Ecco le testimonianze audio della due giorni “Una montagna di libri”, svoltasi il 26-27 maggio scorsi nei luoghi della resistenza #notav: Bussoleno, Chiomonte, Giaglione e Val Clarea. Grazie a tutte e tutti, in particolare a Serge, Rita e Maurizio che – sebbene non da soli – hanno ideato e reso possibile l’evento. Un saluto a Giorgio Rossetto, agli arresti domiciliari a Bussoleno. Lo abbiamo intravisto dalla strada, dietro il vetro della finestra. Queste parole sono anche per lui.
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Immaginario, letteratura e lotte a partire dal caso No Tav
Tavola rotonda italo-francese con Serge Quadruppani, Dominique Manotti, Wu Ming 1, Luciano Celi, Girolamo De Michele, Kai Zen J, Sergio Bianchi, Marc Porcu, Patricia Dao e Fabrizio Ruggirello.
Durata: un’0ra e otto minuti. Piazza del Mulino, Bussoleno, tardo pomeriggio del 26 maggio 2012.
La qualità del suono è mediocre, ma le parole si capiscono bene.
Reading in Val Clarea di fronte ai reticolati, a quel che resta del castagno su cui era salito Turi Vaccaro e al traliccio (ora “sigillato”) dove ha rischiato la vita Luca Abbà.
27 maggio 2012. Presenta Serge Quadruppani. Durata: un’ora. Resa sonora molto buona. Nei primi minuti, disturbi causati dal vento.
1. Sergio Bianchi legge il racconto inedito “Ti devo dire una cosa importante, ma molto importante, importantissima”;
2. Wu Ming 1 legge le poesie “Non sono tutte uguali le geografie” e “Pilo Albertelli e i cani di Pavlov” (quest’ultima di Wu Ming 2, tratta da Basta uno sparo, Transeuropa, 2010), più due prologhi inediti a Point Lenana (titolo di lavoro), il libro che sta scrivendo con Roberto Santachiara;
3. Il poeta italo-francese Marc Porcu legge una poesia originariamente scritta per il popolo palestinese;
4. Girolamo De Michele legge un brano del suo libro Filosofia (Ponte alle Grazie, 2011);
5. Fabrizio Ruggirello legge un brano del romanzo di Serge Quadruppani La rivoluzione delle api (Edizioni Ambiente, 2011);
6. Kai Zen J legge un brano del romanzo dei Kai Zen Delta Blues (Edizioni Ambiente, 2011).
N.B. Ci sono stati altri reading: a Bussoleno, per le strade di Chiomonte e Giaglione, e davanti all’ex-museo archeologico della Val Clarea requisito e trasformato in “fortino” delle forze dell’ordine. Purtroppo, alcuni non sono stati registrati. Altri sono stati registrati ma l’audio era troppo disturbato.
Inizio col dire ciò che non è stato. Sarò presuntuoso perché so di non sapere nulla di “preciso”, ho la presunzione di chi sa di star delirando a notte fonda. Le mie affermazioni suoneranno perciò nette e definitive come quelle degli ubriachi di fronte alle loro allucinazioni. Scrivo queste righe scollegate questa notte tra il 28 e il 29 maggio, la connessione non funziona e non so quando potranno partire e arrivare. Mi sottraggo all’urgenza e all’alta velocità.
Non è stato ciò che mi aspettavo, ciò per cui la mia coscienza si era preparata e che il mio inconscio, di nascosto ad essa, temeva. Non è stata una “critica”, un’esegesi, una teoria del/al movimento No Tav. Quando Wu Ming 1, nel prendere la parola all’inizio della discussione di sabato, ha detto: “Noi scrittori non abbiamo nulla da insegnare al movimento No Tav, ma tutto da imparare”, apparentemente negando la presunta “utilità” del dibattito stesso, ha detto di più di quanto in quel momento colsi. No, non sto plaudendo all’umiltà intellettuale, alla spesso falsa modestia di chi mostra di rinunciare a mettersi in cattedra: niente di tutto questo, non c’è stata nessuna “posa”. Mi sto rallegrando del riflesso di una scoperta, la stessa dell’affermazione di Quadruppani: “Qui c’è un popolo”.
