Il #terremoto in Emilia e gli orologi – di Wu Ming 1

L'orologio della torre di San Felice sul Panaro in una fase intermedia del disastro

Da quando è iniziato il terremoto in Emilia, i giornali e siti di informazione (soprattutto quelli locali) pubblicano foto di orologi. Le torri degli orologi di Finale Emilia, San Felice sul Panaro e Ferrara; l’orologio della chiesa di Sant’Agostino, quello della chiesa di San Rocco a Cento… Quadranti danneggiati, spaccati, scomparsi. Qualcuno è rimasto intatto ma fermo, a segnare l’ora della scossa che lo ha bloccato. Chi come me vive a Bologna non può non pensare all’orologio della stazione, fisso sulle 10:25 dalla strage del 2 Agosto.
Perché un orologio fermo diventa notizia? Perché ne guardiamo la foto? Forse perché in essa cogliamo qualcosa, un lampo di verità su noi stessi.
L’Evento che lacera la quotidianità si esprime per metafore. Come gli insorti della Comune di Parigi secondo Walter Benjamin, il terremoto ha «sparato sugli orologi». Non solo: ha causato il tracollo della rete telefonica mobile. Quale messaggio dovremmo cogliere?
Se chiedi a un bambino di disegnare una casa, disegnerà quasi sempre una villetta monofamiliare, anche se vive in un trilocale al decimo piano o in un brefotrofio. In modo analogo, il terremoto ha colpito gli orologi di torri e campanili, benché da tempo non siano più quelli a scandire la nostra giornata. L’odierna forma-orologio è onnipresente, incorporata in ogni nostro dispositivo: computer, tablet, telefonino, furbofono, cruscotto di auto «intelligente»… Oggi, almeno in Occidente, sappiamo tutti e sempre che ora è. Non era mai accaduto che la maggioranza dei membri di una società si percepisse e rappresentasse in ogni momento dentro un tempo scandito e strutturato. Franco “Bifo” Berardi dice che il telefonino è una catena di montaggio mobile, dalla quale non puoi staccarti. Al tempo stesso, sei cronometrista della tua prestazione.
E’ forte la tentazione di maledire il sisma, descriverlo come «demone», «mostro», entità ostile. «Siamo in guerra con la terra», ha gridato a tutta pagina un quotidiano emiliano, ma non è la terra il nemico. E’ forse colpa della terra se viviamo, costruiamo, abitiamo, lavoriamo, obbediamo in un certo modo? A uccidere non è il sisma, ma la realtà su cui il sisma getta luce. A uccidere è l’illusione che si possa tornare subito al tran tran di prima, ai ritmi forsennati di prima. La spinta a ripristinare la «normalità» (la parola più ripetuta nelle interviste) è costata altre vite: le aziende non hanno atteso le verifiche e gli operai sono tornati a lavorare in capannoni a rischio, con le conseguenze che sappiamo. Dunque, l’unica «normalità» già ripristinata è quella dei morti sul lavoro per mancanza di sicurezza, delle famiglie devastate, dei figli rimasti orfani perché la macchina non poteva fermarsi.
Spesso, nelle città, i movimenti sociali rivendicano «spazi», ma avere spazi non cambia nulla se non si contestano i tempi. Ti riappropri degli spazi quando i tempi saltano e riprendi fiato, grazie allo zoccolo scagliato negli ingranaggi. E’ tragico che a gettare lo zoccolo sia stato un terremoto, ma la tragedia non deve ottenebrarci, renderci ciechi di fronte agli esempi.
Un amico mi racconta che, dopo l’ordinanza di chiusura delle scuole, i parchi del suo paese si sono riempiti di bande di bambini che giocano ad libitum. Non accadeva da anni, nemmeno nei giorni festivi. Oggi i bambini – anche in provincia – vivono «imbozzolati» in tempi infernali, con giornate piene di scadenze e impegni incastrati meticolosamente: scuola, piscina, lezione di questo e quello, catechismo… I pochi, interstiziali momenti di far-niente li passano davanti a uno schermo. L’Evento ha interrotto la sequela e fatto riscoprire uno spazio, lo spazio dei giochi per eccellenza.
In diversi stati, gli edifici delle università sono aperti anche di notte, a disposizione degli studenti. In Italia no, ma ci ha pensato l’Evento. La facoltà di Architettura di Ferrara è rimasta aperta di notte, per accogliere chi preferiva dormire fuori casa. Fino a trent’anni fa, quell’edificio di via della Ghiara ospitava un manicomio, grande macchina disciplinare, luogo di costrizione fisica e totale eterodirezione dei tempi.
Mentre scrivo, nelle province emiliane colpite dal sisma (Modena, Ferrara e Bologna) le scuole sono ancora chiuse e c’è chi propone di dichiarare terminato l’anno scolastico. Le scosse potrebbero susseguirsi per mesi, si capisce che la vita sarà diversa. Molti operai si rifiutano di rientrare nei capannoni. «La vita vale più dell’economia», ha dichiarato un dirigente della FIOM. E’ la frase più eretica che oggi si possa dire, ma la routine già incalza e preme, e presto tornerà a imporsi.
Il tran tran è astuto: si ammanta di straordinario, si traveste da finta discontinuità. Si pensi al «minuto di silenzio»: rituale rapido e innocuo, conferma che l’ordine regna e può permettersi di sprecare un minuto… al termine del quale approfitterà del momento, pigiando sull’acceleratore di strozzanti controriforme e imponendo la sua shock economy.
E’ vero, vogliamo «ripartire» (il verbo più usato nelle interviste). Tuttavia, sarà il caso di cambiare meta e percorso, saltando giù da questo treno iperveloce. Chiediamoci: questa velocità dove ci porta? «Lavorare con lentezza, chi è veloce si fa male», cantava Enzo Del Re. Chiediamoci, soprattutto: questa velocità a chi conviene? «Un ladro più veloce ruba meglio, e un fesso più veloce non diventa meno fesso», diceva Amadeo Bordiga.
Il tran tran si riaffermerà. Intanto, approfittiamo dell’Evento per respirare, pensare, prepararci a lottare.

[Articolo scritto il 31/05/2012 e apparso su La Repubblica del 02/06/2012]

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68 commenti su “Il #terremoto in Emilia e gli orologi – di Wu Ming 1

  1. In tutto questo, c’è chi invece ne approfitta per raddoppiarla, la velocità:
    http://tinyurl.com/76yjvb3

  2. Ci sono letture che fanno piacere. Ci sono letture che fanno pensare. Questo riesce a fare tutte e due le cose: grazie per avermi fatto iniziare bene questo 2 giugno!

