GHOST DANCE
La danza degli spiriti. La ballavano i centocinquanta indiani uccisi nel massacro di Wounded Knee.
Ora un film tv riapre una delle pagine più brutte degli Stati Uniti.
Per spiegarci che solo ricordando il passato possiamo provare a cambiare il presente
di Wu Ming 1
apparso sul mensile XL, anno 3, n.24, agosto 2007
Una serata di tarda primavera, ultimi giorni di maggio. In Europa guardavamo Milan-Liverpool, finale di Champions League. Mentre Inzaghi dominava la partita di Atene segnando una doppietta, di là dall'Atlantico qualcuno riapriva, di fronte a milioni di telespettatori, una delle pagine più nere della storia degli Stati Uniti. Merito del canale via cavo HBO, e non poteva esserci momento più adatto. Dopo l'11 Settembre e la guerra in Iraq, una parte di società americana è tornata a interrogarsi sulle origini, sul passato, sulle verità che stanno dietro i miti fondativi. E' una reazione salutare: solo prendendo di petto la propria storia l'America può rispondere all'angosciante domanda: “Perché ci odiano?” e capire come stabilire un nuovo rapporto col mondo, dopo i guasti, le colpe, le aggressioni ad altri paesi, l'indifferenza nei confronti degli sconvolgimenti climatici, insomma tutte le cose che ci irritano quando vediamo George W. Bush e la sua insipida moglie Laura, in teoria un modello per le donne del pianeta, con quei tailleur dai colori improponibili (lilla, rosa, pervinca!) che li vedi e ti s'infiamma lo stomaco, datemi un Maalox per favore.
Ben venga allora Bury My Heart At Wounded Knee, film per la tv tratto dall'omonimo libro di Dee Brown, che negli anni Settanta fu un best-seller planetario.
Seppellite il mio cuore a Wounded Knee raccontava le storie dei Navajos, dei Cheyenne, degli Apache, dei Nasi Forati, dei Paiute, dei Sioux Lakota e di tante altre tribù. Raccontava di una grande invasione, di massacri, di epidemie, della distruzione di un ecosistema (quello della prateria), di inganni e sotterfugi, di violazioni di trattati. Raccontava di capi guerrieri come Nuvola Rossa, Cochise, Cavallo Pazzo, Toro Seduto. Raccontava la fine di un mondo.
Insieme a film come Piccolo Grande Uomo, quel libro rappresentò un nuovo modo di raccontare la conquista del West. Dopo cent'anni di propaganda intrisa di sangue e razzismo, dopo le macabre spacconate di John Wayne e compagnia, finalmente un genocidio era descritto come tale.
Il libro è diventato un classico, viene continuamente ristampato (in Italia da Mondadori), ma nessuno lo aveva mai adattato per il cinema o la tv. Impresa difficile: troppo vasta la narrazione, troppi gli episodi e i personaggi. Infatti la HBO si è concentrata solo sull'ultima parte del libro, la catena di eventi che portò al massacro di Chankpe Opi, considerato l'ultimo atto delle guerre indiane.
Chankpe Opi, nella lingua dei Sioux Oglala, vuol dire “ginocchio ferito”. “Wounded Knee”, nella lingua degli invasori. E' il nome di un torrente del South Dakota.
E' il 29 dicembre 1890. In una piana coperta di neve, poche miglia a ovest del torrente, l'esercito degli Stati Uniti uccide a colpi di cannone centocinquanta Sioux, quasi tutti disarmati, in gran parte donne e bambini. I soldati se ne vanno, i cadaveri rimangono a cielo aperto, i feriti che riescono ad allontanarsi muoiono assiderati.
Gli ufficiali responsabili della strage sono ricompensati con venti medaglie al valore militare. Lo scrittore L. Frank Baum, autore de Il Mago di Oz, applaude al massacro e scrive: “La nostra sicurezza dipende dallo sterminio totale degli indiani. Dobbiamo cancellare dalla faccia della terra queste creature non addomesticate né addomesticabili”.