In Val Susa *c’è un popolo*. Non c’è una “società”. Non c’è, come non c’è a Torino, a Roma, a New York o in qualsiasi altro angolo dell’impero senza luogo. Chi cerca “modelli sociali di lotta” in Val Susa resterà deluso, scoprirà che se non strizza gli occhi per vedere qualcos’altro non vedrà che l’assenza che regna altrove, ovunque. Le stesse piccole miserie e paure, le stesse sopravvivenze: un posto qualunque. Darà tutto il merito al caso. Non capirà. Chi cerca geniali “strategie” di lotta non le troverà, o resterà abbagliato da qualche ombra che si porta dietro. Non ci sono dei “piani” da delocalizzare in altre lotte. Non ci sono leader da copiare o promuovere a generali supremi. Ma non ci sono neppure i vuoti che la lotta contro questo sistema di potere senza luogo, quando lo affronta direttamente, partorisce durante la manifestazione della propria assenza per inciamparvi, per incontrare finalmente qualcosa a costo anche che sia la propria sconfitta e caduta.
Cosa c’è dunque, e cos’è stato? Per capire questo bisogna prima di tutto andarci, esserci, camminarci. Non è detto che lo si colga la prima o la seconda o decima volta, e non credo che esista un manuale o una guida per trovarlo. Forse può aiutare sapere cosa non bisogna cercare, dove non ha senso guardare, o forse anche questa è ansia, fretta, e bisogna invece per forza passare prima attraverso lo smarrimento dello sguardo, la vertigine verso cui sublima l’ossessione di trovare uno schema, una risposta alla domanda a cui nessun valsusino risponde: “Ma dunque, come funziona? Dove sta l’alchimia? Perché *qui* funziona?”
Zona d’ombra dell’Impero, piccolo villaggio di Gallia che resiste, non ha parole per l’impero, non vuole la sua trasformazione, redenzione, non crede al suo abbattimento diretto, non vuole sostituirsi nella sua amministrazione se non localmente, lì, allo scopo di frantumarla: non chiede altro che mille altre zone d’ombra e la loro complicità. Proprio perché c’è un popolo, la Val Susa *è un luogo*: un’oscenità! Un luogo nell’ordine del non-luogo, degli elicotteri, delle telecamere, delle zone rosse, dei poliziotti e militari delocalizzati da qualche nowhere per proteggere la costruzione di un altro nowhere, per presidiare la preparazione di un vuoto, la demolizione di ciò che resta di un luogo, non soltanto fisicamente, non soltanto nelle sue montagne, torrenti, boschi, valli, ma nella sua geografia che vive nelle teste delle persone che lo abitano. Un Impero che non vuole “un sistema di trasporti più moderno”, indifferente infatti alla sua “non-economicità”, ma vuole l’astrazione: http://bit.ly/LOCVJE. Vuole tracciare sulla mappa linee rette come i confini degli stati coloniali. Vuole replicare ovunque il vuoto di cui è fatto. Vuole sostituire ogni desiderio reale con il vuoto astratto del potere. Vuole disegnarsi sulla realtà. Vuole negarla.
La Val Susa è la pietra d’inciampo, lo scarto irriducibile tra desiderio e potere, un punto dove puoi far deragliare il vuoto. Un luogo reale dove posso dichiararmi uomo in polvere, sapere cosa sono, proprio perché lì non lo sono più, in polvere, dove ha senso andare per imparar-si, per incontrar-si, non per “allenarsi” contro il sistema studiando tattiche e strategie come le narrazioni di regime fanno intendere avvenga, ma per misurare il proprio grado di assenza, capire quanto in noi è già stato erased, dusted dal potere che lì deraglia, proprio perché lì si riesce a lasciare che comandi in noi la piccola intensa parte che ancora non è stata polverizzata, sostenuta da migliaia di altre piccole parti in quelli che camminano con noi.
Per questo non è stato possibile che le truppe dell’immaginario tenessero lezioni, non per discrezione, non per “timidezza”, non per incapacità, ma perché anche loro, apparentemente giunti apposta per aderire al proprio ruolo, nel momento in cui prendono la parola sfuggono all’integrazione nella rete di dispositivi che imbriglia tutti nella cosiddetta (e inesistente) società, sfuggono ai limiti delle “identità”, all’obbligo di manifestare la propria assenza, disertano la “critica” del potere che troppo spesso finisce per spingere i suoi destinatari altrove, per consumarli, per distanziarli da sé, ma partecipano invece con la loro opera, insieme al popolo tengono in vita una geografia, disegnano insieme ad esso una cartografia con i loro corpi, resistono con esso contro il tentativo del potere di cancellarla, al tentativo d’instaurazione del vuoto spaziale e temporale, portando la complicità e le storie di altre zone d’ombra, lontane nello spazio e nel tempo, le loro vittorie e sconfitte, raccontandoci altre unicità, ritracciando vecchi confini strappandoli al silenzio, al magma dell’assenza collettiva della passeggiata in centro del sabato pomeriggio e della domenica mattina, rompendo i nuovi confini di filo spinato.
