[Che bel libro! Al contempo riflessione autobiografica/esistenziale, reportage in presa diretta e indagine “passoscopica” sul territorio, Su due piedi di Giuliano Santoro – aka @amicoFaralla su Twitter e @Jimmyjazz su Identica e Giap – sorprende, smuove e qualche volta commuove. Non solo: è anche un bell’oggetto, di quelli che fa piacere tenere in mano, e ha un prezzo intelligente (€ 7,90), non scemo come certi che si vedono in giro (*)
Su due piedi è anche un blog che consigliamo di seguire. Anzi, era già un blog prima di diventare un libro. Leggendo, capirete.
Eccovi la prefazione scritta da Wu Ming 2. In questo testo, prosegue il rimuginare avviato in un’altra prefazione, quella al libro di Luca Gianotti L’arte del camminare. Consigli per partire con il piede giusto (Ediciclo, 2011).]
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L’autore di questo libro ha impiegato un mese della sua vita a percorrere le strade e i sentieri della Calabria, con l’obiettivo di raccontarla, di penetrarne lo spirito, di “rompere i pregiudizi di chi non conosce un luogo e la pigrizia mentale di chi pensa di conoscerlo fin troppo bene”.
Ha scelto di farlo “su due piedi”, a passo d’uomo, eppure nessuno dei paesi che ha visitato era inaccessibile con altri mezzi: poteva usare il treno, l’auto, il pullman, l’elicottero, la bicicletta… Nessun indovino gli aveva predetto la morte su uno di questi veicoli, né aveva scommesso con gli amici sulla riuscita dell’impresa. Dunque perché proprio le gambe e lo zaino in spalla? Perché la fatica fisica del viandante, in aggiunta a quella mentale del narratore?
I dettagli biografici non aiutano a capire meglio la scelta: Giuliano Santoro è calabrese, trapiantato a Roma ma cresciuto a “Cosangeles”, e della sua terra d’origine conosce già gli angoli più remoti. “Mio padre – confessa – fin da quando sono in fasce mi porta in giro per questa regione, a scoprire anfratti sconosciuti, chiese abbandonate e reperti misteriosi”. A ciò si aggiunga che il camminatore di queste pagine non è un appassionato di trekking o di alpinismo, ma un tipo metropolitano che in vista della sua avventura ha fatto “preparazione atletica”, svegliandosi la mattina un’ora prima del solito e andando a correre nel parco sotto casa. Dunque la domanda si fa ancora più incalzante: perché a passo d’uomo? Qual è il guadagno dello spostarsi a piedi, in un’impresa che non è muscolare, ma narrativa? Cosa si ottiene camminando, in cambio del dispendio di tempo e di energie?
Se cercassimo la risposta nei depliant pubblicitari delle tante associazioni di pellegrinaggio laico, troveremmo come denominatore comune la “riscoperta della lentezza”, il muoversi nello spazio a 5 chilometri orari, in alternativa alla fretta e al “logorio della vita moderna”. Da un punto di vista individuale, si hanno senza dubbio molti benefici nel rallentare il passo, ma non è questa la risposta che cerchiamo: noi vorremmo capire se, dato l’obiettivo di raccontare un territorio, percorrerlo sulle proprie gambe risulti vantaggioso rispetto ad altre forme di spostamento, in cosa consisterebbe questo vantaggio e perché proprio il camminare lo renderebbe più accessibile.
In questa prospettiva, la lentezza dei passi viene spesso interpretata come opportunità di cogliere i dettagli, e dunque raccontare ciò che la velocità si lascia dietro le spalle. Non le tappe intermedie del viaggio, dunque, dove il passeggero scende dal suo veicolo e diventa identico al passista, bensì ciò che le collega una all’altra, la terra di mezzo che si stende ogni giorno tra arrivo e partenza.
