N.B. Questa distesa di commenti è un campionario di "fossili" da web. Tra le pagine più antiche di questo sito (e mai "rinfrescate"), risalgono a cinque-quattro anni fa. Wumingfoundation.com era mooolto rozzo e primitivo: niente css né javascript né php, solo crudo html statico coi comandi "classici", <font>, <p>, <b> etc. Immagini cacciate in fretta in mezzo al codice, a volte "scalettate". Incoerenza di stili del font: verdana, arial, helvetica... La vita era meno elegante, prima dei css.
Quando ci arriveranno nuovi commenti, creeremo nuove pagine (the way we do it today) e a queste si giungerà mediante link. Grazie per l'attenzione. (WM, aprile 2005)
 
Marcello Savini(*),
intervento introduttivo alla presentazione di Asce di guerra
Fusignano (RA), 10 maggio 2001

 

Nel novembre scorso ricevetti una telefonata da mia figlia, che mi comunicava di avere letto il secondo libro degli autori che avevano firmato col nom de plume Luther Blissett il romanzo einaudiano Q. Questo secondo romanzo s'intitolava Asce di guerra (Marco Tropea Editore) ed era stato scritto da loro col nuovo nome Wu Ming in collaborazione con un certo Vitaliano Ravagli, di cui lei non aveva mai sentito parlare. "Una storia pazzesca, un protagonista del tutto straordinario", così si espresse, invitandomi, o meglio, ingiungendomi di leggere il libro, perché, si sa, gli inviti dei figli sono ordini inflessibili e ineludibili. A dire la verità, mi fido molto dei gusti e dei giudizi letterari di mia figlia.
Avuto il libro, lo lessi con crescente curiosità e crescente persuasione di trovarmi di fronte a pagine veramente insolite per la straordinarietà delle cose narrate e per la forza della scrittura; pagine lontanissime dalle esangui effusioni psicologistiche o dal gratuito e truculento pulp di tanta narrativa contemporanea.

A mano a mano che procedevo nella lettura, andavo scoprendo un versante etico-comportamentale che non sospettavo fosse esistito, seppur limitato, nell'ambito della sinistra italiana. Io ho letto molto su fascismo, antifascismo, socialismo, comunismo, capitalismo, colonialismo, imperialismo, Resistenza, guerra civile, guerra di classe. Leggendo il racconto della vita di Vitaliano Ravagli, mi affacciavo su una esperienza di impegno politico e civile e di lotta armata, che mi rimandava a quella ben più ampia e partecipata, ben più conosciuta, della quale erano state protagoniste le brigate internazionali nel fuoco della guerra civile spagnola del 1936-39. Mi venivano in mente le pagine di Nitti (Il maggiore è un rosso), di Rosselli, di Nenni, di Orwell, di Bernanos e di tanti altri.

Tale fu, lo confesso, la sorpresa e, insieme, lo sconcerto, che cominciai a parlarne con molti. Non vorrei illudermi, ma credo di avere indotto diversi amici a leggerlo.

Per diverso tempo mi sono chiesto: "Ma questo Vitaliano Ravagli, un mio coetaneo, un romagnolo come me, dove vive, cosa fa, che tipo è?" Sono arrivato perfino a dubitare della sua esistenza, nonostante le delucidazioni finali che chiudono il volume; ho pensato che fosse una totale invenzione letteraria degli abilissimi autori di Q.  Anche là una vicenda individuale si fondeva con la grande storia, quella delle guerre di religione del sec. XVI: c'era la fede, il fanatismo, l'amore, il sesso, la feroce e livida vigilanza di chi detiene il potere, la sanguinaria volontà di reprimere il libero esame e il libero arbitrio. C'era competenza storica e una felicissima fusione fra reale e immaginario. Un vero romanzo storico, misto di storia e invenzione, per dirla con Alessandro Manzoni, senza concessioni al pittoresco. Etica e rigore di matrice protestante conferiscono a quel romanzo un'aria severa.

Chi era, dunque, Vitaliano Ravagli?