  3. Questo tuo sguardo è assai taumaturgico e lega bene la riflessione su sul paradigma della “forma-orologio”. Certo, da qui a dire che il terremoto in Emilia come il vulcano in Islanda, siano stati degli Eventi positivi, ce ne vuole. Anche perchè nel caso del vulcano le persone sono rimaste sfollate in aeroporti e senza volo, qui alcune sono rimaste sotto le macerie e altre senza nè casa nè lavoro.
    ***
    E’ bello soprattutto che si riscopra una forma di mutuo soccorso *non* attraverso il web, bensì tramite iniziative sul territorio. A proposito segnalo una due giorni di Hip Hop a sostegno del comune di Sant’Agostino.

    http://www.justmove.it/content/ancora-piedi-lhip-hop-lemilia

    ***
    Sul web nel frattempo si riaffaccia (ma se n’è mai andato?) il frame populista: noi (terremotati) vs loro (immigrati). Stamane, ad accogliermi su Facebook, questa simpatica immagine:
    http://goo.gl/Xew2e

    ***
    Stay fresh! :P

  4. bastava ascoltare parlare la gente del luogo a Servizio pubblico, tutti che si disperavano per soldi e rimborsi, e c’ erano i morti lì ancora da sepellire; adesso non voglio fare l’ ipocrita e dire che i soldi non contano, ma mi ha colpito che nemmeno il grande iato della morte è servito a fermare la corsa; sembrava la scena di un Amleto postmoderno…

  5. scrivo due righe perche’ mi e’ venuta voglia di raccontare di un altro terremoto, e di come l’ho vissuto *da bambino*, in una zona periferica rispetto all’ epicentro. gorizia, maggio ’76: a poche decine di km il terremoto aveva fatto quasi mille vittime. dalle mie parti solo qualche danno, ma la gente era tutta accampata nei parchi, nelle campagnette, in qualunque posto ci fosse dello spazio libero. quasi tutti avevamo dei parenti in friuli. in genere si trattava di vecchi rimasti senza niente. ricordo che eravamo andati a recuperare una vecchia zia, e che l’ avevamo trovata seduta sul bordo della strada, con lo sguardo perso nel vuoto. ma io avevo 6 anni, la scuola era finita in anticipo, e quei mesi d’estate li ricordo come un momento di liberta’ infinita. noi bambini passavamo da una tenda all’ altra e nessuno ci controllava. in quei mesi, forse anche per l’eta’ che avevo, mi sembrava che il mondo fosse mio. e ovviamente nei miei ricordi il cielo del ’76 e’di un colore azzurro che non ho mai piu’ rivisto nella mia vita

    scrivo queste cose perche’ leggendo l’ articolo ho capito con 36 anni di ritardo cos’era quell’ assurda sensazione di euforia che noi bambini provavamo in quei mesi. era la sensazione che il tempo fosse sospeso.

    poi e’ arrivata la ricostruzione, il famoso modello friuli. l’ economia locale ha avuto un boom senza precedenti. il prezzo che si e’ pagato e’ stato lo sradicamento, lo stravolgimento di un modo di vivere legato alla terra, e la scomparsa della cultura contadina legata a quel modo di vivere. io non sono per niente un nostalgico di quel mondo, di cui conosco, tramite il racconto dei miei nonni, tutti gli aspetti peggiori. pero’ dopo il ’76 la transizione verso un’ economia industriale e’ avvenuta molto rapidamente, e il vuoto creato da quello sradicamento e’ stato colmato da una reinvenzione posticcia, tecnicizzata della tradizione contadina.

    • Leggo solo ora il post ed il commento di tuco e mi vengono in mente un po’ di cose.

      Frequento molto l’Irpinia e ho spesso racconti di persone che parlano del “periodo del terremoto”, riferendosi però non all’arco di tempo in cui si manifestarono le scosse, ma ai lunghi anni in cui vissero nei prefabbricati, in attesa della ricostruzione.

      In qualche modo il terremoto viene raccontato non come il momento della distruzione fisica delle costruzioni, ma come quella pausa in cui non si disponeva della propria casa e si aspettava che la ricostruzione fosse compiuta.

      Tutti – per questo mi collego al commento di tuco – raccontano che il “periodo del terremoto” fu molto bello, in quanto si era “uniti”.

      Mi raccontano di come i bambini giocassero tra i prefabbricati tutti insieme e come gli adulti si prendessero cura anche dei bambini degli “altri”.

  6. mi spiego meglio, i capannoni costruiti male, su terreni agricoli, come Daverio ha giustamento detto e l’avrebbero fatto tacere volentieri, ma ormai era lì, mica si poteva zittirlo di brutto, etc..

  7. Strepitoso, perfetto.

  8. bell’articolo.. leggero e fresco ma allo stesso tempo stramaledettamente vero..
    Mi ha ricordato Momo di Michael Ende

  9. Le catastrofi naturali hanno la peculiarità di sbatterti in faccia tutto ciò che è concreto. Non vorrei osare e dire che portino qualcosa di positivo, ma forse questo mio timore deriva dalla considerazione diffusa che gli individui siano sistemi isolati. Tuttavia non posso fare a meno di considerare questa conclusione sbagliata. Penso a Feynman: «Non si può dire che A sia fatto da B o B da A, tutta la massa è interazione». Guardare dal punto di vista della collettività, non più del singolo. La materia agli stadi più infinitesimi esiste come atomo, ma la quasi totalità degli elementi con cui ci interfacciamo è composta da gruppi di atomi, molecole. Perfino l’ossigeno che respiriamo è l’unione di due atomi di ossigeno. Perfino noi siamo l’interazione di cellule di tipologia diversa, funzione diversa che costituiscono un unicum.

    In questo giova una catastrofe, cade la virtualità della nostra singolarità e delle nostre “abilità”, forse si scopre che certe cose che sapevamo fare o che ritenevamo indispensabili, in fondo, non servono a un cazzo e portate agli estremi non valgono niente, che forse non valiamo nemmeno noi, da soli. Il sistema cade e con lui tutti i vari feticci con cui ci trastulliamo.

    Ma una volta finito lo stato di crisi l’individualismo ritorna a farla da padrone. Se questo può essere visto come un periodo di recupero di rapporti e consapevolezze perduti, non durerà se non si instaura qualcosa di più concreto. L’uomo è anche ciò che l’ambiente lo porta ad essere. Ristabilito lo status quo, tutto tornerà come prima. I rapporti si sfalderanno come il sistema si è sfaldato a colpi di terremoto, così come faranno le idee se non sono state veicolate a sufficienza, se non raggiungono un livello superiore di coscienza e non solo di convenienza data dalla momentanea malasorte.

    Senza dubbio tornare alla “normalità” quando quella sembra già essere a portata di mano, crea un interrogativo terribile.

    Ottimo post (come al solito). Oramai disperavo di leggere qualcosa del genere in una giornata come questa.

  10. […] Letture sincroniche: le riflessioni di WM1 sul terremoto in Emilia, gli orologi e le accelerazioni temporali e Cosmopolis di Don DeLillo (Einaudi) da cui provengono le righe che seguono. […]

  11. Pensavo proprio oggi, prima di venire a leggere questo post, all’abbinamento ossessivo tra le immagini di orologi (anzi quasi sempre “quello”: il simbolo stesso del terremoto) e le raccolte di fondi.
    Sarà solo un caso?
    (mi scuso per la lista lunga e scomoda, ma credo che la quantità sia necessaria per rendere l’intensità del martellamento).

    Interno.it

    partitodemocratico.it

    pder.it

    dirittodicritica.com

    t0.gstatic.com

    edespar.it

    alisupermercati.it

    ilboiardo.it

    t2.gstatic.com

    la7.it

    2.bp.blogspot.com

    fedemilia.bcc.it

    csibologna.it

    ugllazio.it

    stic.it

    • Vero, è alquanto impressionante. L’orologio rotto diventa la sineddoche del disastro, la ferita per eccellenza. L’immagine è più traumatica di quelle delle case crollate e delle famiglie accampate alla bell’e meglio, perché l’orologio spaccato è il simbolo dell’interruzione della “normalità”, dell’affronto al tempo capitalistico: come osa questo terremoto fermare il nostro ritmo? Quindi l’immagine va proposta per il suo valore di shock, ma al tempo stesso va “addomesticata”, mettendoci accanto loghi di banche, partiti, catene della grande distribuzione, e il messaggio è: la “normalità” si ripristina rivolgendosi a *noi* (noi banche, noi partiti, noi ipermercati), perché noi siamo gli intermediari tra i vostri soldi e la gestione del problema.

