una sorta di contrapposizione binaria che può portare anche a prendere abbagli a mio avviso clamorosi, come quello sulla Costituzione europea. Ma ci aggiungerei anche quello sull’Impero, che secondo me va di pari passo con quel tipo di approccio… Tra l’altro, mi pare che, come fa notare il mio socio qui sopra, i movimenti di contestazione europei più interessanti e lucidi, provino a fare i conti proprio con la complessità storica di cui sopra e rifiutino certe astrazioni.
    Però mi fermo qui, e mi scuso, perché l’ho fatta fin troppo lunga :-)

  91. Tanto per contravvenire alle mie buone intenzioni :-) mi preme aggiungere una cosa. Lo stato nazionale non è affatto morto e sepolto. Nell’ultimo decennio, proprio le dinamiche monetariste e speculative imposte dal liberismo e dai suoi enti sovranazionali, come il FMI, hanno trovato risposte molto nette, e non necessaramente mistico-nazionaliste, nelle politiche dei nuovi governi latinoamericani di sinistra. Alla debitocrazia è stata contrapposta l’insolvenza rivendicata “politicamente”. E questo è stato possibile proprio partendo da una dimenzione nazionale, capace di estendersi, con un effetto domino virtuoso, in questo caso, a un’intera macroarea geopolitica. Perché poi, che la dimensione nazionale sia insufficiente, è assolutamente pacifico. Ma questo non esclude che non possa essere un punto di partenza, ovvero un terreno di conflitto ancora utile. Adesso chiudo davvero.

  92. @Girolamo e altri

    “Adam Smith a Pechino” l’ho letto, mentre è ancora sulla scrivania “Il lungo XX secolo”. Purtroppo è passato più di un anno e non ricordo tutti i passaggi di quest’opera che mi sembra fondamentale *anche* per i suoi difetti e la sua incompiutezza. Io credo che nelle intenzioni di Arrighi questo fosse un punto di partenza di uno studio sul secolo XXI che in qualche modo sembrava potesse avere come protagonista un capitalismo à la Adam Smith, basato su quella che lo studioso chiama “Rivoluzione industriosa” (ad alta intensità di lavoro) contrapposta alla Rivoluzione Industriale (ad alta intensità di capitale). Arrighi evidenzia il ruolo della produzione per il mercato interno che in Cina viene fatta non negli enormi complessi costieri (tipo Foxconn) ma in stabilimenti più piccoli di proprietà municipale. Si tratta ovviamente di un capitalismo in cui è centrale il ruolo dello stato, e di uno stato autoritario, per cui dal nostro punto di vista non rappresenterebbe un’alternativa particolarmente desiderabile. Ciò nonostante è un’ipotesi “forte” e molto interessante, sicuramente singolare anche per il suo esplorare (a partire da dati concreti) l’area di cui parlavate sopra, quella fra il liberismo sovranazionale totale e lo stato nazionale autarchico. E’ proprio vero…Arrighi ci manca, la sua visione in grado di unire economia, storia e scienza politica secondo me non ha corrispettivi nel pensiero attuale.

  93. @ Wu Ming 1

    cit.: “Chiunque abbia seguito l’evoluzione del movimento spagnolo sa di questa poderosa sfiducia nei confronti della classe politica nazionale. Quel movimento sa distinguere tra risorse pubbliche e diritti sociali da un lato, e ‘nazione’ dall’altro. Ecco, questo è un approccio che valorizza la molteplicità del reale e non fa prevalere concetti astratti con la maiuscola.”

    D’accordo, però un conto è mettere in evidenza difetti, limiti, ingiustizie dello status quo; altra cosa è avere la percezione di un’alternativa.

    Ora, non si può pretendere che un movimento eterogeneo e “giovane” (in senso cronologico, non generazionale) possa formulare una visione alternativa coerente e definita – ammesso e non concesso che una visione del genere rientri fra i suoi obiettivi, tra l’altro. In più mi sembra vada riconosciuto che molte delle pratiche sperimentate nelle piazze spagnole abbiano in qualche modo “realizzato” una possibile alternativa ben prima di averla chiara a livello di pensiero.

    Quello che dico è sicuramente viziato dalla mia esperienza tra le fila degli emuli impreparati degli indignaods spagnoli qui in Italia. Ma in questo movimento europeo ho avuto la sensazione (forse errata) di una confusione generale eretta un po’ a “respingente” contro ogni progetto di visione coerente: siamo tanto belli perché non siamo ideologici e perché anziché teorizzare facciamo cose concrete… per cui vade retro ad ogni ritorno di un pensiero “forte”.

    Non sono un fan dei concetti con l’iniziale maiuscola. Non penso si riferiscano a delle essenze indipendenti rispetto al nostro pensiero e alle nostre categorizzazioni. Però secondo me in alcuni frangenti sono necessari. Permettono di formulare delle sintesi e di costruire degli arieti teorici da lanciare con tutta forza contro le porte sprangate del senso comune.

    Per cui ribadisco la mia: fatta salva la necessità di mantenersi pluralisti e realisti, un’idea coerente e unitaria di “Stato” resta forse necessaria, e altrettanto necessaria è una critica a tutto spiano nei suoi confronti. L’alleato delle rivendicazioni di oggi non è nell’apparato amministrativo e repressivo che ha “imbalsamato” le conquiste dei movimenti operai e dei diritti civili; è nello spirito che animava quei movimenti, che spesso e volentieri, di quel apparato statale, combattevano le tendenze autoritarie e repressive.

  94. io non credo che le conquiste dei lavoratori siano state “imbalsamate” dallo stato. io credo che a un certo punto (durante gli anni settanta) il movimento operaio (e con esso tutti i movimenti rivoluzionari e/o radicali) sia semplicemente schiantato sotto i colpi di un’offensiva padronale e conservatrice transnazionale senza precedenti. da quel momento, invece che lottare per ampliare le conquiste e i diritti, si e’ dovuto lottare per difendere cio’ che si era ottenuto. mi pare che nessuno abbia scritto che l’ alleato delle rivendicazioni vada ricercato nell’ apparato amministrativo e repressivo. mi pare invece che alcuni abbiano detto che la legislazione in campo sociale, la politica economica, la politica fiscale, la gestione delle risorse e del territorio ecc. (tutte cose di pertinenza dello stato: nazionale, imperiale, regionale, federale che sia) sono terreno di conflitto, e che quel terreno va presidiato per quanto possibile, e non abbandonato al nemico.