Poi mi arriva l'invito degli amici fusignanesi a presentare Asce di guerra e ricevo le prime sicure notizie: Ravagli abita a Massalombarda, ha scritto da solo altri due libri, il secondo dei quali I sentieri dell'odio è del tutto propedeutico a questo. Accetto immediatamente. Ottengo anche il numero di telefono di Ravagli e mi metto subito a rileggere Asce di guerra e a leggere I sentieri dell'odio. Telefono, piuttosto emozionato a Ravagli. Una voce gentile, pacata. Ci accordiamo per incontrarci. Così un fantasma ha preso corpo e ho potuto stringere la mano che ha scritto quelle pagine che raccontano una vita difficile, difficilissima, drammatica, con risvolti profondamente umani, dove rivolta e pietà, violenza e tristezza s'intrecciano con eccezionale forza evocativa.

Vitaliano Ravagli è qui ed io non devo sottrarre troppo tempo alla sua testimonianza diretta.

Mi limiterò a esporre rapidamente il contenuto di questo singolare libro che meriterebbe una trasposizione filmica, tanto energica è la figura del protagonista e tanto drammatici sono i fatti narrati.

Io definirei il romanzo una continua ricerca, una inchiesta appassionata di verità e di giustizia; a cominciare da quella del giovane avvocato 'alternativo' Daniele Zani, difensore di immigrati a Bologna, che si mette sulle tracce del nonno "Soviet": quest'ultimo è un personaggio inventato, ma è l'espediente narrativo, il tramite fra il giovane trentenne e un mondo ormai rimosso, purtroppo rimosso dalla coscienza collettiva delle nuove generazioni del nostro paese: quello della lotta partigiana, quello di una generazione di giovani che in tanti bruciarono la loro giovinezza durante un anno e mezzo terribile, in un quadro orrendo di massacri, di sadismo, di esaltazione, di ansia palingenetica e di furore apocalittico. La buona fede non salva storicamente e politicamente chi si battè al fianco dei creatori di Auschwitz, per la barbarie contro la civiltà. Perché per la civiltà combatterono e anche morirono i partigiani comunisti, socialisti, cattolici, mazziniani, liberali e, anche, monarchici. Dai barbari furono massacrati gli 11.000 soldati italiani di Cefalonia. Da qui e dalla Resistenza nasce un'Italia non fasulla.

Le macchie, inevitabili in una guerra civile, non deturpano un movimento esploso, non dimentichiamolo, dopo venti anni di dittatura e nel corso di una guerra scatenata criminalmente dal nazifascismo. Chi discetta oggi sulla Resistenza emettendo superficialmente assoluzioni e condanne, privo  delle necessarie letture, denuncia la sua incultura storica, il suo zotico qualunquismo e, soprattutto, la sua incapacità morale e intellettuale di calarsi in una situazione devastante come quella del '43, del '44 e del '45.

I padri cacciati nella fornace della Grande Guerra, i figli dispersi sui fronti della 2^ guerra mondiale, equipaggiati in modo miserabile e scaraventati contro grandi potenze industriali.

Ritorniamo al libro. In quella situazione di violenza, di terrore, di fame e di malattia cresce il giovane Vitaliano. La sua formazione e le sue scelte ideologiche ed esistenziali vengono da lui raccontate in prima persona, in capitoli che si alternano a quelli raccontati dall'avvocato Zani che segue la trafila degli ex-partigiani e che verrà casualmente a sapere di Vitaliano (ma egli non ne conoscerà per nolto tempo il nome) e di altri comunisti italiani combattenti nel sud-est asiatico.

Altri capitoli, i meno agevoli a leggersi, contengono la storia di quegli stati lontani, la storia dell'Indocina, ossia del Laos, della Cambogia, del Vietnam.

Le due inchieste, quella di Zani che cerca Ravagli e, insieme le proprie radici ideali e morali, e quella di Ravagli che cerca se stesso, si muovono lungo itinerari complicati, sorprendenti per il primo, durissimi e sconvolgenti per il secondo.

Zani, dietro i suggerimenti di Guido, barista-scacchista-comunista saggio, scopre un mondo di uomini forti ma delusi, anche perché stati preda di eccessive e astratte illusioni (che la grande storia, vedi la guerra fredda, ha bloccato). Si leggano le pagine amare sull'amnistia del 1946.

Ravagli ripercorre la sua storia che ha, come per tutti quelli della nostra generazione, nella guerra o, per meglio dire, "int e' pasag de front" il termine a quo. La vita nella grotta sulla riva sinistra del Senio è animalesca; nell'umidità, come topi, la fame è tremenda. Il piccolo Vitaliano è l'unico della famiglia, con la piccola mamma, a uscire per procurarsi cibo (pp. 80-83). Iniziano i 'sentieri dell'odio' che compongono un vero e proprio trionfo della morte.