  12. […] On earthquakes and time [in Italian] […]

  13. […] dissacrano, discutono, riformulano le categorie della nostra esistenza. Oggi li ringrazio per avere scritto un articolo, un articolo dove parlano del tempo, il grande protagonista della nostra esistenza postmoderna. […]

  14. Da quando lessi questo volume, pensare a un orologio mi fa pensare a questo brano.

    Da: Storie di cronopios e di famas, di Julio Cortazar

    Preambolo alle istruzioni per caricare l’orologio

    Pensa a questo: quando ti regalano un orologio, ti regalano un piccolo inferno fiorito, una catena di rose, una cella d’aria. Non ti danno soltanto l’orologio, tanti, tanti auguri e speriamo che duri perché è di buona marca, svizzero con àncora di rubini; non ti regalano soltanto questo minuscolo scalpellino che ti legherai al polso e che andrà a spasso con te. Ti regalano – non lo sanno, il terribile è che non lo sanno -, ti regalano un altro frammento fragile e precario di te stesso, qualcosa che è tuo ma che non è il tuo corpo, che devi legare al tuo corpo con il suo cinghino simile a un braccetto disperatamente aggrappato al tuo polso. Ti regalano la necessità di continuare a caricarlo tutti i giorni, l’obbligo di caricarlo se vuoi che continui ad essere un orologio; ti regalano l’ossessione di controllare l’ora esatta nelle vetrine dei gioiellieri, alla radio, al telefono. Ti regalano la paura di perderlo, che te lo rubino, che ti cada per terra e che si rompa. Ti regalano la sua marca, e la certezza che è una marca migliore delle altre, ti regalano la tendenza a fare il confronto fra il tuo orologio e gli altri orologi. Non ti regalano un orologio, sei tu che sei regalato, sei il regalo per il compleanno dell’orologio.

  15. Intanto sembra che il #terremoto insista con la metafora e s’accanisca sugli orologi: poco dopo le 21 di stasera, nel modenese un’altra scossa da 5.1 della Scala Richter. La torre dell’orologio di Novi, che dal 29 maggio era ridotta a un asimmetrico scheletro, è crollata definitivamente.

    • Il #terremoto impone i suoi tempi. Credo sia questo che rende insopportabile la situazione. L’altro ieri leggevo questo articolo, che mi è tornato in mente leggendo il post e che ho trovato ora.

      L’industriale dice: bisogna fare presto, prestissimo.

      Ansia di *normalità*? Paura dell’inatteso? Paura?

      • Direi di si, paura. A parte l’avidità, ovvia ma sempre forte, credo che la motivazione di quelle parole sia nella paura di perdere quell’inerzia che è secondo me il principale collante dei pezzi di questo stato di cose. Il 90% della popolazione è scontenta ma prosegue sulla stessa strada per inerzia. Se lo costringi a prendere una strada diversa prenderà quella che gli proponi? Se capisce che esistono scelte si accontenterà di scegliere solo quella volta?
        Credo siano queste le domande a cui hanno paura di avere risposta, e credo che il modello di gestione dell’emergenza che hanno attuato all’Aquila e stannoc ercando di attuare in Emilia sia dettato dalla paura di una perdita più che dalla speranza di un guadagno

        • A tal proposito, secondo me non è solo una paura unilaterale, quanti tra quel 90% è disposta veramente a percorrere un’altra strada? Se da una parte c’è gente (imprenditori ecc.) senza scrupoli che associa la normalità con il ritorno alla produzione, dall’altra ci sono persone che la associano al ritorno alle “comodità”. Anche tenuti in conto gli ossessivi messaggi sul tempo, questi non fanno che amplificare qualcosa di latente, una spinta di tutti a ritornare all’ordine antecedente. Considerando il periodo dell’anno, non sarà difficile riportare tutto all’origine. Non sono così convinto che si tema una deviazione di pensiero nella popolazione.

        • Però facciamo attenzione, perché c’è il rischio di confondere la “normalità” del ricatto che spinge operai terrorizzati sotto capannoni a rischio con la “normalità” del tornare ad avere una casa, del non dover più dormire in tenda coi figli, non dover più mendicare soccorsi, non provare più l’angoscia da scala Richter… Quando i terremotati dicono di voler tornare alla “normalità”, stanno parlando di un ritorno alla *dignità*, ai loro affetti e relazioni, alla possibilità di procacciarsi un reddito. Nel riflettere sui tempi capitalistici e nel criticare lo “statu quo ante”, dobbiamo sempre saper discernere. Nel criticare shock-economisti, sciacalli istituzionali, imprenditori privi di scrupoli e operatori dell’informazione superficiali, dobbiamo evitare l’effetto di trascinamento, cioè non dobbiamo dare l’impressione di biasimare la voglia di “normalità” di quelli che stanno soffrendo.

        • Questo è vero, ridimensiono la mia posizione alla luce di questa considerazione.

      • “«E´ bello qui, vero?». Capannoni industriali a perdita d´occhio”. (dall’articolo).

        Mi sembra che anche i capannoni siano simbolici in questa storia. Simboli e retorica del lavoro e della ricchezza del nord. Forse anche della coesione sociale. Due cuori un capannone.

        Mio padre veneto ha visto, da lontano e tornandoci ogni tanto, la pianura agricola germogliare capannoni. E nei primi tempi pensava, lui fissato con la meccanica emigrato a Torino Ville Lamière, che finalmente anche là stesse arrivando il progresso, la ricchezza, la giusta ricompensa per un popolo laborioso e inventivo.

        Due domeniche fa a Chiomonte parlavamo con @uomoinpolvere dei capannoni del Monferrato. Un paesaggio da Unesco buttato nel cesso. Non solo nei fondovalle, ma spesso addirittura sulle cime delle splendide colline a vigna, accanto (forse meglio “addosso”) alle cascine tradizionali in mattoni rossi e intonaco. Che si veda bene, neh? Da lontano. Come gli orologi sulle torri.

        Ora le forze della natura assaltano il capannone, ma il capannone rinascerà più bello e più superbo che pria. Questione di qualche milione. E’ bello qui, vero?

  16. Il terremoto insiste ad accanirsi anche sui nostri nervi. Lo so che non bisognerebbe lamentarsi, dato che c’è gente nelle tendopoli, però me a n’in pòs piò. Uno se ne va nel fine settimana per riuscire a dormire un paio di notti distese, e al ritorno viene accolto dalla scossetta della malanotte… eccheccazzo. Scusate lo sfogo.

  17. […] che anche la torre di Novi modenese è venuta giù, l’articolo di Wu Ming1 ha un tono quasi profetico, la caduta del tempo, oltre alla riscoperta del tempo. E poi le […]

  18. Decalogo del terremotato consapevole (dal Comitato 3e32)

    1) Non disperdetevi come comunità e non fatevi mettere gli uni contro gli altri;

    2) Restate in sicurezza, ma non lasciatevi allontanare dalle vostre case e dalle vostre proprietà;

    3) Non fatevi rinchiudere in campi recintati con la scusa di essere protetti;

    4) Mantenete la vostra consapevolezza e autonomia;

    5) Vi convinceranno che non siete autosufficienti e proveranno a ospedalizzarvi: non lo permette! Ogni gesto quotidiano deve restare vostro;

    6) Non fatevi raccontare dai media quello che vi succede, siate protagonisti dell’informazione e diffondetela voi, i mezzi non mancano;

    7) Chiedete da subito controllo e trasparenza sulla gestione di tutto quello che vi riguarda: solidarietà, aiuti, fondi ecc.