Pochi anni dopo e di là dall'oceano, a Milano, l'esercito italiano spara con fucili e cannoni su una folla di quarantamila poveri (in gran parte donne, vecchi e bambini) che protestano contro il raddoppio del prezzo del pane. Dopo il bombardamento c'è l'attacco dei bersaglieri, fieri e belli, coi piumetti sui cappelli. Muoiono centinaia di manifestanti, i feriti sono migliaia, un calcolo esatto delle vittime non sarà mai possibile. E' l'8 maggio 1898.
Il generale Fiorenzo Bava Beccaris, che ha ordinato la strage, viene ricompensato da re Umberto I con la Croce di Grand'Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia. Due anni più tardi il re sarà ucciso da un anarchico, Gaetano Bresci, proprio per vendicare i morti di Milano.
Quella di Wounded Knee è una storia universale, non locale, è una storia che parla a tutti, in America come in Italia, e ci fa bene tornare a raccontarla, per capire il nostro tempo e il nostro mondo.
Quel giorno del 1890 i Sioux furono uccisi perché danzavano. Ballavano la "danza degli spiriti", ghost dance, un rituale sacro diffuso in tutto il West dal profeta Wovoka, della tribù dei Paiute.
Due anni prima, durante un'eclisse di sole, Wovoka aveva avuto una visione. Il Grande Spirito gli aveva mostrato una terra di sogno, ricca di vegetazione e piena di selvaggina. Wovoka aveva incontrato i suoi antenati, parlato con loro, giocato e scherzato insieme a loro. Il Grande Spirito gli aveva detto: “Torna dal tuo popolo e raccontagli quello che hai visto. Danzate tutti insieme, danzate, predicate la pace e l'armonia. Questa terra è per voi e per i bianchi, ditelo anche a loro.”
La danza era un rituale non-violento, danzando si accettava l'invito in quel nuovo mondo di concordia e prosperità. Solo che, passando da una tribù all'altra, la ghost dance si era trasformata. Per i Sioux, il compiersi della profezia comprendeva l'allontanamento degli invasori. La danza avrebbe reso gli indumenti invulnerabili, a prova di proiettile. Vista l'inutilità delle loro armi, i bianchi avrebbero rinunciato a ogni pretesa e sarebbero tornati nell'Est. Speranza e protesta, superstizione e delirio mistico: tutto quanto era rimasto a un popolo ridotto alla fame, costretto a rinunciare al nomadismo e alla caccia.
I bianchi avevano sterminato i bisonti, li avevano uccisi tutti, per le pellicce o per il semplice gusto di farlo, in un'insensata carneficina "sportiva". Le carcasse erano lasciate a decomporsi nella prateria, migliaia di tonnellate di carne, uno spreco mai visto prima, incomprensibile agli indiani. La fine di un'antica economia di sussistenza. Si calcola che in pochi anni furono uccisi quasi quattro milioni di bisonti.
Nel frattempo, recinzioni e concessioni minerarie avevano - letteralmente - tolto l'erba da sotto i piedi degli indiani. Cavallo Pazzo era morto nel '77, l'epoca delle rivolte e della resistenza armata volgeva al termine e il governo segregava le tribù nelle riserve, definitivamente. Toro Seduto era stato ucciso appena due settimane prima, insieme al figlio Zampa di Corvo. Restava solo la ghost dance.
I danzatori si muovevano in cerchio, saltavano, cantavano, urlavano, toccavano vette di estasi e perdita della coscienza. I bianchi non capivano quelle movenze, ne erano terrorizzati, orripilati. Credevano fosse una danza di guerra. Paranoia e malafede facevano interpretare ogni gesto come messaggio in codice, segnale di rivolta, istigazione ad attaccare. I bianchi si aspettavano di vedere spuntare, da un momento all'altro, armi nascoste chissà dove. Fermatevi, smettetela, mi fate girare la testa, mi fate paura, fermatevi, non vi capisco, fermatevi o dò l'ordine di sparare!
