[Con questa terza e ultima tranche, si conclude la pubblicazione su Giap del saggio La salvezza di Euridice. La prima puntata è qui, la seconda qui.
La salvezza di Euridice, scritto da WM2, è il saggio che conclude il nostro libro New Italian Epic. Narrazioni, sguardi obliqui, ritorni al futuro (Einaudi, gennaio 2009). Al suo apparire, diversi recensori e commentatori del libro lo hanno ignorato. Quasi tutti i recensori lo hanno ignorato. Zero riferimenti, come se nel libro non ci fosse. Perché? Noi abbiamo un sospetto: che quei recensori il libro non lo abbiano proprio letto, e forse non lo abbiano nemmeno sfogliato. Troppo facile pensare che fosse soltanto una versione cartacea del “memorandum” sul NIE scaricabile on line, e quindi non accorgersi che:
1. Il memorandum,nel tragitto dalla rete al libro, era diventato tutt’altra cosa: la “versione 3.0”, composta da due testi distinti (New Italian Epic e Sentimiento nuevo);
2. c’era un lungo saggio finale – che da solo costituiva un terzo del libro – su cosa sono le narrazioni, quale può essere oggi l’etica di un narratore, quali convinzioni stanno alla base del lavoro in rete di molti scrittori etc.
Nel marzo 2009 leggemmo su un quotidiano una recensione di New Italian Epic in cui si rimproverava al libro l’assenza di riflessioni sulla “mitopoiesi”. Strana critica, visto che il saggio più lungo non parlava d’altro. Perplessi, chiedemmo al recensore, via e-mail, come mai avesse ignorato La salvezza di Euridice. Rispose parlando d’altro. Ripetemmo la domanda: come mai aveva ignorato La salvezza di Euridice? Rispose così: in quel saggio “non [c’era] approfondimento teorico” ma solo un “ragionare spezzettato” che a lui non interessava. Ci parve una di quelle risposte che si improvvisano quando ci si trova alle strette, e lasciammo perdere. In fondo, non era la prima recensione di un libro non letto, né sarebbe stata l’ultima. Si tratta, anzi, di un sottogenere letterario che alcuni critici praticano in modo sistematico.
Ad ogni modo, ora il testo è a disposizione di chiunque, anche senza acquistare il libro. Buona lettura.]
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5. Trasformazione psicologica: animare il testo.
Ci sono due alunni che hanno scritto il loro racconto dal punto di vista del pallone, ma con tecniche molto diverse tra loro. Uno ha spostato la «telecamera» dal suo supporto originale, in una sorta di soggettiva disincarnata, l’altro ha cercato di tenere conto delle differenze tra un narratore umano e uno di plastica gonfiata. Le due soluzioni rispecchiano due diverse indagini sui personaggi di una storia: da un lato, ci si può chiedere cosa farebbe X nella situazione Y. In maniera simile, quando scappiamo inseguiti da un cane, ci arrampichiamo su un albero sapendo che il cane non è in grado di farlo. Con una conoscenza del genere, potremmo descrivere l’inseguimento con gli occhi del cane. Dall’altro, ci si può chiedere cosa proverebbe X nella situazione Y, l’operazione di empatia che chiamiamo «mettersi nei panni di qualcuno». Rispondendo a questa seconda domanda, potremmo raccontare l’inseguimento come se fossimo un cane.
Quando un narratore di talento costruisce un personaggio da zero, risponde a entrambe le domande con una sola mossa. Egli sa cosa farebbe X perché si è messo nei suoi panni, o meglio: perché quei panni è stato lui a cucirglieli addosso. Si potrebbe dire che ha inventato il personaggio proprio a partire da quelle due domande.
In un romanzo di trasformazione, invece, si deve spesso fare i conti con personaggi storici, reali. In questo caso, devo rispondere alle domande a partire dal personaggio. E le due risposte sono momenti distinti e non per forza collegati. Posso indovinare senza troppa fatica cosa farebbe Adolf Hitler in una certa situazione (e in molti casi, so già cosa fece), ma per farlo non ho bisogno di sapere cosa si prova a essere Adolf Hitler. La seconda risposta è un passaggio in più, che potrei anche non azzardare. In un certo senso, Hitler si muove già da solo. Tuttavia, se voglio dar vita al testo che sto trasformando e non trattarlo solo come un’elaborazione culturale, allora devo tentare il passo in più. Un’opera di immedesimazione che per certi versi è simile al lavoro dell’attore.
Facendo questo, rischio di scontrarmi con un’alterità insuperabile. Sappiamo già che i punti di vista prediletti per questo genere di racconto sono quelli poco rappresentati nella «storia» ufficiale. Questo significa che ci saranno anche pochi testi relativi a quel punto di vista. Dunque ricostruirlo sarà un’impresa complessa. Nella letteratura postcoloniale, questa difficoltà viene in qualche modo superata grazie al fatto che gli autori sono spesso eredi del punto di vista prescelto: una scrittrice italo-etiope può raccontare l’aggressione fascista all’Etiopia «dalla parte» del popolo aggredito. Ma come può uno scrittore italiano raccontare l’imperialismo americano in Messico dalla parte dei messicani? Come fa a essere credibile? E soprattutto: se scegliere un punto di vista altro fa parte di una strategia per capire se stessi, sarà un punto di vista ricostruito in laboratorio sufficientemente altro per raggiungere l’obiettivo?