In quella terra il camminatore si trova immerso, senza finestrini a separarlo dal paesaggio, libero di girare gli occhi in tutte le direzioni, con un’ampiezza di campo sconosciuta ai piloti e persino ai ciclisti. Chiunque abbia esperienza di pedalate sa che basta una pendenza ripida, in salita o in discesa, per limitare lo sguardo alla propria ruota anteriore. Per chi cammina, invece, è facile voltarsi indietro, studiare l’altra faccia delle cose, quella che non ci viene incontro mentre avanziamo, ma rimane nascosta alla prima occhiata. Una casa vista da un treno ha tre lati al massimo: il quarto, quello opposto alla ferrovia, rimane invisibile. L’automobilista può puntare gli occhi nel retrovisore, ma il più delle volte lo fa per guardare chi arriva alle sue spalle e non le spalle di ciò che è già arrivato. Dall’aereo si vedono solo i tetti, mentre con la bici e la moto è difficile abbandonare la strada e scoprire cosa pulsa dietro le facciate.
Camminare è anche l’unico modo di spostarsi a disposizione dell’uomo che comincia perdendo l’equilibrio. Quando alzo la gamba e la muovo in avanti, sposto il baricentro del corpo fuori dalla sua base d’appoggio, che in quel momento coincide con l’unico piede rimasto a terra. Sto per cadere e rompermi la faccia, ma ecco che il piede sollevato conclude il passo, tocca terra, allarga la base d’appoggio e io ritrovo per un momento una provvisoria stabilità, che subito metto in crisi alzando l’altra gamba, portandola in avanti, sbilanciandomi pericolosamente e così via per molte volte al minuto. Ecco perché il camminare coglie meglio di ogni altro spostamento l’essenza stessa del viaggio e del raccontare, cioè mettersi in crisi, uscire da sé stessi, squilibrarsi, perdere il proprio centro di gravità permanente.
Anche gli ostacoli hanno un valore diverso per chi si sposta a piedi. Nel gioco d’equilibrio che ho appena descritto, basta un ramo, del fango, una buca per trasformare il passo in inciampo e magari in caduta. Eppure, a dispetto dell’espressione “guarda dove metti i piedi”, è raro che un camminatore debba farlo davvero, a meno che il terreno non sia molto impervio, coperto di radici sporgenti o di morene glaciali.
Questo significa che il camminatore non è costretto a stabilire una gerarchia tra gli elementi del passaggio, a fissare lo sguardo su alcuni a dispetto di altri, come fa invece un normale conducente – di auto, moto o bicicletta – puntando l’attenzione sui possibili ostacoli e di conseguenza staccandoli dallo scenario di cui sono parte.
Un’automobilista può benissimo ignorare l’orizzonte, ma non può distogliere lo sguardo dal camion che ha davanti, dai margini della carreggiata, dal ciclista che deve superare. Il passeggero di un treno, infilato tra due fette di paesaggio come la mortadella in un panino, può invece dedicarsi a un’osservazione più libera: non deve condurre il suo veicolo, sta fermo, in poltrona, e il mondo che gli scorre di fronte è anch’esso immobile, se non fosse che la velocità fa scivolare via più in fretta i dettagli in primo piano e molto più lenti quelli sullo sfondo, col risultato che il passeggero vede molto meglio l’orizzonte e sente sfuggire quel che gli sta vicino.
La visione senza gerarchie di cui può godere il camminatore, unico tra i viaggiatori, ricorda l’antico concetto di ecceità, riformulato da Deleuze & Guattari in Millepiani.
Il mio compare Wu Ming 1 lo ha riassunto così in una sua conferenza:
La parola deriva dal latino haec, questo. Ecceità è la disordinata configurazione che il mondo assume in un momento irripetibile, singolare, senza gerarchie tra ciò che è grande e ciò che è piccolo , tra sfondo e primo piano, tra umano e inanimato, tra luce e tempo, ecc. Il clima, il vento, la stagione, l’ora, non sono di una natura diversa dalle cose, dagli animali, o dalle persone che li popolano, li seguono, vi dormono o vi si svegliano. Bisogna sentire così: siamo tutti le cinque della sera o un’altra ora e semmai due ore per volta. Un conglomerato mobile di sensazioni, oggetti e colori.
