Sabato 29 ottobre, al Lucca Comics & Games, in una città presa d’assalto dai cosplayers, Wu Ming 4 e Roberto Arduini (presidente dell’Associazione Romana Studi Tolkieniani) hanno tenuto una breve conferenza dal titolo: “Percorsi narrativi e itinerari tematici nel fandom e nella fanfiction tolkieniana”.
All’ultimo momento ci si è accorti che il tempo a disposizione era stato ridotto dagli organizzatori del festival a 40 minuti (question time incluso). Di conseguenza gli interventi hanno dovuto essere accorciati e il dibattito pressoché abolito, sotto la pressione di un turnover incalzante. Nel frattempo la fiera si stipava di gente travestita (perfino da se stessa) e per la città impazzavano parrucche, abiti sgargianti o succinti, spadoni, mitraglie, pugnali, tette elfiche, muscoli veri e finti, e chi più ne ha più ne metta. Il Paese delle Meraviglie.
A conti fatti abbiamo deciso di pubblicare gli appunti di Wu Ming 4 in versione scritta, con l’aggiunta di un paragrafo (il quarto).Prima di lui, Roberto Arduini ha fatto una panoramica sul fandom e sulla fanfiction tolkieniana, a partire dai giochi di ruolo fino ai videogame, passando per le autoproduzioni cinematografiche e la narrativa amatoriale ambientata nella Terra di Mezzo. Nel suo intervento, tra le altre cose, ha ricordato come tra i fan della Terra di Mezzo si annoverino niente meno che i Beatles. Alla fine degli anni Sessanta i Fab Four si interessarono a un progetto cinematografico tratto dal Signore degli Anelli, del quale avrebbero dovuto essere interpreti (con McCartney nel ruolo di Frodo, Starr in quello di Sam, Harrison in quello di Gandalf e Lennon in quello di Gollum). Il regista sarebbe dovuto essere Stanley Kubrick, che però rifiutò l’offerta perché ritenne il progetto troppo smisurato per essere realizzato.
Ecco comunque un piccolo campionario di fanfiction particolarmente interessante.
Per i giochi di ruolo:
– Middle-Earth Role-Playing Community
– Terza Era
Per il cinema amatoriale:
– The Hunt for Gollum, di Chris Bouchard, 2009
– Born of Hope, di Kate Madison, 2009
Per i videogiochi:
– La Battaglia per la Terra di Mezzo II, EA Games, 2006
– La Guerra del Nord – Il numenoreano nero, Warner Bros. IE, 2011
Per la narrativa:
– www.tolkienfanfiction.com
– Kirill Yeskov, The Last Ring-Bearer, 1999
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DIETRO LA CORTINA
La genesi letteraria del fandom tolkieniano
di Wu Ming 4
1. L’Unico
Credo si possa affermare che il fandom tolkieniano è un caso unico nel panorama della narrativa contemporanea. Certo esistono diversi esempi di opere che hanno dato vita a forme di partecipazione altrettanto estese. Si potrebbero citare Star Trek, Star Wars, o il più recente Harry Potter. Ma queste saghe si distinguono da quella tolkieniana perché hanno potuto sfruttare fin da subito il mezzo audiovisivo (anche HP infatti ha potuto giovarsi dell’amplificazione garantita dal cinema mentre i romanzi erano ancora in via di stesura). Per quanto riguarda Tolkien invece dobbiamo constatare che per quasi mezzo secolo il fandom si è sviluppato a prescindere dai media di più facile fruizione, rimanendo ancorato a un tomo di milleduecento pagine, cioè interamente alla lettura, e a una lettura perseverante e appassionata. Infatti, se si esclude lo sfortunato tentativo di film d’animazione fatto da Ralph Bakshi nel 1978, si è dovuto aspettare l’inizio del millennio per vedere trasposto interamente sullo schermo Il Signore degli Anelli.
Gli stessi film di Peter Jackson potrebbero essere definiti prodotti di fanfiction che hanno potuto viaggiare in prima classe. In effetti soltanto un fan poteva realizzarli, cioè dedicare sei-sette anni di vita e di carriera a un progetto come Il Signore degli Anelli e pochi meno a Lo Hobbit. Peter Jackson e le due co-sceneggiatrici hanno scelto di raccontare la storia in maniera molto diversa da come aveva fatto Tolkien, operando tagli e modifiche per adattare la trama al mezzo cinematografico. E non si è trattato di modifiche da poco: eliminare una parte del finale è una scelta pesante, ma anche introdurre una voce narrante femminile, o importare dalle appendici una sottotrama amorosa che nel corpo del romanzo non compare. Tutto questo cercando di non snaturare l’opera e realizzandola in proprio, lontano dagli studios hollywoodiani. Un lavoro che non avrebbe potuto fare un talentuoso mestierante. Ci voleva un fan, per l’appunto.
La domanda a cui vorrei provare a dare una risposta dunque è questa: cosa rende il racconto tolkieniano così disponibile alla narrazione partecipata e traslata su varie forme espressive?
Per prima cosa, se lanciamo uno sguardo panoramico sulla produzione ispirata all’opera di Tolkien ci rendiamo conto che si innerva sul terreno stesso che lui aveva predisposto. Nella maggior parte dei casi i prodotti di fanfiction tolkieniani sviluppano direttamente il materiale e gli spunti messi a disposizione dall’autore. Videogiochi come La Battaglia per la Terra di Mezzo II, ambientato in uno scenario secondario della Guerra dell’Anello (menzionato ma non narrato dettagliatamente da Tolkien), o come il nuovissimo La Guerra del Nord, che mette in scena la prima comparsa del Capo dei Nazgûl nella Terza Era, trasformano in narrativa spunti forniti da Tolkien stesso. Idem dicasi per i film amatoriali precedentemente illustrati, che raccontano storie collaterali o prequel del Signore degli Anelli; o per i racconti che seguono la sorte di personaggi minori oltre i confini della mappa, laddove Tolkien perse le loro tracce; o ancora quelli che provano a raccontarci la Guerra dell’Anello dal punto di vista di Mordor, come ha fatto il romanziere russo Kirill Yeskov. E così via.
Tutto questo è possibile perché Tolkien trasformò in narrativa una parte relativamente limitata della storia del suo mondo immaginario. Nel Silmarillion – la sua opera incompiuta – raccolse la cosmogonia, i miti e le leggende eroiche, che costituiscono i tempi antichi e la Prima Era del mondo. Nello Hobbit e nel Signore degli Anelli raccontò invece gli ultimi decenni della Terza Era. Nell’Appendice A del Signore degli Anelli disse qualcosa in più degli eventi che precedono la Guerra dell’Anello, ricostruì le dinastie dei popoli e delle casate che vi prendono parte, pubblicò gli alberi genealogici e spiegò alcuni antecedenti storici.
In definitiva, anche considerando tutti i materiali spuri raccolti postumi nella monumentale History of Middle-Earth, resta il fatto che moltissima storia della Terra di Mezzo ci è stata lasciata in forma di cronologia o di cronaca non romanzata. Un invito a nozze per il fan che vuole cimentarsi con la narrazione. Un invito che non solo viene più o meno esplicitamente formulato da Tolkien, come vedremo, ma che nasce anche dalla modalità narrativa stessa e dalla concezione della letteratura che Tolkien condivideva.
2. Anonima scrittori
Benché Tolkien non fosse un autore mimetico, cioè non cercasse di imitare uno stile e un canone narrativo medievale, tuttavia le forme letterarie a cui si ispirò erano precisamente quelle che conosceva bene, poiché erano la sua materia di studio. La produzione narrativa di Tolkien si può suddividere in poesia (spesso inserita nei romanzi in prosa, ma non solo); legendarium (Il Silmarillion); cronologia (Appendici A e B del Signore degli Anelli, sul modello della Cronaca Anglosassone); fiaba (i cosiddetti racconti “minori”); romance (nella fattispecie un romanzo-favola e un romanzo epico). Si tratta precisamente delle forme letterarie medievali, attraverso le quali Tolkien cerca di ricostruire un intero mondo, dotandolo di cultura, etnografia, geografia, toponomastica, storia, linguistica, mitologia, cosmogonia, etc. etc.
Vale la pena notare che nella storia della letteratura moderna nessun autore singolo ha mai tentato un’impresa del genere e anche solo per questo Tolkien meriterebbe di essere preso in considerazione come un caso di studio originale.
Tuttavia è un’altra la considerazione che mi interessa fare in questa sede.
Le opere letterarie su cui Tolkien si è cimentato nel corso della sua carriera di studioso sono i più celebri poemi medievali inglesi: componimenti come il Beowulf, La Battaglia di Maldon, Sir Gawain e il Cavaliere Verde, Sir Orfeo, Pearl. Ebbene nonostante queste opere siano state composte in secoli diversi e appartengano a fasi distinte della storia linguistica anglosassone, c’è una cosa che hanno in comune: di nessuna di esse ci è stato tramandato l’autore.
Questo perché appartengono a un’epoca storica dove l’autorialità non era tanto importante; poesia e letteratura, quando uscivano dal chiuso di un monastero, si tramandavano oralmente tramite il corrispettivo medievale degli aedi pre-classici, cioè i menestrelli e i trovatori. Nemmeno quelli di loro che decisero di apporre il proprio nome sull’opera, come Chrétien de Troyes, potevano pensare di considerarsene gli unici autori (nel caso del ciclo arturiano, poi, quelle storie erano in circolazione per l’Europa da almeno cinque secoli). Il parallelo con gli aedi non è casuale, se si pensa che ormai da tempo le ipotesi storiche su Omero si orientano sull’idea che quella firma celi ben più di un solo poeta, e identifichi addirittura l’arte poetica di un’intera cultura nel passaggio dalla tradizione orale a quella scritta.
La letteratura che Tolkien amava e studiava era questa. Una letteratura basata sulla co-autorialità, prodotta tramite passaggio del testimone nel corso del tempo e per ricombinazione da parte del singolo poeta. Lui stesso tendeva a considerarsi una sorta di collettore di leggende e poemi; pur inventando un mondo fantastico, aveva l’impressione di scoprire le storie che raccontava come se fossero state tramandate da un passato mitico-storico (vedi Lettera 131). In sostanza concepiva la propria attività come quella di un Elias Lönnrot, o addirittura di uno Snorri Sturluson, piuttosto che come quella del demiurgo di un mondo immaginario. Era ovviamente una sensazione, ovvero un gioco. E come ci insegnano i filosofi del linguaggio e del diritto, i giochi sono una cosa serissima.
3. Il gioco e l’incantesimo
Il gioco nel quale Tolkien ci coinvolge è quello dell’esplorazione del mondo da lui inventato (o scoperto). Era infatti ben consapevole che avere raccontato soltanto una parte della storia, infarcendola di riferimenti e allusioni ad altre vicende, luoghi, epoche, contribuiva di gran lunga al successo della sua narrazione:
«Se vuoi la mia opinione, il fascino [del Signore degli Anelli] consiste in parte nell’intuizione dell’esistenza di altre leggende e di una storia più ampia, di cui quest’opera non contiene che un accenno.» (Lettera 151, settembre 1954)
Quell’effetto di profondità è parte fondamentale dell’Incantesimo, come Tolkien definisce la creazione letteraria di mondo. E l’Incantesimo è una cosa che riguarda almeno due persone:
«L’Incantesimo genera un Mondo Secondario nel quale possono entrare sia l’artefice sia lo spettatore, a soddisfazione dei loro sensi mentre vi si trovano.» (Sulle fiabe, 1939)
Il mondo fantastico non viene squadernato davanti agli occhi del lettore. Gli viene piuttosto mostrato un paesaggio attraverso il quale il narratore lo guida, lungo uno dei molti sentieri possibili. A lato del sentiero si aprono praterie, foreste, si intravedono catene montuose all’orizzonte, altre piste si dipanano verso chissà dove. In mezzo a cosa si trova la Terra di Mezzo? Cosa c’è a Nord, a Est, a Sud…? Quali terre, popoli, culture, storie?
E’ Tolkien stesso che, schermendosi e definendola un’idea assurda, in una lettera del 1951 accenna a cosa gli balenasse per la mente quando aveva iniziato a generare la sua storia:
«Alcuni dei racconti più vasti li avrei raccontati interamente, e ne avrei lasciati altri solo abbozzati e sistemati nello schema d’insieme. I cicli sarebbero stati legati in un grande insieme, e tuttavia sarebbe rimasto lo spazio per altre menti e altre mani che inserissero pittura e musica e dramma.» (Lettera 131, autunno 1951)
In effetti è precisamente quello che il fandom e la fanfiction hanno fatto nel corso di quasi sessant’anni, sfruttando ogni forma narrativa e rappresentativa utile allo scopo: dai giochi di ruolo ai racconti derivati, dai viedeogiochi al cosplaying, dal cinema all’illustrazione e alla musica. I fan, spinti dal fascino della Terra di Mezzo e dalla frustrazione per le storie che Tolkien non ha avuto il tempo di raccontare, hanno deciso di prendere parte alla narrazione. Ma questo è stato reso possibile prima di tutto dall’attitudine dell’autore stesso che ha immaginato l’intervento successivo di “altre menti e altre mani”. Per usare le parole di uno studioso tolkieniano, «Tolkien non solo crea un fantasy realistico, ma ci stimola a crearne uno nostro: ci incoraggia a partecipare alla sua subcreazione.» (S. Walker, The Power of Tolkien Prose, 2009, traduzione mia).
In questo modo il fandom ha anche risposto alle due preoccupazioni di segno uguale e contrario che Tolkien nutriva dopo il grande successo del Signore degli Anelli. Da un lato infatti si chiedeva quanto in profondità e con quale livello di pignoleria si sarebbe potuto andare avanti nell’esplorazione della Terra di Mezzo:
«Non sono del tutto sicuro, ora, che la tendenza a trattare tutto come una specie di grande gioco sia veramente buona – certamente non per me, che trovo questo genere di cose fatalmente affascinante. E’, suppongo, un tributo da pagare visto il curioso effetto di questa storia, basata su una geografia, una cronologia e un linguaggio molto elaborati e dettagliati, che tanta gente debba chiedere a gran voce “informazioni” o “cognizioni”. Ma le domande che la gente fa richiederebbero un libro per rispondere…» (Lettera 160, marzo 1955).
Dall’altro lato si domandava se una volta terminata la scoperta, una volta raggiunti i confini ultimi del mondo, il gioco non avrebbe perso tutto il suo fascino, dato che «andare fin là significa distruggere la magia, a meno che non si rivelino altri irraggiungibili panorami» (Lettera 247, settembre 1963).
Ebbene, non solo a tutt’oggi sembra che i panorami siano ben lungi dall’esaurirsi, ma soprattutto il perdurare della febbre esplorativa dimostra la grande presa che la narrazione tolkieniana continua ad avere a oltre mezzo secolo dalla pubblicazione del romanzo più famoso. Si tratta ormai di un fenomeno culturale, come lo definisce Brian Rosebury. E questo è dovuto anche al fatto che proprio «la coerenza interna della storia, della geografia e della filologia» tende a rafforzare «l’impressione di un mondo che ha la stessa consistenza interiore del mondo reale» (B. Rosebury, Tolkien: A Critical Assessment, 1992, trad. mia). Ancora:
«L’aura di intrinseca consistenza è in parte il prodotto della visione penetrante che Tolkien aveva del suo mondo, in parte il frutto del suo sviluppo dettagliato, e in parte il risultato di precisi supporti tecnici alla sua coerenza complessiva, quali il sistema di allusioni interne e i riferimenti incrociati al suo mondo come se fosse reale.» (S. Walker, op. cit.)