  95. @ Don Cave
    Esatto…è proprio l’alternativa quello che manca, un alternativa politica che tenga dentro tutti i rivoli delle contestazioni, della rabbia, della delusione di questi anni. Ai movimenti di questi anni è esattamente questo che è mancato, un alternativa coerente e chiara che facesse capire al resto della cittadinanza quale è il nostro modello alternativo di società.

  96. @ tuco

    Il welfare state è stato “inventato” dal Cancelliere Bismarck per conculcare il movimento socialista, accreditando un’immagine benevola e “paterna” dello Stato. Nel Secondo Dopoguerra, poi, è stato lo strumento perfetto per rendere operativo, attraverso politiche di deficit spending, il modello keynesiano.

    Quindi, secondo me, il tentativo “padronale” di piegare l’idea di una società più equa alle esigenze di riproduzione del capitale (che ha il suo perno e il suo apice nella conversione delle potenzialità conflittuali della classe lavoratrice in “capitale sociale”), data a ben prima dell’arrembaggio neoliberale degli anni ’70-’80.

    Poi è vero, gli strumenti che citi (politiche fiscali, legislazione sociale ecc.) sono “pertinenza dello Stato”. Ma sono davvero l’unica via praticabile per rendere possibile una società equa e giusta? Lo Stato è davvero l’unica risorsa?

    Non mi sognerei mai di mettere in discussione l’importanza storica della sanità e della scuola pubbliche, o l’efficacia delle politiche economiche di ispirazione socialdemocratica… e di sicuro non mi unirei mai e poi mai al coro di quanti chiedono l’abolizione del welfare in nome di un anti-statalismo miope.

    Però, anche in questa difesa, l’alternativa deve restare ben chiara, altrimenti si perdono le coordinate, come sottolinea Militant. In più si rischia di confondere tattica e strategia; tatticamente, la difesa delle forme di protezione sociale può essere una buona mossa; ma strategicamente lo sguardo deve per forza di cose spingersi più in là.

    Mi sembra che questo pensiero sia condiviso un po’ da tutti, da queste parti… forse ci sono delle differenze relative alla “visione strategica”, e su queste differenze si giocano le diverse posizioni sul ruolo dello Stato; come dicevo qualche commento fa, ogni navigante ha un approccio diverso nei confronti dello scoglio :-)

  97. @ Don Cave

    quoto l’ultimo passaggio del commento di Tuco delle 12:48, capisco la passione per il discutere, però cerchiamo di non attribuire agli interlocutori posizioni mai espresse.

    Sugli Indignados spagnoli, io ho continuato a documentarmi, grazie a un’amica ispanofona che ogni due-tre giorni mi manda una rassegna selezionata di link su quel che sta facendo e dicendo il movimento. Ebbene, tutto quel che ho letto e visto negli ultimi mesi testimonia di un’evoluzione rapidissima, discorsi lucidi e pratiche solide, consapevolezza di chi sia il nemico, e oggi è ben difficile descrivere quel movimento come ingenuamente a-ideologico e unanimista.

    Ovvio che i concetti sono indispensabili e imprescindibili, è un’affermazione pleonastica. Il punto mi sembra un altro: se si deforma la realtà (ergo: le lotte) per farla entrare a forza in una gabbia concettuale a cui ci si è affezionati o semplicemente abituati, anziché usare le lotte come “stress test” per le nostre categorie, prima o poi ci si riduce a ignorare ogni conflitto – anche cruciale – che non somigli all’idealtipo del conflitto che abbiamo in mente. Così, per fare un esempio, la lotta operaia contro la delocalizzazione di uno stabilimento o contro lo smantellamento del contratto nazionale diventa una lotta “arretrata” o addirittura “reazionaria”. Questo è “fare il finocchio col culo degli altri”, ovvero: fare il filosofo con il culo di chi lotta per la vita. E guarda che non è un’iperbole, queste cose le ho sentite dire con le mie orecchie, e posso reperire con facilità interviste in cui Negri diceva cose non dissimili (infatti Zizek le cita e gliele rimprovera in un suo libro, di primo acchito non ricordo quale).

    Sul fatto che dobbiamo tendere a una visione coerente, ok, ma sul fatto che si debba avere una “idea unitaria” dello stato o di qualunque altra cosa, mi dispiace ma sono in totale disaccordo. Il mondo non è fatto di unitari, ma di molteplici.

    In un commento precedente ricordavi che i vari filoni dell’antagonismo di sinistra non hanno mai trovato *una* idea/rappresentazione dello stato. Io credo non sia accaduto perché è impossibile. Non esiste “lo” Stato, non esiste Uno Stato: esiste “dello” stato, c’è dello stato, ci sono delle forme-stato diverse tra loro nel tempo e nello spazio. Ciò è naturale: lo stato non è un’Idea a priori, un prius: lo stato “viene dopo”, è sempre a posteriori, perché il diritto è la ratifica/cristallizzazione dei rapporti di forza, che sono mobili, mutevoli, sempre rinegoziati dal conflitto. Le forme-stato sono il risultato temporaneo delle lotte tra classi, e le lotte tra classi continuano a modificarle. “Storicizzare sempre!”.

    Uno stato è sempre tante cose: è il gendarme e carceriere e va combattuto, ma non è solo il gendarme e il carceriere; è il comitato d’affari della borghesia e va combattuto, ma non è solo il comitato d’affari della borghesia. Uno stato è anche *lotta di classe oggettivata* : le pensioni, la scuola laica, la contrattazione nazionale di categoria, l’ispettorato del lavoro, il divieto del lavoro minorile, la sanità pubblica, l’aborto gratuito, gli asili-nido, l’acqua municipale, la tutela dei parchi nazionali, i divieti di caccia e chi più ne ha più ne metta. Sono tutte conquiste dal basso, dei movimenti.