Il filosofo Tom Nagel, in un famoso saggio [138], ha «dimostrato» che non potremo mai dire che cosa si prova a essere un pipistrello. E questo proprio perché non possiamo interrogarlo e basarci su una sua testimonianza. Studiando il cervello dei pipistrelli, possiamo arrivare a dire soltanto cosa proveremmo noi a essere pipistrelli. Ma c’è davvero qualcosa che ci sfugge, se sappiamo solo questo? A prima vista sembrerebbe di sì: non possiamo sapere cosa prova un pipistrello a essere un pipistrello. Ma io penso che il pipistrello non possa paragonare quella sensazione con nessun’altra, e che dunque nemmeno lui sappia di cosa si tratta [139]. Vale per i pipistrelli e vale anche per noi umani. Marguerite Yourcenar, nel suo taccuino di appunti per Memorie di Adriano, scrisse:
Tutto ci sfugge. Tutti. Anche noi stessi. La mia stessa esistenza, se dovessi raccontarla per iscritto, la ricostruirei dall’esterno, a fatica, come se fosse quella di un altro. […] Qualunque cosa si faccia, si ricostruisce sempre il monumento a proprio modo, ma è già molto adoperare pietre autentiche. Ogni essere che ha vissuto l’avventura umana, sono io [140].
Identità e cultura non sono organi che si hanno, ma storie che si fanno. Non c’è un nocciolo irraggiungibile nel cuore di ogni uomo, tanto più duro ed esteso quanto più egli è lontano da me nel tempo, nello spazio e nei pensieri. Non c’è una purezza da imitare, ma un ibrido di parole da sovrapporre a un ibrido di carne.
Sempre la Yourcenar ha scritto che nel suo libro voleva soprattutto cancellare se stessa, ma quando un attore come Toni Servillo fa la parte di Giulio Andreotti nel film Il divo, io capisco certi aspetti della condotta di Andreotti proprio perché sullo schermo non c’è il senatore in persona, ma un altro che lo interpreta per me (e quindi mi fa capire cosa potrei provare io a essere Andreotti).
Secondo Wittgenstein, se un leone parlasse non potremmo capirlo. Daniel Dennett gli ha risposto che un leone parlante non sarebbe un leone [141]. In un romanzo, il leone ha in bocca una macchina per la traduzione simultanea. L’animale parla, noi lo capiamo, ma resta una belva. E la voce che sentiamo è quella dell’autore.
6. Trasformazione architettonica: costruire sul testo.
Nel più audace e strampalato tra i racconti degli alunni, un gruppo di studenti italiani riesce a bucare il pallone, nel disperato tentativo di trovarci dentro un significato. L’esplosione risulta talmente potente da far crollare le Torri gemelle, con il risultato che gli Stati Uniti dichiarano guerra all’Italia e quest’ultima si vede costretta a ritirarsi dalle qualificazioni ai Mondiali di Spagna (l’azione si svolge nell’anno di pubblicazione del racconto, il 1981). Segue un tentativo piuttosto allucinante di immaginare le conseguenze per il nostro paese della mancata vittoria nel Mundial.
Al di là del risultato, peraltro ricco di spunti, salutiamo in questo racconto l’ingresso trionfale dell’invenzione. Le trasformazioni viste fin qui avevano tutte lo scopo di aggiustare il testo originario, di prepararlo per sorreggere una nuova architettura, che ora viene progettata e costruita.
Nella sua Grammatica della fantasia, Gianni Rodari ha chiamato «ipotesi fantastica» l’interrogativo controfattuale che permette di inventare storie. Gli inglesi lo chiamano what if.
Kafka l’ha utilizzato per scrivere il suo racconto più famoso: «Cosa succederebbe se un uomo si svegliasse tramutato in un orribile insetto?» Se ci pensate, qualsiasi racconto può essere letto come risposta a una domanda del genere.
Tipica dei romanzi di trasformazione è invece una domanda più specifica che in inglese suona what else?, «cos’altro?» [142]. In questo caso, non è l’ipotesi a delineare un contesto, ma è il contesto, con le sue mancanze frustranti e le sue affascinanti potenzialità, a innescare un’ipotesi.
È il pallone gonfiato che mi fa pensare a un pallone che scoppia. È l’ambientazione nell’isola di Manhattan che fa comparire nel racconto le Torri gemelle. È la data 1981 che me ne ricorda un’altra, il mitico ’82 dei Mondiali di Spagna. Infine, è per la pacifica mancanza di significato del pallone che si materializza il gruppo di studenti italiani armato di coltello e deciso a guardarci dentro.
L’ipotesi what if è la tessera di un puzzle che l’autore deve costruire, un pezzo dopo l’altro. L’ipotesi what else è una tessera mancante che l’autore deve sostituire, disegnandone una nuova. Ovviamente, il nuovo pezzo dovrà essere compatibile con l’intero puzzle.
Spesso, tra i fan che scrivono storie a partire dalle loro storie preferite, nascono lunghe discussioni sui criteri di questa compatibilità. Secondo alcuni, si possono accettare solo vicende che non portino fuori dal mondo di riferimento, rompendo la «tenuta» dei personaggi e dell’ambientazione. In quest’ottica, una relazione omosessuale tra l’ufficiale scientifico Spock e il capitano Kirk non sarebbe compatibile con la continuità di Star Trek. Allo stesso modo, il pallone che scoppia non è compatibile con The Balloon, perché l’autore ha escluso esplicitamente quella possibilità.
