[La salvezza di Euridice, scritto da WM2, è il saggio che conclude il libro più odiato dai nostri detrattori, New Italian Epic. Narrazioni, sguardi obliqui, ritorni al futuro (Einaudi, gennaio 2009). LSdE è un testo a cui teniamo molto, il più vicino a una compiuta dichiarazione di poetica del collettivo Wu Ming: spiega cosa sono per noi le narrazioni, come vogliamo svolgere la funzione di narratori, quali convinzioni stanno alla base del nostro lavoro in rete etc. Per un sovraccumulo di impegni, non lo avevamo ancora messo on line; oggi iniziamo a colmare la lacuna. Lo pubblicheremo su Giap in tre puntate settimanali. Buona lettura.
Sopra, frontespizio de L’Orfeo di Claudio Monteverdi, in un’edizione veneziana del 1609, particolare.]
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Quando si racconta una storia, è molto raro anticipare il finale.
Nello scrivere un saggio, invece, bisogna elencare da subito le principali conclusioni, i risultati della ricerca, così chi legge può decidere se vale la pena arrivare in fondo.
Stretto fra le due esigenze, proverò a dire qualcosa senza dire tutto.
Il testo che segue si divide in tre capitoli.
Il primo prova a rintracciare una missione per i cantastorie della nostra epoca. In un orizzonte culturale dove ogni contenuto sembra farsi racconto, quali narrazioni possono levarsi oltre il rumore di fondo? La risposta non ha alcuna pretesa di essere univoca. Da un lato, smentisce l’idea che la galassia narrativa sia ormai troppo estesa. Dall’altro, valorizza il ruolo delle storie come guadi attraverso la complessità, incerti passaggi che permettono di stare dentro il fiume e di arrivare all’altra sponda senza scavalcarlo
o scivolarci sopra.
Il secondo capitolo entra nel vivo di queste storie, le identifica meglio e cerca di capire come sono fatte. È un abbozzo di termodinamica della fantasia, per comprendere quali trasformazioni, linguistiche e narrative, permettano di passare da una realtà complessa al racconto che la interpreta, dai fatti della cronaca alla finzione che li tiene a galla.
Il terzo capitolo, infine, è una rivisitazione del mito di Orfeo, dove una piccola modifica alla storia, abbastanza giustificata da essere credibile, salva Euridice dalla seconda morte e sconfigge Ade, il dio dell’oltretomba.
1. Il «mondo nuovo» delle storie [91]
Calda notte di settembre, le vacanze appena finite. Dalla poltrona di un salotto televisivo, il ministro per la Pubblica amministrazione rende conto agli spettatori della sua famosa battaglia contro i «fannulloni». Come prossima tappa, dice che lancerà un concorso. Impiegati e dirigenti che lavorano bene, che fanno funzionare gli uffici, verranno invitati a raccontare la loro storia. Il ministero valuterà e pubblicizzerà le più belle. Ai vincitori, ricchi premi in busta paga.
Burocrazia e narrativa. Il binomio è degno di Kafka. Ma cosa spinge un ministro a raccogliere aneddoti edificanti, oltre a griglie di dati e relazioni tecniche?
Rispondere che sì, le storie vanno di moda, sarebbe ridicolo. Con la stessa leggerezza potremmo dire che va di moda pensare, baciarsi tra innamorati e mangiare il pane.
Eppure è vero che in molti ambiti le tecniche narrative vengono usate in maniera sempre più consapevole: dalla politica all’informazione, dalla scienza al marketing, dalla gestione aziendale alla psicologia.
Lo scrittore francese Christian Salmon ha trovato un nome accattivante per questa febbre di racconto. L’ha chiamata «nuovo ordine narrativo», evocando l’immagine di una macchina per plasmare le coscienze, catturare le emozioni, incitare al consumo.
Una macchina che è diventata la struttura portante, il motore stesso delle più svariate attività [92]. Di recente gli ha fatto eco Alessandro Baricco in un’intervista al «Corriere della Sera»:
Adesso tutto è narrativo: vai in una macelleria e il modo di esporre le carni è narrativo. Ormai è impossibile sentir parlare uno scienziato normalmente: anche lui narra. Lo stesso vale per i giornali, che hanno sostituito al settanta per cento l’informazione con la narrazione. E poi c’è la contaminazione con il marketing. Lì comincia il pericolo, così come quando lo storytelling entra nella comunicazione politica. Adesso sono diventati così bravi da riuscire a vendere quello che vogliono se riescono ad azzeccare la storia giusta [93].
Al di là dei toni iperbolici e grotteschi, l’allarme lanciato da Salmon e da Baricco esprime un pensiero diffuso. L’idea che il fiume delle storie abbia rotto gli argini e stia inondando la comunicazione. Un cataclisma simbolico che avrebbe in particolare quattro effetti nefasti:
1. l’idiozia collettiva;
2. la scomparsa dei fatti;
3. l’affabulazione obbligatoria;
4. l’inflazione dell’immaginario.
Prima di vedere nel dettaglio di cosa si tratta, è però necessario interrogarsi sulla premessa dell’intero discorso. Questa febbre narrativa è davvero una novità? La questione è importante perché le nuove patologie hanno bisogno di nuovi farmaci, mentre per i vecchi malanni potrebbero bastare i rimedi della nonna.
0. La novità.
L’uso di miti e narrazioni per diffondere valori e persuadere folle di individui è vecchio di alcuni millenni. Paul Veyne, rovesciando lo slogan del Sessantotto parigino, ha scritto che «l’immaginazione è al potere da sempre» [94]. Anche il faraone aveva scribi e sacerdoti incaricati di cantarlo come dio in persona. Anche nell’Antico Egitto si mescolavano le carte, confondendo religione, biografia, politica e mito. Martirologi, vite di santi, eziologie e genealogie hanno continuato a fare lo stesso lavoro per centinaia di anni. Benito Mussolini sosteneva che la cinematografia è l’arma più forte.
Nel marzo 2001, Silvio Berlusconi ha invaso le nostre cassette postali con un libello di centotrenta pagine, uno strano ibrido tra pamphlet, volantino, rivista di pettegolezzi, autobiografia, bollettino parrocchiale e dépliant pubblicitario. Si intitolava, guarda caso, Una storia italiana. Molti, nel riceverlo, hanno percepito un salto di qualità rispetto al passato. Ma la novità non consiste, come direbbe Salmon, nel fatto che oggi le storie sono usate per conquistare il potere e non soltanto, a posteriori, per giustificarlo. Hernán Cortés sottomise l’impero azteco giocando a suo favore segni premonitori e antiche leggende di Quetzalcoatl. Anche prima di Niccolò Machiavelli, l’arte di catturare il consenso si è sempre servita di favole e leggende. La vera differenza col passato è che adesso le storie arrivano direttamente a casa tua, saltando ogni mediazione, ogni filtro, come del resto accade a moltissime merci nell’èra del consumo capillare e personalizzato.