In altre parole, c’è ben poco di fortuito nel successo duraturo delle storie di Tolkien e nel modo in cui i fan si rapportano alla sua creazione letteraria. Sicuramente Tolkien non avrebbe potuto immaginare quello che oggi abbiamo sotto gli occhi, vale a dire un ambito inerente la Terra di Mezzo che include fan art, cosplaying, miniature, videogiochi, giochi da tavolo e di ruolo, editoria, sartoria specializzata, pittura, etc., oltre alla fanfiction propriamente intesa. Ma il mio presentimento – per quello che può valere – è che non ne sarebbe stato affatto dispiaciuto. A condizione, certo, che la coerenza interna del suo mondo venisse rispettata.
[4. Ramingo]
E’ del tutto evidente che la concezione della letteratura come comunità, come gioco e come incantesimo tradisce completamente quella che è andata sempre più affermandosi nel corso degli ultimi duecento anni. La teoria letteraria contemporanea infatti si basa su tutt’altri presupposti, cioè si fonda su due figure distinte e distanti: l’autore – che produce ed esprime il proprio genio individuale – e il lettore – che legge e giudica l’opera.
Come riconosceva Roland Barthes già quarant’anni fa, si tratta di un’idea referendaria del nostro rapporto con la letteratura:
«La posta del lavoro letterario è quella di fare del lettore non più un consumatore ma un produttore del testo. La nostra letteratura è segnata dal divorzio inesorabile mantenuto dall’istituzione letteraria tra il fabbricante e l’utente del testo, tra l’autore e il lettore. Questo lettore si trova allora immerso in una sorta di ozio, di intransitività, e, per dir tutto, di serietà: invece di essere lui a eseguire, di accedere pienamente all’incanto del significante, alla voluttà della scrittura, non gli resta in sorte che la povera libertà di ricevere o di respingere il testo: la lettura si riduce a un referendum.» (R. Barthes, S/Z, 1970)
E’ probabile che Tolkien avrebbe condiviso questo giudizio sull’ideologia letteraria odierna. Questa finisce inevitabilmente per relegare la relazione tra autore e lettore in un ambito meramente sociologico (a meno che, certo, il lettore non sia “titolato”), nascondendo così un’evidenza: da quando all’alba dell’era moderna venne inventata la stampa, nacque l’editoria, si diffusero i testi nelle lingue volgari, iniziò ad aumentare il tasso di alfabetizzazione, etc., la pubblicazione, cioè la resa pubblica dei testi narrativi e la loro diffusione, è sempre più divenuta un movente intrinseco alla letteratura. Pensare che il valore di un’opera possa essere individuato esclusivamente dentro le sue pagine e non anche nel legame tra quelle pagine e il modo in cui vengono fruite dai lettori – nell’incantesimo, direbbe Tolkien; nell’accesso “all’incanto del significante”, direbbe Barthes – quindi nell’impatto col mondo, è una petizione di idealismo evidente. La quale, per altro, esclude sicuramente la possibilità partecipativa, la co-narrazione. In definitiva questo approccio nega alla radice il carattere comunitario della letteratura e tanto più la possibilità di un’epica contemporanea. Qui sopraggiunge anche un problema di prospettiva storica.
Una volta decretato che il Novecento è il secolo della dissoluzione del romanzo; il secolo dei modernisti, di Eliot, Proust, Woolf, Kafka, Musil; il secolo in cui l’Ulisse di Joyce rimpiazza l’Ulisse di Omero; una volta stabilito che l’uomo contemporaneo è senza qualità e che i suoi valori sono incerti tanto quanto la conoscenza della verità; e soprattutto una volta acclarato che questo è il massimo grado raggiunto dalla civilizzazione letteraria; ebbene, non è più possibile accettare che un narratore dica qualcos’altro. Se lo fa bisogna compatirlo, tacciarlo di ingenuità e fideismo, tutt’al più relegarlo nella categoria ad hoc dei curiosi fenomeni paraletterari.
Questo, a mio avviso, è il motivo principale per cui nonostante la sua persistenza e l’innegabile influenza sulla cultura letteraria contemporanea, la critica e le istituzioni letterarie si rifiutano di considerare Tolkien un classico del Novecento. Accettare Tolkien significherebbe accettare l’eresia di uno che è andato controcorrente rispetto alla tendenza del proprio tempo e ha dimostrato con successo che si poteva fare.
La radice della distinzione qualitativa la individua ancora Brian Rosebury nel suo saggio più famoso:
«L’efficacia dell’opera [di Tolkien] non è fondata sul presupposto della verità della dottrina cristiana, ma piuttosto sul richiamo emotivo di una visione del mondo tradotta in realtà con rara potenza, che ne afferma l’intrinseca bontà, individua il male nella negazione e mette in relazione i valori etici e morali di questa concezione fondamentalmente positiva. La risposta che il lettore è invitato a dare è: “Se solo fosse così!”. Riconoscere questa risposta dentro di sé significa acquisire una chiara consapevolezza di un aspetto del desiderio umano. Il fatto che si possa effettivamente credere che “è così” è una questione di tipo ben diverso.
Sotto certi aspetti, l’opera di Tolkien condivide perciò caratteri del modernismo, così come possiede elementi di “realismo” narrativo che sono moderni in senso più ampio. Ciò nonostante, Il Signore degli Anelli non può essere definito in modo plausibile un’opera modernista, perché manca di una qualità essenziale di tale movimento: l’ironia.» (B. Rosebury, Tolkien: un fenomeno culturale, 2009, pag. 213-214).
Tolkien in sostanza prendeva sul serio la propria creazione letteraria, perché credeva nella verità estetica del mondo che aveva immaginato, e più in generale era convinto che attraverso l’arte, quindi anche la poesia e il racconto (il mythos), si potesse cogliere la verità. Al contrario dei modernisti, insomma, non era pessimista “riguardo alla capacità degli esseri umani di comprendere se stessi e il proprio posto nell’universo” (ibidem, pag. 216), anche se si rendeva perfettamente conto di quanto ciò fosse difficile nel mondo contemporaneo. Nella sua opera i valori etici e la conoscenza sono faccende affrontate in maniera tutt’altro che semplicistica e certo non a suon di atti di fede. Ma l’idea di fondo è che tali questioni possano e debbano essere affrontate, senza autoindulgenza, senza facili relativismi, senza il refugium peccatorum del distacco e dell’ironia. Vale a dire senza quell’attitudine che inevitabilmente porta all’affermazione dell’inutilità della letteratura e dell’arte, e ci salva tutti in corner.
Bibliografia minima
B. Rosebury, Tolkien: un fenomeno culturale, Marietti, 2009
S. Walker, The Power of Tolkien’s Prose, Palgrave MacMillan, 2009
R. Barthes, S/Z, Einaudi, 1981
J.R.R.Tolkien, La Realtà in Trasparenza – Lettere, Bompiani, 2001
J.R.R.Tolkien, “Sulle Fiabe”, in Il Medioevo e il Fantastico, Bompiani, 2004
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Chiudiamo con due notizie:
Da pochi giorni è stato pubblicato da Marietti 1820 il volume che raccoglie gli atti del convegno “Tolkien e la Filosofia”, tenutosi a Modena l’anno scorso e a cui ha partecipato anche Wu Ming 4. Tra tutti gli interventi salta agli occhi quello della professoressa Verlyn Flieger, che individua la presenza filosofica nell’opera di Tolkien nella forma di una filosofia del linguaggio. La Flieger incardina la sua riflessione su una nota di Tolkien del 1939: “La mitologia è linguaggio e il linguaggio è mitologia”, e da lì parte per mappare il pensiero dell’autore attraverso vari passaggi della sua narrativa. Questo ci porta direttamente alla seconda notizia:
Verlyn Flieger sarà presto nuovamente in Italia per il Tolkien Seminar organizzato dall’ARST e dall’Istituto Tomistico di Studi Filosofici: Mito e Verità: la narrazione tra realtà e mistero, venerdì 25 novembre, presso la Camera di Commercio di Modena, via Ganaceto 134, h. 21.00, ingresso libero.
Con questo per ora è tutto. Il prossimo post tolkieniano sarà a dicembre.
“Graziosa dama!”, disse dopo qualche attimo Frodo. “Perdona, se la mia domanda ti sembrerà stolta, ma potresti dirmi chi è Tom Bombadil?”.
“E’ lui”, rispose Baccador, interrompendo i suoi agili movimenti per sorridergli. Frodo la guardò perplesso. “E’ lui, come avete visto”, ella disse in risposta al suo sguardo, “è lui il Messere di bosco, acqua e collina”.
“Allora tutta questa terra gli appartiene”
“Oh no!”, rispose, e il suo sorriso svanì. “Sarebbe un fardello troppo pesante”, soggiunse a bassa voce, come se parlasse con se stessa. “Gli alberi e le erbe e ogni cosa che cresce o che vive in questa terra non hanno padrone. Tom Bombadil è il Messere. Nessuno ha mai afferrato il vecchio Tom mentre camminava nella foresta, o mentre guadava il fiume, o mentre saltellava sulla sommità delle colline, sotto i raggi del sole o nell’oscurità. Egli non ha timore. Tom Bombadil è Signore”.
Eh, bel post. Credo che delle analisi come queste aiutino anche il lettore ‘saltellante’ di Tolkien. Fa sempre piacere che qualcuno riesca a restituire con parole chiare la sensazione che si ha leggendo un testo.
Il mondo che Tolkien aveva studiato era anche un mondo in cui molte cose si facevano coralmente, in comunità, lavoro che necessariamente aveva come prodotto un equilibrio. Che Tolkien abbia ‘collaborato’ con il mondo che aveva studiato e ci abbia restituito una costruzione equilibrata non ne fa un creatore di ‘messaggi’ più o meno definitivi, ma casomai uno che lavora con la propria arte come facevano l’ebanista col legno o il capomastro esperto.
‘Ma l’idea di fondo è che tali questioni possano e debbano essere affrontate, senza autoindulgenza, senza facili relativismi, senza il refugium peccatorum del distacco e dell’ironia’. Mi sembra avesse l’ottimismo di qualcuno che lavora con le mani, come un artigiano :-))
@ Adrianaaaa
Hai azzeccato uno dei passi che la Flieger cita nella sua conferenza. Peccato per la terrificante traduzione italiana che rende “Master” con “Messere” (!). No comment.
Eh infatti quella parola mi pareva frutto di una traduzione sgangherata. Sarebbe semplicemente Mastro, giusto?
@ Adrianaaaa
Infatti.
Colgo l’occasione per specificare che la mia frecciata su “Messere” era ovviamente riferita alla traduzione italiana del Signore degli Anelli da cui era presa la tua citazione. Nell’intervento della Flieger riportato nel volume Marietti la traduzione invece è giusta (con tanto di nota a pie’ di pagina che la spiega). Del resto i lettori di questo blog hanno già avuto modo di ascoltare le lagnanze del sottoscritto sulla traduzione di cui sopra.
@ Wu Ming
ti riferisci alla traduzione di Zolla?
Ne esistono anche altre?
E poi… non so quanto sia calzante il paragone tra Tolkien e Snorri Sturluson.
Ne potrebbe venir fuori una bella discussione… :)
@ franzecke
Zolla non era il traduttore. La traduttrice era una ragazza di diciassette anni… Qualche anno fa la traduzione è stata rivista e sono state rettificate un po’ di cose, ma ne rimangono ancora parecchie in ballo.
Rispetto a Snorri, non mi riferivo alla dimensione di uomo pubblico, ma al suo ruolo di collettore di miti e leggende.
ERROR ho appena controllato e non è di Zolla, sorry.
Ma insomma ti riferisci a quella traduzione lì, quella dell’edizione Rusconi che abbiamo letto tutti da piccoli?
Appunto.
Anche io mi riferivo al suo ruolo di collettore, e proprio per questo non me la sentirei di fare paragoni con Tolkien.
I miti riportati da Snorri erano materiali “di prima mano”, per così dire, provenienti in maniera diretta dall’universo della letteratura orale, senza mediazioni di sorta.
In questo senso, Snorri è riconosciuto – almeno da una sessantina d’anni a questa parte – come un mitografo “genuino”, e i materiali mitologici da lui riportati vengono trattati con la dovuta considerazione.
Non vedo però cosa c’entri tutto questo con Tolkien.
p.s. una diciassettenne nelle mani di Zolla? mi vengono i brividi :)
@ Franzecke
sulla traduzione italiana del SDA, qui:
Riassunto della questione su Wikipedia
http://it.wikipedia.org/wiki/Il_Signore_degli_Anelli#Edizione_italiana
Database degli errori di traduzione nell’edizione italiana del Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien
http://www.bracegirdle.it/errori_di_traduzione_signore_degli_anelli.php
Tabella di errori di traduzione nell’edizione del 2003
http://www.proudneck.it/documenti/tradIsda.html
@ Wu Ming
Uau c’è davvero molto da leggere… io ero rimasto agli orchetti, figurati
@ franzecke
Una diciassettenne nelle mani di Quirino Principe, per la precisione… Sì, comunque mi riferivo proprio a quella traduzione lì. Solo in parte rivista nell’edizione Bompiani del 2004.
Riguardo al paragone Tolkien-Snorri, be’, in effetti anche Tolkien può essere considerato un mitografo “genuino” con accesso a materiali “di prima mano”, dato che i miti di cui parla sono un parto della sua stessa fantasia… Più prima mano di così! :-) Quello che intendevo dire era che Tolkien si sentiva un po’ come i grandi collettori di storie e di miti che l’avevano preceduto, era una sua personale percezione, talmente forte che ad alcuni lettori che gli scrivevano per chiedergli delucidazioni e dettagli a volte rispondeva cose del tipo: “Questo non l’ho ancora scoperto”.
Dalla solita lettera 131:
“Ho sempre avuto la sensazione di registrare qualcosa che c’era già, da qualche parte: non di inventare.”
@ Wu Ming però io ci andrei un po’ più coi piedi di piombo, regà.
Per parlare di “epica” serve qualcosa di più di una serie di appendici glotto-filologiche alla fine di un romanzo: l’epica (come il mito del resto) necessita di valori condivisi dalla +totalità+ che la produce.
Non basta certo un fan club.
@ franzecke
Certo, è vero. Ripeto infatti che il mio accostamento si riferiva alla percezione che Tolkien poteva avere di se stesso come raccoglitore o scopritore, anziché inventore. Si sta parlando di percezioni, di attitudini, appunto. Non è che Tolkien si paragonasse a Sturluson, e nemmeno a Lonnrot, però in relazione al mondo da lui inventato svolgeva una funzione analoga alla loro. Questo è importante dal punto di vista dell’efficacia della sua narrazione, come spiegavo, perché lo costrinse sempre a cercare una coerenza interna con assoluta meticolsità e pignoleria (non c’è sempre riuscito e a volte ha dovuto fare i salti carpiati, però li ha fatti…). Se il suo approccio fosse stato quello del puro e semplice inventore di mondo, del demiurgo, probabilmente avrebbe avuto meno questa preoccupazione, dato che si sarebbe sentito in grado di fare più o meno tutto. Tanto per capirci, il suo socio C.S. Lewis adottava questo atteggiamento onnipotente quando scriveva narrativa, e però i suoi mondi hanno retto molto meno alla prova del tempo… e del fandom. Nei miei appunti suggerivo che forse non è un caso.
@ Wu Ming su ciò che dici sono assolutamente d’accordo: ho sempre pensato che Tolkien fosse un vero genio della letteratura moderna (anzi post-moderna, qualsiasi cosa voglia dire quest’espressione misteriosa).