    8) Fate che l’emergenza non diventi lungodegenza: ai commissari fa comodo, alla vostra comunità no;

    9) Pretendete di partecipare da subito a ogni scelta sul vostro futuro;

    10) Non lasciate devastare il vostro territorio con la scusa della ricostruzione.

    Insomma, nonostante tutto quello che vi diranno sulla solidarietà, ricordatevi che per qualcuno il terremotato è da spolpare: occhio a sciacalli e avvoltoi!

    • Questo decalogo sul #terremoto (e la sua shock economy) va diffuso ovunque, declamato ai quattro venti.

    • L’indicazione n. 8, l’emergenza che diventa lungodegenza, ha una certa assonanza con le fasi “post” (dopoguerra) dei conflitti contemporanei che si protraggono per anni e sembrano non avere fine, perché a tanti fa comodo prolungare lo stadio temporale della “ricostruzione”.

    • grazie!

  19. Interessante vedere come sono stati accolti dai Carabinieri i #notav che portavano aiuti nelle zone del #terremoto:
    http://www.notav.info/senza-categoria/primi-aiuti-no-tav-alle-popolazioni-terremotate-i-carabinieri-tentano-di-intimidire/

  20. Recentemente, insieme agli altri curatori e ad alcuni degli autori dei saggi, ho presentato all’Aquila il libro Sismografie (http://www.carmillaonline.com/archives/2012/04/004260.html#004260)
    Durante la discussione, il problema del tempo si è manifestato in maniera evidente. Se la temporalità sospesa del terremoto emiliano, simbolicamente mediatizzata attraverso le immagini delle torri dell’orologio, può essere qualitativamente recuperata attraverso le forme di mutua assistenza e di resistenza alle immediate conseguenze del sisma; all’Aquila, paradossalmente, questa sospensione
    è di lunga durata. Il perdurare di una sorta di limbo temporale non permette alle persone che lo vivono di ricostruire la propria routine.
    Non parlo ovviamente della routine tecnico-lavorativa che invece di essere scomparsa o appiattita, si è ulteriormente complessificata (spostarsi all’Aquila significa utilizzare l’auto, gli spazi si sono allungati e di conseguenza i tempi di attesa) andando ad incidere in maniera ancora maggiore sulla quotidianità di una persona. Parlo invece della routine qualitativa, quella fatta di rapporti di vicinato, di incontri su percorsi comuni, di relazioni costruite dalla
    condivisione di tempi e spazi. In qualche modo vengono a mancare molti degli elementi costitutivi di una collettività che riesce a riconoscersi come tale. Se il sisma come evento inaspettato genera la paura, le forme di cattiva gestione del territorio, gli abusi edilizi, la gestione dei campi come istituzioni totali e le ricostruzioni finalizzate a spartire appalti piuttosto che a ricostruire collettività generano la catastrofe e il “paesicidio”. O meglio questo è quello che sta emergendo a 3 anni dal sisma aquilano.

  21. Sono d’accordo con l’idea espressa nell’articolo, cioè che sia necessario rivendicare e riappropriarsi del tempo, spesso più trascurato, perchè meno “fisico”, dello spazio. E infatti l’ho diffuso sia su Twitter che via blog accompagnandolo ad altri due articoli (li trovate linkati qui) che secondo me bene interpretano l’esigenza di rompere rispetto alle imposizioni sociali e i vincoli cui ciascun individuo è sottoposto inevitabilmente.

    L’analisi che si sta facendo sul rapporto tra gli orologi fermi, la rappresentazione mediatica che l’informazione sta fornendo e le campagna di raccolta fondi mi trova invece piuttosto perplesso: qua ci stiamo chiedendo perché lo strumento usato per colpire l’opinione pubblica sia l’immagine di orologi fermi e non di qualcos’altro.
    Ma il fatto è che l’orologio in questione è uno solo, quello del campanile di Novi di Modena, in tutti i link inviati da @VecioBaeordo.
    Se fossero tanti orologi diversi mi verrebbe qualche dubbio su un possibile significato nascosto, dovuto ad associazioni volontarie o inconscie. Ma stavolta il quello è il caso eclatante, diventato un simbolo, l’immagine che colpisce. A me personalmente colpisce per quel cerchio spaccato esattamente a metà, non perché l’orologio sia fermo.
    Voi direte: se volevano un’immagine simbolo potevano anche scegliere il castello di Finale Emilia. Ma il castello non ha l’asimmetria di un orologio perfettamente spaccato in due e si presta meno a fungere da icona, credo basti anche solo questo semplice motivo.
    A volte un sigaro è solo un sigaro.

    • Non è l’orologio di Novi, quello fino a ieri sera aveva il quadrante intatto. E’ l’orologio di Finale Emilia, che da giorni è diventato il più iconico, ed è quello da cui sono partito per la mia riflessione. Ma sulle pagine dei giornali locali ho contato sette diversi orologi, proposti e riproposti nel corso dei giorni, anche in sequenze fotografiche prima-e-dopo. Spesso le sequenze erano ternarie: orologio intatto; orologio fermato/danneggiato da scossa intermedia; orologio a pezzi, distrutto da scossa risolutiva.
      L’orologio spaccato di Finale Emilia, la disturbante asimmetria di quell’orologio spaccato ha fornito la perfetta immagine del trauma. Tu dici che è perchè è un cerchio, ma:

      1) il cerchio dell’orologio è una metafora primaria. E’ il ciclo della nostra giornata, il nostro ritmo sociale, l’orbita del nostro andirivieni. L’orologio ha forma circolare perché è un’evoluzione meccanica della meridiana: la prima lancetta fu l’ombra del pignone che si muoveva in circolo perché replicava sulla terra il movimento (semi)circolare del sole. Le parole e modi di dire che riguardano il nostro ritmo quotidiano rimandano a movimenti circolari: “routine”, “pendolari”, “tran tran” (onomatopea del movimento circolare di un motore)…
      Si è dunque scelta come icona del terremoto – nonché delle campagne per il ripristino della normalità – un’immagine che rappresenta icasticamente la *rottura del ciclo*. E’ come dire “il tran” anziché il “tran tran”. E’ l’interruzione del tempo il vero shock del terremoto, e l’immagine ha valore di shock. A volte un sigaro è solo un sigaro, ma se lo infili dappertutto, continui a fotografarlo e rappresentarlo e a circondarlo di discorso, vuol dire che ha un significato.

