Branco ’75

Unire quel che appare diviso: Salò e Amici miei, note per una visione comparata

di Wu Ming 1

“Ragazzi, come si sta bene fra noi, fra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi?”
– L’architetto Melandri (Gastone Moschin) in Amici miei

Due film del 1975

Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, Amici miei di Mario Monicelli.
[Nei titoli di testa c’è scritto “Regia di Pietro Germi”, per un errore. Doveva dirigerlo Germi, ma morì all’improvviso, e il film lo prese in mano Monicelli.]
Due film coevi, quasi simultanei, uno “alto” e uno “basso”. Due film dai destini molto diversi:
– Amici miei
è un film godibilissimo, quando esce nelle sale fa in poco tempo 7 milioni di spettatori paganti, poi vince due David di Donatello (miglior film + miglior attore protagonista) e diventa un culto di massa tramandato di generazione in generazione, stra-citato, continuamente ritrasmesso in tv.
– Salò viene sequestrato poco dopo l’uscita e a tutt’oggi lo ha visto poca gente: in tv non può essere trasmesso (è VM18), inoltre la visione è quasi insostenibile. E tra i pochi che lo hanno visto, pochissimi hanno voluto rivederlo.
Entrambi i film sono primi atti di trilogie:
– Quella di Amici miei è una trilogia non pianificata, decisa a posteriori grazie al perdurare del successo del primo film. Il secondo atto fu girato solo diversi anni dopo (arrivò nelle sale nel 1982).
– Quella di Salò è una trilogia mancata, abortita, interrotta dalla morte di Pasolini. Doveva chiamarsi “Trilogia della morte”, in contrapposizione alla “Trilogia della vita” (composta da Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte), che Pasolini aveva appena abiurato.

Le tre epoche di Salò

Film terminale, non soltanto perché è l’ultimo di Pasolini. “Terminale” come si dice di un malato ormai incurabile. Salò ci parla della fine, si svolge in uno spazio che comincia con “l’inizio della fine”, in un tempo simile ai “minuti di recupero” che l’arbitro concede al termine della partita.
Tre epoche: il 1944-45, gli anni Settanta, l’oggi (che si sposta sempre in avanti).
L’oggi è l’Italia neo-razzista, clerico-immorale e post-antifascista, berlusconizzata, spaccata in due come una mela. L’Italia in preda a un revisionismo storico ri-fascistizzante che da anni si esercita proprio sulla memoria pubblica delle due epoche/temperie inscritte in Salò: la Resistenza e gli anni Settanta.
L’oggi è l’Italia della guerra non dichiarata ma implacabile contro gli inferiori, i diversi e soprattutto le donne, uccise tutti i giorni da maschi angosciati dalla possibile perdita di controllo e potere (mariti, ex-mariti, fidanzati, padri, spasimanti etc.)