Quanto al marketing, l’uso di storie per vendere prodotti è vecchio come la pubblicità. Molto prima di Carosello, la American Tobacco Company riuscì a convertire le statunitensi al fumo, inventando il mito della donna emancipata con la sigaretta in mano. Il responsabile della campagna era Edward Bernays, nipote di Freud, considerato l’inventore dell’ingegneria del consenso [95]. Bernays inviò alcune modelle alla New York City Parade, dicendo ai giornalisti che un gruppo di donne avrebbe brandito «Torce di Libertà» nel corso della manifestazione. A un segnale convenuto, le ragazze si accesero una Lucky Strike. Il «New York Times» del 1° aprile 1928 raccontò l’intera storia sotto il titolo: Un gruppo di giovani fuma sigarette in segno di libertà. Ancora prima, a fine Ottocento, Angelo Mariani stampava una serie di album lussuosi, dove i consumatori più in vista del suo vino alla coca raccontavano in lettere autografe le loro esperienze con la bevanda. Papa Leone XIII scrisse che il tonico lo aiutava a stare sveglio nelle notti di preghiera.
Non è mai esistita un’età del mondo in cui la comunicazione fosse sganciata dal racconto e dalle mitologie depositate nel linguaggio. La narrazione non occupa un campo specifico (di mero intrattenimento) e non esiste un discorso logico-razionale «puro». Leibniz sperava che un giorno qualunque disputa si sarebbe risolta con un calcolo, ma per fortuna quell’alba non è mai sorta. Il positivismo ha sognato che la scienza potesse emanciparsi una volta per tutte dai suoi trascorsi filosofici e letterari, ma i maestri del sospetto – Marx, Nietzsche e Freud [96] – hanno rinvenuto tre cariche esplosive alle fondamenta dell’oggettività scientifica: gli interessi economici, la volontà di potenza e l’inconscio. Quest’ultimo è molto più vasto di quel che si credesse fino a trent’anni fa: non comprende solo istinti e desideri repressi. La scienza cognitiva ha scoperto che il pensiero lavora per lo più in maniera inconscia e che buona parte di questi meccanismi neurali richiamano strutture narrative [97]. Le storie ci sono indispensabili per capire la realtà, per dare un senso ai fatti, per raccontarci chi siamo.
Il «nuovo ordine narrativo», insomma, non è certo nuovo in quanto si serve di narrazioni. Tuttavia, i quattro effetti nefasti che ho elencato sopra potrebbero
dipendere da un’altra, innegabile novità: quella tecnologica. La televisione, le simulazioni digitali e la rete potrebbero aver modificato il nostro rapporto con le storie, rendendole potenzialmente tossiche. In maniera simile, la manipolazione genetica ha prodotto una cannabis con quantità industriali di principio attivo. Secondo alcuni, questo l’ha trasformata in una droga pesante, pericolosa quanto il crack. Secondo altri, il problema riguarda la cultura della droga. La temibile skunk va fumata in modo diverso dalla solita marijuana, così come la grappa si beve in modo diverso dal prosecco: non a calici, ma a bicchierini.
Se davvero le storie sono cambiate, bisognerà cambiare la cultura delle storie.
1. L’idiozia collettiva.
Nel «mondo nuovo» immaginato da Huxley, esistono due mezzi per cancellare il dissenso: il soma e l’ipnopedia [98]. Il primo è una droga sintetica, innocua, capace di allontanare qualunque preoccupazione. La seconda consiste nel bombardare gli individui con slogan edificanti e mantra ideologici, allo scopo di condizionare i cervelli.
Molte narrazioni tipiche della cultura popolare sono state accusate di essere peggio del soma. Studiate per rincretinire le persone, ma con effetti collaterali devastanti. Nel 1951, la compagna Nilde Iotti scrisse su «Rinascita» che «decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare del fumetto sono fatti collegati». Negli Stati Uniti, dopo la strage alla scuola di Columbine, salirono sul banco degli imputati il gothic rock e Buffy l’ammazzavampiri, una serie televisiva di genere horror.
Steven Johnson ha dedicato un intero libro [99] a confutare l’idea che le storie raccontate attraverso la televisione e la console siano stupide e destinate a peggiorare. I loro intrecci narrativi, al contrario, sono sempre più intelligenti, nel senso che mettono alla prova le nostre capacità cognitive. Quando si tratta di ascoltare, guardare, giocare una storia, il pubblico preferisce la complessità agli sviluppi semplici e lineari. Altrimenti non saremmo mai passati da Starsky & Hutch alle casalinghe disperate, da Pac Man a Sim City, dai vari 007 a Syriana. Questa è senz’altro una buona notizia, ma non tocca il problema dei contenuti. Un telefilm può essere molto complesso e allo stesso tempo legittimare la tortura, l’abuso di psicofarmaci e l’odio razziale. Christian Salmon si appoggia a un articolo di Slavoj Zizek [100] per dire qualcosa di molto simile a proposito di 24, la famosa serie Tv dove ogni episodio di un’ora rappresenta un’ora di una particolare giornata. Questa sincronia tra attuale e virtuale metterebbe il pubblico di fronte a uno stato di «emergenza normalizzata», un’eccezione permanente capace di sospendere ogni giudizio morale. La sezione antiterrorismo della polizia di Los Angeles può così permettersi qualunque cosa, perché il tempo corre e la città è in pericolo. Quello che non mi convince affatto in questo approccio alle storie e ai media è che lo studioso di turno trasforma la sua ipotesi critica, magari anche valida, nell’effetto che quella narrazione avrà sulla gente, come se il pubblico fosse una tabula rasa. Nell’èra dei forum, dei blog e delle chat non sarebbe difficile prendersi la briga di andare a guardare cosa fa davvero la gente con certi contenuti: discussioni, parodie, riscritture. Per ogni giudice Scalia della corte suprema, che cita l’eroe di 24 per giustificare gli interrogatori violenti, ci sono migliaia di fan convinti che la loro serie preferita voglia essere uno specchio dei tempi, di quel che l’America è diventata.
L’audience della cultura popolare non è mai stata passiva. Non lo era ai tempi del feuilleton, figuriamoci adesso. Una storia complessa è sempre ricca di sfumature e potenzialità, aspetti affascinanti e deludenti: difficile che possa addormentare la ragione. Piuttosto spinge a criticare, a raccontare ancora, a reagire in maniera creativa.
Nell’epoca della partecipazione [101], recepire un testo significa «farci qualcosa».
Un’altra fonte inestinguibile di soma, per i loro detrattori, sono i videogiochi e le simulazioni digitali, colpevoli di raccontare storie che assottigliano – quando non annullano – il diaframma che divide realtà e finzione. Così un adolescente esce di casa e pensa di poter sparare ai passanti come ha fatto sullo schermo.
Nel 1993, a Bussolengo, Verona, un branco di ragazzi di provincia uccise un’automobilista con una pietra gettata da un cavalcavia. Opinionisti a piede libero suggerirono un’analogia tra i videogiochi sparatutto e quel rituale omicida [102]. Anni dopo scoprii che sull’autostrada Firenze-Mare i primi lanci di sassi contro le auto risalivano al 1954, certo fomentati dal demoniaco gioco delle bocce.