Altri pensano che questa restrizione sia esagerata e che l’unico vincolo sia: non contraddire il canone originale. Spock e Kirk potrebbero benissimo essere omosessuali e non averlo mai rivelato. Al contrario, Spock potrebbe essere il capitano dell’Enterprise al posto di Kirk soltanto in un racconto collaterale e autoconclusivo, che inizi e finisca con Kirk nel suo ruolo legittimo. Altri ancora, e sono forse la maggioranza, ritengono che l’importante sia indicare in modo preciso che genere di storia si vuol raccontare: personaggi stravolti o coerenti, prequel o sequel, universo alternativo o canonico.
Nel nostro caso il canone di partenza è la realtà stessa intesa come racconto. Si potrebbe allora pensare che la compatibilità, se si vuole essere canonici, debba consistere nel realismo. In American Tabloid, James Ellroy ha sposato una posizione simile:
La nostra narrazione ininterrotta è confusa al di là di ogni verità o giudizio retrospettivo. Soltanto una verosimiglianza senza scrupoli è in grado di rimettere tutto in prospettiva.
A ben guardare, non è detto che il vincolo debba essere così rigido. Si può essere inverosimili e non per questo rompere l’universo narrativo della realtà. Non è affatto verosimile che Hitler, a sette anni, abbia visto apparire in un bosco il lupo Fenrir, come racconta Giuseppe Genna nel suo romanzo sul Führer. Non è nemmeno verosimile che Cary Grant abbia incontrato Josip Broz «Tito» nel modo che abbiamo immaginato in 54. Eppure il racconto tiene, perché è più importante la coerenza del mondo narrato che quella col mondo reale.
Proprio questo aspetto preoccupa chi non vorrebbe confondere fatti e finzioni, perché la miscela che ne risulta non dice con chiarezza quale programma di verità seguire. Devo crederci come ad Auschwitz o come a Madame Bovary? La risposta è che fino all’ultima pagina del libro una storia ha bisogno di fiducia, oltre la copertina ha bisogno di ricerca. Ma la ricerca, il dubbio, la verifica dovrebbero essere un elemento indispensabile di ciò che intendiamo con credere nel mondo reale.
Nel romanzo di Flaubert non c’è nulla a segnalarmi che quanto sto leggendo è inventato. E finché non chiudo il libro, la cosa non mi interessa. Poi, oltre la parola fine, tutto mi dice che quella storia non è mai accaduta: me lo dicono altri testi, altre persone, altre fonti che ritengo attendibili. Cioè le stesse ragioni che, al contrario, mi fanno credere alla realtà di Auschwitz [143].
Nella trasformazione narrativa, storia e cronaca sono solo gli ingredienti principali, non il modello. Il risultato contiene la realtà – come una scultura di pane contiene acqua e farina – ma non la rappresenta come una statua di Mosè rappresenta Mosè.
Se per indagare i fatti usiamo la narrativa, e non la storia o le scienze umane, è perché vogliamo permetterci di essere visionari, di dimostrare per assurdo e per metafora, di concatenare gli eventi con simboli e analogie, di immaginare, quando ci mancano, quel che succederebbe se avessimo le prove.
Anche se un libro tocca la realtà, la cosa più preziosa che posso trovare, tra le sue pagine, non è la verità dei fatti, ma il senso del loro intreccio.
7. Trasformazione linguistica: far parlare il testo.
Negli anni Settanta, lo studioso americano Hayden White ha sostenuto che la storiografia è un prodotto letterario [144]. Nel comporre i loro discorsi, romanzieri, storici e giornalisti usano le stesse strategie, basate sulla metafora, la metonimia, la sineddoche e l’ironia. È solo la ricchezza del linguaggio che ci fa preferire una determinata ricostruzione dei fatti. Il metodo storico è una tecnica narrativa, mentre gli appelli alla logica, alla causalità e alle prove sono tutti artifici retorici.
In maniera più prudente, Paul Ricoeur ha voluto sottolineare quanto la lingua possa essere uno strumento di conoscenza:
La funzione di trasfigurare la realtà che riconosciamo alla finzione poetica, implica che noi critichiamo la nostra idea convenzionale di verità, e cioè che cessiamo di limitarla alla coerenza logica e alla verificazione empirica, così da tener conto della pretesa di verità legata all’azione trasfigurante della fiction [145].
La retorica non sostituisce il metodo scientifico, ma ha il diritto di affiancarlo. È un modo per comprendere la realtà, specie dove le altre imprese falliscono o sono costrette a tacere. Spesso riusciamo a capire un concetto, o un evento, solo se troviamo le parole giuste per descriverlo. Una similitudine può farci comprendere il legame tra due fatti molto più di una spiegazione causale. I nostri stessi pensieri si chiariscono nel monologo interiore e non abbiamo davvero un’idea finché non riusciamo a dirla.