E aggiungo che personalmente, posso dire di aver vissuto all’interno del suo mondo dai 13 ai 15 anni e, trattandosi del crepuscolo degli anni ’80, è stata una salvata mica da poco!
Senza il SdA sarei finito a farmi le pere, sicuro.
Puoi immaginare quindi con quale fastidio, una volta cresciuto, ho assistito all’appropriazione del mio “mondo segreto” da parte di loschi figuri in camicia nera: “poeta della tradizione”… ma quale? Sfigati… e ignoranti!
Ciao
@ franzecke
E’ un cursus biografico in cui potrebbero ritrovarsi non pochi… :-)
Quanto alle appropriazioni indebite, ci stiamo lavorando.
Ciao.
@ Wu Ming lo so, lo so, che ci state lavorando… e non sai quanto bene vi voglio per questo :)
‘notte, raminghi.
[…] la ricostruisce Wu Ming 4 nel suo intervento a Lucca Comics, di cui viene postata una sintesi su Giap!. Negli appunti si risponde a una domanda: perchè proprio Tolkien ha ispirato migliaia di […]
Io pure mi riconosco in pieno nel cursus biografico menzionato. Però trovo che sforzarsi di ricostruire la vicenda editoriale del SdA in Italia sia esercizio allo stesso tempo molto utile e molto interessante perchè permette di leggere in filigrana (o forse è più il caso di dire in trasparenza) la storia recente della cultura del nostro paese, le intellettualità e le correnti ideologiche che più sono riuscite ad esercitare le proprie influenze e l’effetto che alcuni errori o prese di posizione hanno prodotto sul lungo termine. Una sorta di lente attraverso la quale anche altre vicende e personaggi diventano un po’ più intelligibili.
La parte che preferisco di questo ottimo articolo è quella sull’incantesimo suscitato dal non scritto. Verissimo, un esempio personale che mi ha “costretto” all’approfondimento successivo? Gandalf rinato che racconta: ” …errai fuori dal pensiero e dal tempo, e vagabondai lontano per sentieri che non menzionerò.” Cioè? Quali sentieri? :-)
Anche sull’aspetto della traduzione vorrei dire una cosa: al prezzo di apparire eretico credo che abbia diritto di cittadinanza anche un fattore probabilmente affettivo delle traduzioni con le quali ci si è avvicinati ad oggetti importanti. Mi spiego: sarà la consuetudine, ma credo che “orchetto” richiami bene l’immagine di bassa considerazione nei confronti di una creatura violenta e malvagia sì, ma tutto sommato inconsapevole dei disegni che lo sovrastano e che va a comporre schiere innumerevoli e indistinte, di infimo rango, negli eserciti del male. Insomma: orchetto ha un’armonica in più di meschinità che a “orco” appartiene meno. Credo. Poi, Tom Bombadil (sempre per me, eh) *è* (e sarà sempre) il Messere: una parola lontana (non evoca le cronache medievali?), obsoleta, che calza a pennello su un personaggio fuori luogo e fuori tempo come lui, con gli stivali gialli e la giacca blu cielo, sul quale perfino l’anello del potere (così intriso di storia della Terra di Mezzo) non ha alcun effetto perchè “il Messere” (quasi un nome proprio) è completamente padrone di sé stesso. Tanto per tornare all’incantesimo del non scritto di cui sopra. Per amore di correttezza sarebbe il caso di ribattezzarlo “il Mastro”? Come se un amico che conosci da trenta anni ti chiedesse di chiamarlo Vercingetorige invece che Pino. Ma forse esagero.
@ Massimiliano
Capisco cosa intendi quando chiami in causa il valore affettivo di certi termini arcaizzanti nella traduzione del Signore degli Anelli. Potrei aggiungere la parola “Ramingo”, che traduce infedelmente l’originale “Ranger”, e però rimandando all’idea di un tizio che non solo batte il territorio ma lo fa un po’ da vagabondo, da outsider, identifica bene quello che sono i “Raminghi” alla fine della Terza Era.
Tuttavia, sapendo quale importanza Tolkien assegnava alle parole, credo che un po’ di attenzione sia d’obbligo. Messere e Mastro sono due cose diverse, etimologicamente e semanticamente parlando. “Messere” deriva da “mis + sire”, cioè “mio signore”, e sappiamo che era il titolo che nel Medioevo si riservava ai signori di alto lignaggio. Infatti la traduzione italiana rende la terza occorrenza di “master” proprio con “Signore” (vedi il brano citato nel primo commento di Adrianaaaa qui sopra), a dimostrazione che questa è l’accezione scelta. Ma è quella giusta? Io ho dei dubbi.
Tolkien usa tre volte consecutive la stessa locuzione: “Tom Bombadil is (the) Master”.
La parola inglese “master”, proprio come l’italiano “mastro”, deriva dal latino “magister”. “Magister” a sua volta deriva da “magis” e “magnus”. Ora, io non sono un filologo, ma mi pare che il senso che possiamo ricostruire abbia a che fare con la grandezza, legata al massimo grado d’esperienza, quindi con la custodia di un sapere e con la sua trasmissione. “Magister/Master” è il rabbino; il capo di una gilda artigiana, o di un ordine cavalleresco; per traslato, anche chi conduce una casa o un ristorante (maître).
Il master dunque non è un signore che esercita una semplice e diretta autorità per lignaggio, ma piuttosto qualcuno che custodisce un sapere concreto e ha il compito di prendersi cura di qualcosa nel corso del tempo. In italiano infatti la parola “mastro” è associata agli antichi capibottega artigiani.
Nel SdA, Sam si rivolge agli altri hobbit con l’appellativo reverenziale “Master”, che rimarca una differenza di classe. Ma tale differenza è appunto legata alle diverse funzioni domestiche: Sam è un servitore, un famiglio, come si diceva una volta, mentre Frodo è il padrone che conduce Casa Baggins (e non il “Signore” con i quarti di nobiltà).
Ecco, Tom Bombadil è una creatura che detiene una sorta di grandezza primigenia, strettamente connessa al mondo naturale. E’ “Master” di “bosco, acqua e collina”, nel senso che esercita su di essi un’autorità (ad es. ordina al Vecchio Uomo Salice di liberare gli hobbit), li controlla e li custodisce, ma non ne è il Signore, perché la terra non gli appartiene (“Sarebbe un fardello troppo pesante”, dice sua moglie, e “gli alberi e le erbe e ogni cosa che cresce o che vive in questa terra non hanno padrone”).
Quindi a conti fatti credo che “Messere” non renda proprio l’idea e che, dovendo tradurre/tradire l’originale, “Mastro” sia preferibile. Ma è il parere di uno che non è filologo né anglista, quindi vale quello che vale.
Senz’altro la traduzione del LotR è in molti punti piuttosto peculiare.
Ci misi il mio per capire che i vagabondi erano in realtà dei “troll”; la cosa mi fu chiara solo perché nel retrobottega ho tutti gli attrezzi del giocatore di ruolo, inclusa quindi una smisurata conoscenza di ogni mostro introdotto in ogni bestiario così da poter argomentare contro il “master”, e dagli, durante le sessioni.
Ramingo, d’altro canto, è una traduzione meravigliosa. Non so quanto voluta, cercata, ma che supera l’originale a mio avviso.
Parimenti trovo molto bella la traduzione di Strider in Grampasso. Nome che alle prime mi spiazzava un po’, non so per quale motivo tra l’altro, ma poi mi resi conto che era azzeccato.
“Master” in effetti può significare anche signore, padrone. Considerato che Bombadil non possiede la natura, ma la domina (o più propriamente è egli stesso la natura o il suo spirito), mentre il contrario non avviene, credo che signore potrebbe essere utilizzato. Messere mi pare in effetti inappropriato. Mastro però credo colga meglio il concetto che Bombadil incarna.
Una domanda: mastro Sam, nell’originale, è “master Sam”?
@ Pipo
Il capitolo X del IV libro di The Lord of the Rings si intitola proprio “The choices of Master Samwise” (nella traduzione italiana, anche in questo caso compare “Messer”). Se non sbaglio – ma dovrei controllare – nel romanzo Sam viene appellato “Master” soltanto alla fine, quando è diventato un notabile della Contea (nonché un eroe “nazionale”, ovviamente, e questo spiega il titolo del capitolo di cui sopra) ed erede di Casa Baggins. Se non sbaglio, al momento dell’addio ai Porti Grigi, Galadriel saluta Sam chiamandolo “Master Sam”.
Sì, dovrei ricontrollare anche io. Mi pare che in un paio di occasioni Sam venga chiamato mastro in riferimento alla sua occupazione di giardiniere. Per questo mi interessava capire se master possa essere usato con tale accezione in inglese.
@ Pipo
Uhm, non vorrei che però, nella altre occorrenze, il “Master Gamgee” fosse riferito al padre di Sam… Ad ogni modo quando abbiamo un po’ di tempo controlliamo.
Non posso che concordare con l’articolo.
Non dimentichiamo, oltretutto, che il mitico “Dungeons & Dragons” si è ispirato per larga parte proprio al LOTR. E in qualche modo possiamo pensare che Tolkien sia stato un po’ l’autore di alcune avventure per GdR, lasciando molteplici zone da sviluppare e raccontare ad altri Masters (che anche il narratore\direttore del gioco di ruolo si chiama così).
Se ci pensiamo bene, questa è una qualità unica dell’opera tolkeniana. Certo, dopo di lui, il fenomeno si è poi appropriato di lavori precedenti, come per Lovecraft, ma è servito un lavoro come quello del nostro medievalista per scatenare la fantasia (perché questo fa, sostanzialmente) di Gygax e compagnia.
Saltando di palo in frasca, sarebbe interessante proporre un’analisi tra il pubblico lucchese e quello della manifestazione romana. Quale tipo di convergenze e divergenze abbiano, e se possano essere effettivamente confrontati.
Ho l’impressione che ne verrebbe fuori qualche dato molto interessante per comprendere un po’ dell’oggi.
Articolo interessantissimo. Concordo parecchio sul fatto delle storie non raccontate. Ricordo la prima volta che lo lessi alla fine mi buttai sulle appendici, sui numeri delle pagine, sul retro della copertina pur di trovare ancora qualcosa da leggere.
una piccola nota di colore che e` lo status di facebook di un’amica lucchese.
“Diaspora. SIGNIFICATO: termine di origine greca che descrive la migrazione di un intero popolo costretto ad abbandonare la propria terra natale per disperdersi in diverse parti del mondo. SINONIMI: Lucca Comics and Games.”
@ pedrilla
Il difetto principale che Tolkien trovava nel SdA era che fosse troppo corto :-) Si è poi scoperto essere una sensazione condivisa da molti che lo leggono la prima volta.
Scusate so che non c’entra niente, ma Ekerot ha citato D&D e Gary Gygax – e mi si è aperto un varco dimensionale col passato.
11 anni, lo hobbit, i primi dungeons, 4- 5 miniature rimediate… e i librigame di Lupo Solitario.
Qualcuno se li ricorda?
Tra le migliori cose di fantasy che io abbia mai letto.
O scritto?
:)
@ franzecke
Il tuo commento è OT fino a un certo punto. La questione è proprio questa: dalla narrativa tolkieniana sono nati – quasi per filiazione diretta – i giochi di ruolo e i libri game di ambientazione fantasy sviluppatisi negli anni Ottanta. Senza il SdA non si sarebbe mai dato Dungeons & Dragons e tanto meno Lupo Solitario. Senza dimenticare l’arte pittorica e i giochi legati alle miniature (Warhammer e lo stesso SdA).
In un secondo tempo sono arrivati i videogames. A partire dalla nostra stessa esperienza, la dimensione ludica è strettamente connessa all’immaginario e alla narrativa fantasy che hanno avuto in Tolkien il massimo “divulgatore”.
Per la critica letteraria paludata questo è una sorta di demerito, ovvero un fenomeno sociologico che non ha nulla a che spartire con la letteratura. E’ precisamente quello che mi sento di contestare. Ancora una volta partendo dall’esperienza diretta, quella che tu stesso rievochi.
Vabbé, la chiudo qui. Torno a dipingere le miniature che ho portato da Lucca per mio figlio… ;-)
E aggiungiamoci pure opere totemiche come “Star Wars” e – forse meno esplicitamente – “The Dark Tower”. In realtà, Tolkien ha filiato nel multimediale. Non solo attraverso la letteratura, ovviamente, ma praticamente in tutti i media moderni e modernissimi.
La Terra di Mezzo ha creato e nutrito l’immaginario di centinaia di milioni di persone. Come nessuna altra opera in precedenza (forse i poemi omerici?). Un immaginario che a sua volta ha prodotto altre opere di altissimo livello (l’elenco sarebbe assai lungo).
Tutti gli altri autori del ‘900, pur sublimi, non sono mai riusciti a toccare quel punto oscuro della mente del lettore che scatena la fantasia, con la forza, l’onestà e la struggente bellezza delle opere tolkeniane. Sì possiamo citare King, Spielberg, Lucas. Ma non a caso citiamo degli allievi.
E franzecke. Anche io mi ricordo tutto.
p.s. la critica letteraria che giudica Tolkien attaccandolo sulla potenza immaginifica delle sue opere, beh, si meriterebbe molti santi e molte madonne. Sarebbe come accusare Beethoven perché è finito negli arrangiamenti pop e rock e hip-pop.
Diciamocelo. Questo nulla ha a che vedere con la critica letteraria. Qui si tratta di rosiconi, e di persone elitarie che si vedono pericolosamente vicine ed accomunate alla “massa” perché Tolkien è amato ben oltre i confini della Torre d’Avorio. Sia mai. Meglio dire che Tolkien è “circenses”. Ma, penso che sia un fenomeno destinato a morire. Perché il tempo è miglior giudice di loro.
Lupo Solitario, Warhammer… ma io ci sono ancora dentro fino al collo! Non so se è un male o un bene :D
E i romanzi ispirati ai libri game di Lupo Solitario li conoscete?
Splendidi…
“…devi sapere qualche cosa di più sui Maghi Anziani… Essi hanno sempre avuto con le proprie divinità un rapporto che deve risultare quasi incomprensibile a una persona cresciuta nel Sommerlund come te. Fa parte del loro credo, della loro conoscenza affermare che sì, è vero che gli Dei hanno creato i mortali e l’universo in cui noi tutti dimoriamo, ma allo stesso modo anche i mortali crearono gli Dei. Essi non vedono nessuna contraddizione in questo stato di cose, né vedono nessuna ragione per cui non dovrebbero avere la libertà di creare nuovi Dei, nel caso lo ritenessero saggio…”
(Joe Dever e John Grant, “Lo scontro finale”)
Per gli appassionati, avete visto il nuovo gioco per battaglie navali Warhammer?
http://www.games-workshop.com/gws/catalog/productDetail.jsp?catId=cat440147a&prodId=prod1350017a
Sembra molto bello… va beh, finisco di dipingere un paio di arcieri bretoniani, forse la prossima settimana si combatte…
@ Ekerot
Sì, va bene, d’accordo, ma stiamo attenti a non essere troppo liquidatori nel dire che certa critica letteraria è destinata a morire e che è solo questione di tempo. A volte anch’io tendo a pensarla così, poi però rifletto sul fatto che certe cose sul conto di Tolkien e di altri autori analoghi venivano pensate e scritte oltre mezzo secolo fa e ancora non si sono estinte. Certe cose si sentono ancora dire e si leggono sul conto di Stephen King o di Ursula K. Le Guin (due autori che hanno saputo raccogliere una certa visione tolkieniana). Per qualcuno il Novecento è stato una cosa ben precisa e guai a metterlo in discussione: esiste la “letteratura”, che soddisfa i requisiti di “letterarietà”, ed esiste la “paraletteratura” che al massimo può aspirare alla sociologia, quando non è proprio definita “monnezzone commerciale”. E guai a fare entrare in campo i concetti di “narrazione” o di “mitopoiesi”, perché è solo fumo negli occhi, sono strumenti del potere con i quali i veri rivoluzionari non dovrebbero mai sporcarsi le mani (solo col caviale). E’ così che certi autori non vengono presi sul serio e sono abbandonati a se stessi – o ai peggiori difensori possibili, come notoriamente è successo a Tolkien in Italia, ma certo non soltanto a lui. In altre parole: se Tolkien fosse considerato un classico del Novecento sarebbe pacifico che circolassero indisturbate traduzioni delle sue opere che contengono marchiani errori e fallacie, corredati con paratesti come quelli che conosciamo? Sarebbe possibile che venisse trattato come il maiale del quale non si butta via nemmeno un’unghia, senza che chi lo pubblica si preoccupasse di strutturare una strategia editoriale e di “recupero” del tempo e delle occasioni perdute? Ho i miei dubbi.