Nei suoi scritti sul cinema, Deleuze parla della “passeggiata”, l’andare a zonzo dei personaggi, come della principale caratteristica estetica del cinema neorealista, dove lo spettatore non si domanda più “cosa si vedrà nell’inquadratura successiva”, ma si pone il problema di capire che cosa c’è da vedere nell’immagine che gli viene presentata e all’interno della quale passeggia la macchina da presa. Grazie a questa prospettiva, egli può cogliere “qualcosa d’intollerabile, d’insopportabile, di troppo potente o di troppo ingiusto, ma a volte anche di troppo bello”
Il camminatore dunque, rispetto agli altri viaggiatori, si troverebbe in una condizione privilegiata per cogliere l’ecceità, la questità del mondo. Ma ciò non significa – ancora – che egli disponga di un punto di vista più vantaggioso per raccontare il territorio. Occorre domandarsi in che relazione stanno l’ecceità e la narrazione, se cioè cogliere la prima sia d’aiuto per chi vuole cimentarsi con la seconda(**).
Una relazione molto simile – quella tra letteratura ed ecceità – viene indagata in un saggio di Jacques Rancière a proposito delle sconfinate descrizioni proustiane.
Secondo Rancière, un valore aggiunto della letteratura sarebbe quello di poter cogliere l’ecceità delle cose e di potercela somministrare come medicina.
La nostra malattia – spiega ancora Wu Ming 1 – consiste nello scambiare la vita (la vita nella sua pura molteplicità), per una qualunque delle sue versioni idealizzate, per uno qualunque dei suoi feticci. Ciò di cui abbiamo bisogno è una cura per la nostra compulsione a possedere oggetti o catturare soggetti.
Il camminatore, dunque, al pari dello scrittore, può essere un medico, un oculista che cura il nostro modo di guardare il mondo, e il camminatore-scrittore lo sarà a maggior ragione. Se il suo obiettivo è appunto quello di raccontare un territorio oltre i pregiudizi e le pigrizie mentali, attraversarlo a piedi lo metterà in condizione di coglierne al meglio le molteplicità, di superare le “versioni idealizzate” e i feticci.
Questo non significa, tuttavia, che il camminare sia un farmaco sufficiente a curarsi lo sguardo. Santoro se ne rende conto perfettamente, e a più riprese si domanda se la sua impresa non rischi di trasformarlo nell’ennesimo testimone da talk show, di quelli che siccome “IO C’ERO”, allora ho ragione, siccome ho una storia da raccontare, allora chissenefrega della Storia. Si domanda, il nostro camminatore, come mettere d’accordo i sensi e la ragione, l’archivio e la strada, l’informazione e l’esperienza, affinché l’accumulazione di dettagli non faccia sembrare inutile lo sforzo di riflettere.
Camminare nella terra di mezzo tra una tappa e la successiva, vuol dire moltiplicare gli incontri, arricchire la narrazione di quel “fattore umano” che tutti ricercano, anche a costo di perdere di vista l’ambiente, la storia, l’orizzonte.
Sempre Deleuze, in una famosa intervista di fine anni Ottanta, descrive l’importanza di guardare il mondo “partendo dall’orizzonte”. Secondo il filosofo francese starebbe proprio in questa differenza di prospettiva la distinzione fondamentale tra “essere di sinistra” e “essere di destra”. L’uomo di destra guarda prima sé stesso e lo spazio angusto che ha nelle immediate vicinanze, quindi allarga la visuale e percepisce una minaccia, un universo ingiusto che presto o tardi busserà al suo cancello, per mettere in discussione i suoi privilegi, molti o pochi che siano. La sua reazione, pertanto, è difensiva e conservatrice. L’uomo di sinistra, invece, parte dall’orizzonte, percepisce l’ingiustizia del mondo, la trova insopportabile e quando arriva a guardare se stesso non può che domandarsi che fare, come trasformare quella situazione, come inserirsi in un’azione collettiva che metta fine allo sfruttamento.