La vita di Vitaliano adolescente si configura come una lotta continua contro le iniquità e i soprusi, che non lo fiaccano. Direi proprio che nomina sunt consequentia rerum: il protagonista è Vitaliano di nome e di fatto!

Zani si muove verso l'intercettazione di Ravagli, di cui la storia del friulano Fausto Ferro è una sorta di anticipazione.

Vitaliano cresce e diventa uomo accumulando giorno dopo giorno un incommensurabile odio contro chiunque approfitti della fatica e del sudore di altri. Non definirei corretta una lettura rigidamente ideologica del racconto; corretta è, a mio avviso, una lettura in chiave umana, direi etica, anche se la guerra che Ravagli dichiara al mondo degli oppressori sfocia nella violenza, addirittura nella ferocia, com'egli stesso con animo sofferente ammette.

Munirsi di una pistola è il primo gesto di quella dichiarazione, un passo per uscire dalla solitudine. Ciò che colpisce nel racconto di Vitaliano è anche l'insorgenza dell'umorismo all'interno di situazioni serie, di prove importanti, come quella dell'iniziazione sessuale (p. 136). L'umorismo, si sa, è una gran dote delle 'leggere', 'al liger', 'i birichèn', 'al canai'. Naturalmente è un complimento che faccio a Vitaliano.

Zani attraversa la storia della resistenza emiliano-romagnola che registra fatti eroici e terribili e le pagine nefande della sadica ferocia esercitata dai brigatisti neri sui sedici giovani partigiani del pozzo della Becca a Imola. Un orrendo episodio stranamente poco noto.

Capitolo dopo capitolo si snoda la marcia di avvicinamento di Zani a Ravagli.

Non posso né debbo seguire tutte le vicende narrate. Osservo, soltanto, che il duro ribellismo del giovane Vitaliano diventa inflessibile e giunge al punto di rottura: né l'inserimento nel mondo del lavoro, che gli si mostra iniquo e disumano, né l'esperienza all'interno del partito comunista lo addomesticano. Cresce l'insofferenza, cresce il ribrezzo che sfocia nella decisione di partire clandestino per l'Indocina, a combattere contro l'imperialismo francese e americano. "E mentre noi ci ostinavamo a rianimare un cadavere, nel resto del mondo nazioni ben più vitali prendevano in mano il loro destino e combattevano, per scrollarsi di dosso decenni di oppressione" (p. 213). Una valutazione, a mio avviso, rigidamente manichea.

 Io nel 1956 stavo avvicinandomi alla laurea in lettere e non avevo l'impressione di respirare fetore di morte. Volevo finire gli studi per insegnare e partecipare così a un movimento di emancipazione collettiva dall'ignoranza. I miei quattro nonni erano tutti analfabeti, mio padre aveva fatto la seconda elementare, mia madre la quinta. Ma, lo dico con tutta franchezza, capisco e rispetto la scelta di Vitaliano. Il perenne dissidio della sinistra italiana divisa fra riforme e rivoluzione. E quest'ultima propone anche le scelte estreme. Anche quelle terroristiche e sanguinarie delle brigate rosse, che, adepte di un verbo comunista pervertito, nulla avevano in comune con lo slancio ideale e umanistico di Vitaliano, che non è un avventuriero né un eroe; è un idealista. Sia chiaro che parlo sempre del personaggio che nel romanzo dice 'io', anche se Asce di guerra, per la parte che riguarda Ravagli, è un'autobiografia etichettata come romanzo. Il personaggio di Vitaliano è, dunque, un  idealista, un rivoluzionario in nome dell'umanità intera. Ma noi sappiamo anche dove l'idealismo possa condurre. Anche a sconfitte terribili. Solo Vitaliano può dirci se si sente uno sconfitto, non solo dalla storia , ma anche dal suo astrattismo ideologico. Da me, comunque, ha il massimo rispetto. Certe scelte pretendono un enorme coraggio. E la sua fu una scelta fatta in nome degli umiliati e degli offesi, dei dannati della terra.

Che l'Italia degli ultimi cinquant'anni non sia stata quella sognata da tanti partigiani, è vero, ma è andata paggio, molto peggio alle democrazie cosiddette 'popolari'. Cumuli di cadaveri stanno sotto il comunismo e cumuli di cadaveri stanno sotto il capitalismo., che dal suo seno ha generato colonialismo, fascismo e nazismo. L'utopia s'è tramutata in tragedia. Ma dell'utopia c'è necessità. Occorre rielaborarla su basi del tutto nuove.