      2) di solito, le immagini che meglio si prestano a diventare icone o loghi sono simmetriche, non asimmetriche. Le immagini asimmetriche disturbano: un uomo con un solo orecchio disturba, un uccello con un’ala piegata disturba, la stazione di Bologna con l’ala sinistra in macerie disturba… L’orologio spaccato disturba. Di solito un’iniziativa di solidarietà che fa appello ai buoni sentimenti, alla concordia, al restare uniti, al ricostruire, si accompagna a immagini propositive, che simboleggino il “rimboccarsi le maniche”, la ripartenza che è già in corso… Simmetrie di mani che si stringono, simmetrie di catene umane, inquadrature simmetriche di pompieri che sgobbano sincronizzati, di volontari sorridenti sotto i loro caschi gialli, di cani e gatti salvati dalle macerie, you-name-it… Immagini che non devono essere disturbanti, ma incoraggianti. In questo caso, invece, l’inconscio collettivo ha scelto l’immagine disturbante e asimmetrica di un orologio distrutto, ha scelto di parlarci del tempo e della sua misurazione.

      Insomma, a me sembra che questo sigaro non sia solo un sigaro. A me sembra che questa metafora urli.

  22. L’immagine dell’orologio mi ha colpito subito tantissimo e anche a me ha fatto pensare immediatamente all’orologio in stazione a Bologna. In questo senso probabilmente il fatto che sia divenuto un simbolo può essere dovuto ad associazioni inconscie ma non casuali.
    Il paragone è fortissimo e questo post ne sprigiona la forza.
    Tuttavia non mi convince il finale del post stesso, ché in mezzo all’Evento non si respira, probabilmente si pensa, ma in ogni caso non ci si prepara a lottare. La lotta c’è già (Il commento di WuMing4 ne è la dimostrazione). Prepariamoci a farci contagiare.

    • Lo spirito che informa il decalogo del “terremotato consapevole” linkato sopra è quel che intendevo quattro giorni fa quando ho scritto, piuttosto cripticamente (anche per via delle battute contate) “prepararsi a lottare”. Lottare contro la shock economy delle ricostruzioni pilotate dall’alto. Lottare contro il biopotere del post-catastrofe.

  23. Martedì, dopo la scossona delle 9 mi sono trasferita nei minuscoli giardinetti che ci sono vicino a casa mia. Ho passato lì la giornata, a guardarmi intorno, troppo turbata per mettermi a leggere o fare qualcosa di costruttivo.
    Di colpo, c’erano bambini ovunque. Bambini di tutte le età, che al mio sguardo abituato al fiume di adulti frettolosi dei giorni feriali, mi sembravano sbucati dal nulla. Una popolazione celata, improvvisamente visibile in tutta la forza del suo numero. Di solito al martedì c’è qualche bimbo che passa un’oretta sullo scivolo in compagnia dei nonni, ma quel giorno ce n’erano decine, concentrati in pochi metri quadri. Divertiti, sereni, curiosi.
    Non voglio assolutamente arrivare a dire che il terremoto li avesse liberati, però lo straniamento che ho provato nel vederli è proprio quello di chi si ritrova all’improvviso in un’altra dimensione, in un altro tempo.

  24. bisognerebbe misurare le parole:

    “le aziende non hanno atteso le verifiche e gli operai sono tornati a lavorare in capannoni a rischio, con le conseguenze che sappiamo.”

    1) alcune (non conoscendo tutte le realtà mi limito a scrivere “alcune” ma è già sufficiente per rendere fuorviante la frase) aziende dove abbiamo avuto i morti avevano l’autorizzazione a lavorare. Quindi affermare quanto dite implica un’accusa a qualcuno di aver operato nell’illegalità. E le accuse vanno sostanziate.

    2) dire: “gli operai sono tornati a lavorare” significa:
    a) mancare di rispetto a tutti gli altri morti. leggetevi il memoriale dei morti e vedrete che c’erano operai, imprenditori, consulenti e tecnici.
    b) non comprendere la storia e il tessuto dell’economia della bassa emiliana. la nostra è una storia di mezzadria, non di caporalato. il distretto esiste perchè lo spirito imprenditoriale diffuso ha contribuito alla nascita di tante piccole aziende. Fate una riflessione e ditemi dove, nel mondo, su 17 morti per terremoto ci sono 3 proprietari. Statisticamente è un dato rilevante, pensateci prima di insultarci come schiavisti.

    poi bisognerebbe anche riflettere sul fatto che non è l’avidità che ci ha spinto a tornare a lavorare. io stesso ero al lavoro quel giorno e sono stato fortunato.

    volete sapere perchè?

    1) perchè da sempre ci hanno spiegato che la bassa non è sismica. poi nel 2004 ci hanno detto: “precauzionalmente vi consideriamo a bassa sismicità”. Poi c’è stato il terremoto del 20/5 e ci hanno detto “evento raro, al massimo una volta ogni 500 anni”. Allora cosa pensa il tuo cervello che ha sempre elaborato “bassa emiliana = non sismica”?
    2) perchè nessuno si è occupato di noi. Non lo dico per vittimismo, è un dato di fatto e mi auguro che questo ci aiuti a riflettere sul nostro ruolo. Considerate che il Piano Regionale di protezione civile non è stato attivato dopo il 20/5. Considerate che la stampa ci ha trascurato. Considerate che il nostro assessore regionale è rimasto in brasile. Considerate che ci hanno detto arrangiatevi e l’imu era sospesa solo per le case inagibili. Sospesa e non cancellata. Inagibili e basta, cioè se hai 30 mila euro di danni per sistemare muri e tetto ma è agibile l’imu rimaneva. La bassa emiliana produce il 2% del PIL italiano e Monti ci ha elemosinato 50 milioni di euro. La nostra produzione vale 30 miliardi di euro.
    Non so voi ma io lavoro non solo per avidità ma anche per pagare il mutuo, le bollette e mantenere tutte queste teste di cazzo che ci succhiano la linfa. E trovo anche i soldi per comprare i vostri libri.

    Consideratemi avido ma ero a lavorare. Ma se ti dicono “rangiat” è quello che noi facciamo.

    Le considerazioni sui tempi e sulle mete nel vostro articolo sono condivisibili ma cercate di portare a supporto delle vostre tesi le disgrazie altrui. Soprattutto gli argomenti sono ignoti.

    Grazie

    • Uhm… Io lo posso capire, che del mio articolo siano possibili letture come la tua. In questa fase il distacco è impossibile e il mio tono si distacca dal tono prevalente in modo piuttosto netto. Insomma, può sembrare poco empatico, soprattutto se uno si aspettava di leggere altro.
      Capisco bene la condizione che rende impossibile il distacco, e non posso certo biasimare nessuno. Sono ferrarese, ho parenti stretti che vivono a Modena, conosco quelle terre e prima di scrivere l’articolo sono andato nelle zone del terremoto, girando da mane a sera: sono stato a Finale, alla tendopoli di S. Felice, a Mirandola, a Medolla… La sofferenza ce l’ho ben presente e nello scrivere ho cercato di non dimenticarla.

      Insomma, per stringere: posso capire che tu ti sia sentito tirato in ballo in malo modo, che l’articolo ti abbia urtato nei nervi, quello che vuoi. Mica te ne voglio, per questo. Una reazione così mi serve per migliorare, per capire dove posso essere frainteso. Però, insomma, questo non autorizza a pensare
      – che gli unici destinatari possibili di un articolo su un terremoto siano le sue vittime immediate;
      – che non si possano fare riflessioni un po’ più generali e decentrate.
      Soprattutto, non autorizza a rinfacciare all’autore retropensieri che non ha e/o posizioni meschine che nell’articolo non vengono espresse. Il mio testo non ti accusa, soprattutto non ti accusa di avidità, né dice che uno non si dovrebbe guadagnare la pagnotta. Dice, invece, che siamo (perché dico sempre “noi”) schiavi di tempi imposti.