Deleuze sostiene che questo modo di guardare è tipico della cultura giapponese, al che l’intervistatrice gli domanda se i giapponesi siano tutti di sinistra. Il filosofo, un po’ infastidito, risponde che sì, per quanto concerne l’ottica e la prospettiva, i giapponesi hanno un modo di guardare “di sinistra”. Rispetto a quest’ultima considerazione, preferisco fare un passo indietro, prima che qualche lettore si domandi se camminare sia di destra o di sinistra, o meglio se ci sia un modo di camminare corrispondente a uno o all’altro orientamento politico. Quel che mi basta trattenere, della suggestione di Deleuze, è il motto: “partire dall’orizzonte”. Quest’abitudine, infatti, potrebbe essere il secondo farmaco di quella terapia dello sguardo che potremmo chiamare “raccontare camminando”. Ma in che modo si può coniugare l’assenza di gerarchie prospettiche, la propensione a cogliere l’ecceità, con una prescrizione che invece individua un punto di partenza, l’orizzonte, e dunque in qualche modo lo mette in primo piano?
Provo a rispondere dicendo che il camminatore cantastorie è per forza strabico: con gli occhi della testa osserva un territorio e ne scavalca gli stereotipi, i dualismi senza dialettica, i pregiudizi, le idealizzazioni, per arrivare a coglierne l’ecceità; con gli occhi della mente, al tempo stesso, non perde di vista l’orizzonte, ovvero lo sfondo di notizie, informazioni e riflessioni critiche che gli permettono di cogliere il tempo, e non solo lo spazio, di storicizzare l’ecceità che vede danzare di fronte a sé, di renderla profonda e non solo estesa, di girare un documentario in quattro dimensioni.
Per far questo, d’altra parte, ha molto più tempo a disposizione degli altri viaggiatori, mentre procede a cinque chilometri all’ora nella terra di mezzo tra una tappa e la successiva.
Cosicché, quando la tappa arriva e viene il momento di riposarsi, anche da fermo egli finirà per gettare attorno sguardi nuovi, non più da pilota, né da turista, ma a passo d’uomo.
* Con questo riferimento al prezzo, anticipiamo un tema del prossimo post, quello sulla nostra “Glasnost” 2012 :-)
** Questa prefazione è anche una risposta ritardata a un quesito che ci pose Michael Hardt al termine di una nostra conferenza alla Duke University, aprile 2011. Suonava su per giù così: “Come stanno insieme, nella vostra prassi, ecceità e narrazione?”
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Link per acquistare il libro: Rubbettino – Libreriauniversitaria
Ho già letto e apprezzato “Il sentiero degli dei” e questo libro di Santoro mi incuriosisce da quando l’ho scoperto, ancora in gestazione, attraverso i tweet di @amicofaralla; quindi me lo procurerò appena possibile.
Mi chiedevo se lo stesso esperimento sarebbe ugualmente interessante dal punto di vista di un passeggiatore urbano che riscopre la città evitando auto e metropolitana.
L’esperimento metropolitano è altrettanto interessante, e non pochi l’hanno tentato con Diverse tecniche di attraversamento urbano (noi stessi, a Radio Blissett, metà anni Novanta, facevamo derive notturne per meglio comprendere gli eventi cittadini diurni).
In particolare, gli aspetti interessanti emergono percorrendo a piedi quelle lande urbane che più di rado ci vedono procedere a passo d’uomo: i confini della città (se di confini si può ancora parlare), le periferie che attraversiamo in auto per atterrare in un centro commerciale, i sobborghi dove in apparenza sembra non succedere nulla.
Ciao Francesca,
in effetti l’idea del mio cammino viene proprio dalle cose cui ti riferisci: in “Statale 18”, oggetto narrativo dell’antropologo calabrese Mauro Francesco Minervino edito da Fandango (http://www.fandango.it/scheda.php/it/statale-18/77) si racconta del percorso tirrenico che l’autore compie ogni giorno (in macchina, però) e si ragiona del fatto che la Calabria è ormai un’unica conurbazione, un’unica periferia di cemento. Da qui mi è venuta l’idea di percorrerla con lo spirito del passeggiatore metropolitano, ispirandomi (oltre che alle “derive” blissettiane alle azioni del gruppo romano degli Stalker)…
Intervengo dopo sugli spunti tra narrazione e cammino :)
giuliano
Io sono completamente convinto che “dato l’obiettivo di raccontare un territorio, percorrerlo sulle proprie gambe risulti vantaggioso rispetto ad altre forme di spostamento”.
Questo perché il tempo concesso alle relazioni con la vita di quel territorio (riguardanti il luogo sì, ma anche quelle delle persone tra di loro e anche le relazioni delle persone nel luogo) si dilata consentendo alla qualità di quelle stesse relazioni di essere apprezzata in maniera peculiare.