    Attenzione: dire che il welfare state lo ha “inventato” Bismarck testimonia una visione idealistica della storia: è più corretto dire, materialisticamente, che la classe dominante si trovò a dover reagire all’emergere del movimento operaio. L’esistenza del movimento operaio fu il “pungolo” storico. Senza le lotte, saremmo ancora allo stato liberoscambista della rivoluzione industriale, al lavoro minorile senza limiti di tempo etc. Bisogna sempre porre l’accento sulle lotte, non sulla risposta padronale, altrimenti non la percepiamo come una risposta. Lo sviluppo capitalistico è stato la risposta alle lotte operaie che mettevano in crisi un modello di sfruttamento.

    Nella realtà concreta (che è sempre *spuria*) non vale la distinzione netta tra lotte puramente riformiste e lotte puramente rivoluzionarie: i movimenti più maturi e più calati nel reale hanno sempre saputo che *si lotta*, questo è l’essenziale, e di risultato in risultato ci si rende conto che la lotta paga, e se questa non è un’acquisizione rivoluzionaria, non so cos’altro possa esserlo.

    Noi viviamo in un’epoca in cui nella lotta di classe predominano i padroni, e si vede: le forme-stato sono modificate di conseguenza, con la cancellazione di conquiste che le lotte avevano inscritto nel diritto.

    Dobbiamo riattivare un ciclo *offensivo*, anche tornando a inscrivere risultati concreti nella forma-stato, forzandola, acuendone le contraddizioni interne, per uscire dal ciclo delle sconfitte.

  98. Sarà un caso, poi, che nei momenti storici in cui predomina incontrastato il padronato, lo Stato si smobilita, si fa più leggero, si rende minimo, mentre nei momenti più felici della lotta di classe lo Stato si riscopre “pesante” e onnipresente?
    Una delle spiegazioni potrebbe essere che ancora non si è trovata un’alternativa allo Stato come struttura pubblica, cioè comune, cioè di tutti.
    Si continua a parlare di beni comuni e di pubblico, ma ancora nessuno ci ha spiegato quale dovrebbe essere lo strumento per renderli pubblici che non sia una loro statalizzazione. Questa si che sarebbe l’alternativa. Va bene non fare dello Stato un feticcio al quale aggrapparci, ma sarebbe anche utile spiegare ai non-addetti quale sarebbe la struttura politica, o sociale, che lo dovrebbe sostituire per rendere comune ciò che altrimenti sarebbe in mano al mercato.
    E poi, soprattutto, come sostituire questo Stato ormai bistrattato senza pensare al momento fatidico della negazione? Abbattere lo Stato ma rimanere nel capitalismo, questa è uno dei passaggi che ancora non riesco a capire…

  99. @collettivo militant

    Lo stato è il pubblico, ma non il comune. Questa è sempre una contraddizione devastante per la sinistra. Anche nel riscontro quotidiano, chi più sente lo statale come comune? In Italia uno dei meccanismi ideologici di legittimazione dello stato è quello di una sorta di imposto senso di inferiorità culturale per la meridionalità cattolica degli italiani. Si ripete da 150 anni e più che è mancata la riforma protestante, che gli Italiani sono “familisti amorali” e altre sciocchezze del genere. La realtà, molto semplice invero, è che siccome gli Italiani hanno uno stato particolarmente inefficiente, vedono chiaramente quello che vedono tutti, ma meno chiaramente: che lo stato non è l’astratto servitore dei sudditi, ma un principe che si arricchisce a spese dei sudditi. Vi sono principi più o meno onesti, ma la favoletta del principe “al servizio del popolo” da cui questa idea dello stato che si fa carico di servire il popolo viene è una favoletta. Non sono solo i politici italiani ad essere una casta (dovreste vedere in america…) e non sono gli italiani ad essere stupidi perché non vedono Alemanno o Penati come servitori del popolo.

    Il comune è quello che non è né privato né stato. Il nobel all’economia ad Elinor Ostrom, che studia la gestione di beni comuni, non statali e non privati, dimostra che anche g;i economisti borghesi hanno cominciato a prestare attenzione. Persino in un condominio, e so che i condominii sono le cose più litigiose del mondo, sappiamo che vi sono spazi comuni che non sono né privati né pubblici. Questo blog è un po’ “comune,” nel senso che i contributi che lo fanno funzionare non sono né pubblici né privati. La ricerca e la produzione intellettuale sono comuni. nel senso che, per funzionare, hanno bisogno di essere condivise apertamente. Poi, Bill Gates diventa supericco espropriando il comune e la presente guerra di patenti fa vedere i punti di rotttura del sistema. Ma anche Google, Apple, Microsoft etc. sanno benissimo che se privatizzano troppo, la ricerca si ferma e i loro prodotti pure. Quindi l’open source è sempre una necessità/terrore per queste aziende. La musica è in comune, dopo che il modello di appropriazione delle case discografiche è stato fatto esplodere dalla rivolta degli utenti. Tutti quelli che mettono a disposizione il frutto del loro lavoro senza rivendicarne lo sfruttamento permanente creano “comune.” Se i libri dei nostri ospiti fossero di proprietà dello stato, o se gli autori o il loro editore ne rivendicasse uno sfuttamento privato, non ci sarebbe più il comune… ma c’è.

    Detto questo, lo stato nazione è una merda, non tutte le funzioni statali sono una merda. Lo stato nazione ha alcune sue peculiarità: è trascendente. Lo stato italiano viene rappresentato come il rappresentante di un’unità viva, la nazione, che gli preesiste, è eterna, è definita anche se cambia nel tempo. Come gli studiosi di nazionalismo sanno, nel caso italiano, lo stato nazione prende la forma narrativa di una teologia laica, in cui lo stato unitario e indipendente viene ad incarnare la nazione. Dal “risorgimento” all’ “una e indivisibile” non è mica per gioco che il linguaggio nazionalista parla “teologia.”