La fame fisica e la fame di giustizia di Ravagli hanno una tale forza di verità che il lettore, o meglio, io lettore ho seguìto le vicende del protagonista con spirito di complicità, anche di fraternità.

La 1^ parte del libro si chiude con Vitaliano che incontra Zani, che resta sbalordito di fronte alla rivelazione che quello gli fa di essere stato nel Laos a combattere.

La 2^ parte, quella occupata dall'esperienza fatta nel Laos, non è lettura per anime belle, non è letteratura consolatoria. Vitaliano Ravagli là ha trovato, come suol dirsi,( e l'espressione in questo caso può sembrare volgare), pane per i suoi denti; si è imbattuto in situazioni terribili, ha ucciso. Sono pagine senza baldanza; c'è la paura, c'è la coscienza che lo turba. Vitaliano Ravagli, lo ripeto, non è assolutamente un avventuriero. Sono pagine di grande impatto emotivo, scritte con stile asciutto e severo da un uomo morale (si leggano i due brevi capitoli 53 e 54).

Intanto Zani continua ad avvicinare vecchi combattenti della resistenza. Fra l'atteggiamento di Zani che accoglie le loro valutazioni senza replicare, senza obiettare un minimo dubbio (ce ne sono, ce ne sono degli scheletri negli armadi!) e quello tormentato di Ravagli, ho avvertito dissonanza. Il primo è il giovane che scopre un mondo sconosciuto e, scuotendosi dal suo disincanto e da una strisciante depressione, lo accetta con l'entusiasmo del neofita (finalmente ideali e passioni forti!); il secondo spinge lo sguardo dentro di sé e nella storia, con tormento, e risulta a me  convincente nella sua umanità ricca di sentimenti di compassione per gli amici, per i compagni di lotta e anche per le vittime.( da I sentieri dell'odio leggere pp. 110-111)

Ritornato a Imola dopo i tre terribili mesi laotiani, Vitaliano se ne allontana ancora nel 1958 e s'immerge di nuovo nel folto della giungla, da dove contempla nelle nuvole che intravede dagli spiragli della vegetazione i volti di sua madre e di suo padre (per inciso, rilevo la fortissima presenza della madre nel racconto di Ravagli). Il viaggio all'inferno continua. Al confronto i cortei e gli scontri delle tute bianche con la polizia in via Indipendenza appaiono eventi che ammazzano la noia. Non intendo liquidare scioccamente l'impegno dei 20-30enni di oggi nella lotta al turbocapitalismo selvaggio, ma ovviamente, per ragioni anagrafiche e quindi psicologiche, mi sento più in sintonia, pur non condividendone i tremendi esiti, con le ragioni dell'agire di Vitaliano. Avessi trent'anni anch'io! Non so immaginarmi tuta bianca accanto ai Wu Ming, ma mi piace pensarmi loro compagno di lotta 'amanê par ciapëli, ossia vestito per prenderle (le manganellate).

Nell'inferno del Laos si aprono oasi di poesia: le descrizioni della natura incontaminata dicono lo stupore di un animo sensibile (pp. 317 e 343)

La seconda permanenza nel Laos dura diversi mesi e segna irrimediabilmente quell'animo. Gli incubi gli morderanno il sonno per sempre. Scrive Ravagli: "Ero stanco di ammazzare, ne avevo ammazzati troppi". Parole che ripropongono alla nostra coscienza di uomini, credenti o non credenti, vissuti nel sanguinario secolo breve la grande legge della non violenza proclamata da Cristo in Matteo, 26, 52: "Rimetti la tua spada nel fodero, perché tutti quelli che impugnano la spada di spada periranno".

Da guerrigliero a rappresentante di elettrodomestici: l'inserimento, la normalizzazione, il matrimonio, una moglie  'meravigliosa'  (così me l'ha definita Ravagli ), due figli, un lavoro fra alti e bassi. La grande delusione ideologica.

Infine la notorietà, che arriva a gratificare l'irrefrenabile bisogno di raccontare una vita assolutamente eccezionale, una insopprimibile necessità di comunicare un'esperienza terribile nell'ansia, nella speranza che i serpenti smettano di strisciare nelle lunghe notti insonni.

(*) Marcello Savini è poeta e studioso delle culture e delle lingue romagnole.
 

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