La musica è finita

Anche Amici miei è un film terminale. Assistiamo alla fine della “commedia all’italiana”. La “commedia all’italiana” era figlia della ricostruzione e del Boom. Era un sottogenere propulsivo, pieno di energie. Qui il Boom è finito, la spinta propulsiva si è esaurita, le energie residue si vanno dissipando. Il 1975 è l’anno dell’ultima edizione di Canzonissima, ed è l’anno in cui la FIAT, dopo più di vent’anni, chiude la produzione della 500.
Amici miei
è un film dolente, dietro il velo delle risate addirittura straziante. Ed è molto più… “pasoliniano” di quanto sembri di primo acchito.
A scanso di equivoci, chi sta scrivendo queste note ritiene Amici miei un capolavoro. Non solo e non tanto per le citatissime scene-chiave, quanto per ciò che le connette, ciò che sta “in mezzo” e/o rimane “sotto”, a fare bordone. Visione dopo visione, è proprio quello che sta “sotto” ad emergere: la connotazione melancolica, la “terminalità”. Per dirla in parole povere, le “scene tristi”. Le scene tristi sono magnifiche. I momenti di raccoglimento, in cui l’umore dei personaggi vira al cupo, al meditabondo. La mesta e mai apologetica voce off di Montagnani (uno dei segreti del film).
La principale “terminalità” di Amici miei ha a che fare col maschio e con le politiche di genere. Il 1975 è l’anno della riforma del diritto di famiglia, che intacca il potere maschile e patriarcale. Il “buco nero” intorno a cui gira il film è ovviamente il movimento femminista: la nuova donna turba, atterrisce e soggioga gli uomini (cfr. il rapporto di Mascetti con Titti, la giovanissima amante).
E la “vecchia” donna? E’ sempre contro di lei che i protagonisti del film si ri-compattano: nella sala da biliardo del bar di Necchi (esclusione della moglie di quest’ultimo), sulla rampa di lancio di ogni nuova scorribanda (esclusione delle mogli), al capezzale di Perozzi (rifiuto di comprendere le ragioni della vedova). Emblematico il rapporto totalmente anaffettivo di Mascetti (Ugo Tognazzi) con moglie e figlia, considerate zavorra e relegate in uno spazio di squallore.
La compagnia di amici ha un unico membro “romantico”, Melandri, che è soggetto a sbandate quasi stilnovistiche, crede di aver incontrato un’angelicata donna ideale (Donatella, già moglie di Sassaroli) e si discosta dalla misoginia del gruppo, finendo per rafforzarla. Anche in casi come questo, la donna è sempre elemento di separazione, di crisi della compattezza del gruppo. Il compagno debole, l’uomo che ha ceduto, diventa lo zimbello degli amici. Melandri, in ogni caso, resta deluso e torna alla congrega, al cameratismo maschile, alla confortevole misoginia dei suoi sodali. Non a caso è sua la frase citata in exergo, il rimpianto per non esser nati “tutti finocchi”, senza bisogno di compagnia femminile.

C’è un branco

Visione consecutiva e comparata dei due film, nell’ordine in cui giunsero in sala, ergo: prima Monicelli, poi Pasolini.
Situazione comune: quattro o cinque amici quaranta-cinquantenni, “branco maschile” di mezza età in una situazione di rapido declino del mondo e delle regole fin lì conosciute:
– fine degli anni verdi, dell’Italietta e del dominio patriarcale indiscusso in Amici miei.
– ultimi giorni del fascismo repubblichino in Salò;
Il branco si crea un mondo dove, fino all’ultimo istante, le vecchie consuetudini non solo si prolunghino, ma addirittura vengano esaltate, amplificate, portate all’estremo, a un eccesso inaudito.
Entrambi i gruppi di amici si adoperano in “trovate” e macchinazioni ai danni di soggetti più deboli. La visione consecutiva produce (rivela) un’escalation: burle articolate e crudeli in Amici miei; umiliazioni, stupri, torture e uccisioni in Salò. Il sadismo – ovviamente con diverse gradazioni – accomuna le due opere. Comune è anche la dimensione scatologica (= scherzi con la merda).