Tutto questo per dire che una determinata visione ideologica della letteratura ha fatto e continua a fare danni. Non credo che sarà il tempo a farla decadere da sé: va combattuta politicamente, testi alla mano, qui e ora.
xWM4: assolutamente d’accordo. Ci mancherebbe. Ma è altresì vero, e questo è un pensiero confortante come direbbe Gandalf, che negli ultimi 50 anni i giudizi più oggettivi su Tolkien hanno fatto molti progressi. Non saprei, non avendo dati su cui stabilire la cosa, se le idee sbagliate siano ancora in superiorità. Andranno senz’altro combattute e relegate senza fare prigionieri. Ma avere come alleato Tolkien non è poco. La diffidenza verso questo autore è scemata e questo è dovuto per tanta buona parte allo sforzo di alcuni, ma anche alla sparizione di alcuni critici cresciuti coi paraocchi (e forse allora dovremmo smetterla di chiamarli critici letterari). Il numero sempre crescente di fan, e la sempre crescente quotazione di alcuni di codesti fan, sono un altro fortissimo alleato.
Poi, ovviamente, ci saranno sempre i detrattori, ma questo è inevitabile ed è anche giusto che un’opera non abbia approvazioni urbi et orbi.
Comunque, tornando al punto, probabilmente in Italia non è ancora il momento di abbassare la guardia. Ma si tratta di combattere un atteggiamento generale nei confronti di certa letteratura (come Ferroni che liquidò “Il nome della rosa” in 3 righe), più che verso Tolkien e basta. Bisogna augurarsi che i docenti di italiano e di letteratura presenti e venturi siano sempre meno intossicati. Questo non avverrà per intervento dello spirito santo, ma ho anche la sensazione che Tolkien – e la buona letteratura tutta – sia pienamente in grado di prendersi da solo la propria rivincita. Ovviamente, gli daremo tutti e volentieri una bella mano (come tu e altri state facendo, peraltro).
Penso che sia, questo della sottovalutazione o peggio, della pura critica denigratoria, lo stesso processo che avviene per i fumetti e videogiochi.
Ricordo quando a scuola alcuni professori additavano i fumetti come dannosi. L’argomento era che ci avrebbero fatto divenire analfabeti di ritorno, ci avrebbero insegnato un italiano sbagliato. Magari per me è davvero avvenuto, ma lasciamo perdere…
Eppure è così evidente il potenziale narrativo dei fumetti, molto simile a quello dei film.
Eh, Lupo Solitario… I romanzi non li ho mai letti, ma i libro game sono stati la prima dose, la cui naturale evoluzione fu quella scatola rossa con un drago disegnato da Elmore sopra.
E D&D fu davvero importante, insieme con i fumetti, in quanto grazie a questi due elementi mi decisi a leggere il signore degli anelli e quindi capii quanto potesse essere fico leggere un libro. Beh, chissenefrega direte voi, ma mi pare che ci sia un vento di amarcord che trapela dagli ultimi post… Torno anche io a metter giù qualche dettaglio per una partita a Rolemaster.
La fantasia è rivoluzionaria, è un’arma potentissima che la cultura dominante cerca sempre di disinnescare imponendo “modelli unici” e facendo passare la creazione di mondi alternativi (cavallo di battaglia del genere fantasy) come passatempi o “fughe dalla realtà”, quando invece, potenzialmente, sono esattamente il contrario, ossia finestre, aperture che danno fiato al regno dell’immaginazione e alla speranza di un’alternativa possibile rispetto allo stato di cose presenti.
Non a caso William Morris, creatore del genere fantasy a detta dello stesso Tolkien, era un militante socialista.
E a proposito di Tolkien, multimedialità e amarcord (questa volta anni Novanta) ricordo “Nightfall in the Middle Earth” dei Blind Guardian, album interamente dedicato al Silmarillion.
E poi c’è “Lord of the Rings”:
http://www.youtube.com/watch?v=Nna0-SQPH2o
Creare mondi che creano altri mondi… cosa chiedere di più?
E questa? Dove la mettiamo?
http://it.wikipedia.org/wiki/The_Battle_of_Evermore
Interessante la notizia su Kubrick, per altro, che mi era sfuggita. Nonostante la mia venerazione sacrale per il regista newyorkese, sono lieto che abbia lasciato perdere. Tolkien necessitava di un fan per essere tradotto sul grande schermo. E la chirugica freddezza di Kubrick avrebbe scozzato, secondo me, con il materiale letterario a disposizione.
La parola magica è “letterarietà”. Quali sono quelle soggettività in possesso delle stellette per rintracciare questo requisito all’interno di un libro qualsiasi, in Italia? E chi ha dato loro queste stellette? Ma poi: il requisito di letterarietà, che cose è? Si tratta di un’entità mutaforma che assume determinati tratti a seconda di chi ne fa uso? Ricordo una lunghissima discussione su Lipperatura (proprio con il titolo di “Letterarietà”, a ridosso del premio Strega 2010) che credo sia esemplare: la sensazione che ho avuto io è che fosse un’occasione di incontro di “chiese” diverse (per storia e visioni) che normalmente si ignorano ognuna indirizzata verso obiettivi propri. Eppure, a ben vedere, il pianerottolo era lo stesso, un paese che continua a veleggiare infelice nei suoi numerosi gradi di analfabetismo.
Che discussione meravigliosa!
Ma l’intervento a Lucca non è stato registrato/documentato in nessun modo?
Renderebbe felice me e immagino altri come me, che magari a Lucca sono andati un’altro giorno ed ora stanno a rosicare per esserselo perso…
Comunque grazie Wu Ming 4 per tutto il lavoro su Tolkien. Io purtroppo ho incontrato molta diffidenza a riguardo, una cara amica l’ha liquidato quasi come spazzatura. E quando ho cercato di spiegarle tutta l’epica che c’è dietro, si è inalberata perchè non potevo paragonarlo alle grandi opere classiche… vabè… sarà che la mia capacità di esposizione non è buona quanto la tua, ma certa gente necessita di più apertura mentale…
PS: vedo che non sono l’unico ad essere preso da Warhammer e GdR… meno male…
@ Wu Ming in che senso parli di “mitopoiesi” in rapporto alla “narrazione”?
@ Bigio non c’è nessuna “epica” dietro… e secondo me è proprio per questo che funziona così bene.
Credo sia importante tenere ben presente questo punto per poter valutare l’opera di Tolkien in tutta la sua complessità.
Se paragoni il SdA all’epica classica lo svuoti del suo rapporto con la modernità – ovvero con la grande letteratura novecentesca.
Per come la vedo io, sono proprio paragoni di questo genere che impediscono a Tolkien di assurgere al rango di “classico” e che lo relegano nel ghetto della letteratura d’intrattenimento.
Non sono troppo d’accordo sull’assenza di “epica”.
Se intendi che non si basa o raccoglie miti, leggende e racconti esistenti è sicuramente vero… ma Tolkien ha creato un background di miti e leggende piuttosto corposo.
Ciò che cercavo di spiegare al tempo alla mia amica era appunto questa complessità del SdA: l’esistenza di un background più ampio della semplice narrazione, un background alle volte non compleatmente esplorato…
Poi boh… non sono uno studioso di leteratura, magari sono io che uso parole scorrette…
@ Bigio tranquillo neanche io sono uno studioso di letteratura… però so che i miti non si possono “creare” dal nulla: i miti, in un certo senso, si creano da soli.
Quel che Tolkien ha creato è un universo letterario, che secondo me è una cosa ben diversa.
Sul fatto che poi questo universo sia stato creato, con ogni probabilità, come un universo “aperto” – cioè come fosse un invito rivolto al lettore a proseguirne l’esplorazione – su questo siamo completamente d’accordo.
@ franzecke
per “mitopoiesi”, in letteratura, si intende la creazione, a scopi narrativi, di un universo mitologico (un pantheon, una storia-prima-della-storia, un corpus di leggende etc.):
http://en.wikipedia.org/wiki/Mythopoeia_%28genre%29
@ franzecke
La voce di Wikipedia linkata dal mio socio cita direttamente Tolkien in relazione al tipo di narrativa che crea mondi fantastici corredati di leggende e storia. A questo va aggiunto che – come ho scritto nel mio intervento – Tolkien non pensava affatto che la letteratura fosse inutile, era convinto che i miti e i racconti potessero cogliere la verità. Da questo punto di vista, per i novizi in ascolto, i due testi di riferimento nella sua bibliografia sono il saggio “Sulle Fiabe” e la poesia “Mitopoeia”, entrambi raccolti nel volume “Albero e Foglia”.
@ Bigio
Come ogni autore, Tolkien può piacere o non piacere. Magari alla tua amica non importava granché del lavoro mitopoietico che lui ha fatto. Ci sta. Quello che però è inaccettabile, secondo me, è che venga snobbato come una sorta di ingenuotto che raccontava favoline o, peggio, di utile idiota del mercato editoriale (o magari entrambe le cose).
Bisognerebbe chiedersi perché i rovelli interiori di Raskolnikov sono considerati letterari e quelli di Frodo e Sam invece no. Forse perché negli stolidi hobbit c’è troppa poca psicologia e quei conflitti interiori e di coscienza sono spesso proiettati fuori, all’esterno, nella vicenda stessa? Ancora: perché la grandiosa ambiguità di Svidrigajlov (ai limiti del bipolarismo e della schizofrenia) è considerata letteraria e quella di Gollum invece no? Forse perché Gollum la porta in superficie, incisa nell’aspetto, invece che mimetizzata nelle comuni sembianze borghesi? Perché personaggi di evidente ispirazione shakespeariana – e comunque assolutamente contemporanei – come Saruman e Denethor non dovrebbero avere dignità letteraria?
Il punto è sostanzialmente questo: al di là dei gusti, e anche al di là della mitopoiesi, si tratta di rendersi conto di cosa c’è in un testo. Ma se si assume un determinato paio d’occhiali ideologici io credo che certe cose semplicemente non sia possibile leggerle, non le si coglie. Si legge degli eterei Elfi e si compatisce l’ingenua pretenziosità del disegno narrativo, senza considerare che gli Elfi di Tolkien incarnano una riflessione su di noi, cioè “sono una rappresentazione o una concezione di una parte della natura umana, ma questo non fa parte del modo di esprimersi di una leggenda” [JRRT, Lettera 131]. Di conseguenza chi indossa quegli occhiali non può spiegare perché da sessant’anni Tolkien campeggia indisturbato sugli scaffali delle librerie (prima, durante e dopo il successo cinematografico) e finisce per attribuirne il successo ai gusti dozzinali dei lettori. Perché se non può essere ignorante il critico, per forza di cose deve esserlo il pubblico. Il circolo vizioso si chiude.
P.S. Comunque spero che a breve saranno disponibili i file audio degli interventi (anche se, per quanto riguarda il mio, è stato senz’altro più stringato del testo che compare nel post).
@ Wu Mings “narrative genre in modern literature”, ci sta.
Per questa volta vi promuovo ;)
Ma attenzione all’uso spregiudicato di termini pericolosi: per me già parlare di “universo mitologico” in rapporto ad un’opera narrativa non è pratica del tutto lecita.
Mito e letteratura sono infatti due cose distinte – ed è bene che tali rimangano, pena un’inevitabile svalutazione dell’uno e dell’altra.
Scusate regà, non è questione di spaccare il capello in quattro… è solo l’ombra di F. Jesi che mi bisbiglia nell’orecchio ogni volta che incontro la parola “mito”.
Un saluto
P.S. rileggendo i post precedenti, direi che il termine “background” – termine saggiamente utilizzato da Bigio per descrivere il retroterra del SdA – serva meglio di “universo mitologico”.
Ora come sempre, una parola ai furbi.
Ciao
@franzecke
stavolta mi tocca davvero correggerti, perché Jesi mette in guardia contro la parola “mito”, giammai contro le parole “mitologia” e “mitologico”, che anzi propone in perenne alternativa alla prima, trattandosi sempre, per lui, di “materiali mitologici”. L’uso dell’espressione “universo mitologico” è pienamente coerente con quell’impostazione.
@franzecke,
non so se conosci Fenoglio, e i suoi libri.
I racconti de “I ventitré giorni della città di Alba”, “Primavera di bellezza”, e soprattutto “Una questione privata” e “Il partigiano Johnny”, secondo me, possono essere un altro buon esempio di letteratura che usa ‘materiali mitologici’ senza voler essere ‘mitica’.
Non credo sia un caso che la formazione letteraria di Fenoglio poggi sulla letteratura anglosassone e che la lingua stessa usata nelle sue pagine sia frutto di un affascinante mescolanza linguistica tra dialetto langarolo, italiano, inglese letterario (fin dal liceo traduceva opere della letteratura inglese). Affascinante per noi, che la leggiamo “fatta e finita”, ma difficoltosissima per lui, che doveva lavorarla a lungo…
@ franzecke e WM1
Insomma, basta distinguere e basta capirsi. Nel caso dell’invenzione narrativa tolkieniana ci troviamo di fronte a una serie di miti prodotti dall’autore a fondamenta della propria costruzione fantastica. E’ evidente che non si tratta di una mitologia nata da millenni di storia collettiva, ma appunto, del racconto di un singolo *come se* fosse una mitologia storicamente rilevata. E tuttavia, sia chiaro, i miti tolkieniani sono forgiati ispirandosi a materiali mitologici euro-mediterranei, mescolando cosmogonia monoteista e politeista.
Detto questo, specifico che quando Tolkien parla di verità nel mito e nel racconto non intende affermare che i miti della Terra di Mezzo sono veri in quanto tali, o storicamente equiparabili alla nostra mitologia, ma che ogni mito contiene una parte di verità sulla condizione umana, sulla nostra esistenza e sull’universo che ci circonda. “Dopo tutto, io credo che le leggende e i miti siano in gran parte fatti di ‘verità’, e in realtà presentino aspetti della verità che possono essere recepiti solamente sotto questa forma; e certe verità furono scoperte molto tempo fa e ritornano sempre” (Lettera 131).
L’esempio che Tolkien fa è quello della “caduta”, cioè la perdita di una condizione originaria di stabilità o beatitudine. In effetti questo è un topos che ritroviamo non solo nei miti edenici, ma anche nel viaggio dell’eroe, che parte sempre da un decadimento, da una perdita della condizione di partenza, da un equilibrio che deve essere ripristinato attraverso l’adempimento di prove e la rinuncia a qualcosa (e questo implica la necessità della scelta e produce la dimensione etica). Considerato che siamo esseri mortali che progressivamente “decadono” e muoiono, non meraviglia che si tratti di un tema fondante nella mitologia e nelle nostre narrazioni.