Anche nei racconti dei «miei» alunni c’è traccia di questo metodo linguistico. Per esempio, nella versione scritta «dalla parte» della ragazza che torna dalla Norvegia, il suo astio nei confronti del narratore si condensa nel definirlo un «pallone gonfiato». Quest’intuizione psicologica non sarebbe scattata se in italiano non esistesse quell’espressione idiomatica e metaforica. In una lingua dove quell’immagine non è consueta, sarebbe meno immediato «scoprire» il carattere presuntuoso di un individuo che, senza motivo, gonfia un pallone grande quanto una città. Anche la scena degli studenti italiani che fanno scoppiare il pallone, dopo averlo pugnalato per cercarci dentro un significato, è figlia delle parole e delle metafore scritte nel cervello. Non sarebbe possibile se non considerassimo il significato come qualcosa che si trova dentro un testo, in contrapposizione alla sua superficie. Forse la scena non sarebbe nata se non avessimo in testa l’idea dello scoppiare come giusta punizione per qualcosa di futile e vanaglorioso, pieno soltanto d’aria (vedi la favola della rana che voleva diventare grande quanto il bue). Insomma è grazie alla lingua, al nostro modo di parlare che gli studenti sono riusciti a giocare con il racconto di Barthelme, a capirlo più a fondo e a dare corpo alle loro intuizioni. Questo anche grazie al fatto che la lingua del testo era già ricca di per sé, carica di potenzialità e di ganci per convogli di metafore. Nel nostro caso, invece, si verifica spesso il contrario. Il materiale di partenza – la cronaca, l’attualità, la storia – è scritto per lo più in una lingua povera, spesso impoverita proprio in nome della verità (perché la metafora è ritenuta menzogna, informazione vaga, spreco e tertium datum che spezza le catene della logica) [146]. Occorre allora usare la lingua come strumento estetico ed epistemologico.
Perché solo dicendo meglio possiamo capire di più.
Pier Paolo Pasolini, riferendosi ai misteri d’Italia, scriveva: «Io so, perché sono uno scrittore» [147]. Ci sono segreti che si possono dire solo trovando le parole giuste e una storia per raccontarli.
Non si tratta di sensibilità particolare, ma della dimestichezza a usare un attrezzo del mestiere. Lo scrittore non è l’albatro di Baudelaire, capace di grandi voli nel cielo, ma goffo, con le sue ali, sul ponte della nave.
Lo scrittore è un marinaio che ha imparato a volare con le parole.
8. Trasformazione sociale: condividere il testo.
Quando un fan di Harry Potter scrive un racconto ambientato nella scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, si aspetta che altri appassionati lo leggano, lo commentino, ne discutano con lui. Quando una narrazione X fa riferimento esplicito a un’altra narrazione Y, evoca subito una comunità: quella delle persone che conoscono Y e che possono interagire attraverso Y. Lo scambio che si viene a creare è molto orizzontale, perché nonostante ci sia un autore (del racconto trasformato) e dei lettori, tutti quanti sono lettori di Y, in questo caso Harry Potter, testata d’angolo e pietra di paragone di qualunque versione alternativa.
Allo stesso modo, quando abbiamo discusso a scuola i racconti degli studenti, in realtà stavamo sempre interpretando, con lo strumento della critica creativa, la short story di Donald Barthelme The Balloon. Ogni autore era a sua volta un lettore di quel testo e si rivolgeva ad altri lettori come lui.
Qualcosa di simile accade con i romanzi di trasformazione, quando il canone di partenza è quel racconto più o meno condiviso, più o meno universale, che chiamiamo realtà. In questo caso l’autore non ha l’autorità esclusiva sul mondo e sui personaggi che ha creato, perché esistono pezzi di quel mondo che non dipendono soltanto dalla sua creatività e che sono accessibili ai lettori anche al di fuori delle pagine del romanzo.
In termini di software, potremmo dire che una parte del codice sorgente di quella storia è aperto e non protetto. Chiunque può mettere le mani sul «testo originale» e, in base a questa conoscenza, muovere critiche competenti alle trasformazioni operate dall’autore [148]. L’intelligenza collettiva, che ha permesso all’autore non accademico di rintracciare i suoi materiali, può fare altrettanto per un lettore.
La differenza fondamentale sta nel fatto che una fan fiction presuppone la conoscenza del canone. Se non si conosce Star Trek, non ha senso leggere la storia della relazione omosessuale tra Spock e il capitano Kirk. Un romanzo di trasformazione cerca di non alzare una barriera del genere, anche se una conoscenza dei fatti quantomeno «simulata» o per sentito dire, può essere indispensabile per apprezzare il lavoro dell’autore. Spesso si cerca di integrare le della narrazione, ma si tratta appunto di puntelli interni, che partecipano della mescolanza tra realtà e finzione. Credo che sia inevitabile, allora, porsi la questione di come annotare il testo. Molti fan scrivono già le loro storie corredate di note, per spiegare alcuni riferimenti, magari non propriamente canonici (per esempio, a storie scritte da altri fan e che qualcuno potrebbe non conoscere).
Gli storici dell’antichità – come Erodoto, Tucidide o Pausania – non sentivano il bisogno di citare le fonti per dare autorità e credibilità alle loro affermazioni. Oggi uno storico che facesse altrettanto ci sembrerebbe reticente, approssimativo e inaffidabile. Paul Veyne ritiene che il cambiamento sia avvenuto con la nascita dell’università, quando lo studioso cominciò a rivolgersi ad altri studiosi e a dover sostenere le sue tesi in controversie accademiche. Allora si cominciò ad annotare i testi storici, mutuando l’abitudine dalla pratica giuridica, dove si era soliti citare leggi, sentenze e sacre scritture. Prima di allora, gli storici non avevano lettori interessati a mettere in discussione i loro racconti.
Gli storici moderni propongono un’interpretazione dei fatti e forniscono al lettore i mezzi per controllare l’informazione e per formulare un’altra interpretazione; gli storici antichi controllano essi stessi e non lasciano questa noia al loro lettore [149].
Viene da chiedersi se un simile cambiamento di ruolo e di pubblico non sia in corso anche nella letteratura. «La gente a casa» sta diventando sempre più mediattiva: vuole interagire con i prodotti culturali e partecipare alla costruzione sociale del loro significato. Se nessuno le fornisce i mezzi, cerca comunque di procurarseli. Ma un conto è entrare da bracconieri nelle riserve degli autori, un altro essere invitati alla battuta di caccia [150].