Gli spazi del branco / 1

In Amici miei il branco trova l’assetto definitivo durante una degenza di gruppo in una clinica (luogo di reclusione e separazione dal mondo), quando conosce il chirurgo Sassaroli (Adolfo Celi).
La clinica si trova in un luogo imprecisato della provincia toscana, viene raggiunta durante una “zingarata”, vagabondaggio che dura più giorni. Al principio si ha l’impressione che sia lontana dalla città, eppure è abbastanza vicina perché Sassaroli, in qualunque momento, possa lasciarla e unirsi alle imprese del gruppo.
In uno dei sequel del film, Amici miei atto III, la vicenda del branco si conclude circolarmente, com’era iniziata, in un luogo non dissimile: una casa di riposo per anziani, altro luogo di separazione dal mondo, con regole interne etc.
Anche la vicenda del branco di Salò – di cui non vediamo l’inizio, ma possiamo immaginarlo all’ombra del regime – si conclude in uno spazio chiuso, separato, con regole tutte sue: precisamente la villa in cui si svolge il film.
Questi spazi sembrano corrispondere alla descrizione che diede Michel Foucault (il Foucault degli anni ’60) delle “eterotopie”, luoghi distinti dagli altri perché esclusivi, sacri o proibiti, al cui interno si svolgono “crisi”, iniziazioni, passaggi da una fase della vita a un’altra, oppure vengono recluse “deviazioni”. Le due cose non si escludono, ogni “crisi” può essere considerata deviazione: un’adolescenza riottosa, uno stato di tossicodipendenza, una malattia, l’invecchiamento…
L’eterotopia può contenere in un unico luogo diversi “spazi”, non necessariamente concreti e perimetrabili, che funzionano in modi diversi e potrebbero sembrare incompatibili: nell’ultima sequenza di Salò c’è uno spazio del supplizio estremo (il cortile) e al contempo c’è uno spazio dello svago leggiadro (la stanza dove i due ragazzi ballano). Nella villa c’è sempre, accanto allo spazio delle performances sadiche rigidamente coreografate (della riduzione degli umani a pura mandria nuda) anche uno spazio della resistenza – anzi, della Resistenza – e della cospirazione. La cospirazione è scoperta e repressa dal branco,  ma un pugno chiuso levato al cielo lascia interdetti i dominatori e apre uno “squarcio” non previsto…
Anche nella clinica e nell’ospizio di Amici miei e Amici miei atto III c’è una compresenza di spazi: c’è lo spazio della disciplina, dei regolamenti, delle procedure sempre uguali, e c’è lo spazio dello scherzo, del “corpo grottesco”, della beffa a carattere genitale-scatologico. In Amici miei, la stanza dove è ricoverato il gruppo diventa presto un luogo a sé, dove le cose funzionano in modo diverso.
In apparenza, nelle rispettive eterotopie i due branchi hanno ruoli molto differenti, se non opposti:
– in Salò il branco è al potere (conduce il gioco della disciplina, domina le procedure), i “ricoverati” sono altri, sono i ragazzi e le ragazze che subiscono ogni angheria in un regime di internamento;
– in Amici miei il branco è ricoverato e contesta le procedure. Grazie alla burla – mutatis mutandis – il branco di Amici miei sembra creare uno spazio di contestazione dell’ordine.
Ma possiamo vederla a questo modo solo se ci scordiamo di Sassaroli. Sassaroli è al potere, è il primario, il capo supremo della clinica. Inizia il rapporto col branco esercitando su di esso un potere di costrizione. Gli altri all’inizio lo contestano, ma “contestatori” e “contestato” trovano subito un’alleanza (che durerà per il resto della vita), e soggetti terzi su cui rivalersi insieme.
Nell’eterotopia in cui il branco trova la composizione completa, lo spazio della contestazione e quello del potere si fondono, diventano tutt’uno.

Gli spazi del branco / 2

Un’altra differenza apparente è che il branco di Salò si muove sempre nello spazio chiuso della villa, mentre dopo la degenza di gruppo il branco di Amici miei è protagonista di autentiche scorribande all’aperto, attraversa in lungo e in largo lo spazio urbano.
Anche in questo caso, occorre guardare con maggiore attenzione per vedere la differenza sfumare.
Per il branco di Salò, lo spazio chiuso della villa è in realtà aperto. Aperto a qualunque delirio e dissipazione, a qualunque espressione crudele di godimento, a qualunque sforamento di limiti. Inoltre, il branco può uscire dalla villa quando vuole. Avendo pazienza, potrebbe uscire incolume anche dallo “spazio chiuso” che contiene la villa: il vicolo cieco della Repubblica di Salò. Lo spettatore storicamente edotto sa che in Italia, a differenza che in Francia, non vi sarà una vera epurazione (se non “dal basso”, in alcune zone, per mano dei partigiani) dei gerarchi e quadri fascisti e collaborazionisti, che in maggioranza vivranno tranquilli nell’Italia del post-Liberazione.
Insomma, è solo per le vittime che quello spazio-nello-spazio (la villa nel territorio della RSI) è irrimediabilmente chiuso.
Ed ecco l’analogia con l’altro film: la strategia che attuano i goliardi di Amici miei è di trasformare gli spazi aperti in spazi chiusi. Cercare il chiuso dentro l’aperto. Le beffe funzionano quando il branco riesce a intrappolare (anche letteralmente) le sue vittime, a limitarne i movimenti in modo che non possano uscire dalla cornice della beffa. L’amante contorsionista chiusa in valigia sarà il culmine di questa tendenza (episodio di Amici miei atto II), ma anche la sparatoria con gli immaginari “Marsigliesi” chiude uno spazio; anche l’irrompere della finzione “gangsteristica” al funerale del Perozzi chiude uno spazio e ancora una volta intrappola la vittima (il vecchio Righi).
Spesso la chiusura si ottiene bloccando un movimento: sei su un treno in partenza, in un’apoteosi di movimento, con la mente già nella dimensione del viaggio, ma quando ti sporgi dal finestrino per salutare, ecco che ti arriva un ceffone, e nell’attimo stesso del ceffone sei un bersaglio fisso, sei fermo, costretto in uno spazio (la cornice del finestrino, che è anche la “cornice” della beffa).
E che dire dello squallido seminterrato in cui Mascetti relega moglie e figlia?