      Faccio notare che nella discussione qui sopra ho “cazziato” chi confondeva tra loro le diverse “normalità” a cui i diversi soggetti aspirano a tornare.

      Sulla questione dei capannoni: nei giorni scorsi i giornali hanno pubblicato non poche interviste a operai scampati ai crolli. Denunciavano un clima di pesante ricatto, dicevano di essere tornati nei loro capannoni anche se terrorizzati, per il timore di ripercussioni, licenziamenti etc. I parenti di alcune vittime hanno denunciato tutto questo. Le procure di Modena e Ferrara hanno aperto inchieste per omicidio colposo. Se in nome di una concordia di facciata rimuoviamo queste cose, mi sa che ripristineremo la “normalità” sbagliata.

      Sulla questione della sismicità dell’Emilia, purtroppo scontiamo (dico “noi”, noi tutti) il fatto di essere smemorati. Questa è una tragedia della memoria storica corta. Nel 1570 Ferrara fu rasa al suolo da un terremoto il cui sciame sismico durò anni. Sono passati poco più di quattrocento anni. Per i tempi geologici, è come dire niente.

      Infine: il caporalato in Emilia-Romagna esiste eccome. Ci sono inchieste sindacali e giornalistiche, su questo fenomeno. Digitando su google “Caporalato Emilia” si trova un bel po’ di materiale.
      Io, comunque, il caporalato non l’ho evocato e non mi era nemmeno venuto in mente.

      • Voglio capire: ci sono altri che hanno trovato il mio articolo sul #terremoto irrispettoso e/o cinico?

        • Non sono intervenuto nel dibattito fin qui, ma l’ho seguito e – alla tua domanda – rispondo che non ho percepito né mancanza di rispetto né cinismo nel tuo post. Soprattutto va detto che si capiva benissimo seguendo il dibattito e i tuoi interventi di risposta che questa volta più di altre le difficoltà di “allargare il ragionamento” era tenuto in conto.
          Per me è stato un intervento importante perchè mi ha permesso di spostare il fuoco e più che allontanarmi dalla popolazione che sta vivendo il trauma post-terremoto mi ha coinvolto oltre i commenti quotidiani che, spesso, sono estremamente superficiali.
          Ecco, questo pare a me…

        • No, anzi, mi sembra un punto di vista molto interessante e non banale. Al limite a una lettura superficiale o condizionata dagli eventi può sembrare indelicato. Mi riferisco al parlare degli aspetti “piacevoli” che sicuramente ci sono, ma saranno probabilmente riconosciuti e apprezzati in prospettiva, nel ricordo, non certo nel momento in cui prevale la paura.

      • ti ringrazio per la risposta pronta e approfondita. e ne apprezzo la schiettezza.

        non ho mosso accuse di cinismo perchè non l’ho avvisato nelle tue parole.

        nemmeno ho affermato che in emilia non esiste il caporalato. sostengo che non sia nella nostra storia che è differente.

        irrispetoso per la memoria un po’ sì perchè sebbene in italia le morti per lavoro si ripetono quotidianamente non mi pare ci sia una composizione statistica così trasversale e questo mi piacerebbe fosse uno spunto di riflessione.

        meschino assolutamente no, è un articolo coraggioso e pieno di contenuti. bruno vespa è meschino. nè ho rinfacciato, ho solamente cercato di sviscerare alcune frasi buttate lì che mi sembravano fuorvianti

        ho trovato solamente un po’ subdola la retorica che veste in modo fuorviante le morti per portarle a sostegno di una propria tesi. e, di nuovo, mi trovi radicalmente daccordo nella riflessione sui tempi che dobbiamo affrontare.

        e nemmeno pretendo di appartenere all’unica categoria destinataria di un approfondimento sul terremoto, sento solamente la pulsione a fare chiarezza quando ho la sensazione che la prospettiva distorca. trovo vitale l’allontanamento della punto d’osservazione per fare speculazioni su routine che uccidono e altrettanto fondamentale fare riflessioni sui diversi tempi esistenti: l’economia ormai ragiona in trimestri, la politica in settimane ma la terra in millenni.

        le procure hanno l’obbligo di aprire inchieste quando si verificano morti, lo richiede la legge ed è giusto. E la concordia di facciata non costituirebbe una giustificazione accettabile.
        risulta, agli occhi di chi ha “subito” gli eventi della terra e degli uomini, molto ipocrita puntare il dito su chi ha fatto mentre chi era preposto a intervenire non ha fatto ciò per cui era pagato.

        • Proviamo a metterla giù così:

          Certi soggetti non hanno fatto quel che avrebbero dovuto fare, ad esempio informare del rischio sismico reale (rischio del quale saremmo stati più consapevoli se si fosse tramandato bene quel che la storia della nostra regione racconta e insegna).

          Altri hanno fatto quel che non avrebbero dovuto fare: usare il territorio in un certo modo, autorizzare e costruire in un certo modo etc. Anno di grazia 2012, e nemmeno i tetti in Eternit si è riusciti a togliere di mezzo! Del resto, si stava per ficcare nel sottosuolo di Rivara un gigantesco deposito di gas, dicendo che non c’era nessun rischio.

          Altri ancora faranno – e imporranno – quel che “si deve fare e basta!”: i terremotati aquilani hanno molto da raccontare sulla “shock economy” di ricostruzioni tecno-autoritarie gestite dall’alto, nonché sull’affarismo e la malapolitica che si nutrono di tragedie. Good night and good luck!

          Verosimilmente, quasi nessuno farà quel che andrebbe fatto: imparare dal trauma e dell’emergenza per cambiare il nostro modo di usare il territorio, di vivere, di lavorare.

          In mezzo a tutto questo, troppi continuano a dar la colpa al terremoto – come se fosse un’entità malvagia – anziché alla situazione che ha trovato.

        • È triste ma è come dici qui di seguito.
          Grazie

    • «Alla Cgil nel frattempo stanno arrivando segnalazioni su alcune aziende che cercano di bypassare l’ordinanza del dipartimento della protezione civile, facendo firmare ai lavoratori liberatorie individuali sulla responsabilità civile e penale nel caso di danni provocati dal terremoto. È quanto denuncia il responsabile politiche industriali Cgil Emilia Romagna, Antonio Mattioli. “Alcune aziende che non hanno la certificazione per la ripresa produttiva fanno firmare liberatorie individuali ai lavoratori e li fanno lavorare. Di fronte a queste liberatorie – commenta Mattioli – agiremo segnalandole alla Procura della Repubblica e ribadendo che la vita dei lavoratori non può essere giocata per una questione di mercato”.»
      http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/457055/

      • Ecco la lettera – resa nota dalla CGIL – che l’azienda Forme Physique di Carpi (MO) ha presentato ai suoi dipendenti (PDF).

        • agghiacciante, più di tutto, è l’allegato elenco di quelli che hanno già firmato la liberatoria…

  25. Bella analisi sul significato del tempo spezzato.
    L’orologio è un simbolo potente. Quello di Golcuk lo mettemmo a guardia del sito web sul terremoto in Turchia (http://www.unibas.it/utenti/mucciarelli/Turkey990817/report_e.html), senza pensare ad una analisi sociale ed economica, ma perchè uno di noi si ricordò di un verso di Nazim Hikmet “la mia terribile notte lacerata dalle grida dell’alba”, ed era difficile non pensare a quelle quarantamila persone che non videro mai l’alba del 17 Agosto 1999. L’odore delle macerie e della decomposizione ha impiegato una settimana di docce frequenti per abbandonarci, ed almeno questa dimensione della tragedia è stata risparmiata all’Emilia. Questo terremoto potrebbe essere un monito, per pensare a quello che poteva essere e fortunatamente non è stato, per ridimensionare l’importanza e dominanza dell’economia su tutto.