    Per questo, lo stato nazione è il nemico del comune, che è immanente, manipolabile, cambiabile. La cultura comune si fa con chi ci sta e partecipa. La cultura nazionale ti propone di integrarti o di andartene. è già data e, anche se storica, è immutabile. È originale e autoctona.
    Il comune è l’opposto, anche se coi condomini si litiga…

  100. @ wu ming 4

    Sono d’accordo con quanto dici sulle differenze. Però…
    Negri sa bene questa differenza e Impero è tutto basato su questa differenza. Se c’è stato un errore di Negri, al contrario, è stato il non vedere che la chiusura della “frontiera,” (per via della Cina, del Medio Oriente e della resistenza all’impero,) stesse portando rapidamente ad una rinazionalizzazione degli USA. Sul medio periodo credo che abbia ancora ragione, ma è Bush e il nazionalismo americano, e la nazionalizzazione americana, sia a destra che a sinistra, che Negri non aveva visto. Hegelianamente, e con Negri, direi che l’impero è buono in sé ma non da sé. Ma tutto quello che fa superare la truffa del nazionale nelle coscienze, inclusa una costituzione europea, sono per me i benvenuti. Avere votato no a quel referendum mi sembrava, e continua a sembrarmi, una concessione al nazionalismo economico finto come una banconota da 2 euro e 35. Gli elettori credevano di voare per la democrazia e i diritti acquisiti e invece già votavano per i direttorii e la retorica della tirannia dei mercati.

  101. ma guarda, erota, che per molti anche l’ europa e’ una “nazione”. c’e’ persino un sito rossobruno, che ovviamente mi guardo bene dal linkare, che si chiama “europa nazione”. e all’ estremo opposto della scala degli ordini di grandezza, ci sono microcomunita’ di poche decine di migliaia di persone, che si autodefiniscono “nazioni”. in italia ce n’e’ a bizzeffe.

    allora forse bisognerebbe cominciare a scindere i termini “stato” e “nazione” e a criticarli separatamente.

    onestamente penso che un’analisi che porti ad etichettare come nazionalista chi difende ad esempio la sanita’ pubblica o la contrattazione collettiva, debba avere qualche baco nelle sue premesse teoriche. il nazionalismo entra in ballo quando si comincia a discutere nel merito su chi abbia diritto ad accedere alla sanita’ pubblica, alla contrattazione collettiva etc. a quel punto il nazionalista (italiano, padano, europeo) comincera’ a mettere delle barriere, a parlare di “autoctoni” e “allogeni”, e via vomitando. (e questo tipo di barriere sono l’ altra faccia del turbocapitalismo apolide, che le manovra e le utilizza per contrarre i salari e i diritti dei lavoratori)

  102. @ erota

    mi dispiace, ma fai troppa confusione tra stato e nazione, forma-stato e cultura nazionale, retorica dell’immutabile e realtà del trasformabile.

    Se la nazione è presentata come pre-esistente allo stato (come è il caso dell’Italia), allora quest’ultimo non è trascendente. It’s that simple.
    Infatti una forma-stato è immanente: è una costruzione storica, cambia, soffre di contraddizioni, viene agitata dal conflitto, è costretta a trasformarsi e a diventare un’altra forma-stato. Non trascende un bel nulla.

    La lotta contro il nazionalismo e le comunità immaginarie si fa decostruendo la cultura presentata come ancestrale e immutabile, dimostrando che al contrario è mito tecnicizzato recente, tradizione inventata, costruzione storica che cambierà come tutte le costruzioni storiche. Di certo la lotta contro il nazionalismo non si fa feticizzando e sposando qualunque entità o fenomeno sia percepito come *il contrario dello stato* o più “avanzato” dello stato. Oltre a sbagliare livello del discorso, una simile impostazione rivela anche una concezione lineare della storia, un modello escatologico. Non a caso parli di “superamento” della truffa del nazionale e dici che ti va bene *qualunque* superamento, come se la truffa planetaria dei mercati e della mano invisibile fosse più “moderna”, più “nuova” e quindi più buona di quella nazional-identitaria.

    In realtà, globalismo e nazionalismi vanno d’accordissimo tra loro, sono due facce della stessa medaglia: non c’è mai stata tanta “identità a buon mercato” (localista, etnica, neo-nazionalistica) come negli ultimi trent’anni di neoliberismo. Il capitale si fonda su un equilibrio omeostatico tra deterritorializzazione e riterritorializzazione, dovresti ben saperlo. Sincronicamente, il capitale investe su entrambe le tendenze: dove e quando gli serve deterritorializzare, suona la grancassa del “meno stato”; dove e quando gli serve uno stato forte (fortissimo!) che tenga in riga uno sterminato esercito di lavoratori senza diritti, come in Cina, gli va bene lo stato forte. Deterritorializzazione e riterritorializzazione. La prima non è più “avanti” della seconda. Credere che la deterritorializzazione ci salverà (escatologicamente) dalla riterritorializzazione è un’ingenuità.

    Piuttosto che il paradigma escatologico/accelerazionista, allora meglio quello “katecontico” che Tronti prende dalla teologia paolina e usa come metafora: coltivare il “frattempo” delle resistenze, non sentirsi obbligati ad assecondare lo sviluppo in ogni momento e in ogni dove, non lasciarsi forzare ad andare sempre avanti, impedire che la pressione delle tempistiche altrui bruci le soggettività quando si sono appena formate o addirittura si stanno formando. Se, abbagliati dallo splendore dello Spirito, assecondiamo entusiasti spinte che in realtà sono distruttive, diventiamo i migliori alleati del capitale, le sue mosche cocchiere “marxiste”. Si è visto negli anni Novanta, con l’apologia del nuovo purchessìa, con certi elogi acritici dell’azione liberante di una “flessibilità” che esisteva solo nel mondo dei sogni e non somigliava in nulla alla flessibilità concreta (precarizzante, annichilente) che i padroni stavano imponendo… Ricordo anche l’obliquo elogio di Forza Italia come “partito del general intellect”… Non tutto quel che è “avanti” è buono, non tutto quel che è “indietro” è cattivo, anche perché non ci sono avanti e indietro: il capitale è compresenza di opzioni.