Giornali e riviste dell’estate del 2007 annunciavano un giorno sì e l’altro pure l’imminente trasloco psichico planetario dentro Second Life, il mondo tridimensionale on-line. La circostanza sembra ben lungi dal verificarsi.
Negli anni Novanta ci hanno massacrato i neuroni con il sesso virtuale che avrebbe presto sostituito quello vero. Nessuno immaginava che proprio nel mondo iperreale del porno si stava insinuando una tendenza pressoché opposta, quella che Sergio Messina ha battezzato real core. Persone che amano mostrarsi e guardarsi in tutta la loro naturalezza: nude o vestite, nel salotto di casa o in cortile, con feticci o senza. Un traffico gratuito di foto e filmati digitali, con adulti consenzienti, e un’unica, contraddittoria regola estetica: niente finzione. Basta tette finte, ritocchi, set patinati. Se hai il seno flaccido e ti va di esibirlo, di sicuro in rete c’è qualcuno che ne sarà contento. Se non ti va di depilarti le ascelle, meglio ancora. Se la vasca dove ti fai il bagno ha le macchie di ruggine, sublime. Il fenomeno è di tali proporzioni che l’industria dell’erotismo patinato ha dovuto adeguarsi: dalle riprese filtrate per imitare una webcam, alle attrici meno in forma fatte passare per casalinghe che si pagano le vacanze con un po’ di porno.
Perfino il divo maximo dell’hard, Rocco Siffredi, nel tempo ha adottato uno stile più documentaristico, sostituendo la ripresa ginecologica (molto in voga negli anni passati) con inquadrature più larghe, filmando scene più lunghe e non delegando al montaggio (e quindi alla finzione) l’efficacia di una scena [103].
Chi è spaventato dall’emergere di tecnologie della simulazione dimentica che la tecnica è connessa all’inganno fin dai tempi di Prometeo [104]. La scienza si è sempre servita di modelli virtuali, cioè di metafore, anche quando sembrava che il suo unico linguaggio fosse la purezza della matematica.
Con questo non voglio sostenere che abitare in «realtà parallele» non abbia effetti sulla nostra vita sociale. Ce li ha eccome, ma proprio perché siamo, nella maggioranza dei casi, capaci di migrare da un mondo all’altro e di reggere allo stress da adattamento.
Molti citano come esempio negativo l’addestramento virtuale dei soldati, che li trasformerebbe in esseri insensibili per le conseguenze reali delle loro azioni. Eppure, l’ideale del guerriero-macchina è nato ben prima delle tecniche informatiche. L’equivoco di una guerra pulita, che sparge poco sangue, non nasce dai videogiochi militari, ma dall’uso compulsivo di termini come «bomba intelligente», «operazione di polizia internazionale», «danni collaterali», «guerra umanitaria». Jean Baudrillard è arrivato a sostenere che la Guerra del Golfo del 1991 non ha avuto luogo. Immagino che gli iracheni siano di un altro avviso. Si tratta certamente di una provocazione, ma mostra bene a quali equivoci possa portare la nostalgia di realtà, l’idea che tutto è simulato e non c’è nulla oltre quella finzione. Abbiamo un rapporto mediato, narrativo e metaforico con il mondo, ma questo non dipende da videogiochi e cyberspazio, e non significa affatto che il reale non esiste o che abbiamo perso la capacità di sentirlo. Occorre trovare un punto di equilibrio tra la «paura dell’apparenza» – con il richiamo illusorio e feticista, in stile real core, a una realtà oltre la finzione – e la «paura della realtà» – con l’esaltazione acritica di qualunque dispositivo faccia risorgere il reale in un paradiso artificiale [105].
Dunque niente soma, nel «mondo nuovo» delle storie? Nemmeno le fiction televisive in prima serata, con le caserme piene di angeli in divisa, tutori dell’ordine, e una – al massimo una – mela marcia, subito espulsa dal cesto? Credo si debbano tenere distinte le due prospettive. Da un lato c’è l’idea che le narrazioni possano appiattire l’encefalogramma e sprofondarci in un mondo fittizio. Ho cercato di dare qualche indizio che la situazione è davvero molto diversa. Dall’altro, c’è l’ipnopedia, e cioè il fatto che le storie, specie se raccontate spesso, aiutano a inculcare visioni di mondo.
John Bullock, uno scienziato politico dell’Università di Yale, ha condotto alcuni esperimenti interessanti sulla disinformazione. Ha preso un gruppo di progressisti e ha chiesto loro quanti disapprovassero il trattamento dei prigionieri a Guantánamo. Risultato: il cinquantasei per cento. Quindi ha mostrato alle cavie un articolo di «Newsweek» dove si raccontava di una copia del Corano buttata giù per il cesso della base americana. La percentuale dei critici è salita subito al settantotto per cento. Infine, ha fatto leggere a tutti la smentita della notizia, pubblicata dallo stesso giornale. La percentuale è scesa, ma solo fino al sessantotto per cento. Dunque la cattiva informazione ha effetto anche se viene smentita.
Altri colleghi di Bullock hanno preso due campioni di conservatori. Al primo, hanno fatto leggere le dichiarazioni di Bush sulle armi di distruzione di massa possedute dall’Iraq. Al secondo, hanno mostrato sia quelle dichiarazioni sia l’intero rapporto Duelfer, dove si conclude che Saddam Hussein non aveva armi di quel genere prima dell’invasione americana. Ebbene, nel primo gruppo, il trentaquattro per cento dei volontari ha dato comunque ragione a Bush, sostenendo che Saddam avrebbe nascosto o distrutto il suo arsenale. Nel secondo gruppo, la stessa tesi è stata sostenuta dal sessantaquattro per cento degli individui. Di male in peggio: le smentite possono addirittura rinforzare le false notizie [106].
L’idea che molte persone siano vittime di un incantesimo malvagio ha origine dal nostro scontrarci, ogni giorno, con esempi del genere. Questa gente non ragiona, ci diciamo, ha la mente controllata da un potere superiore. Consoliamoci, perché non possiamo farci nulla: è colpa dei giornali, è colpa della televisione, è colpa dei farmaci e delle droghe.
Niente di tutto questo. È il nostro cervello a funzionare così. Lo ha spiegato bene George Lakoff in un famoso aneddoto: se entri in una classe e ordini agli studenti: «Non pensate a un elefante», quelli subito ci penseranno, con tutto il contorno di grandi orecchie, proboscidi e zanne d’avorio [107]. Negare un concetto attiva quel concetto nella testa delle persone. Dire che «sicurezza non vuol dire più polizia», accende e rafforza i legami neurali tra quelle due parole. Il tentativo di aggiungere un’emozione negativa è inutile. Un’emozione non è un adesivo. Nasce se le si prepara il terreno. E non sarà una valanga di dati a sostegno della tesi a «far ragionare» chi non è già convinto.