  26. a me dopo le immagini degli orologi e il post su giap è tornato i mente “du monde de l’à peu près à l’univers de la précision” (poi anche in “études d’histoire de la philosophie”) di alexandre koyré, a proposito delle implicazioni filosofiche e antropologiche della filosofia-tecnologia che ha sognato di misurare il tempo.
    e mi è tornato in mente in particolare un riferimento al caos ferroviario in inghilterra al tempo in cui c’erano già orologi dappertutto, ma facevano tutti ore diverse, e di li’ alla decisione di uniformare l’ora, prima nella regione, e poi..

    ma bah, non so neanche se questa storia era in quel libro, o in chissà quale altro.
    e poi, mi dispiace, neppure ho trovato il testo in rete (neanche in inglese: “from the world of the approximate to the universe of precision”) e io stessa non ce l’ho sotto mano e neppure me lo ricordo bene, allora davvero non so se serve a granché questo commento.
    l’unica cosa vagamente informativa che ho trovato in rete è questo testo, nella prima parte del quale ci sono tracce dell’argomento di quello di koyré:
    http://temporalistes.socioroom.org/spip.php?page=archive&id_article=114

  27. @WM1:
    Premessa: io non lo trovo cinico, ma sto al riparo e ho certo i nervi meno scoperti, dato che nel bresciano le cose sono oscillate ma non si è verificato alcun danno (che io sappia). E lo dico sommessamente, con un “supplemento d’anima” per così dire, in risposta alla tua domanda.
    Aggiungerei due cose: 1) anche da qua è sembrato che, per lo meno in alcuni casi, ci sia stata una certa sottovalutazione del rischio.
    2) I primi giorni si contavano i morti, senza nominarli, cioè senza dire il “chi” di queste persone. Ecco, questo mi è parso sbagliato, forse cinico, forse irrispettoso, forse un po’ di entrambe le cose: certo non adeguato al momento.

  28. Ciao,
    io non ho trovato l’articolo irrispettoso,
    tuttavia capisco molto bene quanto detto da saboto.
    per apprezzare l’invito a vivere e lavorare con lentezza purtroppo occorre lo spirito giusto, poche persone vedono modelli alternativi di vita quotidiana e se esse rimangono soddisfatte della vita che conducono non trovo giusto giudicarle.
    insomma, per quanto possiamo disprezzare la routine ipercapitalista del posto fisso, dovremmo anche sforzarci di capire che questa piace, dà sicurezza, e in fondo molte persone non stanno lì a farsi seghe mentali sui mondi possibili, la decrescita felice e la fratellanza come faccio io, e non voglio costringerle a cambiare, non le dobbiamo giudicare.
    Perché a parole tutti, non solo la fiom, affermano che la vita vale più dell’economia; ma sfido io a vederli l’indomani condurre uno stile di vita più povero fondato sulla solidarietà e la fiducia nel prossimo.
    Questo per sostenere la tesi che gli operai costretti al lavoro in luoghi insicuri e purtroppo morti in fabbrica sono stati pochi, la maggior parte delle persone (indistintamente operai e datori di lavoro) voleva e vuole ritornare al più presto al lavoro, bisogna vedere dove.
    anche sulla questione caporalato il problema c’è ma è marginale, con le dovute attenzioni lasciamo lavorare le istituzioni e le amministrazioni che hanno il polso del problema.
    saluti
    http://www.mumbleduepunti.it

    • Davvero esiste qualcuno – qualcuno che non sia parte dell’1%, per dirla come il movimento Occupy – “soddisfatto” della “routine ipercapitalista”?
      Siamo una società basata sul consumo sempre più ipertrofico di sonniferi e psicofarmaci ansiolitici, antidepressivi, neurolettici. Vuol dire che, anche dove non si vede niente, la sofferenza è diffusissima e forte.

    • @iosonogek:
      “per apprezzare l’invito a vivere e lavorare con lentezza purtroppo occorre lo spirito giusto, poche persone vedono modelli alternativi di vita quotidiana”
      ti quoto fin qui, sul resto sono d’accordo con il comento di WM1 al 100% (anzi al 99%!) ;-)

      volevo solo dire che l’intervento di Saboto mi ha colpito. so cosa vuol dire essere un piccolo imprenditore e so che non tutti lo fanno credendo nelle promesse del cosidetto libero mercato, che libero non è mai stato e che anzi ti ricatta tutto il tempo. credo che molti vadano a lavorare anche per paura che se molli un *attimo* perdi tutto. intuisco che succede perché stiamo in un sistema che lavora sempre al limite delle proprie possibilità (anzi, ben oltre) e che non si può *rallentare*. forse il problema non è che c’è chi va a lavorare volontariamente anche senza tutele, ma del fatto che non esiste più una comunità attorno che ti aiuta quando tu non ce la fai più, qualunque sia la ragione….

  29. […] (L’articolo completo su Wu Ming Foundation – Giap) […]

  30. […] La retorica dominante vuole che, dopo un terremoto, si sia “tutti sulla stessa barca”. L’insieme delle vittime, nelle descrizioni dei media e delle istituzioni, è indifferenziato. E invece, al suo interno, si riproducono – amplificate – le differenze e le contraddizioni di sempre. A essere il medesimo è il mare, ma le barche non sono tutte uguali.[…]

  31. Queste note sul minuto fragoroso imposto dalla natura, seguito in modo complementare da quello di silenzio scandito dalle istituzioni sono molto proprie.
    In questi giorni vedendo i campanili crollare e gli orologi disgregarsi mi venivano in mente i quadri di Dalì con gli orologi che si sciolgono.
    Dicono sia l’Africa che preme sull’Europa,
    dicono che potrebbe durare a lungo.
    il tempo come variabile assoluta.

    Anni fa mi ricordo che utilizzai il graduale abbandono della manutenzione degli orologi pubblici, per strada, come indicatore dei processi in corso nella società italiana. Era la fine degli anni 1980, ed io che giravo Firenze in bicicletta dovetti ritrovare dentro i negozi l’orario che un tempo era visibile a tutti lungo le strade.

    • Venti-venticinque anni dopo, nelle città, molti esercizi pubblici (bar, negozi, uffici) *non* hanno un orologio alla parete. Provare e credere.