Circeo, Ostia, Italia

I due film intercettano qualcosa di quel 1975, una sinistra vibrazione di fondo.
Un branco maschile borghese, goliardico e sado-fascista lo vediamo in azione a settembre, al Circeo, in una villa trasformata in luogo di sevizie e torture, ai danni di due ragazze.
Amici miei è già uscito e spopola nelle sale di prima visione. Pasolini, che sta ancora montando Salò, scrive del massacro. Polemizza anche con Calvino. Quel che scrive finirà nel libro postumo Lettere luterane, insieme alla “Abiura delle Trilogia della vita”.
E’ un nuovo branco, quello del Circeo? Pasolini sembra ritenerlo. Nella lettera a Calvino, descrive il branco del Circeo come figlio di una “nuova cultura” che si è affermata con il neocapitalismo e il consumismo, imponendo nuovi modelli e valori. I figli della borghesia sono avvantaggiati nella corsa per realizzarli, quindi si muovono prima degli altri, “con incertezza e quindi con aggressività”, e “si pongono come esempi a coloro che economicamente sono impotenti a farlo, e vengono ridotti appunto a larvali e feroci imitatori. Di qui la loro natura sicaria, da SS.”
D’altro canto: l’apparire stesso di quest’ultima similitudine (le SS); il fatto che Pasolini stia lavorando a un’allegoria metastorica come Salò; l’appartenenza dei tre del Circeo alla borghesia nera della Capitale, con rapporti che vanno fino all’eversione neofascista “storica”; tutto questo non può non far pensare a una continuità, a un’eredità tra branchi, a un passaggio di testimone da una generazione all’altra.
Interessante notare come tra il branco di Salò e quello di Amici miei vi sia la stessa distanza generazionale che separa quest’ultimo e quello del Circeo. I cinquantenni di Amici miei avevano vent’anni all’epoca di Salò; i tre del Circeo hanno trent’anni meno dei goliardi di Amici miei.
Di lì a poco, lo stesso Pasolini verrà ucciso – se Pino Pelosi dice il vero – da un branco maschile (malavitoso e/o neofascista).
Non è inusuale, nelle ricostruzioni e rievocazioni, vedere accostati Circeo e morte di Pasolini.
Certamente più inusuale – forse priva di precedenti – la lettura comparata di Salò e Amici miei.
Oggi sono in azione tanti branchi. Sono i pronipoti del branco di Salò, i nipoti del branco di Amici miei, i figli del branco del Circeo e di quello, per ora ipotetico, che uccise Pasolini.
E vi sono branchi che detengono potere politico. Che governano. Coetanei del branco del Circeo oppure più giovani.