“Non ci può essere una ‘storia’ senza una caduta: tutte le storie in definitiva riguardano una caduta, per lo meno per la mente umana come noi la conosciamo e di cui siamo dotati” (ibidem).
Così, si può dire che non ci sia aspetto della mitologia di Arda e della Terra di Mezzo che non contenga e non simboleggi un aspetto e un conflitto della natura umana. Ecco perché c’è del vero in quei racconti. Anche se non sono miti antropocentrici, non ci sono dubbi che gli Elfi (così come i Nani, gli Hobbit o gli Orchi) incarnano passioni e pulsioni “vere”.
Non fosse altro che per farmi ridere dietro da un po’ di critici letterari, dirò che personalmente ritengo gli Elfi di Tolkien una delle più riuscite invenzioni letterarie del Novecento :-)
Esatto, ogni narrazione mitologica – ogni ricombinazione di materiali mitologici (per dirla con Jesi) a fini di “subcreazione” (per dirla con Tolkien) – ha una sua verità poetica, che risuona dentro di noi.
Di più: persino il più artificioso dei “miti tecnicizzati” conserva un nucleo di verità poetica, senza il quale non sarebbe in grado di travolgere l’inconscio delle masse. E’ proprio quello il problema.
@ Wu Mings basta capirsi, è vero.
Ma bisogna anche distinguere: è proprio quello che faceva Jesi – riprendendo e correggendo Kerényi – quando operava una differenziazione tra mito e mitologia.
Resta però il fatto che la narrazione mitologica non è una narrazione come tutte le altre: essa infatti – e su questo concordo in pieno con Wu Ming 4 – possiede il carattere peculiare dell’esemplarità.
Infatti, se il mito serve a fondare la realtà e a stabilire l’ordine cosmico e l’ordine sociale, il “racconto mitologico” – che rientra di sicuro nella sfera del +rituale+ piuttosto che in quello della +letteratura+ – serve a garantire che questi ordinamenti si mantengano poi in piedi.
Va da sé che un tipo di narrazione di questo tipo richieda una partecipazione collettiva, da parte dell’intero corpo sociale, che sta sottesa alla sua produzione.
È questo che Jesi intendeva dire quando poneva il Mito quale motore nascosto all’interno del suo modello Macchina Mitologica – macchina che “produce mitologie” a getto continuo.
Come dire che sì, è la mente umana che produce miti, ma poi è la +società+ che si occupa di metterli in pratica, cioè a dire di narrarli in maniera corretta (e qui sta la differenza tra mito “genuino” e mito tecnicizzato).
Ora, non vedo cosa c’entri tutto questo con la creazione di universi fantastici che vanno a formare il background di un’opera letteraria come il SdA.
Essi infatti, per quanto possano richiamarsi a racconti mitologici tradizionali, sono e restano un parto della fantasia e dell’immaginazione dell’autore che li ha creati.
Negare ad uno scrittore super-serio come Tolkien questa capacità di +creare+ – capacità che ha trasformato i suoi racconti in un formidabile strumento mitopoietico – mi lascia un po’ l’impressione di fargli un piccolo torto.
@ Danae non conosco Fenoglio , ma so bene che esiste la possibilità di utilizzare materiali mitologici ai fini narrativi senza avere la pretesa di produrre mitologie.
I primi autori che mi vengono in mente sono Luciano di Samosata, E.T.A. Hoffmann… magari Robert Graves… ma credo si potrebbero fare parecchi altri esempi al riguardo.
Magari ne parliamo un’altra volta.
Nel frattempo potrei leggermi Fenoglio, in effetti :)
Ciao.
@ franzecke
non riesco a capire il punto della critica. Per Jesi, benché anch’egli ritenga doveroso distinguere tra varie “intensità”, *tutte* le ricombinazioni di materiali mitologici sono tecnicizzazioni, anche quelle che avvengono in letteratura. “Tecnicizzazione” deriva da techné, ed è una techné (un’arte nel senso non idealistico del termine, come in “arts & crafts”) anche quella del narratore. “Tecnicizzazione” mica è l’opposto di creatività, anzi, ci vogliono sapienza e creatività per ricombinare i materiali mitologici.
Quindi, ripeto, non capisco bene perché dire che Tolkien o altri scrittori fanno mitopoiesi letteraria, ovvero creano universi mitologici (che non vuol dire creare tout court miti come quelli prodotti da intere civiltà nel corso di secoli) dovrebbe creare problemi, o addirittura far torto a Tolkien. Anche perché è stato lui a proporre e difendere quest’espressione, con riferimento al suo lavoro e non solo. “Mitologia” significa, a rigore, discorso sui miti. “Universo mitologico” è un universo di discorsi sui miti, di storie create con materiali mitologici.
La differenza tra una tecnicizzazione di mito come quella operata – per esempio – da un partito politico e una tecnicizzazione come quella di cui stiamo parlando ho cercato di spiegarla (per come la intendo io, sia chiaro) nell’incontro su Jesi tenuto al Bartleby l’anno scorso, l’audio lo trovi a metà di questo post:
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=3377#more-3377
Anch’io penso che parlare di mitologia tolkieniana non faccia torto a nessuno, né ai miti né tanto meno a Tolkien.
Il confine fra mitologia e letteratura è spesso molto più sottile di quanto si pensi. Innanzitutto perché non esiste il Mito (immobile e al di fuori dal tempo) ma i miti, ossia racconti che cercano di spiegare il cosmo (anch’esso in continua trasformazione) attraverso narrazioni condivise.
Ad esempio, il mito nordico del Crepuscolo degli dèi noi lo conosciamo grazie all’Edda poetica (opera anonima) e all’Edda in prosa di Snorri Sturluson. Quest’ultima è un’opera mitologica fortemente segnata dalla sensibilità letteraria dell’autore e dall’epoca in cui venne scritta, e che tra l’altro contiene importanti variazioni rispetto all’Edda poetica, tanto che sarebbe più giusto parlare non del mito, ma dei miti (al plurale) del Crepuscolo degli dèi. Stesso discorso vale per i miti greci: per Esiodo Prometeo è nel torto ed è giusto che Zeus lo punisca, per Eschilo invece è possibile una riconciliazione fra il padre degli dèi e il ladro del fuoco, e dunque Prometeo sarà liberato…
I miti non sfuggono affatto alla logica dei “punti di vista” di chi li racconta.
Sarà il tempo a stabilire (in parte lo ha già fatto) se Tolkien ha creato o meno una mitologia duratura. Le credenziali ci sono tutte, perché in termini simbolici il Signore degli Anelli ci parla moltissimo dei “mala tempora” in cui viviamo: enormi e devastanti poteri concentrati nelle mani di pochissime persone, saccheggio e distruzione della natura, orrori dell’industrialismo, la responsabilità dell’individuo di fronte al bene comune minacciato… e, contemporaneamente, richiamo agli aspetti più profondi e universali delle mitologie preesistenti.
@ Wu Ming 1 rispetto al concetto di creatività per me vale la differenza tra i due verbi greci “poiein”, inteso come creare ex nihilo, e “prattein”, inteso come creare adeguandosi alla tradizione.
Il punto della critica è che secondo me la mitologia – il discorso sui miti – ricade nella sfera di significato del secondo termine.
Tolkien non ha creato un “universo mitologico”, in quanto non ha lavorato manipolando in maniera diretta materiali mitologici: ha creato un universo letterario partorendolo direttamente dalla sua fantasia.
In questo senso, non parlerei di “tecnicizzazione” in un caso come il suo.
Il fatto che poi si sia rifatto a mitologie tradizionali come fonte di ispirazione per le sue opere, per come la vedo io, è tutto un altro paio di maniche.
@ franzecke
tutto dipende da cosa intendiamo per “materiali mitologici”. Sono materiali mitologici anche quelle che il giovane Jesi, anticipando le scoperte delle neuroscienze di oggi, chiamò “connessioni archetipiche”: la connessione tra la nascita del grano e la nascita di un Dio, quella tra il sangue e la vita etc. Queste connessioni archetipiche Tolkien le conosce bene, le prende e le rinnova una per una in un contesto di sua “sub-creazione”.
“Poiein” e “prattein” possono andare bene come vaghe polarità del discorso, ma non funzionano come coppia antitetica, perché ogni scrivere letterario è una combinazione di entrambi gli approcci. Quando noi scriviamo un romanzo storico, ci inseriamo consapevolmente in una tradizione (per la quale qualcuno usa la parola “genere”), e al contempo scriviamo storie che, anche quando il soggetto era già noto, non erano mai state scritte in quei termini, perché non c’era mai stata esattamente la combinazione di sguardi e approcci e vissuti che siamo soliti chiamare “Wu Ming”.
@franzecke,
in qualche commento fa scrivevi che per te mito e letteratura sono “due cose distinte – ed è bene che tali rimangano, pena un’inevitabile svalutazione dell’uno e dell’altra”.
Forse, è da questo punto che non si riesce a intendersi.
Per molti versi la letteratura deriva, è “figlia”, del mito. Si tratta di narrazioni collettive che, in particolari momenti, in particolari contesti, hanno un “autore” che organizza e sistematizza la materia. La narrazione (mitologica) è un continuum, scorre in modo ininterrotto. Ognuno di noi contribuisce ad alimentarla.
Poi, il discorso su Fenoglio riguarda un particolare ambito dei materiali mitologici, vale a dire “la mitologia del bravo partigiano” (semplifico così), che ha percorso in lungo e in largo la letteratura del dopoguerra in Italia, codificandosi in narrazioni che alla fine, per il troppo ripetersi, si erano fatte stucchevoli e ripetitive.
Fenoglio, in pieno Novecento, lavora su quei particolari “materiali mitologici” per raccontare – con il suo sguardo – la Resistenza sulle colline di Langa, tirandone fuori personaggi per certi tratti “mitici”, “archetipici”. Ha cioè scavalcato la “mitologia corrente”, per andare a pescare alle origini mitiche della letteratura.
[…] della “narrazione” della modernità. 3) Wu Ming4, scrivendo su Tolkien in Giap 4) Ibidem 5) Girolamo De Michele, op. cit. pag. 112 Like this:LikeBe the first to like this post. […]
@ Wu Ming 1 scusami ma tirare in ballo le connessioni archetipiche, a distanza di cinquant’anni da “La pensée sauvage” di C. Lévi Strauss, mi sembra un po’ assurdo.
È come andare a rispolverare concetti vetusti come la “partecipazione mistica” di Lévy-Bruhl, la “solidarietà mistica tra l’uomo e la pianta” di M. Eliade o “l’abisso del seme” (!) di Kerényi.
Non a caso tu parli del “giovane Jesi”.
In campo di pensiero religioso – perché se parliamo di mitologia, volenti o nolenti, di questo stiamo parlando – è oramai assodato che la logica che regge in piedi l’equilibrio della narrazione di miti è una logica squisitamente +strutturale+.
Qui mi fermo, dal momento che credo che siamo già un bel po’ fuori tema, e non mi va di annoiare ulteriormente gli altri lettori.
Quel che scrivi sull’attività dello scrivere letterario in cui “poiein” e “prattein” si vanno a sovrapporre, mi sembra però un punto molto interessante.
Ci lavorerò su – e poi ovviamente ritornerò a rompervi un po’ le scatole :)
Un saluto.
@franzecke
“connessioni archetipiche” può sembrare un termine vetusto, ma il concetto che ci sta dietro viene ripreso pari pari da Lakoff e da Srini Narayanan per spiegare come funzionano le metafore concettuali.
La regolare ripetizione di due eventi nell’esperienza, o di due pensieri, implica la simultanea attivazione di due differenti zone del cervello. Quest’attivazione, ripetuta, forma circuiti neurali che connettono le diverse regioni. Queste connessioni sono ciò che costituisce fisicamente una metafora primaria (che non è esattmente quel che intendeva Jesi con “connessione archetipica” ma il meccanismo presupposto è molto simile.)
@ franzecke
scusa, ma se non conosci bene un concetto (infatti mi sa che lo confondi con l’archetipo alla Jung), prima di sputtanarlo potresti informarti. Quelle intuizioni di Jesi ( che partiva, incredibile dictu, dai riflessi condizionati in psicologia) anticipano di almeno vent’anni le acquisizioni delle neuroscienze sulla marcatura sinaptica delle “metafore primarie”. I tuoi paragoni sono fuori luogo al 110%.
mi sembra che la tua lettura, @franzecke, identifichi tout-court il *mito* con la *fondazione di una religione*.
Scrivi, infatti: “se il mito serve a fondare la realtà e a stabilire l’ordine cosmico e l’ordine sociale, il “racconto mitologico” – che rientra di sicuro nella sfera del +rituale+ piuttosto che in quello della +letteratura+ – serve a garantire che questi ordinamenti si mantengano poi in piedi”.
Indubbiamente ci sono “anche” miti di tipo religioso e indubbiamente “anche” le religioni utilizzano i miti per creare/rafforzare un immaginario (per i meccanismi ricordati da WM2), ma i materiali mitologici non si esauriscono in questo (per fortuna!)
Infatti. I “materiali mitologici” sono variegati, si tratta di mitologemi, di nuclei narrativi ricorrenti, di connessioni ripetute fino a diventare topiche (“archetipiche” nel senso di Jesi).
@ Wu Ming 1 ehi io non ho alcun interesse a sputtanare niente e nessuno, stiamo solo dicutendo, dunque diamoci una calmata.
Sarà vero di sicuro quello che mi dite rispetto al rapporto tra le connessioni archetipiche di cui parlava Jesi e le neuroscienze – materia di cui confesso senza troppi problemi di non capire niente – ma riprendendo in mano “L’archeologia e i riflessi condizionati” del 1960, io non ci trovo altro che una rilettura del pensiero sugli archetipi di Jung (autore molto importante nella sua formazione), peraltro non priva di forzature.
Del resto si tratta di un testo che Jesi ha prodotto a 18 anni, all’inizio del suo percorso di mitologo, e non mi risulta che in seguito abbia proseguito nella medesima direzione.
Ora, se questa sua intuizione sia andata poi a coincidere vent’anni dopo con delle teorie del linguaggio riguardanti le metafore concettuali, questo io non lo so, perché, ripeto, di neuroscienza non ci capisco un’acca: voi mi dite che è così e magari mi andrò a informare nel merito.
L’unica cosa è che, da quel poco che mi avete detto, direi che, allo stesso modo si potrebbe far coincidere senza troppi problemi questa teoria con quella delle antitesi strutturali, fondamento del pensiero di Lévi-Strauss e della scuola strutturalista.
Del resto, come dice Wu Ming 2, “non è esattamente quel che intendeva Jesi… ma il meccanismo presupposto è molto simile”: dunque di cosa stiamo parlando?
Un saluto.
@ Danae no scusa ma non sono d’accordo. Il pensiero mitico è un pensiero strettamente religioso. Il mito, una volta estrapolato dal contesto rituale si svuota infatti di significato.
Le stesse narrazioni mitologiche di cui stiamo parlando nascono storicamente in un contesto religioso.
Per farti un esempio, le rappresentazioni tragiche ad Atene erano il momento culminante delle feste di Dioniso: al di fuori di quel contesto non significavano più nulla.
Era infatti il contesto religioso (=la ripetizione rituale) a far sì che esse diventassero topiche, o archetipiche.
In questo senso parlavo del profondo divario che divide la mitologia dalla letteratura.
Ciao.
@franzecke,
mythos in greco ha il significato di “racconto”.