Tra il 28 e il 29 dicembre 1890 il 7° Cavalleria, agli ordini del colonnello George A. Forsyth, intercettò e radunò più di trecento Sioux guidati da capo Grande Piede. Gli indiani sospettavano che Forsyth volesse caricarli su un treno e deportarli a Omaha, Nebraska, quasi seicento chilometri più a est. Come se l'esercito italiano decidesse, da un giorno all'altro, che dieci-quindici famiglie di Siena vanno spostate a Crotone, subito, è un ordine, salite sull'interregionale senza fare storie.
In realtà pare che Forsyth, dopo avere radunato e disarmato i Sioux, non sapesse bene che fare. Secondo altri osservatori, invece, c'era fin da subito l'intento di compiere una strage, o almeno la propensione a compierla: tredici anni prima, a Little Big Horn, Cavallo Pazzo e Toro Seduto avevano sconfitto e umiliato proprio il 7° Cavalleria, allora comandato da un altro “George A.”, il tenente colonnello Custer. Forse c'era voglia di chiudere i conti.
“Chiudere i conti”? Vendicare una sconfitta limpida, subita sul campo di battaglia, con un massacro vigliacco di civili inermi? Sì, certo, perché Little Big Horn non era considerata una sconfitta, ma un oltraggio alla civiltà. Come cantava Johnny Cash: “Non la chiamano vittoria indiana / ma sanguinoso massacro / Forse ci sarebbe stato più entusiasmo / se noi indiani avessimo perso.” (“Custer”, dall'album Bitter Tears, 1964).
Accadde tutto molto in fretta. I Sioux erano stanchi, infreddoliti e nervosi, fermi e tenuti sotto tiro da tante, troppe ore.
Qualcuno di loro cominciò a danzare. Altri seguirono l'esempio.
I bianchi si agitarono. L'ordine di smettere di danzare rimase inascoltato. Forsyth fece puntare contro la piccola folla quattro cannoni Hotchkiss.
Al margine della scena un ragazzo, Coyote Nero, teneva in mano il fucile che era riuscito a nascondere il giorno prima. Un soldato cercò di strapparglielo di mano. Scoppiò un tafferuglio.
Proprio in quel momento lo sciamano Uccello Giallo, che guidava la danza, gettò in aria una manciata di polvere. Era parte del rituale, ma ai soldati sembrò un ordine di attacco.
I cannoni fecero fuoco.
Dissolvenza.
Come dicevo all'inizio, è il momento giusto per tornare a parlare di queste vicende. Ed è chiaro che questo film HBO non parla soltanto del West, ma anche di Iraq, Palestina, Afghanistan. Parla delle torture di Abu Grahib, delle detenzioni illegali a Guantanamo, dell'attacco dei Marines a Fallujah (ancora oggi ne sappiamo poco o nulla). Lo stesso Dick Wolf, il produttore del film, ha dichiarato a Usa Today: “La cosa che mi risuona in testa vedendo come ci siamo comportati allora e come ci comportiamo adesso, è il fatto che stiamo ripetendo gli errori del passato, cercando di imporre i nostri valori culturali a persone che non solo non li condividono, ma nemmeno li desiderano.”
Del resto, fu già così per il libro, uscito nel '70 in piena guerra del Vietnam: leggendo dello sterminio dei bisonti, veniva alla mente la distruzione della giungla vietnamita col famoso diserbante “Agente Orange”. In entrambi i casi, si distrusse un intero ecosistema per piegare un nemico. Gli Americani usarono quaranta milioni di litri di Agente Orange, sperando di snidare i guerriglieri Vietcong. Quasi quarant'anni dopo, la gente di quelle zone continua a morire di tumore, e i bimbi nascono con malformazioni.
Il cast raccoglie tutti gli attori nativi americani visti al cinema negli ultimi anni, da Adam Beach (telegrafista navajo in Windtalkers di John Woo ed eroe di guerra in Flags Of Our Fathers di Clint Eastwood) a Wes Studi (protagonista di Geronimo di Walter Hill e indiano cattivo ne L'ultimo dei Mohicani di Michael Mann) che qui interpreta il profeta Wovoka, fino ad August Schellenberg, che ne Il Mondo nuovo di Terrence Malick interpretava capo Powhatan e qui interpreta Toro Seduto. Non è la prima volta: era già stato Toro Seduto in un altro film per la tv, Crazy Horse, nel 1996.