  103. Su stato, italianità, nazione etc., prevedibilmente rimando all’audio della conferenza “Patria e morte. L’italianità dai Carbonari a Benigni”:
    http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=3496

  104. @ tuco

    “onestamente penso che un’analisi che porti ad etichettare come nazionalista chi difende ad esempio la sanita’ pubblica o la contrattazione collettiva, debba avere qualche baco nelle sue premesse teoriche. ”

    Minchia, la voce della saggezza! :-D

  105. @ erota
    Scrivi: “Se c’è stato un errore di Negri, al contrario, è stato il non vedere che la chiusura della “frontiera,” (per via della Cina, del Medio Oriente e della resistenza all’impero,) stesse portando rapidamente ad una rinazionalizzazione degli USA.”
    E ti pare poco, scusa? L’Impero di Negri mi sembra un caso plateale del modo di pensare stigmatizzato da WM1 nel suo ultimo intervento. Si constata una frattura, una nuova tendenza, una discontinuità, e la si indica come punto di non ritorno, come cesura rispetto alla quale può esserci soltanto un dopo, un oltre, un avanti.
    Ora, la trasformazione c’è senz’altro stata, dato che gli stati nazionali non sono certo più quelli del Novecento, ma insieme ad essa si producono anche una serie di resistenze, attriti, rinculi, che continuano ad agire e a coesistere con la trasformazione stessa e la condizionano continuamente. Inoltre mi pare che ragionare esclusivamente in termini economici porti a sottovalutare parecchio i fattori culturali, che non sono mere derivazioni sovrastrutturali, ovviamente. Hai citato lo stoppone che la Cina ha tirato al progetto neo-imperiale clintoniano, e la conseguente rinazionalizzazione degli USA. Pensi che il fatto che la Cina sia un paese di un miliardo e mezzo di abitanti, praticamente monoetnico, che mantiene gli stessi confini e lo stesso alfabeto da migliaia di anni, e soprattutto in grado di mettere tutto questo a disposizione della macchina capitalistica, non c’entri nulla con la potenzialità espressa da quel paese e con il fallimento del progetto clintoniano prima e bushiano poi?
    L’antica nazione Cina mi sembra funzionalissima ai tempi moderni.
    Dici che “sul medio periodo” ritieni che Negri avesse comunque ragione. Be’, questo lo vedremo, per ora il tuo mi sembra soprattutto un atto di fiducia. Intanto possiamo comunque dire che non ci aveva azzeccato. E in sé non ci sarebbe niente di male, s’intende, se questa svista appunto non derivasse dall’atteggiamento “avantista” e teleologico di cui parla WM1, che facilmente può far seguire a una cantonata, o a una forzatura, quella successiva (e comunque due forzature producono facilmente una cantonata).
    Infine, ti sembra che la famosa costituzione europea, di chiaro stampo liberista, potesse mettere in qualche modo al riparo dalla “tirannia dei mercati”? Pensi davvero che tutti quelli che non hanno appoggiato quella carta lo abbiano fatto per una malcelata illusione vetero-nazionalista? E ammettendo anche che fosse così, se l’alternativa per un italiano (o uno scandinavo!) è quella di vedere messo a repentaglio o addirittura smantellato lo stato sociale, per quale ragione dovrebbe essere disposto ad avallare un superamento dello stato-nazione che vada in quella direzione? Solo perché noi abbiamo decretato che ormai lo stato-nazione è superato e quindi bisogna andare avanti a qualunque costo, tanto quello che verrà dopo sarà comunque meglio?
    Lo dico senza offesa, con tutto il rispetto, ma a me questa sembra una posizione ideologista prima ancora che ideologica.
    Infine: la caratteristica degli imperi, da quello romano a quello britannico, è stata l’inclusività, la capacità/necessità di ricambiare l’espropriazione con la cittadinanza. Se proprio questa tendenza viene interrotta in un ipotetico riassetto imperiale del mondo, sotto il peso della rinazionalizzazione, delle grandi o piccole patrie, allora io credo che non si dia proprio impero, ma soltanto una più banale globalizzazione dei mercati (e per il capitale, com’è stato detto, la nazionalizzazione può perfino essere funzionale e benvenuta). La cosa fa una certa quale differenza, credo. Tanto per dire: se un certo Saulo di Tarso non fosse stato cittadino romano l’avrebbero giustiziato in quattro e quattr’otto e la storia del mondo sarebbe stata un tantino diversa…

  106. @ Wu Ming 1, tuco

    Non mi sognerei mai di definire “nazionalista” una battaglia per la difesa di sanità e scuola pubblica o della contrattazione collettiva. Non condivido affatto la supponenza di Negri su questi temi, e condivido l’appello di WM1 a “non fare i finocchi col culo degli altri”. Spero di chiarire una volta per tutte che non intendo affatto esibire una presunta “verità” iperuranica sul perché e il come delle lotte, né di esprimere giudizi di sufficienza nei confronti di chi le pratica. Il mio discorso è semmai una collezione di propositi per il lavoro da fare; non certo un giudizio sul lavoro fatto.

    Mi sono trovato di recente a fare obiezioni simili alle vostre ai molti che si chiedono come mai in Italia le lotte chiudano per ferie in estate (affermazione peraltro ignorante, dettata da una visione a cortissimo raggio) e la finanziaria non abbia suscitato il pandemonio sociale: guai ad imporre “dall’alto” schemi all’andamento dei conflitti, che hanno i loro tempi e le loro modalità; guai a delegare a chi sta peggio di te la responsabilità integrale di quello che si fa o non si fa in materia di conflitto, quando tu te ne stai comodamente seduto a pontificare sulle intenzioni, i limiti, i difetti del prossimo.