La volontà di credere, più forte negli individui di qualsiasi evidenza, non è una scoperta recente. Lo psicologo William James, fratello del romanziere Henry, scrisse un saggio in proposito nel 1897. In esso sosteneva che le persone, piuttosto che restare nel dubbio e nell’inquietudine, hanno diritto di aggrapparsi a qualunque fede che non sappiano impossibile. Non posso credere che i miei cinquanta centesimi siano cento dollari, solo perché mi è impossibile agire come se lo fossero. Se però l’idea mi facesse star bene, e non fosse incompatibile con la pratica, avrei tutte le ragioni per sostenerla. Molti contemporanei criticarono James per questa strana teoria della razionalità. Oggi sappiamo che le sue intuizioni colgono aspetti importanti del nostro modo di pensare.
Le emozioni, lungi dal corromperla, sono un ingrediente fondamentale della ragione. Persone con danni cerebrali, incapaci di provare sentimenti e di riconoscerli negli altri, sono anche incapaci di scegliere per il meglio. Ci comportiamo in modo da essere felici, non per massimizzare l’utilità attesa.
Le storie sono efficaci proprio perché non si rivolgono solo a una parte della ragione, ma connettono emozioni e visioni del mondo, fatti e sentimenti. È un incantesimo potente, ma l’ipnosi non è mai totale.
George Lewi ha affermato che «i consumatori di oggi hanno altrettanto bisogno di credere nei loro marchi che i Greci nei loro miti» [108]. Può darsi, ma il fatto è che non esiste un solo modo di credere e ciascuno di noi può entrare e uscire in continuazione da questi programmi di verità, a seconda di quel che gli preme o che deve fare. Nel libro intitolato proprio I Greci hanno creduto ai loro miti?, Paul Veyne ha illustrato molte di queste apparenti contraddizioni.
I dorzè dell’Etiopia credono che il leopardo sia un devoto della Chiesa copta. Ciononostante, anche nei giorni di sacro digiuno si guardano bene dall’avvicinarlo. Nei racconti popolari dell’antico Egitto, il faraone fa spesso la figura del despota sciocco e presuntuoso. Eppure, sulla base dei racconti «ufficiali», diciamo che la gente del Nilo lo venerava come un dio. Anche gli imperatori romani erano considerati divinità, esseri capaci di magie, eppure gli archeologi non hanno trovato un solo ex voto offerto a loro. Quando avevano bisogno di un miracolo, i sudditi sapevano distinguere bene tra gli dèi «veri» e quelli «convenzionali». Infine, molti testi antichi dimostrano che proprio i Greci ridevano della pomposità dei loro miti politici, eziologie e fondazioni di città. Ci credevano, ma senza considerarli veri o falsi: erano retorica, buoni discorsi. Lo stesso potrebbe dirsi del nostro atteggiamento di fronte a molte pubblicità. In fondo, lo storytelling applicato non è molto diverso dalla retorica degli antichi, la scienza della parola e del racconto.
Se dunque esistono diversi modi di credere, il potere magico di una storia risulta ridimensionato, per lo meno in una cultura dove esiste il concetto di finzione, e dove molti bambini possono credere, nello stesso momento, che Babbo Natale porta i regali a tutti ma che i loro regali sono stati acquistati da mamma e papà. Nel cervello degli uomini possono convivere molte narrazioni, anche contraddittorie: una credenza non ne scaccia un’altra, più spesso la affianca, la infiltra e la cura con metodi omeopatici. Se il faraone vuol farci credere di essere il figlio del sole, continueremo a sbeffeggiarlo e a raccontare altri miti.
L’unica alternativa per non subire una storia è raccontare mille storie alternative.
2. La scomparsa dei fatti.
Se il quadro è quello delineato, dove vanno a finire i fatti? Viviamo in un tribunale dove le prove non contano più? Certo che no, le prove contano, però, ecco, a qualcuno dispiacerà, ma noi non viviamo in un tribunale. E in fondo anche un giudice ammetterebbe che i fatti non sono sempre cruciali, capaci di inchiodare cristi o di salvarli. Non esiste teoria scientifica che non si possa adattare per tenere conto di nuove scoperte. Il sistema tolemaico, con la Terra al centro dell’universo, non venne rovesciato perché non riusciva a spiegare le osservazioni astronomiche di Brahe, Copernico e Galilei. Ci riusciva, ma al prezzo di calcoli troppo complessi. Il sistema eliocentrico, invece, faceva la stessa cosa con meno fatica. Era più elegante, più economico, più bello. Venne scelto per questo. Grazie ai fatti, ma non per loro virtù.
Consideriamo adesso un fatto, un evento accaduto nel mondo: X ha ucciso Y. A parte i testimoni oculari, per tutti gli altri quel fatto sarà una frase in italiano, cioè la notizia che «X ha ucciso Y». L’elemento linguistico introduce subito una variabile in più. Per me che non c’ero, la verità di quel fatto dipende dal linguaggio e dal mondo. E dire linguaggio significa dire ambiguità, schemi concettuali, teorie, miti. Da qui l’idea che una buona informazione debba rinunciare alle tecniche narrative, essere pura di parole, metafore e opinioni. Se così fosse, la diretta televisiva sarebbe la migliore informazione, perché ci trasforma tutti in testimoni oculari. Inutile dire che anche le inquadrature, gli stacchi e i campi lunghi sono un linguaggio e che un buon regista può decidere in tempo reale cosa far vedere e cosa no. Ma anche ammettendo che le immagini ci raccontino quel che c’è da sapere, senza trucco e senza inganno, siamo sicuri che sia davvero tutto quello che ci serve?
La tragedia delle Torri gemelle è stata in gran parte trasmessa in diretta, ma non possiamo dire che quel racconto ci ha detto davvero ciò che volevamo sapere. La verità che ci interessa va ben oltre una descrizione dei fatti.
Oggi i mezzi di informazione dànno grande valore alla rapidità: bisogna bruciare la concorrenza prima che la concorrenza bruci la notizia. Nella fretta di uscire, molti giornalisti si concentrano sui fatti e lasciano perdere il resto: stile, scenario, collegamenti, un alfabeto delle emozioni che riempia lo spazio tra la A di ansia e la U di urgenza. Piuttosto che attaccare la mediazione narrativa delle notizie, bisognerebbe interrogarsi sul dilagare di un’informazione immediata, priva di un contesto e di un significato qualsiasi.
Siamo troppo influenzati dall’idea che comprendere è comprimere. Se voglio «capire» una serie di numeri, devo trovare una formula che generi la serie. Se però la formula è lunga quanto la serie, tanto vale farne a meno. Ci metto più tempo a scriverla che a ricopiare la serie per intero [109]. Allo stesso modo, una cartina di Milano grande quanto Milano sarebbe molto difficile da consultare. Spesso invece per capire due fatti bisogna collegarli tra loro e questo significa aumentare la complessità della rete. Se ci sono tre strade per andare da Bologna a Sasso Marconi e la provincia ne apre una quarta, più breve, rende forse più semplici i trasporti, ma più complesso il territorio. È scontato dire che una storia può raccontare soltanto un pezzo di mondo: il fatto notevole è che quel pezzo, dopo la parola fine, risulterà più denso di prima.