  32. Le ultime notizie non sono confortanti:
    La commissione Grandi Rischi comunica che “Nel caso di una ripresa dell’attività sismica nell’area già interessata dalla sequenza in corso, è significativa la probabilità che si attivi il segmento compreso tra Finale Emilia e Ferrara con eventi paragonabili ai maggiori eventi registrati nella sequenza”.
    e il ministro dello Sviluppo Economico dice che bisogna tornare a lavorare: “Dobbiamo fare in modo di tornare a lavorare piu’ in fretta possibile ovviamente in condizioni di sicurezza”
    In fretta e in sicurezza.
    Si, certo, come no.
    qui il link a rainews24

  33. Invito a leggere:

    Il #terremoto e le armi di distrazione di massa

    Estratto: “E’ giusto vigiliare contro lo sfruttamento eccessivo del territorio e la realizzazione di impianti pericolosi. Non è giusto che il fracking, lo stoccaggio, le trivellazioni diventino al pari di HAARP, di Bendandi o dei Maya delle vere armi di distrazione di massa: per i disinformatori il terremoto non può (non deve) essere derubricato a fenomeno naturale che potrebbe non produrre danni se solo si costruisse bene e dove si può. Finché il terremoto rimane un sigillo dell’Apocalisse, o il risultato di un complotto demoplutogiudaico, non comporta il doversi interrogare sulle cause personali e sociali dei disastri (elusione della normativa antisismica, abusivismo edilizio, piani urbanistici disattesi, risparmi ingiustificati sulla progettazione, ritardi e sottofinanziamenti degli adeguamenti sismici delle strutture esistenti, mancanza di una politica di informazione responsabile sui comportamenti, ecc.)”

  34. Su Emilia e #terremoto segnalo “Gli orologi spezzati”, ultima puntata della trasmissione “Paesaggio dell’anima”, che va in onda su Radio Emilia Romagna (la web radio della regione). A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

  35. ciao, vivendo a L’Aquila ho letto con speciale interesse questo interessante e giustissimo post e qualche commento. Qualche giorno fa sul mio blog ho scritto un post che c’entra con quanto scritto qui finora e potrebbe aggiungere qualcosa. Si chiama:”per una teoria dell’inter-città” e ovviamente parla dell’Aquila post-sismica, ossia delle trasformazioni in un contesto urbano colpito da terremoto tre anni fa. Un contesto in cui il “sistema” è in corso di ripristino ma non mancano anomalie e spazi/tempi ancora aperti. Eccolo:

    L’aquila, oggi, è una città trasfigurata difficile da mappare e da capire.

    E’ un territorio risignificato tra quello che c’era prima e quello che c’è adesso in attesa spesso di ciò che ci sarà.

    Gli edifici sono danneggiati e abbandonati, poi demoliti e eventualmente ricostruiti con altre strutture e altri colori.

    Ognuno di questi inter-tempi ha una dignità propria, una sua forma, significa nell’insieme generale di ciò che gli sta intorno più in prossimità e nell’ insieme più grande e generale.

    Ogni volta che cambia un solo elemento in una sua fase, il tutto si trasforma e si riconfigura formando una inter-città intesa come costellazione transitoria.

    Ogni elemento in una città significa nel momento che è inserito, dipendente e si interlaccia con quello che gli sta intorno e con l’insieme in generale sia da un punto di vista architettonico e sopratutto da quello sociale e umano(che questo determina e da questo scaturisce).

    Questa inter-città, questa città in perpetua, costante e veloce transizione è una città. Non è propriamente L’Aquila ma è L’Aquila. Cosa potrebbe essere altrimenti se no?

    Non è L’aquila che conoscevamo con la sua lenta trasformazione simile alla trasformazione di ogni città delle sue dimensioni.

    Proprio per questa mutazione in corso, affatto sincronica che vede compresenti fasi e micro- storie in momenti diversi, la realtà è piena di forti contrasti. Un isolato è staccato da quello affianco non solo dalla dimensione propria dello spazio ma anche in quella del tempo.

    Faccio un esempio: un isolato è stato riparato, le persone dopo essersene andate sono tornate, l’edificio ha cambiato di colore, le attività che c’erano sono cambiate ma l’isolato affianco è ancora abbandonato, danneggiato, puntellato o magari distrutto o in corso di riparazione. Le persone non ci sono, sono altrove magari in parti di città nuove, dove stanno generando altra storie. Il sociale si rimodella prende una nuova forma che non ha nome, una forma a sua volte provvisoria ma che ha una sua dignità di esistere.

    L’agibilità parziale presa da un’attività commerciale nel centro storico risignifica per almeno la terza volta in pochissimo tempo quello spazio: prima una piazza, poi una zona proibita dalla legge, poi una zona vuota e di passaggio in uno scenario surreale e malinconico, poi di nuovo un luogo più sociale con intorno il vuoto. E’ questo il caso di Piazza Palazzo nel centro storico dove da poco ha riapero un noto pub. Se fissi lo sguardo verso quella particella edilizia con intorno il micro-contesto sociale che riaprendo ha ri-sviluppato, sembra essere tornati al tempo di prima ma se ti giri giusto un pò vedi il Palazzo dov’era il Comune vuoto e puntellato. Come la via affianco, un giorno piena del via-vai di tantissime persone, vuota.

    Difficile stabilire confini che sono sottili e dappertutto ma che delimitano contrasti netti e duri. Difficile anche perché in tutto questo ci siamo noi.

    Potrebbe aiutare alla comprensione di questa realtà composta un modello cartesiano che incroci due categorie in un quadrato semiotico: com’era – com’è intese sia per lo spazio fisico-architettonico, sia per noi uomini e donne che in relazione a tale spazio vivevano appunto prima e dopo. In questa relazione sta l’identità della città.

    Nella street view di google maps fa specie vedere senza alcuna soluzione di continuità il passaggio dal prima al dopo girando lo sguardo in un click. Provare per credere nel centro storico. Qualcosa è rimappato, qualcos’altro no. Difficile orientarsi. Difficile riconoscere, capire. Nella rappresentazione il paradosso si rende ancora più visibile. La realtà raddoppiata non riesce a comprendere l’inter-tempo, il cambiamento infinitesimale, lo spazio in transizione e non fissabile.

    L’Aquila è una (non) città non fissa, L’Aquila si riconfigura quotidianamente e non ha una forma. Ha sempre una forma nuova.

    In questo contesto l’escursione psicogeografica prende un forte significato. La tecnica dello straneamento, praticata camminando, consente di riappropriarsi e ricongiungere staccandoli, una serie di elementi e noi a questi; tracce con cui ricombinare una città, un’idea di città che può essere tale solo se (sufficientemente ) condivisa.

    Cosa possiamo inventarci? In questo i situazionisti avevano dato una direzione. La cosiddetta ri-costruzione avrebbe molto più senso se intesa in questo modo. Ovviamente non è così, dall’alto si norma per ripristinare un sistema. Eppure degli interstizi – dovuti proprio all’assenza, alla sottrazione, al ri-comporsi caotico e indisciplinato, lasciano ancora un margine, una breccia per immagine ancora il possibile possibile.

    L’Aquila è (ancora) aperta.

    da: http://alessandrotettamanti.wordpress.com/2012/07/10/teoria-dellinter-citta/#more-84

  36. Lettura pubblica collettiva dell’articolo “Il terremoto in Emilia e gli orologi” di Wu Ming 1, fatta in occasione del Ferfilò Music Festival a Cento, il 14-15 Luglio 2012 nel Giardino del Gigante.
    http://youtu.be/woWNuwcm2eA

  37. […] dell’articolo “Il terremoto in Emilia e gli orologi” di Wu Ming 1 (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=8170) fatta in occasione del Ferfilò Music Festival a Cento, il 14-15 Luglio 2012 nel Giardino del […]

  38. Carissimi, vi volevamo segnalare questo filmato che abbiamo realizzato prendendo in prestito il vostro articolo!

    http://youtu.be/woWNuwcm2eA

    • Grazie, ce l’avevano segnalato! Se guardate nei commenti qui sopra, abbiamo espresso il nostro pieno apprezzamento :-) Poi, letto con quel meraviglioso accento della Bassa… Più appropriato di così!