    Guai, quindi, ad approfittare della propria posizione più o meno privilegiata (nel mio caso di lavoratore precario ex co.co.pro. per due anni e mezzo, attualmente disoccupato e con un futuro più incerto che mai, lo è fino a un certo punto, ma vabbé) per dire cosa dovrebbe o non dovrebbe fare chi si trova ad affrontare sacrifici enormi per arrivare alla fine del mese, nella speranza di un rinnovo di contratto o di avere soldi a sufficienza per pagare la prossima rata del mutuo.

    Allo stesso modo, non sto discutendo qui con il semplice scopo di far della filosofia fine a se stessa… in cinque anni di università ho fatto a tempo a rompermi le balle a sufficienza di certi discorsi fatti a vuoto, e se ho mandato a cagare suggerimenti e incoraggiamenti vari per continuare su quella strada è perché modalità del genere mi danno il voltastomaco. Quindi se questa discussione secondo voi sta prendendo una piega del genere, per quel che mi riguarda preferisco troncarla qui; non mi piace come modalità e non voglio fare nulla per assecondarla.

    Tutto quello che scrivo, dalla prima all’ultima parola, è frutto quindi di un’esigenza nata da circostanze molto concrete; il livello di astrazione e la foga contro certe assunzioni – forse eccessive – sono dovute banalmente all’esigenza di “sopravvivere” con un briciolo di autonomia intellettuale e morale: non è facile reggere condizioni materiali e culturali che condannano quasi senza appello qualsiasi anelito all’alternativa; se sono magari troppo radicale e irruento su certe questioni, forse è perché ho visto che cosa ci si guadagna a mantenere posizioni più “moderate”.

    Su questo punto, tengo a precisare che non ho mai parlato di visione “unica”, ma soltanto della necessità di un pensiero “forte”. C’è una bella differenza… Il pluralismo nessuno lo vuole eliminare; possono ben esserci molti pensieri “forti” che si confrontano alla pari, senza necessariamente scannarsi. La mia, da questo punto di vista, è soltanto una reazione – penso legittima – a cose che ho visto ed esperito in prima persona e che mi hanno lasciato una pessima impressione, tutto qui. La mia esperienza è sicuramente limitata, ma non ho altri termini di confronto rispetto ai quali giudicare. Mi dispiace. Resta il fatto che tre mesi fa, o un anno e mezzo fa, discorsi come quelli che faccio adesso forse non li avrei fatti.

    Coloro che guardano con gioia allo smantellamento della sicurezza sociale su base nazionale o perché amano fare a gara a chi è più radicale, o per semplice interesse di parte, sbagliano in pieno, in buona o in cattiva fede; e su questo non ho nessuna intenzione di esprimere disaccordo con quanto dite voi.

    Però, nondimeno, sento il bisogno di argomentare fino in fondo perché lo Stato, nonostante tutto, per me rimanga un *nemico*. Un nemico con cui magari ho firmato una tregua a termine indefinito, ma pur sempre un nemico. La tregua può spingersi tranquillamente fino al punto di difendere qualcosa che, in fondo, non si ritiene del tutto “giusto” ma che è pur sempre meglio della proverbiale pedata in culo; ma sia chiaro che, per me, di semplice tregua si tratta.

    Da questo punto di vista, non sento nessun bisogno di esibire una coerenza perfetta fra pensiero e azione per rivendicare la legittimità di quanto dico. Nessuno ne dovrebbe aver bisogno, cavolo. Se quindi le idee scavallano rispetto ai fatti, amen.

    Sul welfare state è vero quanto dice WM1: è stata una risposta dello stato borghese alle pressioni delle classi lavoratrici. E’ essenziale cogliere entrambi i poli della dialettica se si vuole comprendere il fenomeno. Ma cosa ha prodotto questa risposta? Il welfare è forse la migliore forma di giustizia sociale immaginabile? Rende giustizia fino in fondo al sacrificio di chi per quelle lotte ha messo in discussione tutto se stesso? Ho l’impressione che nessuno, qui, lo pensi veramente.

  107. Era partita un po’ incerta, e nei giorni scorsi ha sofferto di lievi rachitismi, ma alla fine è diventata una bella discussione, di quelle “svisceranti” che qualificano questo blog. Grazie a tutti!

  108. @ wu Ming 4
    Vabbé, cerco di farla breve che a forza di mettere carne al fuoco non si cuoce più niente.

    Gli stati nazionali non sono più. Rimane l’ideologia che sopravvive a stento. È solo che si richiede un po’ di visione per accorgersene. Dopo il 1492, per fare una chiara analogia, le città stato italiane non ci sono più. Questo non vuol dire che Firenze sparisce dopo la morte di Lorenzo il Magnifico. Solo che il futuro di Firenze è irreversibile. Machiavelli lo capisce. Altri pensano che nulla sia successo. Altri dicono che la situazione è complicata, la storia non è lineare etc. Uno può vedere troppo avanti ed uno può vedere troppo da
    vicino. A me interessa l’a-venire. La costruzione di uno dei futuri possibili che però trova spazio nell’essere di già in potenza.

    Negri, come tutti noi, non fa l’astrologo e la sua analisi non si giudica come se fosse una previsione. La reazione neonazionale in America non era prevista perché si possono prevedere solo le risposte che interagiscono con la struttura. Ma non è che la risposta neonazionale ha avuto successo: è fallita miseramente sotto il peso della sua assurdità e della sua ipocrisia (Bush il petroliere internazionale che fa il texano…) In nessun momento Negri ha detto: ignorate Bush perché è irreale nella sua irrazionalità.

    L’idea che la Cina sia uno stato nazione e che i cinesi siano una nazione richiede tutte le armi dell’eurocentrismo più provinciale. Queste sono le cassate che può dire Sartori, non tu che mi fai raffinate distinzioni fra UK, USA e Europa
    Continentale. Soprattutto, bisogna non sapere nulla della diaspora cinese e per la fragilità imperiale dell’economia cinese per immaginarsi che la Cina sia uno stato nazione. Lo sapevano già negli anni venti che gli stati continentali non sono stati nazionali.