Riascoltando i racconti (dal vivo mi ero perso qualche passaggio) mi ha colpito la sequenza Quadruppani-J con tutti e due che delegano alla voce di un pazzo analisi che condividono (e tutti e due i racconti in qualche modo passano dalla questione della scomparsa delle api).
E poi si, sono state due belle giornate, peccato per gli audio non usabili (colpa del megafono, credo), in particolare il pezzo di ‘La visione del cieco’ su piazza Alimonda era molto forte, ma anche così c’è tanta roba.
Linko qui una pagina con dele foto (anche se un po’ vecchie, il traliccio di Luca non è ancora ‘incamiciato’, e anche i residui alberi che vedete nelle foto adesso non ci sono più) perchè credo aiutino a restituire il clima di domenica. In particolare la seconda corrisponde più o meno al paesaggio che noi ascoltatori vedevamo alle spalle dei lettori.
http://www.notav.eu/article-6141–0-0.html
Serendipità…
Uno dei momenti più toccanti è stato quando, nel corso della merenda condivisa davanti ai cancelli delle truppe d’occupazione, si è levato questo canto occitano. La traduzione è qui: “Alte, ben son alte,
Ma si abbasseranno
E i miei amori
Verso me torneranno”
Lou Dalfin, gruppo occitano per eccellenza e da sempre No Tav, ha suonato più volte in valle. Mentre eravamo su domenica masticavo rabbia e ripensavo a una loro canzone, spero che non vi dispiaccia se la metto qui.
E’ questa: http://www.youtube.com/watch?v=kocFO1hVg1A
traduzione (approssimativa, un po’ a memoria):
Il lupo viene giù, piccolo chiudi la porta.
Il lupo viene giù, figliolo chiuditi dentro.
Il lupo viene giù, piccolo chiudi la porta.
Il lupo viene giù, figliolo chiuditi dentro.
Siamo ancora qui per alzare la barriera
Contro i signori della piana
Siamo ancora qui a mostrare la dentiera
Bestie cacciate nella tana.
E’ il momento buono, veloci fuori dalla tana
E’ il momento buono, andiamo a fermare il lupo.
E’ il momento buono, veloci fuori dalla tana
E’ il momento buono, andiamo a fermare il lupo.
Siamo ancora qui dopo la crociata
Dopo le dragonate
Siamo ancora qui a chiamare l’adunata
Per continuar battaglia.
E’ il momento buono…
Siamo ancora qui non solo per ballare
Ma per piantar la grana
Siamo ancora qui noialtri delle vallate
Vallate occitane.
Ferma il lupo ragazzo, ferma il lupo
Ferma il lupo ragazzo, ferma il lupo
Ferma il lupo che ti porta che ti porta
Ferma il lupo che ti porta via il tuo paese.
Un premier commentaire aux deux journées “Une montagne de livres contre le TAV”
http://quadruppani.blogspot.fr/2012/05/du-soleil-sur-la-vallee-de-suse.html
Riflessioni in modalità “random”.
Sabato c’ero anch’io. (ho letto questo)
Non è stato uno sforzo da poco esserci. Non sto a spiegare quanto mi sia costato, in questo momento la mia vita famigliare per molteplicissime ragioni è piuttosto faticosa. Eppure ho fatto in modo d’esserci.
Si obietterà: sei qua a fare il fregnone? C’è gente che affronta fatiche ben superiori.
Ne sono convinto. In questi anni, nelle riunioni dei comitati, alle assemblee, persino ai presidi notturni in Clarea ne ho conosciuti tanti che hanno vite più faticose delle mia. Eppure anche loro trovano la forza di esserci.
(son giorni in cui mi canticchio – si fa per dire – questa roba qua)
Il 24 marzo scorso, ho suonato due pezzi a un incontro pubblico pomeridiano organizzato dal Movimento No Tav. La mattina stessa, uno degli organizzatori, sapendo che abitualmente io il sabato lavoro, mi ha telefonato per chiedermi per che ora mi sarei potuto liberare. Quando gli ho risposto che mi ero preso il pomeriggio e che sarei stato puntuale, lui ha fatto un lungo silenzio e poi ha detto: poi forse un giorno i nostri figli si prenderanno la briga di conteggiare la quantità di giornate lavorative regalate alla causa No Tav.
Quadruppani dice che c’è un popolo. Io non lo so. Ma so di non sbagliare dicendo che c’è disponibilità e generosità. E la solidarietà che il movimento raccoglie è dovuta soprattutto a questo, credo. Si dice professionisti della protesta (e della violenza), ma invece qui ci sono dilettanti della generosità e della collaborazione, dilettanti perché non è raro farsi una risata e perché a stare coi No Tav, davvero, non ci guadagni niente. Anzi, sei invitato a metterci del tuo. Suoni? Te la cavi con photoshop? Sai lavare i piatti? Hai un’idea per il volantino? Hai una prolunga da 30 metri?