Per dare un valore ai fatti, perché contino davvero, abbiamo bisogno di interpretarli, di farli risaltare su uno sfondo. Anche una storia inventata può servirci a capire, per assurdo, il senso di un avvenimento. A Bologna, nel ’96, Luther Blissett condusse una serrata controinchiesta sul processo ai Bambini di Satana, indicando falle e cedimenti nel castello accusatorio. La maggior parte dei giornalisti continuò a dar credito al pubblico ministero, che a differenza di Blissett aveva una storia da raccontare, quella dei satanisti che sequestrano le adolescenti e violentano i bambini. Allora Luther decise di inventarsi un’altra favola: quella del Comitato per la salvaguardia della morale, una ronda autorganizzata decisa a cogliere i satanisti in flagrante, per interrompere le messe nere a suon di randellate. Scrisse un documento, dove il Comitato si presentava e indicava piste di indagine. Lo chiuse in un armadietto del deposito bagagli della stazione, insieme a un teschio e a un paio di tibie. Spedì la chiave al giornalista più forcaiolo della città, invitandolo a ritirare il pacco. Si era a fine luglio, il giornalista era in ferie, e non abboccò. Luther rivendicò lo stesso, su una piccola rivista locale, la beffa non riuscita, invitando chiunque a fare altrettanto. Poi il giornalista tornò dalle ferie. Andò in stazione, pagò salato il deposito e dedicò al Comitato un’intera pagina su «Il Resto del Carlino». Luther dimostrò così che era fin troppo facile inventare balle sul tema del satanismo. Quante altre ne stavano circolando, magari nel corpo stesso del processo? In città il clima cominciò a cambiare. «La Repubblica», un millimetro dopo l’altro, si spostò su posizioni più garantiste e prestò interesse ai «fatti» che Blissett sbandierava da tempo. Anni dopo, quando gli imputati furono assolti con formula piena e risarciti per il danno ricevuto, perfino il «Carlino» parve dimenticarsi di aver sbattuto il mostro in prima pagina [110].
A Milano, nel settembre 2008, un ragazzo di colore è stato ucciso a sprangate per aver rubato in un bar un pacco di biscotti. Nei giorni seguenti, uno stormo di interrogativi si è levato sull’accaduto. È l’ultimo episodio di una lunga serie o un imprevedibile «salto di qualità»? È un omicidio razzista o un’isolata follia? Molte persone, per cercare la risposta, si sono fatte una domanda «narrativa» e controfattuale: «Cosa sarebbe successo se a rubare i biscotti fosse stato un bianco?» Si sono immaginate la scena, hanno visto che il finale non sarebbe stato un omicidio e si sono convinte che la vera «colpa» di Abdul Guibre non era il furto, ma l’essere «un negro». Meccanismi come questo ci aiutano a comprendere la realtà molto più spesso di quel che immaginiamo [111].
Persino per capire noi stessi, per costruirci un’identità, abbiamo bisogno di una storia. Selezioniamo i fatti salienti della nostra vita e li infiliamo in un racconto. Poi sovrapponiamo quel racconto agli schemi narrativi custoditi nel nostro cervello e così facendo ci attribuiamo un ruolo: vittima, carnefice, leader, profeta, mister nessuno. Non sono le storie a far scomparire i fatti. Sono i fatti che vengono scavalcati dalla disinformazione, perché pretendono di affrontarla da soli. E così facendo, dimenticano di corteggiare le loro migliori alleate.
3. L’affabulazione obbligatoria.
L’avvento dei blog e dei social network ha molto contribuito ad aggravare la febbre narrativa. Christian Salmon cita un rapporto di Amanda Lenhart e Susannah Fox [112], dal quale risulterebbe che il settantasette per cento degli americani ha aperto un blog «non per partecipare ai grandi dibattiti del momento ed esprimere un’opinione, ma per raccontare la propria storia» [113].
Allo stesso modo sarebbe facile rilevare che il settantasette per cento delle persone va in osteria per bersi una birra, ma questo non significa che farà soltanto quello. Senza voler incensare il fenomeno dei blog, è certo che chi ne apre uno «per raccontarsi» finisce in realtà per fare molte altre cose e ha l’opportunità di essere un cittadino meno passivo di tanti altri. E infatti, se si legge davvero la ricerca di Lenhart e Fox, si scopre che il sessantaquattro per cento dei blogger scrive di diversi argomenti, che il cinquantacinque per cento si occupa di cronaca, che il settantasette per cento cerca di condividere opere creative, che il settantadue per cento legge notizie di politica (contro il cinquantotto per cento degli internauti generici).
Salmon sostiene che l’invito a raccontarsi è la nuova forma assunta nel mercato globale dall’imposizione a consumare. Prendi quello che vuoi dal supermarket degli stili, costruisci il marchio che si chiama te stesso e reclamizzalo con la tua storia. Facebook insegna. Non più: «compro, quindi sono», ma «sono, quindi compro (e faccio comprare)» [114].
È un fatto che lo sfruttamento degli individui diventa sempre più molecolare. Dal mettere a profitto il lavoro delle masse, si è passati al loro tempo libero, dal tempo libero alla vita privata di ciascuno e dalla vita privata all’autobiografia. Dimmi i tuoi desideri e li trasformerò in merci. Raccontami che personaggio sei e ti fornirò gli accessori.
Tutto questo è vero, ma ancora una volta si commette l’errore di guardare i media da una parte sola. Come se tutte le strategie fossero dettate dai grandi colossi della comunicazione e la gente non potesse fare altro che assecondarle. I grandi media tentano di costruire un business sulle spalle dei consumatori, ma non possono più eludere la loro domanda di contenuti liberi e malleabili, aperti e fuori controllo.
Tra queste due esigenze è in atto un conflitto, non un dominio a senso unico. Il marketing si serve dei nostri racconti così come si serve della nostra carne per appenderci marchi, slogan e firme, ma non per questo buttiamo via i nostri corpi. Karen Blixen scrisse che essere una persona è avere una storia da raccontare. Forse anche più di una. Ed è normale che la gente sfrutti la possibilità tecnologica di diffondere queste storie, condividerle, giocare con la propria identità e negoziarla in un mondo più vasto del cortile di casa. Il piacere di raccontarsi è alla base di progetti come la Banca della Memoria (www.bancadellamemoria.it), dove persone nate prima del 1940 possono caricare video di dieci minuti e ricordare un episodio significativo della loro vita. È difficile pensare che un’idea del genere risponda a una nuova logica consumista.
L’affabulazione è obbligatoria com’è obbligatorio mangiare. Da almeno due secoli, tenere un diario è un passatempo creativo per le persone. Oggi è anche lo strumento che consente a molti l’accesso in una cultura partecipativa, dove il consumismo è onnipresente, ma i consumatori hanno molte opportunità per influenzare dal basso il loro rapporto con le merci, tanto a livello simbolico che materiale.