Uno degli elementi di interesse di Bury My Heart è che tenta di adottare un punto di vista “meticcio”: mentre cercava di distillare le mille storie contenute nel libro, lo sceneggiatore Daniel Giat si è reso conto di aver bisogno di un personaggio che avesse un piede in ciascuno dei due mondi, quello bianco e quello indiano. Cercando quel personaggio, si è imbattuto nella figura di Charles Eastman (Adam Beach), medico e scrittore di origine sioux ma educato in un contesto europeo, laureato, convinto che gli indiani dovessero “civilizzarsi”, integrarsi nel mondo dei bianchi, eppure lacerato, triste per la perdita delle tradizioni del suo popolo.
L'altro personaggio storico su cui si concentra il film è il senatore repubblicano Henry Dawes (Aidan Quinn), uno che aveva buone intenzioni, voleva che gli indiani diventassero agricoltori, per ogni famiglia un lotto di terra da coltivare. Gli uomini rossi sarebbero diventati a pieno titolo cittadini degli Stati Uniti. Per far questo, era necessario dissolvere i vincoli tribali e di clan. Per Dawes, la cultura indiana era l'inutile residuo di un inutile passato. I suoi sforzi legislativi e amministrativi furono una catastrofe per le persone che pensava di aiutare. I tentativi di trasformare gli indiani in contadini furono fallimentari, le terre assegnate erano scadenti, carestie e malnutrizione ebbero effetti devastanti. Quando ci si rese conto che era un vicolo cieco, ormai non si poteva tornare indietro: del vecchio mondo indiano rimaneva poco o nulla.
Va detta una cosa: il film è troppo corto per la storia che vuole raccontare. Dura soltanto due ore e un quarto, sceneggiatore e regista (il canadese Yves Simoneau) sono costretti a procedere di fretta e alcuni attori sono davvero sotto-utilizzati. Wes Studi / Wovoka dice solo poche battute, ed è un peccato. Se la HBO avesse investito in una miniserie (come fecero Spielberg e la Dreamworks nel 2005 per Into The West, sei puntate da due ore), ogni personaggio avrebbe avuto il tempo di crescere, svilupparsi, toccare tutte le corde dello spettatore. Così, invece, momenti di grande intensità si alternano a sequenze tirate via, e il “mestiere” degli attori (Schellenberg è un magnifico Toro Seduto) non basta a tenere l'amalgama. Anche la sceneggiatura ha dei problemi, alcune “licenze poetiche” sono eccessive, quando non vere e proprie boiate, come la scelta di far combattere Charles Eastman a Little Big Horn, che è come dire che Edmondo De Amicis partecipò alla spedizione dei Mille!
Fin qui i limiti, ma il film ha diversi meriti, su tutti quello di aver avvicinato a un libro fondamentale una generazione giovane che lo leggerà con occhi nuovi. E quella della HBO è una realizzazione importante anche per il ponte culturale che getta verso il Canada, vicino scomodo e coscienza critica del Nordamerica, nel momento in cui perfino il Washington Post chiude il suo ufficio di corrispondenza a Toronto. Il regista Simoneau è del Québec, gli attori indiani (a partire dagli stessi Beach e Schellenberg) sono quasi tutti canadesi e le riprese sono avvenute in Canada, nei dintorni di Alberta.
Noi Wu Ming ce n'eravamo accorti scrivendo il nostro romanzo Manituana, che racconta della lotta degli indiani irochesi all'epoca della guerra d'indipendenza americana: se vuoi mettere le dita nelle piaghe degli Stati Uniti, devi per forza passare per il Canada, perché quella nazione è quasi un presente parallelo, è la parte di Nordamerica dove George Washington e compagnia non riuscirono a esportare la rivoluzione, è tutto ciò che di “non-USA” esiste in America. I conservatori americani lo sanno, e non nascondono la loro antipatia per il paese limitrofo, antipatia cresciuta negli anni della presidenza Bush dopo che il Canada si è rifiutato di partecipare all'invasione dell'Iraq. Secondo i sondaggi, nel 2003 il 66% dell'opinione pubblica canadese era contrario alla guerra, e il 33% si diceva contrario anche nel caso l'ONU avesse dato il suo avallo.