Le rappresentazioni tragiche hanno le loro radici nei riti sacri, nell’epica, ma la forma codificata ad Atene unisce all’aspetto del racconto quello del “dramma” (“dramo”, agisco). I personaggi, cioè, diventano concreti, “fanno qualcosa” su una scena, davanti agli spettatori. (http://it.wikipedia.org/wiki/Tragedia_greca per fare presto…)
Le rappresentazioni tragiche ad Atene (nell’ “Atene di Pericle”) non erano religiose, ma (eminentemente) politiche. Ancora oggi possiamo leggere le tragedie greche (o vederle rappresentate) e trovarvi temi e concetti *validi*, *classici* nel senso in cui Calvino intendeva questa parola: davvero ti sembra che non abbiano senso fuori dal contesto religioso?
La ripetizione rituale: non so a cosa ti riferisci. In ogni occasione si mettevano in scena drammi diversi. Rituale, quindi, non era la tragedia, ma il fatto di partecipare alla rappresentazione.
[Tra l’altro, i miti che conosciamo oggi sono arrivati a noi grazie alla trasmissione letteraria (penso alle Metamorfosi, ad esempio)]
@ franzecke
eh, ce lo stiamo e te lo stiamo chiedendo un po’ tutti quanti “di cosa stiamo parlando”, perché davvero, rileggendo ho la fortissima impressione che nessuno di noi (io, i miei soci, Giacomo, Danae) abbia capito cosa tu stia criticando esattamente.
Ho citato “quelle che Jesi chiamò le connessioni archetipiche” (e che si possono anche chiamare in altri modi, se uno vuole, perché se ne registrano le occorrenze a prescindere da Jesi) come uno degli elementi che stanno nella definizione di “materiali mitologici”, insieme a mitologemi, lacerti narrativi di ogni sorta etc. “Materiali mitologici” è un’espressione che descrive un’eterogeneità. Stavo contestando la tua idea che Tolkien non ne abbia “maneggiati direttamente”. Li ha maneggiati eccome: ha usato innumerevoli mitologemi, e lui stesso li ha ricordati in più occasioni. Ha attinto ai miti e alle leggende che ha studiato.
L’articolo di Jesi è junghiano per coincidenza terminologica, ma l’impostazione è materialistica (mica per caso si basa su Pavlov). [Impostazione che, evolvendosi, negli anni successivi porterà Jesi ad abbracciare la politica marxista (da un lato) e, direi, anche a discernere Jung da Kerenyi (dall’altro), in un’epoca in cui i pensieri dei due venivano spesso confusi.]
Una “connessione archetipica” è un prodotto storico, del tutto immanente a come vivono gli umani in una data formazione sociale. Gli esempi che Jesi fa sono molto chiari in questo senso. La connessione si forma e diventa “archetipica” (cioè dà inizio a un “tipo”) a furia di essere reiterata. Diventa un automatismo psicologico e sociale. Un “tracciato” che collega due elementi – uno legato alla vita materiale, l’altro alla vita “spirituale” di una comunità – viene battuto talmente tante volte da diventare un solco permanente.
A Jesi manca il vocabolario adeguato (perché ancora non esiste), e usa la teoria dei riflessi condizionati in mancanza di meglio. Ma chi legge quell’articolo acerbo avendo presente gli studi di George Lakoff su metafore e cornici concettuali, e soprattutto il concetto di “neuroplasticità” del cervello, resta folgorato dalla quantità e qualità dei parallelismi. Praticamente, Jesi descrisse per la filogenesi (lo sviluppo di una formazione sociale) quello che Lakoff e altri descrivono per l’ontogenesi (lo sviluppo e la formazione di un individuo). Se poi pensiamo che in Lakoff l’ontogenesi diventa filogenesi… Importa poco che poi Jesi non abbia sviluppato esplicitamente quelle intuizioni.
[Tra l’altro, non le ha mai davvero abbandonate, le ha solo riformulate in altro modo. L’idea che a essere “archetipici” non siano gli elementi bensì le relazioni tra loro, e che tali relazioni siano prodotti storici, è presente praticamente in ogni suo scritto.]
Una metafora primaria – ad esempio, quella che associa il movimento verso l’alto al miglioramento, e quello verso il basso al peggioramento – nasce grazie alla ripetuta connessione tra un’esperienza senso-motoria (es. la conquista della posizione eretta da parte del bambino, oppure l’essere presi in braccio e sollevati) e un’esperienza affettiva (l’essere gratificati quando si fanno i primi passi, il sentirsi bene in braccio a mamma o papà).
Il parallelismo con la connessione descritta da Jesi – tra elementi della vita materiale ed elementi della vita spirituale – salta agli occhi.
Grazie alla neuroplasticità del cervello, il tracciato sinaptico da una regione del cervello deputata alle esperienze senso-motorie e un’altra deputata alle esperienze affettive, a forza di essere “battuto”, diventa un collegamento permanente, cioè le sinapsi si organizzano in modo da facilitarlo.
Anche questo parallelismo con le conclusioni a cui era giunto Jesi applicando Pavlov all’archeologia è piuttosto evidente.
Sulla base delle metafore primarie si formano quadri concettuali (deep frames) più complessi, che sono alla base di tutte le narrazioni che ci permettono di comunicare e vivere nel nostro quotidiano. Da metafore come alto:bene=basso:male oppure caldo:amicizia=freddo:ostilità (a ciascuna delle quali corrisponde una connessione sinaptica che si può ben definire “archetipica”) si formano dispositivi di linguaggio il cui funzionamento possiamo riconoscere in ogni momento.
Il parallelismo tra questo e il rapporto tra le connessioni archetipiche e i miti di una data civiltà è abbastanza palese.
In entrambi i processi, quel che risalta è *l’immanenza alle forme di vita*. Non esiste connessione precedente al vivere concreto e associato delle persone. Non esiste quadro concettuale precedente il nostro essere “compagnevole animale”.
Sbaglierò, ma ‘sta roba a me non sembra particolarmente junghiana.
@franzecke
Jesi parla di “connessioni archetipiche” anche in “Mito”, pagina 96 dell’edizione Mondadori del 1989. La prima edizione del testo è del 1973 e se non sabglio Jesi, quando lo scrive, di anni ne ha 32 non 18!
“Soltanto le connessioni tra due elementi possono ritenersi archetipiche. […] La connessione archetipica può verificarsi fra un’immagine astratta ed una concreta, ma può anche aver luogo fra due immagini astratte e due immagini concrete. […] Solo prendendo in esame di volta in volta ciascuna connessione fra due immagini, ed evitando di trarre conclusioni sulla natura di una determinata immagine dal confronto delle varie connessioni in cui tale immagine figura, è possibile cogliere il valore delle connessioni archetipiche, il quale si attua in un sistema simbolico binario reciproco. […]Tutte queste connessioni di immagini risiedono in potenza nella psiche di ciascun individuo. […] Nella psiche di ogni individuo umano esisterebbe dunque la possibilità latente di effettuare tutte le connessioni in questione.”
@ Wu Ming 2
in “Mito”, se non ricordo male (non ho il libro in casa), è scomparso l’impianto “pavloviano” del saggetto giovanile (i riflessi condizionati etc.), e resta solo ciò che conta, ovvero la centralità concettuale della connessione rispetto alle singole immagini connesse.
@WM1
Esatto. Una connessione di immagini che discende da “affinità elettive” e non da “rapporti logici” (come in Lévi-Strauss). Questa connessione archetipica è alla base di quel funzionamento della macchina mitologica che secondo Jesi è fondamentale comprendere, mettendo tra parentesi, per il momento, il problema dell’essenza – dell’esserci o non esserci del mito. E se si materializzasse in questa discussione, credo che Jesi ci vorrebbe tirare per quella strada…
Vero. L’approccio “ontologico” è sempre una trappola. Non bisogna chiedersi cosa sia il mito, ma come funzioni la macchina mitologica.
@ Wu Ming 1 ti ringrazio per la spiegazione dettagliata: è un argomento molto interessante che merita di sicuro un approfondimento.
Detto ciò mi soffermerei su un punto, e cioè sulla “connessione che diventa archetipica a furia di essere reiterata”.
Nell’ambito di culture che producono mitologia, mi sembra di poter osservare che questa reiterazione, come dicevo @ Danae, passi attraverso l’operazione rituale: in questo senso ho affermato che il pensiero mitico è un pensiero strettamente religioso.
Quel che ne segue – cioè quello di cui sto parlando da stamattina – è che la stessa narrazione mitologica, per quanto possa essere più o meno “laicizzata” dal contesto storico, fa fede alle sue origini magico-religiose o mitico-rituali.
Il punto della mia critica è proprio questo: io non riesco a trovare questo tipo di mentalità nell’opera di Tolkien, mentre invece la ritrovo senza troppi problemi in Apuleio, o nei tragediografi ateniesi.
Questo perché, a mio modo di vedere, è il contesto storico che conta: Tolkien ha vissuto in un epoca in cui i meccanismi tradizionali erano morti e sepolti da un bel pezzo e al di là di quelle che erano le sue intenzioni, egli non ha mai prodotto mitologia.
Quanto all’utilizzo da parte sua di materiali mitologici o di mitologemi, escludendo l’utilizzo del patrimonio folkloristico nordeuropeo (nani, elfi, troll etc.), non mi sembra che nel SdA sia possibile rintracciare segni di narrazioni mitologiche, fatta esclusione per un generico interesse verso una visione dualistica del cosmo, tipicamente giudeo-cristiana, cui si può ricollegare l’idea di “caduta” di cui parlava WM4 – ma forse sbaglio: alla fine, non lo leggo da quando avevo tredici anni.
Spero di essere stato chiaro.
Un saluto.
@franzecke,
differentemente da te penso che la mitologia sia *un atteggiamento*, diciamo così, *uno sguardo*, sempre in atto. Vedo in questo la “mitologia di Tolkien” (che ha anche “visivamente” l’aspetto del patrimonio del folcklore nordico). Vedo in questo la “mitologia di Fenoglio” che ho volutamente ricordato perché le sue connessioni, i suoi racconti, il suo sguardo sono “mitologici”, non perché i suoi personaggi sono elfi.
Gli studi russi sull’immenso patrimonio delle fiabe (in testa Propp e la sua Morfologia della fiaba) dimostrano, secondo me, la validità perenne del materiale mitologico.
P.S. @ Wu Mings beati voi che ce lo avete a disposizione, “Mito”.
Ma ‘na ristampetta? :)
Ciao
@franzecke
Io credo che l’edizione fatta da Nino Aragno Editore nel 2009, alla modica cifra di 12 euro, sia ancora in commercio:
http://bit.ly/tZIBg3
La mia Mondadori dell’89 si trovava con fatica già nel ’90, quando la cercai per ogni dove dietro istigazione della mia prof di greco. Avevo 16 anni, non ci capii una mazza, ma poi m’è tornata utile…
@ Wu Ming 2 bè Jesi sapeva rendersi incomprensibile, su questo non ci piove. Grazie della dritta cmq ;)
@ Danae pure tu hai ragione, alla fine potrebbe anche essere solo questione di termini: quella che tu chiami “visione” io ad esempio la chiamo “poetica”.
È solo quando qualcuno pronuncia la parola “mito” che scoppia la caciara, almeno da 150 anni a questa parte.
Cmq lo leggerò sul serio, Fenoglio, mi hai incuriosito – anche se ti confesso che della “mitologia partigiana” ne farei volentieri a meno: per me i partigiani erano +belli+ perché erano in carne ed ossa, altro che immagini
archetipiche!
:)
Ciao ciao
P.S. @ Danae riletto tutto – “sguardo”, non “visione”… sorry ;)
Ciao
@ franzecke
continui a usare “mitologia” intendendo “mito”, ma non sono la stessa cosa. La mito-logia si afferma quando i miti non vengono più vissuti in modo panico, immersivo, totale, bensì consegnati a una distanza e poi compilati, studiati. La mitologia è il discorso sul mito, è lo studio del mito, è la ri-narrazione del mito quando già si sa che è mito. E’ il parlare (logos) del racconto (mythos). “Mitologico”, come aggettivo, non è sinonimo di “mitico”.
Quindi, dire che Tolkien “non ha prodotto mitologia” è sbagliato. L’ha prodotta eccome. Non ha prodotto mito, cioè quella dimensione di racconto-rituale-vita inattingibile a noi moderni civilizzati. Quello, insomma, che Kerenyi chiamava “mito genuino”, e che non si può creare dal nulla. Ma una mitologia sì, si può creare.
Bella discussione. Complimenti a tutti.
Ecco, il mio socio WM1 qui sopra ha già chiarito quello che anche a me pare un equivoco terminologico. E’ vero che “Tolkien ha vissuto in un’epoca in cui i meccanismi tradizionali erano morti e sepolti da un bel pezzo” e quindi non ha prodotto un sistema di miti e leggende condiviso da una collettività estesa. Nessun essere singolo può fare una cosa del genere. Ci vogliono secoli e forse ci vuole una società organicistica che non esiste più.
Ma, come dice Danae, ciò nono toglie che il significato primo di “mythos” in greco antico è “racconto”. E se un racconto mitico ci dice qualcosa sulla natura umana, sul nostro rapporto col mondo, etc., può farlo anche un racconto che prenda le mosse da quell’antica storia, cioè dal patrimonio mitologico che abbiamo alle spalle, e la riproponga in una nuova veste o in una ricombinazione con nuovi elementi. Quando Fenoglio in “Una Questione Privata” ambienta durante la Resistenza il triangolo amoroso-conflittuale tra Artù, Lancillotto e Ginevra, sta riproponendo un tema antico quanto il mondo (cioè molto più risalente anche rispetto al ciclo arturiano). E questo dà una forza incredibile alla sua narrazione. Collegare il racconto della Resistenza ad antichi temi mitici creava epos, il racconto condiviso dalla comunità che doveva sorgere da quell’esperienza storica. Farlo in maniera sottile, non dozzinale o zdanoviana, era un lavoro per grandi scrittori e registi, come ne abbiamo avuti troppo pochi purtroppo. Fenoglio era uno di quelli.
In definitiva, quindi, se le mitologie antiche connesse a culti ormai perduti non sono riproponibili o emulabili, tuttavia i miti possono essere ancora validissimi per raccontare le cose, proprio come lo sono le fiabe, perché la loro efficacia travalica il contesto storico che li ha prodotti. E’ questo che li rende veri.
Però vorrei anche rispondere a franzecke sul suo ultimo punto, quello più “filologico”, cioè sul fatto che secondo lui nel SdA non sarebbe possibile “rintracciare segni di narrazioni mitologiche, fatta esclusione per un generico interesse verso una visione dualistica del cosmo, tipicamente giudeo-cristiana, cui si può ricollegare l’idea di caduta”.
Ecco, con tutto il rispetto, franz, qui per me è tutto sbagliato.
Provo a spiegare perché.
Tolkien non ha scritto solo “Il Signore degli Anelli”. L’opera incompiuta, a cui ha lavorato dal 1917 al 1973, anno della sua morte, è quella che conosciamo come “Il Silmarillion” (nella versione redatta dal figlio). E si tratta precisamente di una cosmogonia e di un legendarium. Là dentro c’è tutto: genesi del mondo per atto di un creatore unico, nascita di esseri sub-divini, creazione delle specie senzienti, e tutte le storie connesse alla Prima Età. C’è la caduta, certo, anzi ce n’è più di una… diciamo che è una caduta reiterata, tanto da uno degli angeli, quanto poi dagli Elfi e dagli Uomini. E’ un mito delle origini che non coincide con quello giudaico-cristiano, ma senza dubbio ne prende molti elementi essenziali, a partire dal Creatore, fino al conflitto con l’angelo riottoso Melkor, che ricorda evidentemente Lucifero. Di contro, si tratta di una creazione non antropocentrica e nella quale il Creatore lascia il mondo a dei vicari, essenze angeliche simili a un pantheon pagano. E questo invece si distacca parecchio dal mito giudaico-cristiano e sembra muovere piuttosto verso una conciliazione tra monoteismo e politeismo.