4. L’inflazione dell’immaginario.
Nelle parole di Annette Simmons, il complesso rapporto tra fatti e storie si riassume così:
La gente non vuole più informazione. Ne ha fin sopra i capelli di informazione. La gente vuole fede. È la fede che smuove le montagne, non i fatti. I fatti non producono fede. La fede ha bisogno di una storia che la sostenga – una storia ricca di significato e che ispiri fiducia [115].
Queste poche righe sono il virus in provetta della febbre narrativa. Se oggi le storie vanno di moda, è perché sedicenti esperti di storytelling hanno saputo vendere, con argomenti simili, i loro corsi di nulla ai manager e ai macellai. Ma cosa differenzia una posizione inaccettabile come questa, dove le storie servono solo per convincere, da quanto ho cercato di illustrare fin qui?
La risposta è nella parola fede. La gente vuole fede se non ha niente di meglio per interpretare il mondo. William James giustificava la volontà di credere solo di fronte alla prospettiva di un dubbio che impedisse qualunque scelta. È un errore pensare che i fatti da soli possano rovesciare i dubbi. Ma è un errore altrettanto grossolano pensare che la fede sia l’unica forza in grado di farlo.
Guru e predicatori dell’èra digitale ci mettono in guardia ogni giorno sui rischi di un’overdose informativa. Prova ne siano i mille miliardi di pagine caricate in rete negli ultimi seimila giorni o altri dati equivalenti. Tuttavia, esiste una grossa differenza tra overdose e abbondanza. Posso avere la cantina piena di vino (abbondanza) senza per forza bermelo tutto in un colpo solo (overdose). E poi ci sono sostanze che non conoscono un sovradosaggio: l’aria, le carezze, i biscotti di mia zia.
Quattro secoli fa, con il diffondersi della stampa, l’Occidente affrontò un passaggio analogo, dalla scarsità di libri a una loro maggiore divulgazione. Geronimo Squarciafico scrisse nel 1477 che «l’abbondanza di libri rende gli uomini meno studiosi, distrugge la memoria e indebolisce la mente sollevandola da un duro lavoro» [116]. Oggi nessuno si azzarderebbe a dire che una libreria ben fornita o una grande biblioteca aperta al pubblico sono un veleno per il pensiero. È un genere di ricchezza che ci siamo abituati a gestire [117]. Ad esempio, indicando il nome dell’autore, sulla costa di un libro e sulla copertina, un’abitudine per nulla ovvia ai tempi di Robert Burton, uno che già nel 1621 si sentiva travolto dalla valanga informativa:
Sento novità tutti i giorni e le solite notizie di guerre, pestilenze, incendi, inondazioni, furti, assassinii, massacri, meteore, comete, prodigi e strane apparizioni [118].
La differenza tra il mondo del XVII secolo e quello odierno è soprattutto un fatto di dimensioni. Ai tempi di Burton ci si informava per piacere intellettuale o per curiosità da comari, ma erano poche le notizie che toccavano davvero la vita di una persona. Oggi informarsi è una necessità perché il villaggio globale è piccolo ma denso come un frattale. Come in ogni villaggio che si rispetti, è bene sapere tutto di tutti, perché le azioni e i pensieri altrui ci riguardano da vicino. L’abbondanza di informazioni sarebbe un problema da poco se si trattasse soltanto di trovare, nel marasma, quello che ci interessa. Il modo per riuscirci esiste già, sono i motori di ricerca. Il più delle volte, però, quel che ci interessa è il marasma stesso: non una singola conoscenza, ma l’intelligenza collettiva [119] che le sta intorno.
La pagina dei risultati di una ricerca con Google, per i nerd entusiasti è l’icona di un nuovo dio, capace di rispondere sempre alle preghiere dei fedeli [120]. Per gli apocalittici simboleggia invece un sistema sovraccarico, dove il problema non è più trovare un dato o una notizia, ma trovarne troppi. Già, ma troppi per cosa? Per elaborare una sintesi? Per tenere conto di tutto? O non sarà piuttosto che il diluvio dei saperi ha messo a nudo un’antica verità e cioè che le domande e le incertezze aumentano all’aumentare della conoscenza? [121].
Uno studio di James Evans, del dipartimento di Sociologia dell’Università di Chicago, ha mostrato che Google è solo in apparenza una finestra troppo larga sul mondo. Partendo da un archivio impressionante di trentaquattro milioni di articoli scientifici, ha scoperto che da quando molte riviste si possono consultare on-line, riferimenti, note e citazioni sono diminuiti e vengono ricavati da una cerchia sempre più ristretta di testi e di autori.
Mi aspetto un risultato simile – ha dichiarato James Evans – anche in ambito non accademico: un motore di ricerca può allargare l’orizzonte degli utenti, ma in realtà rischia di diminuire la diversità delle fonti e delle idee. Tutti finiscono per consultare gli stessi siti: i primi della lista, i più accessibili, i più conosciuti [122].
Studi come questo hanno il merito di spostare l’accento dalla percezione dell’abbondanza – per alcuni diabolica, per altri divina – alla valutazione degli strumenti che stiamo costruendo per poterla maneggiare con efficacia. Questi strumenti non sono soltanto tecnici, come nel caso di un motore di ricerca, ma anche metodologici e cognitivi. Internet è un canale per trasmettere idee, ma i pensieri, se vogliono percorrerlo, devono adattarsi al suo formato, come fango che scorre in un tubo. L’abitudine a comunicare con un determinato mezzo modifica il nostro cervello e il nostro modo di usarlo per pensare.
A questo proposito Nicholas Carr sostiene che Internet ci ha reso più stupidi perché ha cambiato il nostro modo di leggere. La rete ci ha abituato a scorrere un testo in velocità, focalizzare l’attenzione su alcune righe, magari copiarle e passare subito a una nuova pagina, collegata alla precedente. Facciamo sci d’acqua in superficie, invece di immergerci nelle profondità per carpire segreti.
Il genere di lettura profonda che un libro stampato può attivare non è prezioso solo per quello che impariamo dalle parole dell’autore. Nei quieti spazi spalancati dalla lettura continua e senza distrazioni di un libro, noi produciamo associazioni mentali, tracciamo inferenze e analogie, partoriamo idee [123].
Secondo Carr, perdere i «quieti spazi» della lettura profonda significa perdere una palestra importante di «pensiero profondo», qualcosa che la lettura superficiale e frammentaria incoraggiata dal web non potrà mai sostituire.
Per quanto mi riguarda, non ho difficoltà a usare il surf sulle onde della rete, lo scafandro negli abissi di un romanzo e il tappeto volante in una notte di stelle. Non credo che l’abitudine a utilizzare un mezzo possa plasmare il cervello una volta per tutte. Spostarsi in auto per molte ore al giorno non ci impedisce di nuotare in piscina, pedalare su una bici o camminare in un bosco. Non sono i mezzi a motore a farci diventare obesi e sedentari. Il fatto è che mangiamo troppo rispetto a quel che bruciamo, mentre sudare non piace a nessuno. Tutte le invenzioni dell’uomo, dalla ruota alla rete, nascono dal desiderio di fare meno fatica [124].