Ancora nel 1560, gli amici di Estienne Pasquier, lo rimproveravano di aver inserito note a piè di pagina nelle sue ricerche sulla storia di Francia. Era considerata un’abitudine rozza, da «libro di scuola », un mezzuccio per forzare il giudizio sulla verità di uno scritto, quando invece quel giudizio doveva spettare soltanto al tempo.
Considerazioni simili vengono espresse oggi dagli avversari di una «letteratura annotata», sia essa sotto forma di pagine web collegate a un romanzo oppure, peggio ancora, di pagine di carta all’interno del libro stesso. Una buona storia, si dice, non dovrebbe averne bisogno. Ancora troppo pochi capiscono quanto potrebbero averne bisogno i lettori [151].
3. La salvezza di Euridice
Il mito e la tradizione raccontano che molti aedi, come Omero e Demodoco, erano ciechi. Per i Greci la vista era lo strumento più affidabile per conoscere il mondo. Oida, il perfetto del verbo orao, significa tanto «so» che «ho visto», e dalla stessa radice derivano le parole per «idea» (eidea), «immagine» (eidolon), «sapere» (eidema) e «scienza» (eidesis).
Il poeta dunque non aveva bisogno di conoscere come gli altri uomini, e nemmeno di distrarsi a guardare, perché solo così poteva farsi possedere dalle Muse e accedere a un sapere divino.
Questa simbologia della cecità non tiene conto di un particolare: l’udito. I Greci infatti svalutavano il genere di conoscenza che può visitarci attraverso le orecchie. La voce altrui era un veicolo di opinioni soggettive (doxai), in opposizione esplicita con la verità universale. Ancora oggi diciamo «voci» per intendere «notizie non verificate, pettegolezzi».
In realtà è proprio ascoltando il maestro che il giovane aedo imparava le storie di dèi ed eroi. Ed è «ascoltando» il racconto dei fatti – cronache, storie e attualità – che possiamo tentare, a occhi chiusi, le trasformazioni narrative descritte fin qui [152]. Questa cecità poetica è l’unico distacco che ci sentiamo di porre, tra noi e le storie. Una distanza che riguarda giusto la performance: come un calciatore, coinvolto fino al midollo da una finale mondiale, cerca di tirare il suo rigore senza badare agli spalti gremiti.
Fu proprio la vista, invece, a rovinare l’esistenza di Orfeo, il mitico cantore figlio di Calliope, la Musa della poesia epica, e secondo alcune leggende antenato dello stesso Omero.
Il mito è molto noto e la versione più classica è quella raccontata da Virgilio nelle Georgiche. Orfeo è innamorato di Euridice, una ninfa degli alberi, il cui nome significa «grande giustizia». Un giorno Aristeo, figlio di Apollo e Cirene, la insegue lungo un fiume per violentarla. Euridice riesce a fuggire, ma viene morsa da un serpente e muore. Allora Orfeo decide di scendere agli Inferi per riportarla nel mondo dei vivi. Con la sua poesia incanta Cerbero e Caronte, che lo lasciano passare. Persino i dannati interrompono stupiti i loro eterni supplizi: la pietra di Sisifo rimane in equilibrio sulla montagna, le Danaidi smettono di riempire la loro botte forata, e infine Persefone convince Ade, il dio dei morti, a lasciar partire Orfeo insieme a Euridice. Il Signore degli Inferi accetta, ma a una condizione: che Orfeo non si volti mai indietro a guardare l’amata, finché entrambi non saranno usciti dal regno dell’ombra. I due allora si mettono in cammino, risalgono la scarpata infernale, e proprio quando sente ormai la luce carezzargli le guance, Orfeo si volta ed Euridice muore di nuovo, e per sempre.
Davvero gli dèi non amano chi si guarda alle spalle. La fede non ammette incertezze. La moglie di Lot fu tramutata da Yahweh in una statua di sale, per essersi voltata a guardare Sodoma, distrutta da una pioggia di fuoco. Non è un caso che fosse proprio una donna a lanciare l’ultimo sguardo a una comunità morente.
Il gesto di Orfeo è stato interpretato in molti modi. Secondo Virgilio si trattò di una «improvvisa pazzia». Orfeo è «immemore» e «vinto nell’animo».
Cesare Pavese e Gesualdo Bufalino hanno esplorato entrambi la possibilità di un eroe consapevole, che si volta apposta [153]. Per lo scrittore piemontese è ridicolo pensare che Orfeo abbia agito per errore, per capriccio o per amore. «Non si ama chi è morto», ed Euridice si sarebbe portata dietro per sempre, nel sangue e nella carne, il sapore della morte e del nulla.
In realtà Orfeo è sceso agli Inferi per cercare se stesso («Non si cerca che questo»). Certo è difficile pensare a una distrazione o a un’ansia insopprimibile, specie a un passo dalla speranza. Ma è altrettanto difficile pensare che il perfido Ade abbia imposto a Orfeo un compito tanto semplice. Se l’ha fatto, è perché sapeva che gli sarebbe stato impossibile obbedire. Non è scemo Orfeo, ma non è scemo neanche Ade.
Perché allora Orfeo non può far altro che voltarsi? Come fa Ade a essere certo che lo farà?