Pasolini e Monicelli

“Speranza? Non ne ho e comunque la condanno con tutte le mie forze. La speranza è il vessillo, il segnale distintivo dell’ipocrisia. Tutti gli uomini politici incitano alla speranza. Dal paradiso dei democristiani, al benessere consumistico dei liberali, al sole dell’avvenire degli altri, chi non fa mozioni di speranza? E solo per prendere i battimani. Capita anche a molti colleghi scrittori che, per l’applauso, non mancano di far entrare nelle loro opere la parola speranza. Io non ci credo.”
Pier Paolo Pasolini, 1975 (cit. in: Luca Raimondi, Nient’altro che un sogno. Pasolini e la Trilogia della vita, Bastogi, 2005)

“La speranza è una trappola, è una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni. La speranza è di quelli che ti dicono che Dio… ‘State buoni, state zitti, pregate ché avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’Aldilà, perciò adesso state buoni… Tornate a casa, sì, siete dei precari, ma tanto tra due o tre mesi vi riassumiamo, vi daremo il posto…’ Quelli vanno a casa e stanno tutti buoni.  ‘Abbiate speranza’. MAI avere la speranza, la speranza è una trappola, è una cosa infame, inventata da chi comanda.”
Mario Monicelli, 25/03/2010, intervista a Raiperunanotte

[Senza per questo contraddirsi, Monicelli ricorre al verbo “sperare” pochi secondi dopo, quando dice: “Spero che finisca in una specie di… Quello che in Italia non c’è mai stato: una bella botta, una bella rivoluzione.”]


La fossa

Si ha l’impressione di essere rimasti, finora, sulla soglia di uno spazio più vasto, forse sul bordo di una fossa profonda (una fossa comune?), il cui contenuto è invisibile per via della nebbia. Lungo quel bordo ci muoviamo a tentoni. Intuiamo che, se la nebbia si alzasse, vedremmo qualcosa di spaventoso, di annichilente. Non si possono “chiudere i conti” con gli anni Settanta. Non ci sarà sollievo per l’interruzione di un rapporto divenuto morboso. Si continuerà a interrogare quel periodo, ci si torturerà nel raffronto con esso, perché lo sentiamo lì, sotto i piedi, il bordo della fossa.

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20 commenti su “Branco ’75

  1. […] avrete notato, Lipperatura funziona a singhiozzo. Se possibile, non perdete questo articolo di Wu Ming 1 sul nuovo Giap! versione blog. Parla di branco maschile. Parla di cinema. Non solo. […]

  2. “Salò viene sequestrato poco dopo l’uscita e a tutt’oggi lo ha visto poca gente: in tv non può essere trasmesso (è VM18), inoltre la visione è quasi insostenibile. E tra i pochi che lo hanno visto, pochissimi hanno voluto rivederlo.”
    Ho visto Salò, per la prima e unica volta, (difficilmente riuscirei a rivederlo, anche se sarebbe opportuno) circa quindici anni fa. Affittai una cassetta vhs per visionare il film. Fu difficile arrivare in fondo. Mi colpì moltissimo la fotografia, così moderna: sembrava una pellicola girata negli anni Novanta.
    Associo sempre questa opera di PPP alla storia della Banda Koch. Mi viene istintivo.
    http://archiviostorico.corriere.it/2000/novembre/24/romanzo_nero_Pietro_Koch_co_0_0011245103.shtml

  3. Il film di Pasolini è fondamentale per capire l’oggi. In Salò, ancora più agghiaccianti delle scene di tortura sono le storielle che il branco ama raccontarsi. Come osserva giustamente Nicola Lagioia: “La lingua del fascismo contemporaneo è […] una lingua eminentemente pubblicitaria: ironica, elementare, suadente. Berlusconi racconta barzellette”. http://www.nazioneindiana.com/2010/04/21/la-responsabilita-di-antonio-ricci-e-di-nicola-lagioia/

  4. Come polemista, negli ultimi tempi Lagioia è in stato di grazia. Nei suoi articoli scrive sempre cose illuminanti, trova gli esempi giusti, riduce la complessità senza banalizzare. La sua risposta ad Antonio Ricci è da antologia.

  5. Aggiungo che ci vuole fegato ad attaccare Antonio Ricci, che è solito rispondere a ogni critica con violente campagne ad hominem, ricorrendo a tutta la forza manganellatoria di uno show con milioni di telespettatori. Tempo fa avevano preso di mira Erik Gandini, colpevole di vilipendio al padrone per aver girato Videocracy. Con l’acuirsi della contraddizione, può darsi che il tele-olio di ricino venga fatto assaggiare agli scrittori rei di “sputare nel piatto in cui mangiano” (tipico argomento reazionario e qualunquista, quindi perfettamente nelle corde di Ricci).