    Infine, uno può avere la passione per gli eroi e le loro intenzioni che ha wu ming 1 e scriverci pure dei bei romanzi dalla passione per gli eroi e i potpourri storici. Difficilmente sono però criteri di analisi politica. Il voto negativo sulla costituzione europea ha vinto: sta a voi provare non che le intenzioni dei partecipanti fossero pure, cosa che ha valore politico, ma che quel no ha prodotto una vittoria politica. Mi viene da ridere al pensiero. E pensare che, per una volta, gli italiani fossero politicamente più acuti dei francesi a capire che dal livello nazionale non viene nulla di buono? E Provare a spiegare il fatto che dall’Olanda alla Finlandia, dalla Svezia alla Polonia è la destra radicale che incassa queste vittorie? Mica era scemo Marx a dire che senza internazionalismo si finisce subito nel socialismo degli idioti. Poi va be’. È facile sentirsi grandi teorici criticando i grandi per i loro errori. Come diceva Adorno, nessuno è un eroe per il proprio servitore, ma non perché lo scudiero sa delle cose che il resto del mondo non sa, ma perché è il servitore.

  109. @ erota

    in realtà, a ben guardare, il NO alla “costituzione” europea perse. Il modello di Unione Europea tecnocratico e liberista si è imposto. Quel trattato fu sottoposto al parere e al voto dei cittadini soltanto in quattro paesi dell’Unione e in tutti gli altri (compresa l’Italia) no. Dopo l’esito negativo in Francia e Olanda (e una vittoria poco significativa in Spagna, dove l’affluenza alle urne fu scarsa), a Bruxelles ci fu un “periodo di riflessione”, al termine del quale ci ritrovammo il Trattato di Lisbona, che in sostanza riproponeva lo stesso accrocchio neo-liberista. Tale “nuovo” trattato fu sottoposto al voto dei cittadini in un solo paese, l’Irlanda, e fu bocciato. E così siamo arrivati a tre NO, ma tanto Bruxelles aveva deciso che quei voti non contavano nulla, e che si andava comunque avanti come treni.

    L’idea di Europa tecnocratica e liberista *ha vinto*, e in pochi anni la sua vittoria, oltre a inondarci di direttive che imponevano agli stati membri privatizzazioni e monetizzazioni (ad esempio quella sull’acqua, e qui vedasi gli ultimi referendum), ha prodotto i risultati di cui tutti dovremmo essere consapevoli e di cui nessuno dovrebbe andare orgoglioso, risultati che Bifo descriveva icasticamente in questo post del dicembre scorso:
    http://www.alfabeta2.it/2010/12/18/cominciamo-a-parlare-del-collasso-europeo/

    «…si è costituito di fatto un direttorio politico-finanziario che si ispira rigidamente ai princìpi del monetarismo neoliberista – i princìpi che hanno portato all’esplodere della crisi attuale. Il direttorio Trichet-Sarkozy-Merkel sta imponendo ai governi nazionali politiche di riduzione della spesa pubblica e del costo del lavoro il cui effetto imminente sembra essere la deflazione e una recessione di lungo periodo […] In nome di una nuova necessità, inevitabile come un evento della natura, si impongono regole il cui effetto non può che essere la devastazione della civiltà sociale europea. Chi non accetta le regole della nuova necessità sarà fuori del gioco, mentre coloro che vogliono rimanere nel gioco devono accettare ogni punizione, ogni rinuncia ogni sofferenza che la nuova necessità richiede. Ma cos’è la nuova necessità, e perché mai dovremmo subirla?»

    Questa “nuova necessità” era già inscritta nella “costituzione” che a Negri e a te sembrava un grande passo avanti, e poi nel Trattato di Lisbona.

    Ribadisco tutta la mia critica sul paradigma escatologico, sullo Spirito della storia etc. A me, davvero, questo sembra il rientro dalla finestra dell’hegelismo cacciato dalla porta. L’ho scritto anche anni fa, e mi dicono che il Prof si sia pure incazzato, perché tutta quella storia teorica nasce dal rifiuto di Hegel e della pesante ipoteca della sua dialettica. Nondimeno, io in questa retorica teleologica trovo somiglianze con l’hegelismo. L’ho detto: se tiri sempre diritto in uno spazio che in realtà è curvo, ti ritrovi in compagnia di coloro da cui ti stavi allontanando.

  110. P.S. Dimenticavo, erota: chiaramente, tu sei liberissimo di darci degli idioti, di insinuare un nostro recondito nazionalismo, di alludere qui e là a un nostro essere come i fascisti etc. Chi legge sa giudicare da solo, e sa che siamo sempre stati attaccati per il motivo contrario.
    Però non è che questo atteggiamento renda i tuoi commenti più solidi e veritieri. Anzi, temo contribuisca a farli apparire campati in aria. Buona notte.

  111. Non ho insultato nessuno né ho suggerito cose diverse da quelle che ho detto esplicitamente. Non penso poi che uno debba essere “nazionalista” per subire l’egemonia culturale del pensiero della nazione. Solo quello ho detto che, mi sembra, conteneva sempre dei riconoscimenti. In ogni caso, Buona notte.

  112. Di tutti gli intervenuti in questa discussione, mi sembra che l’unico a subire il fascino della nazione sia tu, che lo subisci *a contrario* e continui a tirarla in ballo. Qui la narrazione nazionale/nazionalista/nazionalitaria è senpre stata disarticolata (o almeno ci si è provato, i risultati li giudichino altri) e analizzata con spietatezza, e si è sempre propugnato e difeso l’internazionalismo. Poco sopra ho linkato la conferenza su patria, “italianità” e familismo amorale. Anche in questo thread, nessuno ha parlato di “difendere lo stato-nazione” (sei il solo ad aver reiteratamente posto la questione in quei termini), ma di difendere diritti e garanzie sociali,e difenderle per tutti. Infatti questo terreno di conflitto viene praticato su scala continentale, senza confini. Dove tu veda cedimenti al mito tecnicizzato della nazione in tutto questo è un vero mistero, come è un mistero dove tu veda l’egemonia delle destre radicali in queste lotte, dal 15 Mayo spagnolo a Piazza Syntagma, dai movimenti studenteschi ai grandi scioperi britannici, dalle lotte contro gli accordi separati Fiat alla reazione civile in Scandinavia contro gli exploit di un’ultradestra che è al contempo nazistoide e liberista.