Io prevengo da una città unica per la sua conformazione, una città che mi ha costretto a vivere al contrario l’esperimento provato da Giuliano Santoro: Venezia.
In città ci si muove nel dedalo di calli e callette a piedi, ed è molto facile incrociare qualcuno che conosci lungo il percorso che ti porta da un luogo ad un altro della città (anche perché i residenti sono 50 mila circa, credo la città italiana col più grande spopolamento da dopo la fine della II Guerra Mondiale).
In quasi tutte le città si esce di casa per spostarsi in auto, chiusi tra quattro finestrini, e si arriva al luogo che abbiamo deciso essere la nostra meta senza praticamente avere altro tipo di contatto.
In questo caso il contatto con il fuori, l’altro da sé, siano essi luoghi o persone, è filtrato/mediato dallo strumento: la macchina diventa un’estensione della propria casa, un vettore di proprietà privata che penetra lo spazio pubblico per portarci fino al luogo di nostro interesse (un po’ quello che Deleuze intende quando parla delle interpretazioni del taxi rispetto al divieto di fumare: prima del divieto era considerato un “appartamento mobile”).
A Venezia, una volta chiusa la porta di casa alle nostre spalle, la proprietà privata cessa, tutto lo spazio nel quale ci si muove è spazio pubblico, la mediazione non è filtrata se non dall’incontro/scontro diretto tra corpi che vivono lo stesso spazio e lo stesso tempo.
Il tempo si dilata muovendosi a cinque chilometri orari (turisti permettendo, altrimenti la velocità diminuisce) e determina concretamente la forma delle relazioni.
Non si scappa alla puzza di un canale in secca o al profumo di una frittura che ti arriva dalla finestra di una cucina che si affaccia in calle, sono cose che non puoi evitare alzando il finestrino. Il contatto col mondo esterno è diretto, l’interpretazione di quello che si sta vivendo lo è allo stesso modo. Non puoi fare a meno di vedere una persona che cammina affianco a te a mezzo metro di distanza.
A Venezia il concetto di linea retta e di linea d’aria lasciano il tempo che trovano, cioè zero.
Vi sfido a cercare di aiutare un turista con in mano una cartina della città senza leggere un po’ di sconforto nei suoi occhi, i punti di riferimento che valgono per qualsiasi altra città cambiano. Abituati a muoversi in macchina su grandi strade e con incroci e semafori vengono catapultati in una realtà fatta di piccole o piccolissime calli solo pedonali tutte senza un ordine regolare, di ponti e di campi (così si chiamano quelle in ogni altra città si chiamano piazze). E alla fine, quando il turista chiederà quanto tempo impiegherà per arrivare alla sua meta e si sentirà rispondere per esempio dieci o quindici minuti, lo sconforto aumenterà pensando di dover camminare per tutto quel tempo. E così l’interpretazione di spazio e tempo assumono connotati nuovi.
Spero che la mia esperienza possa essere utile a questa discussione, anche e proprio perché il punto di vista dal quale guardo il mondo è quello di un uomo che cammina a cinque all’ora e ha dovuto imparare a percorrere il cammino inverso.
P.S. per chi volesse capire un po’ meglio ciò che ho scritto suggerisco di guardare lo spettacolo “Il milione – diario veneziano” di Marco Paolini. qui il link su youtube: http://www.youtube.com/watch?v=hzCI2bM6Dew&feature=related
Qualche tempo fa, sulle pagine di Giap si discuteva del sentirsi straniero nella propria nazione (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4101). Decisi che era lo spazio giusto per condividere alcune delle riflessioni che mi stavano conducendo a camminare per un mese nella mia terra d’origine (la Calabria) e poi a scrivere il libro di cui sopra (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4101#comment-5731).