  6. concordo con il valore cinematografico del termine etorotopia nei due film che analizzi. Non un paragone ma semmai un invito sarebbe provare ad accostare Salo’ con Ecco l’impero dei sensi, Pasolini con Oshima, non tanto per i contenuti “pornografici” o ” “scabrosi” quanto per la capacita’ dei due di creare dei buchi neri o spazi altri di cui sopra, una pratica liberatoria…

  7. “Creare spazi altri”, sì, questo è un aspetto determinante. Tra i due che ho analizzato, il film più “soffocante” e difficile da guardare è senz’altro Salò, eppure è Amici miei quello dove non si produce lo “squarcio”, quello più melancolico (proprio in senso clinico: identificazione completa con l’oggetto perduto, quindi niente elaborazione del lutto, quindi niente liberazione dalla perdita). E mentre nell’eterotopia di Salò la cospirazione costringe il potere alla repressione violenta, nell’eterotopia di Amici miei il potere (Sassaroli)… si unisce alla contestazione (i degenti), in una “doppia cattura” in cui il potere contesta e la contestazione si fa potere. C’è in Amici miei una radicalità nascosta, ovviamente imbevuta di pessimismo, che mi sembra tipicamente monicelliana.

  8. Anche io ho visto Salò molti anni fa, al cinema addirittura, una visione ancora più disturbante. Creare spazi altri è fondamentale. Al di fuori di quelli dove si giocano dinamiche di potere devastanti. Cosa ancora più difficile oggi, perché non c’è più solo la fabbrica, o il manicomio, o le carceri, oggi certi poteri (e il loro linguaggio) sono ovunque, nella vita di ogni giorno. Io mi ci sono spaccata la testa su queste tematiche, e continuano ad affascinarmi molto.
    I branchi di oggi sono anche quelli visti e sentiti in tutto l’immondezzaio della vicenda D’Addario e simili, è quella la cultura e il retroterra di questi maschi al potere, è il loro linguaggio, l’immaginario che coltivano e propinano.
    Penso che abbiamo bisogno di vedere quel qualcosa di spaventoso che si nasconde dietro le nebbie e che qualcuno ce lo deve raccontare. A che cosa serve scrivere, o fare un film, altrimenti?

  9. Dopo 300 un’altro gran bel pezzo cinematografico. Spero ne seguano altri e che un giorno siano anche pubblicati.

    Salò l’ho visto nei primi anni novanta in VHS presa a noleggio, pur non amando follemente il Pasolini regista ero curioso di vedere la famosa scena del girone della merda. “L’unica volta che mi sono coperto gli occhi guardando un film” mi aveva raccontato anni prima mio fratello che l’aveva visto al cinema. Io stoicamente ho resistito, nonostante i fascisti che si inchiappettano sotto il tavolo, che fanno pure più schifo di uno stronzo nel piatto. Fanno schifo non ovviamente per il loro atto contro natura ma per quella sorta di viscido cameratismo che esprimo in una maniera così animalesca da far rizzare i peli. Branco appunto, non solo quando violentano e uccidono ma anche quando fornificano fra di loro. L’omo-cameratismo di Visconti nella “Caduta degli dei” almeno era più romantico.
    A mio parere non ha senso dare giudizi estetici su questo film è veramente una cosa a parte. E’ un film che lascia il segno, che non te la senti di consigliare, che non sai dire se ti è piaciuto oppure no, ma che sai che non dimenticherai facilmente perchè è una ferita e purtroppo risulta una ferita ancora aperta. Il livello di violenza che viene espressa in questo film secondo me non è mai stato più raggiunto nel cinema tanto da far risultare la visone veramente a tratti insopportabile. Speri ingenuamente in un arrivano i nostri, ma i bastardi di Tarantino o i partigiani di Giacca stanno in altri film e così sei costretto a seguire il girone della morte da una fessura come i due fascitelli che teneramente concludo il film ballando e parlando delle proprie fidanzate come se tutto quello che accade ed è accaduto intorno a loro non sia mai successo. Proprio come il branco che dopo una violenza, un omicidio, uno stupro andrà a prendersi un caffè. Normalmente.