La «lettura superficiale» serve per affrontare l’abbondanza senza fare indigestione: assaggio diversi piatti, per poi saziarmi con quelli che mi sembrano più appetitosi. Come chi sfoglia il giornale per decidere quali articoli leggere con più attenzione [125].
Con argomenti molto diversi, sia Carr che Simmons individuano nella narrazione una possibile medicina contro l’overdose informativa. Non condivido la prospettiva apocalittica di Carr («Google ci rende più stupidi») e nemmeno quella millenarista di Simmons («La gente vuole fede»). Tuttavia penso che raccontare storie possa essere davvero una strategia di sopravvivenza, in una infosfera sempre più vasta e inquinata.
Il solito Salmon ritiene invece che la cura sia peggio del male e che a forza di somministrarla, la medicina abbia perso efficacia, indotto assuefazione e generato un effetto paradosso. Le storie si sono svalutate, diventando armi di distrazione di massa. Le emozioni degli individui sarebbero catturate da un così vasto numero di racconti, aneddoti, autobiografie, che anche un narratore di talento faticherebbe a farsi ascoltare, a coinvolgere i lettori. In tempi di inflazione, la moneta cattiva scaccia quella buona, ma solo se è difficile distinguere tra le due. Le storie non sono tante monete dello stesso valore, tutte uguali tra loro.
La presenza «sul mercato» di narrazioni banali e insignificanti non dovrebbe offuscare le migliori. Anzi, per contrasto, dovrebbe renderle più luminose, senza dubbio più frequenti. Dove c’è molta merda crescono molti fiori. Il torchio a stampa di Gutenberg, aumentando la produzione di libri, diminuì anche la qualità media del prodotto, perché in tempi di abbondanza si produce molta merce di scarso valore. L’esito, tuttavia, non fu né una svalutazione dei testi né uno scadimento del gusto e della cultura letteraria, ma al contrario una sua maggiore diffusione.
Chi sostiene che l’epoca di Gutenberg e quella di Internet non sono paragonabili, fa appello ai rapporti di forza esistenti. I grandi conglomerati mediatici hanno una potenza di fuoco talmente soverchiante da poter seppellire qualunque avversario. Gli scaffali delle librerie vengono occupati manu militari dai best-seller del momento, che conquistano così anche i comodini dei lettori e le poche energie riservate ai romanzi. Il problema esiste senz’altro, ma di nuovo, non si possono valutare certe strategie di marketing presupponendo la totale acquiescenza del pubblico. Esistono libri portati al successo dal passaparola ed esistono romanzi che riescono a essere influenti pur restando in una nicchia. E nemmeno si deve sottovalutare il fenomeno, oramai dispiegato, che sta trasformando il mercato di massa in una massa di mercati,dove il mainstream è soltanto una nicchia più grande delle altre, ma con un pubblico meno affezionato e meno attivo [126]. È sempre stata l’interazione tra il potere concentrato dei media ufficiali e il potere diffuso dei media amatoriali a determinare le fortune di una storia. La cultura popolare è un campo di battaglia dove l’artiglieria di grosso calibro cede il passo alle armi batteriologiche. Per una narrazione è più importante essere contagiosa che essere esplosiva. Anni fa scrivemmo che le storie sono asce di guerra da disseppellire. Intendevamo dire che esse chiamano a raccolta una comunità, come quando gli indiani tolgono il tomahawk da sottoterra, lo piantano su un palo e imboccano il sentiero di guerra. L’ascia del rituale non serve per la battaglia. Molti invece hanno inteso la frase in senso strumentale: le storie sono armi.
Scavo, le trovo, le affilo e ci combatto. Non è così.
L’immaginario è una palude, un universo anfibio. Chiamiamo realtà l’affiorare di un’isola. Dove alcuni vedono un lago, altri passano con l’acqua alla caviglia. Dove alcuni vedono terra, altri affondano nel fango. Le storie sono pietre di fiume. Anche le più solide sono fatte di sabbia, e se le metti nel fuoco scoppiano come bombe, perché hanno dentro l’umidità. Si possono lanciare come armi o come attrezzi da giocoliere. Ci si può costruire un rifugio o una diga. Si possono buttare nell’acqua per vedere gli spruzzi o per far emergere un guado. A noi la scelta, purché teniamo conto che c’è una comunità di persone che deve muoversi nella palude, e noi ne facciamo parte. In certi momenti, sarà bello sollevare gli animi di qualcuno, facendo il saltimbanco con una pietra sulla testa. Ma il problema di attraversare il pantano resterà irrisolto.
Sono d’accordo con Salmon quando dice che la palude è squassata dai bombardamenti e l’uso che faremo delle nostre pietre non può che tenerne conto. Bisogna resistere alla violenza simbolica del potere. Quello che trovo insostenibile è l’abbozzo di strategia che egli prende in prestito dall’ultimo manifesto artistico di Lars von Trier:
La parte di mondo che cerchiamo non può essere circoscritta da una «storia», o avvicinata seguendo «un’angolazione ». Storia, argomento, rivelazione e sensazione ci hanno sottratto questo soggetto: il resto del mondo, che non è facile da trasmettere, ma senza il quale ci è impossibile vivere. Il nemico è la storia. La sfida del futuro è vedere senza guardare: sfuocare! [127].
Questa lode dell’ineffabile non è altro che una ritirata venduta per contrattacco. Poiché l’immaginario è un pantano, e molte mappe a disposizione sono contraffatte, meglio rinunciare a qualunque percorso e farsi guidare dall’istinto, dal sesto senso, dalla mano di Dio.
Salmon sogna una contronarrazione, capace di inceppare la macchina per fabbricare storie. La proposta ha un vago sapore luddista: qualcun altro ci ha insegnato che il controllo della macchina è molto meglio della sua distruzione. Occorre imparare a usarla, dare e prendere lezioni di guida. Studiarne insieme la manutenzione, averne cura.
Se una contronarrazione esiste, non sarà un sasso nell’ingranaggio. Non sarà una smentita infilata nelle storie altrui, con l’unico effetto di raccontarle di nuovo. La macchina mitologica ci aiuterà a costruirla, e le pietre di fiume saranno la materia prima. L’unica alternativa per non subire una storia è raccontare mille storie alternative.
Il testo è bellissimo… peccato che qui ci siano le “endnotes” ;-) Nel libro, erano footnotes ed era meglio. (navigatori, comprate il libro! :-D
Le endnotes, però, non sono assolutamente demerito
di Wu Ming: inserire footnote in un testo html significa riscriverlo e rimpaginarlo (Un sacco di tempo dedicato all’impaginazione. Puro lavoro di dattilografia. Ma non avrebbero niente di meglio da fare, eh?).