Alcuni sono rimasti spiazzati dal fatto che alcune delle storie che intrecciano “Su due piedi” sono veloci, accennate, durano il tempo di uno sguardo e di una riflessione, occupano lo spazio di una sosta a un tavolino di un bar di paese, poi basta perché bisogna rimettersi in marcia e ci si ritrova a pensare ad altro. Il fatto che il camminatore assuma un punto di vista “lento” e più “umano” sulle cose è ovviamente verom a solo fino ad un certo punto. Troppo spesso si dimentica che chi cammina è sempre in movimento, ha tempo di notare alcune cose che non noterebbe se viaggiasse su ruota ma non ha sempre modo di fermarsi, magari deve rispettare una tabella di marcia oppure è costretto ad assecondare il ritmo del suo corpo, incombe la fatica o si affaccia l’esigenza di affrettarsi prima che faccia sera o che la giornata diventi troppo calda. Lo sguardo del camminatore è paradossalmente frenetico, inquieto, obbligato a tenere presenti diversi fattori e sintonizzarsi su diverse frequenze. Capita che vorresti approfondire una questione, ma puoi solo annusarla, fartela raccontare, toccarla e poi fuggirne. A me è successo diverse volte, nel corso dei trenta giorni di cammino. Per puro caso, ad esempio, mi sono trovato ad incontrare più testimonianze e più indizi che facevano pensare al fatto che qualcuno stesse falcidiando i boschi secolari della Sila per alimentare il business “verde” di alcune centrali a bio-masse, ma non c’era modo di approfondire.
La retorica della lentezza, insomma, non è sufficiente a comprendere il rapporto tra camminare e raccontare. Nel mio caso, poi, non si trattava di “rallentare”, non era questo che cercavo come ha notato Wu Ming 2 nella sua prefazione: più che rallentare si trattava di sperimentare diverse velocità. Volevo passare per i luoghi e attraversarne le storie, e poi fare interagire con quelle diverse variabili. Innanzitutto ho cercato di metterle in relazione con le cose che vedevo con quelle che sapevo, di fare interagire l’esperienza diretta col quaderno degli appunti, i sensi con la ragione. Inoltre, mi sono avvalso della sensibilità di alcuni “compagni di tappa”, mescolando il loro sguardo al mio, raccontando il loro viaggio e le storie che il percorso gli suscitava, tentando di restituire una dimensione meno egocentrica possibile. Infine, ho cercato sempre di collocare lo spazio in cui mi trovavo nel contesto globale, senza dimenticare che mi trovavo al centro del Mediterraneo, in un paese dell’Occidente che nella sua storia ha sempre dialogato con l’Oriente, in una terra che ospita la più collaudata forma criminale globalizzata e che accoglie migranti da ogni parte del mondo. Infine ho costruito ponti verso tanti “altrove” anche utilizzando fino alla compulsione (per scrivere, inviare testi, aggiornare il blog e postare sui social network, consultare il navigatore e interrogare il web, telefonare, fotografare, rileggere appunti) quella macchina del tempo e dello spazio che è lo smartphone (ho cercato di ragionarne qui: http://suduepiedi.net/2012/02/pronto-dove-sono/).
In “Open City” lo scrittore nigerian-newyorkese Teju Cole racconta il mondo attraverso le passeggiate del suo protagonista nella Grande Mela. Il libro di Cole ( di prossima traduzione in Italia) è un ottimo esempio di come attraversando uno spazio a piedi, si possano alternare momenti di auto-riflessione molto intima a passaggi di scoperta dell’altro, alla ricerca di un modo per “sentirsi a casa nel mondo” visto che – come diceva Adorno – “le abitazioni tradizionali in cui siamo cresciuti hanno preso qualcosa di intollerabile”. Ci si perde e ci si ritrova, nel romanzo di Cole, spesso approdando a posti nei quali non si pensava di arrivare.