    La supercazzola un’altra volta, vo’ a cena.

    p.s. Post precedente Gomorra, qui Sodoma, non dico altro :-)

  10. Curioso come qui si stia parlando solo di Salò mentre su Lipperatura solo di Amici miei! :-)

  11. […] Branco ‘75 (una analisi dei comportamenti del branco, come lo si vede rappresentato nei film “Amici […]

  12. un ultima aggiunta: mi sembra interessante la scelta di due opere che rappresentano (mi si scusera’ la terminologia scontata e banale) il genere popolare e quello “alto”, i due poli entro cui si muove la cultura (altra parola da evitare, ancora scusa) e che formano uno spazio nevralgico entro cui captare le intensita` che oggi ci attraversano (si troppo deleuziano lo so) . Parlare solo della parte “alta” o di quella bassa sarebbe riduttivo ed incompleto….un sincero grazie

  13. E allora per “par condicio” e perché ne ho voglia, spendo due parole su “Amici miei”.
    Nel ’75 avevo undici anni e molti dei film, che non avevo ancora visto, li avevo vissuti carpendo frazioni di conversazioni e commenti che di solito si interrompevano in mia presenza. Alla fine associavo al film una scena a cui si dava un nome ben preciso. La scena della merda, come detto nel post precedente, per “Salò”, la scena del burro di “Ultimo tango a Parigi”, la scena degli schiaffi alla stazione di “Amici miei” e così via. Queste scene vivevano poi una loro sceneggiatura tutta personale nella mia testa. L’unica che avevo ricostruito in maniera abbastanza precisa, in quanto non erotica e scabrosa e quindi divulgata più chiaramente, era stata proprio la scena di “Amici miei”.
    Non avevo mai pensato all’allegra combriccola del film come ad un branco e sono assolutamente concorde con l’analisi di WM1 volevo solo evidenziare che, a mio parere, il branco di “Amici miei” è un po’ meno branco dei repubblichini di Salò, al di là ovviamente del diverso grado di crudeltà delle loro azioni. Una cosa è la “zingarata” e un’altra la tortura. A mio parere è un po’ meno branco perché le meschinità maggiori dei personaggi di “Amici miei” si manifestano soprattutto quando questi agiscono singolarmente e nel loro rapporto personale con le donne. La loro misoginia è certamente decantata in gruppo (tanto da rimpiangere il fatto di non essere tutti finocchi e quindi autosufficienti per l’unico scopo a cui serve il genere femminile) poi però questa misoginia la esprimono direttamente, per fortuna , non tutti insieme, ma solo nella loro sfera privata. Almeno questo è l’impressione che mi ha lasciato il film che ho visto l’ultima volta qualche annetto fa.