Alla fine della caduta degli esseri mortali c’è un intervento divino che – a detta dello stesso Tolkien – trae spunto dal Ragnarok della mitologia norrena, “benché non gli assomigli troppo”. In sostanza le potenze angeliche mutano la morfologia del mondo e sprofondano sotto le acque non solo metà della Terra di Mezzo, ma soprattutto la grande isola di Numenor. Evento questo che viene messo in relazione esplicitamente con il mito di Atlantide, attraverso un richiamo linguistico (come sempre accade in Tolkien): in Eldarin, cioè nell’idioma elfico primordiale, l’isola sprofondata verrà chiamata “Atalantë”.
Non vado oltre, per non farla troppo lunga, ma credo sia chiaro già da questi assaggi che “Il Silmarillion” è letteralmente zeppo di tracce mitologiche e rielaborazioni di materiali e temi mitologici, presi tanto dalla tradizione norrena quanto da quella mediterranea e mediorientale.
Per quanto detto sopra, la cosmogonia raccontata da Tolkien non è “dualista”. E’ vero che nel Signore degli Anelli la visione del Male è a tratti ambigua e questo dimostra soprattutto come Tolkien sapesse riconoscere e mettere in narrativa alcuni problemi filosofici e teologici di non poco conto, senza fornire soluzioni semplici. Tuttavia questo non stravolge l’impianto “agostiniano” e “boeziano” del romanzo, dove il Male è primamente “privatio boni” e le sue principali incarnazioni, Sauron e i Cavalieri Neri, non hanno consistenza corporea.
Infine, bisognerebbe tenere conto che l’idea di “mito” che aveva Tolkien era strettamente legata al linguaggio come sistema di rappresentazione – quindi racconto – della realtà. La sua era cioè un’accezione molto “basic”. Vale a dire: come abbiamo bisogno del linguaggio per descrivere la realtà concreta o astratta, così abbiamo bisogno di miti per raccontarci la verità. Tolkien scrive che “la mitologia è linguaggio e il linguaggio è mitologia”. Perché ogni mito necessita di un linguaggio per essere raccontato e se non hai un mito da raccontare non hai necessità di sviluppare un linguaggio per farlo. Finché ci sarà lingua, dunque, ci saranno miti/narrazioni, e viceversa. Questo discorso ovviamente meriterebbe d’essere affrontato meglio di quanto non sia in grado di fare io, soprattutto all’una di notte. Ma ci saranno altre occasioni.
Buona notte a tutti.
P.S. Dimenticavo: il fatto che nello Hobbit e nel SdA la dimensione mitico-leggendaria sia attenuata risponde a una scelta precisa che si riverbera anche nella forma letteraria prescelta: “Man mano che le storie diventano meno mitiche, e più simili a racconti e romanzi, gli uomini entrano nell’intreccio” (Lettera 131).
@ Wu ming 1
1) Rispetto a Tolkien: ma se è un “discorso sul mito” come fa ad esistere se il mito non c’è?
2) Sul creare mitologie: per come la vedo io, solo le società possono produrre mitologie, nel momento che iniziano a mettere i loro miti in discussione.
Mitologie autentiche, s’intende.
Tutto il resto, come diceva Jesi e come ricordavi tu, sono solo vari livelli di tecnicizzazione, nel caso di ri-utilizzo di materiali mitologici, oppure fervide immaginazioni, nel caso di Tolkien & affini.
3) Ti saluto a malincuore, perché mi piace questa discussione.
Purtroppo però domattina sto col culo x strada, come dite voi… perciò buonanotte.
E grazie.
@ Wu Ming 4 sul Silmarillion hai di sicuro ragione tu. Come ho già detto, non leggo Tolkien da quando avevo 13 anni – e del Silmarillion in particolare, confesso di non avere proprio un bel ricordo… di gran lunga meglio Esiodo, o Snorri.
Sul “dualismo” mi piacerebbe approfondire, invece.
Magari un’altra volta.
@ Wu Mings bella discussione, sì… però in quattro contro uno so bòni tutti :)
‘notte
Potremmo forse dire che la mitopoiesi di Tolkien genera una mitologia che pervade parecchie delle sue opere trovando poi una sintesi mitologica nel Silmarillion ma che questa mitologia funzion da mito vero e proprio per i personaggi del SdA e dello hobbit? Come se fossero veri e propri miti?
Non sono esperto di queste questioni ma cerco di interpretare quello che ho capito di questa discussione) per cui se ho detto una stronzata scusate
@ pedrilla
A me non pare che hai detto una stronzata (e anche se fosse, non è un reato). In effetti è così: i miti e le leggende contenuti nel Silmarilion forniscono il background mitico per i romanzi. Romanzi che sono tali proprio perché – dice Tolkien – si ambientano in un’epoca ormai lontana dall’origine e dominata dalla razza umana (cioè dagli esseri umani nella loro fase post-mitica, appunto). La fase storica determina la scelta della forma letteraria.
@ franzecke
ma che diavolo significa “il mito non c’è”? Un mito è un racconto, e continua a esistere anche quando viene “distanziato” nella mitologia. Tant’è che noi conosciamo i miti greci e i loro protagonisti. A mancarci è l’esperienza del mito che ne avevano i primitivi e poi i nostri antenati all’alba della civiltà. Però attenzione: momenti di esperienza panica del mito li viviamo ancora oggi, sono fiammate, episodi anche violenti. Sono l’esito di tecnicizzazioni, certo, ma non sarebbero possibili se non avessimo ancora bisogno di un rapporto col mito. Lì sta tutto il pericolo. Fine della digressione. In ogni caso, il mito c’è (mythos), e io continuo a non trovare, nella sua chioma, il capello che ti stai industriando a spaccare in quattro :-)
@ Wu Ming 1
A me pare che il problema posto dall’obiezione di franzecke sia semplicemente quello dell’impossibilità di un uso di materiali mitologici hic et nunc, nell’epoca del disincanto moderno. Chiarito l’equivoco di fondo tra “mito” e “mitologia”, e accettato che una mitologia funzionante e funzionale come quella arcaica oggi non esiste più, resta la questione del mito come racconto evocativo in grado di parlare a molti. Questo punto è cruciale. Recentemente ho sentito un critico letterario affermare che la mitopoiesi oggi è possibile solo in scenari bellici. Immagino perché in quei frangenti la realtà si semplifica e si torna a una situazione archetipica, che ha bisogno di narrazioni condivise per compattare la comunità contro il nemico. L’accezione dunque è negativa. E questo fa il paio con la litania sull’impossibilità e sulla nocività dell’evocazione del mito e dell’uso delle narrazioni ai fini di un’interazione con la vita, con la realtà. E’ precisamente ciò di cui parlavo nell’ultimo paragrafo del mio intervento, cioè l’idea che l’umanità nella sua età adulta non abbia più né bisogno né la possibilità di credere alle narrazioni e di farsene qualcosa che non sia fine a se stessa. E’ la stessa visione che ci porta a pensare alle fiabe come a storie per bambini. I miti sarebbero storie buone per gli uomini e le donne antichi, che vissero nell’infanzia dell’umanità. Sembra strano, ma quando si sente esaltare il Novecento come apice dello sviluppo letterario umano si ritorna precisamente a questa vecchia visione da antropologi vittoriani.
Anche se il saggio di Tolkien “Sulle Fiabe” non riguarda direttamente i miti, tuttavia affronta la questione “a cosa servono le fiabe oggi”, quindi il rapporto tra narrazioni antiche, tramandate e modificate dalle comunità attraverso i secoli, e il loro riproporsi in quest’epoca.
Mi fermo qui anch’io, ché c’è da fare.
cari tutti, arrivo sempre tardi e a palla ferma,
quindi sarò fuori tempo massimo e me ne dispiace. Premetto che il discorso è di alto livello e che seguirlo è interessantissimo. Mi limito a ribadire un paio di cose da studioso di Jesi che potrebbero aggiungere qualche elemento a quanto già detto, sia su Jesi che in termini generali.
Credo che nel discorso di Franzecke operi in qualche modo un’ipoteca metafisica a livello logico, che lo porta a considerare il mito ‘solo’ vettore di sacro e dunque non riconoscere il suo legame con la letteratura e l’immaginario, in quanto sarebbe cambiato di sostanza il contenuto di ciò che chiamiamo ‘mito’.
Ma il punto è questo: proprio perché c’è una cesura e il mito-metafisico muore, la sua spoglia inerte può continuare ‘nominalisticamente’ a essere chiamata ‘mito’ pur essendo mito-politico e mito-racconto (cosa che per altro era anche nel mito mito-metafisico visto dall’esterno): errato dunque parlare di mito e dunque meglio parlare di ‘materiali mitologici’.
‘Mito’ esiste solo a livello storiografico nelle teorie dei mitologi, come Detienne e Starobinski, hanno definitivamente, credo, mostrato; pur delineando in modo mesoscopico il racconto che accompagna le pratiche rituali, sociali, immaginarie, politiche che si presentano come surplus di realtà.
Proprio perché i meccanismi tradizionali erano morti e sepolti, essi rivivono: come significanti che la ricezione e la risemantizzazione rimette in moto, in un contesto assiologico in cui ci sia una comunità che li condivide, o un potere che li pone in atto in base alla circolazione linguistica.
Ma Jesi, l’ultimo Jesi, è chiarissimo: svuotamento di fondale metafisico, i materiali mitologici sono significanti liberi, luoghi comuni esposti al racconto. La macchina mitologica è lo strumento con cui possiamo pensare senza errori logici che esistono solo macchine mitologiche, strutture socio-culturali che sono invenzione di ‘miti’ che più saranno performativi quanto radicata sarà la loro forza significante per le comunità che li condividono, o lo strapotere di incantamento di chi tecnicizza e seduce.
Spero di aver colto la questione.
grazie a tutti
Vi sottopongo alcune riflessioni sui miti che avevo buttato giù alcuni mesi fa e che, ahimè, avevo poi dovuto abbandonare nel cassetto per dedicarmi a cose meno mitiche…
Per ribadire che, anche secondo me, la mitologia è ancora fra noi. Nel bene e nel male.
I miti sono racconti, e come tali, un miscuglio di invenzioni e verità, di storia e fantasia, di archetipi e modelli sociali, di saggezza atavica e manipolazioni interessate.
Per millenni i miti sono stati l’unico modo possibile per interpretare il mondo, finché i greci, cinque secoli prima della nascita di Cristo, non hanno scoperto anche la storia. I miti però non sono certo scomparsi, e con la storia si sono contaminati vicendevolmente fino ai giorni nostri. Perché se la storia parla al cervello, i miti parlano al cuore. E spesso è il cuore che decide.
Un fatto è sicuro: i miti sono narrazioni molto potenti.
Nel Medioevo i bretoni pensavano davvero che un giorno Artù sarebbe tornato per liberare il suo popolo e fare giustizia, e chi osava contraddire questa credenza rischiava la lapidazione. Ma è nelle situazioni particolarmente difficili che i miti e le leggende – quest’ultime frutto della contaminazione fra mito e storia – riaffiorano con prepotenza. Durante la Seconda guerra mondiale, in Inghilterra si diffuse la convinzione che i draghi del Wessex erano andati in aiuto dell’aviazione britannica per fronteggiare la Luftwaffe. “Una leggenda che sollevò il morale britannico tanto quanto abbatté quello tedesco. Persino la storia degli Angeli di Mons, risalenti alla Prima guerra mondiale, a suo tempo non fu convincente come la leggenda dei draghi del Wessex. Re Artù, Ginevra e sir Lancillotto, si disse, erano riapparsi tutti insieme. Volando sulle bestie fantastiche dei tempi antichi, erano giunti in aiuto della loro nazione proprio al momento giusto.” (M. Moorcock)
E’ risaputo che i libri di storia li scrivono i vincitori. E i miti no? Se le donne di Atene recluse nei ginecei avessero potuto riscrivere l’Orestea, forse il finale sarebbe stato diverso. Forse Oreste non sarebbe stato perdonato per avere ucciso la madre.
Georges Dumézil sostenne che i miti (al plurale e con la “m” minuscola) hanno sempre avuto una importantissima funzione ideologica, ossia il compito di giustificare l’esistente, e in particolare l’organizzazione sociale. I miti sono “politici”, non si scappa. Ora, il fatto è che, esattamente come la storia che ci raccontano sui libri di scuola e nelle grandi narrazioni più o meno condivise, i miti sono una mescolanza di elementi, alcuni manipolati da chi ce li racconta, altri che affondano le proprie radici nell’immaginario mitico collettivo, sedimentato non nel corso di due o tre generazioni, ma di millenni. I miti vanno dunque smontati perché è necessario saper scindere i primi elementi dai secondi. E si noti che più la rilettura di una vicenda mitica riesce a conservare i suoi elementi ancestrali, più il richiamo di quei miti nel nuovo contesto storico sarà efficace.
@arrigo malera
forse ot rispetto a tolkien, ma vorrei approfittare biecamente della tua presenza su questo thread. nei giorni scorsi mi sono trovato a discutere del culto del milite ignoto. che differenze ci sono, se ci sono, nel modo in cui questo culto (mito?) e’ stato costruito nelle varie culture (italiana, americana, russa… )?
@ Wu Ming 4
“A me pare che il problema posto dall’obiezione di franzecke sia semplicemente quello dell’impossibilità di un uso di materiali mitologici hic et nunc, nell’epoca del disincanto moderno”
Sì più o meno è questo che intendevo dire, anche se al posto di “uso di materiali mitologici” metterei direttamente “esistenza di miti”.
Comunque le mie obiezioni si basano sul fatto, assodato da diversi anni nel campo delle ricerche etnografiche, che il mito “è” solo se messo in relazione con il rito.
(cfr. Dario Sabatucci “Il mito il rito e la storia”)
Per fare un esempio, un mito di fondazione non serve a nulla se poi questa fondazione non viene periodicamente rinvigorita dalla ripetizione del mito stesso.
Certo, io sono d’accordo con voi sul fatto che poi, in buona sostanza, si tratti della semplice ripetizione di un racconto, ma quel che mi preme sottolineare è che ciò avviene (o meglio, avveniva) sempre all’interno di un contesto rituale finalizzato a garantirne l’efficacia – vale a dire in un ambito prettamente religioso.
Il mito infatti non è un racconto come un altro.
Il mito è parola efficace, che *serve* e *funziona*.
Vi prego di notare che il discorso che sto facendo non riguarda solamente il concetto di “mito classico” – cui di solito ci si riferisce quando si parla della civiltà dell’antica Grecia.
Ciò di cui sto parlando è il contesto etnografico.
Credo infatti sia importante considerare il fatto che, fino a pochi decenni fa, esistevano migliaia di culture sul nostro pianeta che non producevano mitologia – nel senso “greco” del termine – ma che nonostante ciò vivevano all’interno di un universo totalmente mitico.
Tenendo presente questa realtà di fatto, credo che si potrebbe capire qualcosina di più sull’argomento qualora ci si rivolgesse verso queste civiltà, recentemente scomparse, piuttosto che verso Platone.
Come dice Giacomo, cinque secoli prima di cristo i greci hanno scoperto la storia – e la mitologia, aggiungo io: forse è proprio questo il motivo per cui dopo 2500 anni di “discorsi sul mito”, ancora non siamo in grado di capirci granché.