Ho utilizzato un espediente narrativo come il viaggio, cioè un trucco vecchio quanto il mondo, per tenere insieme diversi sguardi e diverse voci, per entrare nel sentiero impervio dell’identità calabrese e scardinarne alcuni luoghi comuni, a partire dalla falsa alternativa tra tradizione e sviluppo, del dibattito noioso e inutile che contrappone ( e spesso fa convivere) la nostalgia per i bei tempi andati e l’attesa spasmodica degli spacciatori di futuro a buon mercato. Ero terrorizzato dall’idea che far interagire tanti registri desse vita a una matassa informe. Teju Cole qualche mese fa ha detto al Corriere della sera una cosa quasi banale, che però rimanda direttamente al modo in cui *ce la raccontiamo*. Eccola : “L’identità non può più essere pensata con semplicità. Il mondo moderno fa sì che sempre più persone racchiudano in sé una moltitudine di voci. Guardiamo film britannici, mangiamo giapponese, andiamo in Giamaica in vacanza, pratichiamo lo yoga, e amiamo la musica brasiliana. Esperienze ibride di vita offrono una serie di risposte diverse all’esistenza. Letteratura è avere affinità con varie voci. Per riuscirci bene, conta aver vissuto molteplici situazioni” (qui tutta l’intervista http://archiviostorico.corriere.it/2012/marzo/08/nigeriano_che_canta_New_York_co_9_120308050.shtml). Per riuscirci, aggiungo, bisogna “sentirsi a casa nel mondo”. Come ha scritto uno dei miei compagni di cammino, Paolo Jedlowski, “ciò dipende dalle storie che raccontiamo e da quelle che ascoltiamo, dall’integrazione riuscita tra i racconti e quello che stiamo sperimentando”.
[…] Nel mio caso, poi, non si trattava di “rallentare”, non era questo che cercavo come ha notato Wu Ming 2 nella sua prefazione: più che rallentare si trattava di sperimentare diverse velocità. Volevo passare per i luoghi e […]
uno dei miei libri preferiti sul camminare a piedi è “Marcher, créer – déplacements, flâneries, dérives dans l’art de la fin du XXème siècle” di thierry davila, sulla genealogia di quella che chiama la “cineplastica” (da fluxus agli anni 90, il libro è del 2002) e in particolare su alcuni “pedoni planetari” come gabriel orozco, francis alÿs e il gruppo stalker.
e poi lo splendido primo volume di “l”invention du quotidien (1. arts de faire) di michel de certeau, che in questo libro inventa o allucina una pratica, una semantica e una retorica rivoluzionaria del”non-luogo”, e ben prima (1980) della versione secondo me reificata e inservibile di marc augé (1992), pensata del resto per un’antropologia dell’urbanismo e basta, e poi putroppo diventata egemonica.
e poi “l’homme qui marchait dans la couleur”, di georges-didi huberman, su james turrell (in cui il ruolo dell’ “orizzonte” e del “limite”, pur non essendo propriamente quello di cui parla deleuze, è importante)
e poi ovviamente, sempre a proposito di deleuze, la camminata a piedi è quella dell’arpenteur, l’hacker delle superfici.
spero di poter leggere presto questo libro. :)
Segnalazione all’incrocio tra i post su #Timira (perché c’è Antar che fa un reading e perché si parla di dominio post-coloniale), quelli sul feticismo delle merci digitali (perché riguarda il business del coltan) e quelli sul camminare (perché si tratta di una marcia di 1600 km. attraverso l’Europa centrale).
DAL CONGO ALL’EUROPA
Sabato 30 giugno, nel parco della Scuola di musica “Ivan Illich”, via Giuriolo 7, Bologna, a partire dalle h. 19 serata di musica e teatro per finanziare la camminata di John Mpaliza.
Locandina (PDF) – Approfondimento (PDF)
A proposito di coltan, ri-segnaliamo il videogame controinformativo e politico di Molle Industria, Phone Story, messo al bando dall’App Store della mela ma disponibile per i furbòfoni Android.
A proposito di incroci, riposto qui la data che avete aggiunto al calendario di “Timira”: il 9 luglio Wu Ming 2 viene a Roma. Alle 18.30 sarà a Casetta Rossa (con Antar), nel quartiere di Garbatella, a presentare “Timira”. Alle 21 a Strike, Casal Bertone, per parlare di “Su due piedi”.
[…] di presunzione – notava Goethe – Come il fare poesia”. Solo al viandante, ricorda proprio nella prefazione al libro Wu Ming 2 citando il suo sodale Wu Ming 1 è concesso di provare “un conglomerato mobile di sensazioni, […]
[…] Per cominciare, la prefazione di Wu Ming 2 da Giap, introdotta da un generoso lancio del libro. -La recensione-intervista di Tiziana Aceto sul […]
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