  14. Sono reduce da una due giorni romana con presentazione di Altai e inevitabilmente il discorso è caduto su Valerio Marchi, a cui il romanzo è dedicato, e sul suo prezioso lavoro di indagine e di analisi sullo street level della realtà italiana contemporanea, che in questo momento sembra interessare davvero a pochissimi tra gli intellettuali di questo paese. Credo che l’analisi di WM1 sia in risonanza con alcuni dei concetti e delle categorie interpretative di Valerio, che si occupò diffusamente di temi collegati al branco maschile italico, in particolare del momento in cui le pulsioni prepolitiche dietro a i comportamenti che lui definiva SMV (stile maschio violento) attraversano la soglia dell'”autenticità” e divengono ideologizzate oltrechè stilizzate.
    Detto questo, propongo un ulteriore grumo di analisi centrato su “Amici miei”. “Salò” l’ho visto molti anni fa, dovrei avere il coraggio di rivederlo, e credo proprio che lo troverò.
    L’eccesso sadico è costitutivo del potere, è il suo doppio osceno, la sua trasgressione inerente, la sua condizione di funzionamento. Poichè il potere non è un entità esterna ma una struttura discorsiva, poichè noi “siamo” il potere, il ragionamento sull’eccesso-di-potere è, in questo momento, centrale. In Amici miei, il branco maschile è solo apparentemente egualitario. Branco egualitario è del resto un ossimoro. Non è un “gruppo di amici”: è uno spaccato sociale. Le gerarchie sono chiare, implicite. Anche sull’ultimo gradino della gerarchia il sadismo, l’eccesso-di-potere, è presente. In questo senso “Amici miei” parla della pervasività del discorso-potere ed è singolarmente preveggente, sembra parlare della situazione dell’Italia contemporanea e della facilità di deviare l’attenzione della gente su bersagli in tutto e per tutto feticistici.
    Le burle perpetrate dal gruppo del film di Monicelli sono una forma di godimento particolarmente idiota, masturbatorio, solipsistico. Il gruppo di amici non fa, in fondo, che masturbarsi a vicenda. La zingarata è un paradossale “vizio solitario” collettivo. Anche questo è interessante, e molto contemporaneo.

  15. Sembra che il modello descritto da WM1 non sia ancora esaurito, ma anzi sia più “funzionante” che mai:

    http://www.youtube.com/watch?v=UY3dgk_5hFc

  16. […] Wu Ming 1 dimostra con estrema perizia d’analisi e citazioni come Salò e Amici Miei siano lo stesso film. Si aprono prospettive inaspettate per la programmazione serale di Rete […]

  17. @eFFe
    e su youtube ha raccolto dei commenti di un entusiamo sincero :-)

  18. Infatti! Fioccano le esortazioni a defecare :-)

  19. Parenti neri

    Comunque vada, il cerchio si chiude divinamente, nel senso del “Divino marchese”, ovvero lui, l’autore de Le centoventi giornate di Sodoma, che Pasolini adattò per il cinema spostando l’azione dal Settecento francese al Novecento italiano.

    Il libro maledetto dell’internato a Charenton mutuava il modello del Decameron di Boccaccio: che fuori impazzi o meno la peste o qualunque altro malanno (nel film si tratta della guerra civile e della Resistenza), ci si chiude in uno “spazio altro” (un’eterotopia) e si raccontano storie, si fanno… esperimenti. L’origine di questo tòpos è toscana, fiorentina.

    Quando l’anno scorso ho iniziato a buttare giù appunti su Salò e Amici miei (come proposta per un seminario del DAMS di Torino che poi non si è fatto), non sapevo nulla di progetti di remake/prequel. Ho lavorato sulle corrispondenze tra due film in apparenza molto diversi, ritrovandovi un andamento comune.

    Adesso Neri Parenti mescola in modo esplicito Amici miei e Decameron. Sta discendendo – seppure in modo sgraziato – l’albero genealogico della goliardia. Dubito sappia che un grosso ramo dell’albero è la linea Pasolini-Sade-Boccaccio. La frase “Come tutto ebbe inizio” ha echi più sinistri, se per scendere si passa da Salò e da Sade (e si gioca un po’ col nome-cognome del regista).

    Tutto questo per il produttore a cui, dieci anni fa, dedicammo il nostro racconto “Benvenuti a ‘sti frocioni 3” :-D

  20. Intervengo con molto ritardo. Grazie a youtube e un’estate a Buenos Aires ho solo ieri potuto vedere AMICI MIEI.
    Concordo con tutto e in particolare con l’evocazione di quel libello, Stile Maschio Violento, di Valerio Marchi.
    Aggiungo solo che, in questo cineclub improvvisato e “agratisse”, ho anche potuto vedere GRAZIE NONNA: un altro film di quel 1975 con protagonista Giusva Fioravanti. Che, nel film, interpreta sé stesso, ossia un “borghese nazista”.

    Su “sperare contro ogni speranza” la letteratura è grande. Rimando agli auguri di Marino Severini (GANG):
    http://www.the-gang.it/wordpress/news/3678/sperare-contro-ogni-speranza-gli-auguri-di-marino-severini-per-il-2012/