Un cantore, un narratore, è per definizione colui che non dà le spalle, specie sul limite tra ombra e luce, tra inferno e speranza, tra passato e futuro. Non volta le spalle a chi lo accompagna. Se il gesto di Orfeo fosse volontario, potrebbe dimostrare il bisogno di isolarsi, di fuggire la società. Come gesto inconscio, inevitabile, significa invece l’esatto contrario, cioè che chi racconta non può far finta che gli altri non esistano. Quando avverte la luce, quando intuisce la speranza, il cantastorie ha bisogno di condividerla,
di sentire ciò che sente l’altro, di immedesimarsi, per non raccontare soltanto i suoi sogni.
Non volta le spalle a ciò che dovrà raccontare, si rifiuta di praticare il disinteresse, il controllo, perché non è questo il suo modo di capire, di sentire il mondo. L’opera non può farsi senza la sua partecipazione emotiva.
Infine, non volta le spalle al dubbio. Ade gli chiede di avere fede, di credergli sulla parola. Ma Orfeo, il cantore divino, non può lasciarsi andare alla fede, perché chi racconta ha bisogno di incertezze, di incoerenze, di potenzialità creative. Non si volta per essere certo che Euridice lo segua: per questo gli basterebbero le orecchie, i rumori dei passi, il respiro. Si volta per manifestare la sua volontà di non credere,
di tenersi le proprie domande, di non farsi imporre le risposte.
Orfeo non ha sbagliato: è la richiesta di Ade che è assurda, inconciliabile con la sua natura. La mia frustrazione non è per l’errore di Orfeo, ma per l’ingiustizia dell’Inferno. Mi chiedo allora come potrei riscrivere il mito, per salvare Euridice in maniera credibile, senza interventi magici di cavalli alati.
Cos’altro potrebbe succedere, per evitare il finale? What else, cos’altro potrebbe fare o avere l’eroe, che gli autori del mito si siano dimenticati di considerare?
Mi viene in mente che Orfeo potrebbe essere cieco. In fondo è l’aedo per eccellenza, colui che gli Argonauti preferirono ascoltare, invece di schiantarsi sugli scogli delle Sirene [154]. Non è un cambiamento estremo e in fondo ha le sue buone ragioni. Anche se cieco, credo che Orfeo si volterebbe lo stesso verso Euridice. Per darle una mano, per aiutarla nell’ultimo passo, il più importante, tra la morte e la vita, tra la realtà dell’Ade, solida come roccia, e quel raggio di luce che invita a sognare, a immaginare il resto.
Penso si volterebbe, e così facendo, proprio su quel limite, spalancherebbe una contraddizione. Una pausa sufficiente a non far morire Euridice.
Ade arriverebbe di corsa, per rinfacciargli di essersi voltato.
Orfeo risponderebbe di non aver guardato Euridice. E con le parole, sappiamo già chi avrebbe la meglio.
Un Orfeo cieco, con le orecchie bene aperte e incapace di non voltarsi indietro, potrebbe uscire dagli Inferi tenendo per mano l’amore della sua vita.
Credo che – metaforicamente – sia compito di ogni narratore trovare un finale alternativo alla vicenda del Bardo Orfeo.
Perché il finale del Mito, per quanto sublime, è assolutamente ingiusto.
Quella vostra, che affida alla cecità del Nostro la salvezza di Euridice, mi pare meravigliosa.
Nella mia ignoranza, penso che i vostri saggi alla fine riescano a raggiungere più gli scrittori che i critici (l’ultimo di WM4 è illuminante). Il che accade non per colpa vostra.
Ma perché il critico – troppo spesso – si accontenta di vedere Orfeo dilaniato dalle Baccanti ed Euridice sprofondata per sempre nelle Tenebre.
il critico – troppo spesso – si accontenta
«Qualcuno, ieri, mi diceva che un critico è come un eunuco in un harem. Può osservare, studiare, analizzare.. ma, da parte sua, non può far niente» (Isaac Asimov)
Credo che, se il critico accettasse di diventare o di riconoscersi “fan” (umiltà? sentirsi parte di una comunità?), potrebbe invece fare delle belle riflessioni, -si parva licet- come ha fatto WM1 (e WM) in NIE.
Parto dall’ovvio: la storia (seppure virata a lieto fine per ragioni politiche e drammaturgiche) di Orfeo ed Euridice inaugura la storia del melodramma (“Euridice”, dramma musicale rappresentato per la prima volta il 6 ottobre 1600, a Firenze, con testi di Ottavio Rinuccini e musiche di Jacopo Peri) perché Orfeo, con il suo canto ammaliatore che scioglieva i cuori di pietra e ammansiva le belve feroci, contiene in sé la “grande questione” del potere della musica e di quello della poesia (sulla quale già Aristotele si interrogava). Ho studiato molto il melodramma (soprattutto quello settecentesco), che considero il primo vero genere “pop” apparso sull’orizzonte letterario, e continuo ancora adesso a interrogarmi su questo filone del mito di Orfeo e spesso mi volteggiano nella testa i versi di Calzabigi per l’azione teatrale “Orfeo ed Euridice” musicata da Gluck ed eseguita per la prima volta a Vienna il 5 ottobre 1762 (che stavolta finisce “male”): «Che farò senza Euridice! Dove andrò senza il mio ben! Dove andrò! Che farò!».
E anch’io, come WM2, mi sono interrogata su questa meravigliosa storia d’amore finita – com’è d’uopo? – tragicamente. Orfeo non resiste, o è lei a implorarlo («Guardami almen. Dimmi: son bella ancora… Vedi… Odi…», fa appello ai sensi di Orfeo, secondo Calzabigi, la bella Euridice), e lui non resiste. Si volta, preferendo la luce dell’amore a quella che già si intravede nel fosco budello che stanno percorrendo, e perde Euridice, irrimediabilmente. E mi sono chiesta: ma Euridice non aveva sentito le condizioni della sua remissione in libertà? (l’amore sente qualcosa che non sia se stesso?) E non potevano essere più pazienti? (l’amore conosce la pazienza?) Perché, soprattutto, l’amore deve essere sottoposto a condizioni?