Ecco un esempio di “intext-notes”:
“[…] modifica alla storia, abbastanza giustificata da essere credibile, salva Euridice dalla seconda morte e sconfigge Ade, il dio dell’oltretomba.
1. Il «mondo nuovo» delle storie [91]
91. Questo primo capitolo è un ampliamento di una
conferenza dal titolo Narrare non è sufficiente. Il
compito del cantastorie nell’epoca digitale, tenuta
il 26 marzo 2008 a Siviglia nell’ambito del
festival Zemos98. Ringrazio gli organizzatori per
avermi fornito il pretesto di mettere ordine in
una serie di appunti sul raccontare storie. Una
versione molto ridotta, una sorta di trailer, è
invece comparsa su «l’Unità» del 27 settembre
2008 e su carmillaonline.com, come recensione
al saggio di Christian Salmon Storytelling. La
fabbrica delle storie, Fazi, Roma 2008.
Calda notte di settembre, le vacanze appena finite. Dalla poltrona di un salotto televisivo, […]”
Sto riflettendo da un po’ di tempo come fare un comando per il mio editor di testi preferito che inserisca automaticamente le note, appunto, formattate ed in mezzo al testo. Chissà quando riuscirò.
@ Giovanni
secondo me le “intext-notes” funzionano in testi che sono stati già pensati e costruiti in quel modo (es. l’edizione originale di The Atrocity Exhibition di Ballard). Altrimenti, soprattutto se sono tante, si manifestano come continue digressioni e divagazioni, disturbando l’andamento del testo, rendendo più vaghi i collegamenti e meno stringente il ragionare. Le note a pie’ pagina uno può ancora scegliere se leggerle o no, se farlo subito o aspettare che si concluda il ragionamento etc. Le note nel testo invece sono lì, in mezzo al sentiero, inevitabili…
Finalmente.
Grazie per questo regalo.
Come sapete, per me questo saggio andrebbe ripiegato sul saggio sul NIE, e letto controluce.
(linkatelo anche su Carmilla ;) )
Un saluto, ragazzi (sono stato via, starò via ancora).
Propongo un’ulteriore punto di vista, da accostare alla proliferazione open-source di WM2, alla bassa risoluzione di Von Trier, alla mitopoiesi del contemporaneo della Simmons e alla speleologia solipsistica di Carr.
Io vedo la questione dal punto di vista dell’arte contemporanea. Salvo rare eccezioni gli artisti rifuggono la narrazione in favore di una rappresentazione più ambigua e scarna allo stesso tempo. La narrazione implica in genere un’organizzazione consapevole e finalizzata della comunicazione e dei contenuti con i quali questa si struttura e si articola. L’artista tende piuttosto a quell’ineffabile descritto benissimo da WM2 in relazione a Von Trier. Non c’è neanche la costruzione di un mito a cui volgersi come a una stella polare (seppur temporaneamente), ma piuttosto la creazione di indizi che sottintendono l’esistenza di una sfera mitica inaccessibile, perché ben nascosta e protetta dalla visione soggettiva dell’artista che vi accede solo in virtù di una particolare sensibilità o talento.
Ciò che è in effetti accessibile al pubblico è il materiale di costruzione, i feticci personali dell’artista, (proposti con una valenza universale, come simboli, privati però della loro natura compatta e condivisa – «Il simbolo è più o meno il contenuto che esso esprime come simbolo» Hegel, Enciclopedia pag.458) che sembrano sempre rimandare ad altro, a un altrove che lo stesso artista, in modo blasé e civettuolo, quasi sempre dissimula o nega.
Eppure la narrazione è presente eccome, non nella singola opera o in un corpus di opere specifico. E forse neanche nell’intera produzione di una vita. L’artista gode di quel particolare sentimento di libertà dalle contingenze (libertà tutt’altro che reale) in virtù di un ancoraggio inamovibile alla narrazione di sé che fa a sé stesso, per uso e consumo personale prima di tutto, e come materiale mitopoietico che sostanzia e facilita il marketing del suo “brand” di artista e delle opere, da parte di chi forma la cordata (o meglio lo schema di Ponzi) per farlo salire nella piramide del mercato dell’arte (galleristi, critici, curatori, collezionisti, epigoni e fan).
Narrazione quindi come strumento di definizione di modi di stare al mondo, e non del mondo. O, più biecamente, come strategia di posizionamento sociale. Penso in particolare alle figure del motivatore (motivational/inspirational speaker) e del life coach, che pur pretendendo di descrivere in modo più efficace e pragmatico la realtà, utilizzano narrazione, metafora e rappresentazione in genere come strumento principe per definire quelle strategie della percezione di sé, che sono utili ai loro clienti per scalare i gradini della piramide sociale o economica.
Con questo non voglio dire che questa particolare funzione della narrazione debba essere necessariamente strumentale o deprecabile. E’ ovvio che la formazione di una certa consapevolezza di sé passa attraverso l’uso di svariati strumenti, tra cui la narrazione («vera» o «convenzionale» proprio con lo stesso meccanismo indicato da WM2 in riferimento agli dei dell’antica Roma).
Ma intravedo il pericolo dell’uso diffuso di questa dinamica nella logica del “join the club!” particolarmente quando le regole del club sono stabilite da un fondatore che ne diventa leader (questo accade ad esempio con la costruzione di communities in rete praticata da brand commerciali, agit-prop, mitomani, etc.).
In questo caso la narrazione diventa la via d’accesso più rapida ed efficace al conformismo.
Raccontare mille storie per avvalorarne una sola, che però è scritta con l’inchiostro simpatico…
Come sempre, mi piace l’atteggiamento costruttivo e non lamentoso dei Wu Ming. E in un panorama culturale come quello italiano, trovare qualcuno che non si straccia le vesti annunciando una qualche apocalisse è raro.
Mi è piaciuta in particolare la parte sui videogiochi. Vorrei approfondire ma, cazzo, sono le due di notte.
[…] commenti più recenti ferruccio on La salvezza di Euridice / 1a parte: Il “mondo nuovo delle storie”norma on La salvezza di Euridice / 1a parte: Il “mondo nuovo delle storie”danae on […]
[…] cosa dovrebbe essere la discussione sul fantastico. In più, ha linkato un saggio di Wu Ming 2, La salvezza di Euridice. Che è una vera, importante scoperta. A […]
Riguardo la questione “Note a pie’ di pagina”: trovo molto comodi i collegamenti incrociati fra il numero della nota interno al testo e il numero della nota a pie’ di pagina (come in Wikipedia, per intenderci). Non so quanto siano difficili da realizzare, ma sono una benedizione per la lettura.
Al momento, io risolvo aprendo due pagine del browser, tenendone una “ad altezza testo” ed una “ad altezza note”, e alternando fra le due. Ma è, di certo, meno comodo (seppur sopportabile).
Non mi piacciono per niente, invece, le note inframezzate al testo, come suggerite da Giovanni (concordo con WM1 sul fatto che spezzino la lettura, e le trovo veramente fastidiose).
Just my two cents. : -)