Nel 2006 è stato eletto - di stretta misura - un governo più vicino alle posizioni USA, ma il Canada rimane un dirimpettaio da guardare con sospetto. Per questo noi Europei dovremmo guardarlo con grande interesse.
Torniamo a Wounded Knee. Oggi il luogo della carneficina è dentro la riserva sioux di Pine Ridge, è diventato un centro abitato ed è ancora un magnete dell'immaginario collettivo. Al “ginocchio ferito” hanno dedicato canzoni Johnny Cash (“Big Foot”), Nik Kershaw (“Wounded Knee”), i Redbone (“We Were All Wounded at Wounded Knee”), Toad the Wet Sprocket (“Crazy Life”), Five Iron Frenzy (“The Day We Killed”), Primus (“Wounded Knee”) e il figlio di Cat Stevens, Yoriyos (il suo album s'intitola Bury My Heart At Wounded Knee).
E quel posto è stato teatro di un altro storico “incidente”.
Dal febbraio al maggio 1973, più di ottant'anni dopo il massacro, Wounded Knee viene occupata per oltre due mesi da duecento militanti armati dell'American Indian Movement, la più importante organizzazione rivoluzionaria nativo-americana.
I leader dell'occupazione sono Dennis Banks e Russell Means. Quest'ultimo diventerà discretamente famoso come attore (è capo Chingachgook ne L'ultimo dei Mohicani), per poi lanciarsi in (dis)avventure politiche al limite del demenziale. A un certo punto si candiderà pure alle primarie repubblicane per la Presidenza!
Gli scopi dell'AIM sono due: protestare contro l'amministrazione della riserva, ritenuta corrotta e autoritaria, e costringere il governo federale a rispettare un vecchio accordo con i Sioux, il trattato di Fort Laramie del 1868.
Polizia e FBI assediano il villaggio, posizionano mitragliatrici, lanciagranate e addirittura veicoli corazzati. Nelle settimane che seguono si verificano molte sparatorie, due occupanti rimangono uccisi e un agente federale resta paralizzato dalla cintola in giù. Alla fine l'AIM tratta la propria uscita dal villaggio.
Nei mesi e negli anni successivi, la tensione tra abitanti e FBI provoca altri incidenti nella riserva. Il più grave, nel 1975, culmina nell'uccisione di due agenti, doppio omicidio per cui viene accusato e condannato all'ergastolo l'indiano Leonard Peltier, oggi il detenuto americano più famoso nel mondo insieme all'ex-Pantera nera Mumia Abu-Jamal.
Tante storie che si chiudono a cerniera, dente su dente, unendo la conquista del West alle guerre globali di oggi.
C'è un classico del cinema horror, un film del 1982 oggi semi-dimenticato, Poltergeist di Tobe Hooper. Racconta di una casa costruita su un antico cimitero indiano. Gli spiriti di quei morti si manifestano... attraverso la TV, e spostano e distruggono oggetti, mobili, suppellettili. E' quello che sta succedendo: tutta la nostra civiltà è costruita su uno sconfinato cimitero, e a volte quegli spiriti si manifestano attraverso la TV. Lo hanno appena fatto le vittime di Wounded Knee, scegliendo il più prestigioso canale via cavo americano.
A ogni generazione gli spiriti tornano a danzare e c'è un risveglio d'interesse per gli indiani d'America, un “revival” che influenza la cultura e i modi di stare al mondo. La resistenza indiana è emblematica, rappresenta tutte le resistenze possibili e impossibili. Per questo, ogni volta, quei racconti ci toccano il cuore. Gli indiani siamo noi. Siamo tutti superstiti di stragi di bisonti e abbattimenti di foreste, e abbiamo un pianeta da difendere. Tuo nonno cantastorie era Wovoka. Tuo nonno partigiano era Geronimo. |