Credo anch’io che si giochi tutto sui “sensi” messi in gioco (Vedi… Odi…) e mi suggestiona assai l’ipotesi di WM2…
Danae mi riportasti alla memoria l’esame di storia del melodramma.
Questo è l’incipit del Secondo Atto dell'”Orfeo e Euridice” di Gluck (straordinario).
Riguardo alla domanda.
Di versioni del mito ce n’è a volontà. Anche trai classici. Solitamente Euridice non sa. E’ ignara del patto. Forse questa ignoranza, il non aver condiviso questo temibile tranello – da parte di Orfeo – fu già motivo di fatalità.
Io penso che la grandezza della tragedia sia proprio nell’insensatezza del gesto di Orfeo.
Come il vecchio marinaio di Coleridge che uccide l’albatros e condanna sé e la ciurma alla peggiore delle morti.
“…Mi volterò perché l’ho visto il gelo
che le ha preso la vita,
e io, io adesso, nessun altro,
dico che è finita;
e ragazze sognanti m’aspettano
a danzarmi il cuore,
perché tutto quello che si piange
non é amore.
e mi volterò perché tu sfiorirai,
mi volterò perché tu sparirai,
mi volterò perché già non ci sei
e ti addormenterai per sempre.”
Questa è la motivazione di Vecchioni.
@Ekerot: grazie per l’apertura del secondo atto!!!!!
Vedo che è saltata una frase: per precisare, anche l’opera di Calzabigi-Gluck finisce bene, con un finale un po’ “appiccicato”: insomma, c’è Orfeo disperato, che medita il suicidio per poter tornare da Euridice, quando gli si para davanti un tizio che lo disarma, e lui gli fa: “Ma, insomma, come ti permetti? Chi sei che osi trattenermi?” e quello: “Ma sono Amore” “E che vuoi?” “Farti felice, ti rendo Euridice”. E così, un po’ “alla Bella addormentata”, Euridice si risveglia e i due amanti sono riuniti…
Scusatemi ancora.
C’è anche la bella versione di Kurumada, il mitico ideatore di “Saint Seiya”.
Nel suo manga, Orfeo segue un’ulteriore versione.
Come d’accordo con Ade, Orfeo non potrà voltarsi e scorgere Euridice fino alla vista del Sole.
Orfeo ad un certo punto scorge il Sole e si volta. Ma non è il Sole, bensì la luce ingannatrice di uno scagnozzo di Ade.
Vede Euridice già per metà coperta di pietra, e cosa fa?
Beh. Un vero colpo di scena.
Resta con lei. Decide di non uscire dagli Inferi, bensì consumare la sua vita accanto alla donna che ama.
Diverse osservazioni, spero utili:
1) il link alla nota 138 è obsoleto. L’articolo originale si trova qui. Anche nei primi due link dell’articolo manca /giap/ :))
2) esiste tutto La salvezza di Euridice in un unico PDF? Mi sarebbe comodo da consultare… (Forse c’è già sul vostro sito e sono solo incapace di trovarlo.)
3) riguardo la miscela immaginazione/realtà (par. 6): da piccolo avevo «difficoltà» a leggere Borges. Non capivo fino in fondo i giochi metatestuali e le strizzatine d’occhio (ad esempio i riferimenti bibliografici che rimandano a libri inesistenti), proprio come, fino a una certa età, non si capisce l’ironia. Era un confine soffuso che, visto che ero troppo piccolo, percepivo come confuso.
In seguito, ho ritrovato quella stessa sensazione di «corto circuito» leggendo altri testi, e mi è parsa legata a un discorso di willing suspension of disbelief, di «contratto con l’autore»: proprio come non accetteremmo, alla fine di un lungo romanzo completamente realistico, che il protagonista nelle peste venga salvato da una schiera di angeli apparsi all’improvviso (o da qualsiasi altro deus ex-machina), «fa strano» vedere comparire elementi fantastici o non-realistici se non sono stati per lo meno ventilati (anche solo attraverso l’«atmosfera») in precedenza. Quando l’autore è un maestro, accettiamo qualsiasi passaggio docilmente (sto pensando a Cecità di Saramago, o a quasi tutto Stephen King). Quando la parte realistica, tuttavia, si fonda su episodi o personaggi storici «cristallizzati» nella conoscenza collettiva, lo scarto fantastico è difficile da realizzare: puoi postulare un what if su cui fondare un romanzo («Cosa sarebbe accaduto se l’Asse avesse vinto la guerra?»), ma non puoi scrivere cento pagine che ripercorrono con fedeltà gli eventi storici della Seconda Guerra Mondiale e poi, all’improvviso, far sì che Mussolini venga ucciso da un sicario di Churchill… O meglio: lo puoi fare, ma se non lo hai preparato per bene in precedenza, al lettore sembrerà «strano».
Però questa miscela è un filone poco esplorato che sarebbe interessante indagare. Ho l’impressione che buona parte di La vita è bella si regga su un meccanismo simile: la rivisitazione di un evento storico per la maggior parte di noi «cristallizzato» come tragico in chiave comico-fantastica. Una volta che riesci a «sospendere l’incredulità», può accadere di tutto: scene surreali, calembour… Poi verso la fine, quando hai il rientro sul binario «realistico», ti frana addosso nuovamente la realtà, ti tornan su tutti i magoni «storico-tragici», vieni preso alla sprovvista, e ti commuovi.