Kai Zen J dice che qui c’è gente che si è messa attorno a un fuoco (concordo con Quadruppani, non si racconta solo per difendersi, ma per fare umanità) e questo è vero. Ogni assemblea, ogni riunione di coordinamento è un falò di umani seduti in cerchio. Ma anche fuor di metafora, ai presidi di inverno, mentre le mani si tendono verso la fiamma e si battono gli scarponi a terra, i racconti fioccano. E tutte le volte immancabilmente mi viene in mente un amico che sostiene che tutti i romanzi di Conrad sottintendono una piccola compagnia che chiacchiera davanti al fuoco.
Dominique Manotti dice che la coscienza dei francesi l’ha forgiata Hugo. E io penso al Candido di Sciascia che dice che lui è comunista non grazie a Lenin o a Gramsci, ma perché ha letto “I miserabili”. E poi penso alla mia coscienza politica e so che se non avessi letto quel Candido sarei un altro.
Wu Ming 1 dice che sono gli scrittori che devono imparare dal narratore collettivo No Tav come si parla di lotte e come si disintossicano le narrazioni. Wu Ming 1, se non sbaglio sta traducendo “On Writing” di Stephen King, a lui mi piacerebbe chiedere come tradurrà la seguente frase: “Fiction writers, present company included, don’t understand very much about what they do—not why it works when it’s good, not why it doesn’t when it’s bad.” e se pensa che un narratore collettivo sia più (o meno) autocosciente di uno scrittore solo.
Girolamo Di Michele dice che il potere, dopo gli anni ‘70, ci ha convinto (ha provato a convincerci) che la lotta non paga e che molti scrittori mainstream si sono accodati al dogma e ci hanno raccontato solo i cazzi loro. Se ci fosse stato tempo avrei voluto leggere un pezzetto del terzo capitolo del mio romanzo. Le parole di Girolamo fungono da commento.
Quando dico che le storie nascono attorno al fuoco come racconto del terrore per mettere in guardia dal pericolo del buio, intendo che nascono come arma di difesa e di consapevolezza. Il che ovviamente non significa che poi non ci si spinga nel cuore della tenebra (e ci mancherebbe abbiamo scritto un libro intero su questo) perché terrorizzati, ma che lo si faccia con le armi per poterlo fare.
@ J
il mio appunto (forse anche quello di Quadruppani, ma bisognerebbe interpellarlo) è che le storie nascono quando due o più essere umani in grado di comunicare fra di loro si incontrano. Le storie sono una struttura profonda del nostro pensare e del nostro agire sociale e relazionale. Il caso del fuoco e quello delle storie che mettono in guardia dai pericoli sono casi specifici a mio avviso e per nulla fondativi. In soldoni, sono convinto che due neanderthal, ncontratisi al fiume 200.000 anni fa, possano aver passato l’intera mattinata a raccontarsi storie bellissime, se non addirittura barzellette.
Quella che ha riportato J a Bussoleno è una delle teorie sull’origine e la funzione antropologica del raccontare, anni fa Alex Pardi la espose all’inizio di un suo articolo sul NIE intitolato “Alzare il culo, adesso!” Praticamente, l’ipotesi è che la storia più antica del mondo sia stata un “cautionary tale”: – Se vai a bere al fiume, fai attenzione nel tal punto, perché c’è un tronco che in realtà è un coccodrillo, ieri per poco non ci rimango secco!
Il che, appunto, non vuol dire: – Non andare a bere al fiume. – perché mica si può morire di sete. Al fiume ci si va, e se ne esplorano i dintorni, ma facendo tesoro delle esperienze che altri ci hanno trasmesso tramite le storie.
onestamente avevo inteso un’altra roba. Sorry.
In ogni caso, come dicevo nel primo commento, il fuoco, i racconti, sia in astratto che alla lettera, sono robe molto presenti nel modus operandi dei No Tav.
WM1 mi ha tolto le parole di tastiera…
Anche la Francia sta per dare ragione ai #notav.
Si tratterebbe dello sganciamento più significativo, ma non certo del primo. Già il Portogallo si era sfilato. Il “corridoio” non esiste più da tempo. Come progetto, il TAV è finito. Resta solo la volontà di una prova di forza (d’inerzia) da parte di poteri il cui unico progetto – a parte dar soldi agli amici degli amici – è far vedere chi comanda. E per farlo vedere, questi pazzoidi sono disposti a tutto.