Un saluto.
condivido in pieno il testo di giacomo, che mi sembra un’ottima sintesi.
Anche l’ultimo intervento di Franzecke è pienamente a fuoco: quello che conviene aggiungere che il ‘contesto etnografico’ continua oltre l’epoca ‘del mito’. Mi sembra di capire che tu abbia una formazione classica e antropologia, assai nobile peraltro; si tratta di aggiungere a quella anche l’idea semiotica che, dopo la morte di dio e la fine del sacro, nuove mitologie con diversa profondità sociale e metafisica, si creano continuamente. Come pensa Barthes, (ma anche Assmann che è egittologo e antichista) ogni cosa può diventare un mito se ha un valore d’uso, un nuovo ‘rito’ in un ‘contesto etnografico’ che può essere la circolazione di Vasco Rossi tra i giovani italiani piuttosto il nuovo I pad in certi circoli milanesi…
Ho letto sul tuo blog e capisco meglio il tuo pdv negli interventi precedenti: io credo che anche Obi One Kenobi sia ‘mito’, certo non sarà lo stessa cosa che Ogotommeli per i Dogon o l’Oracolo di Delfi, ma il meccanismo linguistico che c’è dietro, quello della macchina mitologica, è il medesimo e funziona con diversi gradi di intensità.
Com’era del resto, ‘il dio non parla e non tace, il dio dà un segno’. Io credo che sia quello che produce miticità, in diversi contesti anche lontanissimi.
Grazie per la fiducia a Tuco: non sono esperto di culto del milite ignoto americano e sovietico, rischio di andare di buon senso, ma penso che la matrice della mistica del sacrificio e della religio mortis sia una costellazione di topoi che ha operato profondamente in tutta la cultura europea con un buon margine di analogia, soprattutto per la sua radice religiosa martirologica e ancora prima, antropologica in senso sacrificale.
In termini jesiani questo è un perfetto esempio di cultura di destra, e anche Mosse ne ha scritto molto.
Riprendo una cosa scritta sul tema (che posto per intera nel blog, grazie per il suggrimento).
La memoria della Grande guerra è stata centrale nel discorso pubblico e nelle esistenze individuali del dopoguerra. Si trattò di fare i conti con un bilancio tragico, dando forma e voce al dolore dello sterminio di intere generazioni di giovani soldati, reso ancora più insopportabile dal non ritorno di un esercito di dispersi. Bisognava escogitare il modo per elaborare il lutto e trovare linguaggi idonei e proporzionati a esprimere una perdita di dimensioni inaudite. La soluzione fu l’ondata di monumentalismo in marmo e bronzo che calò sull’Europa, pur con le debite differenze che i singoli paesi e i singoli governi, autoritari o liberali, vollero attribuire alle celebrazioni della date degli armistizi. La commemorazione dei morti fu il perno centrale di una religione della patria, in nome della quale furono istituiti cimiteri militari, riti funebri collettivi, luoghi pubblici e privati della memoria. Poiché la cultura moderna, basata sullo straniamento, sul paradosso, sull’ironia risultava inadatta a sanare le ferite della memoria, fu un potente richiamo ai motivi tradizionali della cultura a tenere il campo, un insieme eclettico di immagini e concetti classici, romantici e religiosi che permettevano a chi aveva perso un caro di attribuire senso a quell’evento per lasciarselo alle spalle.
In Italia il fascismo si appropriò del nome dei morti da vendicare, facendosi interprete della guerra e monopolizzando la gestione della memoria: in tal senso il combattentismo non fu mai in grado di evolvere in senso pacifista a differenza di quanto poté accadere in Francia. Nel nome dei caduti, si volle la celebrazione della vittoria nazionale del 4 novembre, unanimistica e consensuale nell’unire autorità e popolo, militari e civili. In questa ottica nel 1921, terzo anniversario della vittoria, l’Italia volle celebrare, sull’esempio francese e inglese, il suo Milite Ignoto, realizzando un maestoso funerale civile degno di comparire negli annali della storia europea. Fu una manifestazione imponente come correlato simbolico per la morte di massa, per simboleggiare il lutto della comunità nazionale italiana, che ritrovava nei vincoli più familiari le sue radici più profonde. La salma di un soldato italiano sconosciuto, scelta da una madre triestina il cui figlio era disperso, fu portata da Aquileia a Roma su un treno in un lungo viaggio caratterizzato da manifestazioni di partecipazione popolare luttuose e/o esultanti lungo i binari della ferrovia. L’eroe senza nome era un simbolo dal significato potenzialmente inesauribile: poteva essere il padre, il figlio o il marito, l’ex-commilitone, ma anche il “camerata” che aveva donato la propria vita per la grandezza della patria o il “proletario” sacrificato sull’altare di una guerra ingiusta. A Roma nel Vittoriano, la solennità del rito del funerale del Milite ignoto, l’anonimo figlio del popolo, fu resa ancora più grandiosa dall’imponente presenza di rappresentanze militari e della società civile, e dalla partecipazione commossa di una massa di cittadini romani e italiani. Il rito funebre per il Milite ignoto era diventato la più grande manifestazione patriottica che l’Italia avesse mai visto.
Quello del culto del milite ignoto è un caso eclatante di uso della morte per la costruzione delle identità politica, ma di lì alla cultura della morte declinata dal fascismo il passo è breve.
@ franzecke
Gira e rigira alla fine si tratta di due accezioni diverse di “mito”. Quella che assumi tu lo lega al rito e alla religione, quindi in sostanza lo ascrive a un passato arcaico irripetibile. Quella che assumiamo noi è – per dirla con Malera – l’idea di un mito-politico e mito-racconto che, proprio perché non è più il mito-rito arcaico, sopravvive nel presente. Però sarebbe meglio non chiamarlo “mito” per non confondersi, bensì fare riferimento a “materiali mitologici” che sono “significanti liberi, luoghi comuni esposti al racconto”.
Al di là della terminologia, mi sembra che la sostanza sia chiara.
@ arrigo malera
grazie! nei giorni scorsi, forse lo sai, qui a trieste i ragazzi hanno organizzato una contro-parata in occasione del 4 nov.. noi “vecchi” li abbiamo spalleggiati, rintuzzando sui forum locali la reazione rabbiosa dei vari fascistoni. e’ incredibile la rabbia che riesce ancora a suscitare un semplice link a “o gorizia tu sei maledetta”.
posso immaginare, soprattutto a Trieste,
anche qui a Torino è difficile spiegarsi con gli Alpini dell’Anpi, eppure è importante uscire dal cerchio sacrificale…
Sì, è evidente che noi stiamo parlando di una cosa, e Franzecke di un’altra. Se stessimo parlando dello stesso “mito”, ne deriverebbe un discorso sommamente illogico, un “non sequitur” in cui non sarebbe possibile un uso letterario di materiali mitologici… perché a quest’utilizzo non corrisponderebbe un rito magico-religioso. Al contrario, è proprio questo sganciarsi dei significanti e dei mitologemi dalle antiche catene di corrispondenze a rendere possibile un loro riutilizzo. Grazie alla secolarizzazione, si può fare un film come Gesù di Montreal fuori da contesti liturgici cristiani, ed è proprio perché non viviamo più nel mondo ionico del IX secolo a.C. che sono possibili l’Ulisse di Joyce o Brother, Where Art Thou? dei fratelli Coen, e potrei fare altri mille esempi.
Per quanto riguarda le connessioni che divengono “archetipiche” grazie al loro reiterarsi, non c’è bisogno di un rito com’è inteso in antropologia, è sufficiente reiterarle col racconto. Si tratta di tòpoi narrativi presenti nei nostri cervelli. Io non ho bisogno di *mimare* il “gol de la mano de Dios” di Maradona ai Mondiali dell’86: mi basta un riferimento come quello che ho appena fatto, e nella mente di chi legge o ascolta si stabiliscono tutti i collegamenti sinaptici, a comporre il quadro narrativo in cui Maradona ha un certo ruolo, un certo rapporto col mondo del calcio di ieri e di oggi, una collocazione nella nostra infanzia etc. E le connessioni archetipiche si trovano in tutti gli elementi della storia: anche il nomignolo “El pibe de oro” è il risultato di una connessione archetipica – reiterata innumerevoli volte nella storia umana, fino a diventare un’associazione permanente – tra valore dell’oro e valore della persona.
[Detto ciò, la dimensione rituale collettiva, come si ricordava sopra, esiste anche oggi, nel contesto ipermoderno e secolarizzato in cui i miti sono mitologie. C’è una ritualistica dei concerti, delle partite di calcio, delle manifestazioni, e c’è una ritualistica legata a particolari miti tecnicizzati. Tutto ciò ha a che fare con il bisogno di narrazione condivisa che il “compagnevole animale” non può non sentire.]
@ arrigo malera
davvero pensi che Obi Wan Kenobi e Vasco Rossi possano essere considerati “miti”?
Pensaci bene… secondo me è il mercato che li spaccia come miti, quando in realtà si tratta semplicemente di prodotti di consumo.
Sul loro “valore d’uso” credo che qualcun altro da queste parti potrebbe aggiungere qualcosa in merito – qualcuno un po’ più preparato di me in campo di teoria marxista.
Comunque ti ringrazio per il tuo commento gentile, e mi fa piacere il fatto che hai dato un’occhiata al mio blog.
Appena avrò due minuti liberi ricambierò la cortesia.
Un saluto.
@ Wu Ming 4 ok ci siamo capiti. Ora dunque non ci resta che trovare una definizione appropriata per il termine “mito” e poi siamo a posto.
Fuoco alle polveri! :)))))))))))))))))
Ciao
@ franzecke
se accetti che stiamo parlando di due cose diverse, è incoerente riproporre (nello stesso commento, poi!) la polemica nominalistica ed essenzialista sulla parola “mito”, proprio perché con quella parola non intendi la stessa cosa che intendiamo noi.
Per tanta gente quello di Vasco Rossi è un “mito”, nel senso di una narrazione condivisa che rafforza legami tra persone. Quella dei fans di Vasco Rossi è una comunità – per quanto informale – tenuta insieme dal riconoscersi in una narrazione, con vicissitudini ogni volta ri-narrate, connessioni tra momenti della carriera di Vasco e momenti della propria vita personale e affettiva: Tizio ha conquistato sua moglie regalandole un biglietto per “Rock sotto assedio”, Caio non ascolta più “Alba chiara” da quando l’hanno suonata al funerale della sua migliore amica morta in un incidente stradale etc. Anche questi diventano materiali mitologici.
condivido l’idea di WM1,
la macchina mitologica rende possibile spiegare come a livello cognitivo e linguistico nel mondo antico il ‘sapere del tempio’ renda operante il mito, allo stesso modo che in quello contemporaneo, segnato dalla secolarizzazione e sconsacrazione radicale, il mercato possa creare ‘miti’ nuovi, con i quali il soggetto interagisce a partire dalla coordinate valoriali del proprio tempo. Ovviamente la questione della macchina mitologica è marxista, nella versione post-strutturalista e barthesiana.
Ti suggerisco davvero di leggere Assmann, che è un antichista con una buonissima base filosofico-antropologica: da semitista, egittologo e assirologo inoltre ha un punto di vista differente rispetto a quello greco-centrico (e cripto-indoeuropeistico) e una interessante teoria della teologizzazione, il percorso inverso alla secolarizzazione, secondo cui prima viene il politico e poi il religioso. Già nell’età del Bronzo…
Quanto alle definizioni, credo che sull’impossibilità di darne ci sia letteratura vastissima, ma è ovvio che ce ne sia bisogno di una operativa
J. P. Vernant:
«il mito si presenta sotto forma di racconto venuto dalla notte dei tempi e che esisteva già prima che un qualsiasi narratore iniziasse a raccontarlo. In questo senso il racconto mitico non dipende dall’invenzione personale né dalla fantasia creatrice, ma dalla trasmissione e dalla memoria»;
se aggiungi: ‘in qualsiasi tempo e in qualsiasi società, su qualsiasi oggetto ritenuto di valore e con qualsiasi contenuto condiviso’ mi sembra buona…
grazie per l’attenzione
@ Wu Ming 1
C’è anche il momento liturgico-rituale: la partecipazione ai concerti (alcuni dei quali assurgono a veri e propri eventi fondativi). Resta il fatto che si tratta comunque di una manifestazione del “mito” che non è coincidente con quella delle società arcaiche. Quindi…
@ franzecke
… io, per stare dalla parte del sicuro scelgo per la parola “mito” l’accezione più minimale, quella greca, di “racconto”, o tutt’al più di “racconto condiviso da una comunità”. Ma se la cosa può generare fraintendimenti, per quanto mi riguarda uno può scegliere quella che preferisce.
Basta capirsi.
@ Wu Ming 1
Se dico che ci siamo capiti, vuol dire che ci siamo capiti.
La mia richiesta di una definizione di mito era semplicemente un gioco: un modo scherzoso di sottolineare che, come dicevo in un commento precedente, basta nominare la parola “mito” in un discorso per dare “fuoco alle polveri”.
La pensiamo diversamente, questo è assodato.
Secondo me infatti non basta che “tanta gente” stia in fissa con Vasco per trasformarlo in un mito perché – lo ripeto per l’ultima volta – per me un mito ha valore soltanto quando a crearlo e condividerlo è una intera società: io e un sacco di miei amici stiamo in fissa per il grindcore, ma non per questo me la sentirei di parlare in termini di “mito” dei Napalm Death o dei Discordance Axis.
Chiudiamola qui, che secondo me stiamo seriamente iniziando a rompere le palle agli altri lettori.
Ma senza punti esclamativi, per favore, che secondo me non sono altro che degli ostacoli al dialogo.
@ Arrigo Malera
Condivido la tua lettura della macchina mitologica, ma secondo me ciò contro cui Jesi ci ha messo in guardia è proprio questa capacità dei miti di riproporsi al di fuori del loro contesto naturale.
Mettila come vuoi, ma secondo me se nel *nostro* tempo il mercato crea dei miti, lo fa solo ed esclusivamente per vendere prodotti, non certo per creare dei valori condivisi.
Per come la vedo io, il dovere di noi uomini dovrebbe essere proprio quello di smascherare simili meccanismi con lo scopo di de-mitizzare il presente una volta per tutte.
Ma questa è un’altra storia…
In ogni caso, visto che ormai siamo in ballo, ti dico che sottoscrivo in pieno la definizione di mito di J.P.Vernant da te riportata, ma che anche io ci aggiungerei una cosetta:
“Il mito *autentico* si presenta sotto forma di..” etc.
Inoltre, cercherò al più presto informazioni su Assmann e poi magari ti farò sapere.
@ Wu Ming 4
Sono totalmente d’accordo con te: il bello di vivere nel tempo storico piuttosto che in quello mitico è proprio la possibilità di poter scegliere quel che più ci piace o ci convince – e ovviamente di poterlo poi mettere in discussione.
Un saluto e grazie a tutti.
cioè, voglio dire. UNA volta che non vado a Lucca, causa viaggio in Cina! Per ora rosico e lascio questo commento-token di presenza. Leggerò, apprezzerò e commenterò quando non sarà così tardi!
PS l’idea di un film sul Signore degli Anelli coi Beatles e diretto da Kubrick mi ha fatto inevitabilmente pensare a questi http://nerdbastards.com/2010/08/23/check-out-these-amazing-movie-posters-from-an-alternative-world/ (non so se qualcuno li ha già citati)
[…] hanno parlato di sfuggita in passato: Wu Ming, Cosplayers e cose tolkieniane, ovvero: Paura e delirio a Lucca Comics, Giap 2/11/2011 stampa o crea pdf Altri articoli su questo argomento:Letteratura popolare, terra di […]