  113. @ erota

    No, no, le cazzate le possono dire tutti, nessuno esente, tanto meno il sottoscritto.
    A scanso di equivoci e solo per chiarirci: non paragonerei mai la Cina a una nazione europea, ovviamente; intendevo solo fare notare che certi fattori etnici, culturali, linguistici, territoriali – quelli sui quali noi europei abbiamo costruito l’ideologia nazionale – in Cina vanno a definire un’identità che – forte e debole, storica e retorica, dentro e fuori i confini – ha una sua millenaria continuità. Nel 1492 le città stato italiane erano già spacciate, mentre la Cina, che esisteva già da oltre un millennio, sarebbe durata fino ad arrivare ai giorni nostri, subendo di fatto, in tutta la sua storia, una sola invasione vittoriosa (per altro ad opera di un popolo nomade, che fu più conquistato che conquistatore). Nello stesso anno, Colombo approdava in America e iniziava un processo di sopraffazione che nel giro di un secolo avrebbe portato all’estinzione delle entità geo-politiche autoctone e alla quasi estinzione delle culture indigene. Non proprio lo stesso che è capitato alla Cina… Fammi pensare a un altro esempio di impero che abbia mantenuto gli stessi confini anche dopo la propria fine e la nascita di una nuova nazione (scusa, ma, piaccia o no, la Repubblica Popolare Cinese è in effetti una nazione, per quanto sui generis, tra l’altro con una statalità bella forte e autoritaria)… A me non ne viene in mente nessun altro.
    Insomma, per chiudere l’OT, io volevo soltanto far notare che certi fattori extra-economici e, se vogliamo, extra-politici, che solitamente noi associamo all’idea di identità nazionale, agiscono e retroagiscono in maniera determinante su economia e politica, e non mi sembrano affatto essere in via di superamento in un contesto che si pretenderebbe ormai lanciato verso il Nuovo Impero Planetario, ma anzi, costituiscono un punto di forza per uno dei paesi protagonisti assoluti dell’attuale fase storica, il quale come minimo culla un’idea di “impero” un tantino meno universalista, credo.

    Cionondimeno la risposta neonazionale americana non ha avuto successo, dici, ed è vero. Ma questo non toglie che spinte nazionaliste permangano dovunque, e che, come dicevamo, non siano necessariamente disfunzionali all’attuale fase del capitalismo. Da un lato suggerisco di non essere troppo centrati sugli Stati Uniti, perché il mazzo è sempre meno nelle loro mani (e anche le loro palle mi sembrano sempre più poggiate su una scrivania a Pechino); dall’altro direi di aspettare a vedere cosa succede all’Unione Europea, che non essendo riuscita a diventare un’entità politica, a stabilire un principio di sovranità, etc. si regge attualmente su un patto tra le vecchie nazioni ex-imperiali, disposte a mandare a bagno i paesi mediterranei per salvarsi il culo.

    Riguardo al resto, ti è già stato risposto da altri. Personalmente credo che tu abbia ragione a chiamare in causa l’internazionalismo, ma questo nella storia del movimento operaio non ha mai significato l’abbandono del terreno di lotta nazionale o locale. Casomai l’aspirazione era quella contraria, cioè la connessione delle varie lotte nazionali al fine di internazionalizzarle. Non credo che fosse tutto “socialismo degli idioti” quello che ci ha portati ad ottenere lo stato sociale e che tutt’ora lo ottiene, lo afferma, lo difende in varie parti del mondo.
    Chiudo anche su Negri, ché ognuno ha il sacrosanto diritto di tenersi i propri eroi, ci mancherebbe. Personalmente di uno che “vede troppo avanti” non saprei cosa farmene, perché non ho mai creduto agli aruspici; mentre penso che uno che “vede troppo da vicino” forse può essermi più utile a capire cosa c’è “in potenza”. Ma parlo da miope, miopissimo, e semi-guercio… insomma, da poeta cieco ;-) Quindi il mio è un parere di parte.

  114. scusate la sterzata plebea, ma mi e’ tornata in mente una vecchia vignetta di altan (non sono riuscito a trovarla in rete). non ricordo a quale contingenza politica si riferisse, ma secondo me aveva un valore universale.

    nella vignetta c’era il solito omino, che teneva in mano il capo di uno spago. l’ altro capo dello spago era collegato a un marchingegno, e il marchingegno puntava un ombrello dritto al culo dell’ omino. la didascalia diceva: “e’ il nuovissimo modello cossutta*, con l’ autoscatto”.

    * si puo’ sostituire a “cossutta” il nome di un politico o di un maître à penser di sinistra a piacere.

  115. Scusate, mi sono sottratto alla discussione perché impegnato a scrivere una cosa, e non ha senso rientrarci adesso. Mi limito a segnalare a @erota che il commento al proverbio sul cameriere dell’eroe non è di Adorno, ma di Hegel (Lezioni sulla filosofia della storia).

  116. Ciao a tutti, anche se è da un po che nessuno lascia commenti volevo dirvi che è interessante, molto interessante, leggere le varie idee che ognuno di voi ha dato sulla crisi ed i suoi effetti.
    Sarebbe interessante poter concentrare ulteriormente l’attenzione sull’analisi della lotta di classe.
    Il proletariato, in seguito ad una frammentazione e specializzazione del mondo del lavoro, è cambiato profondamente.
    Mi piacerebbe poter leggere ulteriori riflessioni per quanto riguarda questo, sono ben accetti link e suggerimenti.