4) più che la rana e il bue, a me venivano in mente le bolle di sapone… :))
5) su Orfeo ed Euridice. Intanto, magari ti incuriosisce sapere che per i cantori bretoni uno dei sensi fondamentali era l’udito. (Alcuni dei canti più antichi cominciano con Ha glevaz-te?, «Hai udito?».) Ho lavorato molto su Orfeo/Euridice quando mi occupavo del mito della Gorgone, e avevo pensato — buffo — la stessa cosa: «È un cantore: “dovrebbe” essere cieco!». Anche perché associavo Orfeo ad altri miti in cui è «problematico» lo sguardo diretto: la Gorgone, Semele che vuole a tutti i costi fissare Zeus in tutto lo splendore e viene incenerita…
Ma stasera, leggendo, ho notato per la prima volta molte somiglianze «incrociate» col mito di Eros e Psiche. Se non ricordo male, quando Eros osserva Psiche nel sonno, durante il primo incontro, lei si sveglia e lo fissa direttamente negli occhi (anche se lui in quel momento è invisibile), lui si spaventa, e si punge con una freccia (e si innamora). Quando, in seguito, Eros le fa visita ogni notte, esige che Psiche lo aspetti al buio, perché non vuole essere visto. Le sorelle di Psiche, gelose, insinuano che l’amante misterioso sia un orribile serpente, pronto a divorare lei e il bambino che porta in grembo, e la invitano ad osservarne la vera forma… (Cosa che Psiche fa, di nascosto, facendosi luce con una lampada ad olio, ma purtroppo lo sveglia. Ovvero: quando guarda direttamente, la storia ha il risvolto tragico.) In alcune versioni, sempre se non sbaglio, Psiche, durante le peripezie per riconquistare Eros, deve persino scendere agli Inferi, a supplicare Persefone, con tanto di imprese (superare Cerbero) e relativi vincoli (non mangiare altro che pane).
Da piccolo, pensavo a Orfeo/Euridice come a un mito della «debolezza» umana (Pandora che non riesce a trattenere la curiosità e apre il vaso: Orfeo si volta per «incertezza», non è sicuro che Euridice lo abbia seguito passo passo, è roso dal tarlo del dubbio: non resiste, non ha «fiducia», e per questo è perduto).
Ora, alla luce degli altri parallelismi, mi sembra più un mito che parla della Morte, e che segue nella tradizione di altre cose che non si possono guardare in modo diretto. Il serpente, in epoca precristiana, spesso era il Tempo (vedi le pitture pompeiane in cui Iside lo schiaccia col piede nudo). Anche prima di chiedersi cosa sia Euridice, ci si può domandare da cosa è vinta, da cosa viene uccisa. In questo caso, la raccomandazione di Ade diventerebbe: la Morte è orrenda, non può essere guardata. La puoi cantare, ma non la puoi guardare direttamente, esattamente come Semele non può guardare Zeus (o Perseo, senza scudo, la Gorgone; o Psiche, Eros). In questo senso la poesia (/la letteratura) avrebbe il ruolo di «filtro», trasfigurazione, attraverso cui puoi osservare ciò che è tremendo senza rimanere sfregiato, attraverso cui l’orribile diventa potabile. (O sopportabile.) La stessa Gorgone ha a sua volta i serpenti, che stanno anche sul simbolo di Esculapio, che cerca di curare, quindi di «allontanare la morte». In questo senso, un Orfeo cieco, per quanto sia un’immagine bellissima (e che io stesso ho usato) è un’immagine nello specchio, «rovesciata»: perché è la visione stessa che, se diretta, rende ciechi (come quando Tiresia sorprende Atena al bagno), non si può essere ciechi «per sfuggire alla visione»… I nostri Orfei devono avere il coraggio di non essere ciechi.
PS: straordinario come certi artisti intuiscano le cose «di pancia»: forse non si sarà fatto tutti questi seghini mentali (anche se, conoscendolo, non è detto), ma ho sempre trovato azzeccatissime le parole di Vecchioni. Kurumada mi mancava, ma anche il suo colpo di scena mi sembra notevole.
Questo è stato uno dei vostri saggi che ho apprezzato maggiormente (scrivo «vostri» perché immagino che nella stesura di WM2 molte cose siano tracimate). Ha toccato un’infinità di argomenti che amo molto e mi stanno a cuore, per cui un grazie è doveroso. Se non fossi in bolletta sparata, lo pagherei anche! ^^
Ho finito di leggere oggi New Italian Epic, con annesso il saggio di Wu Ming 2.
Molti spunti di riflessione. Molti. Soprattutto, mi pare, su quel che non riguarda la descrizione dei libri del Nie, ma sul ruolo della letteratura, del raccontare storie, di immaginare il futuro.
Ma banalmente quel che più mi preme di condividere in particolare con gli autori è altro: leggendo questo saggio, non so per quale meccanismo mentale e non mi interessa saperlo, mi è venuta tanta voglia di leggere e tanta voglia di scrivere.
Penso sia un effetto collaterale non da poco.
Non so se poi effettivamente leggerò di più o scriverò qualcosa: ma il fatto stesso che New Italian Epic mi ha scatenato questo desiderio mi sembra già un gran bel risultato.
E vi ringrazio per questo.
Saluti e auguri: racconterò ad amici e parenti storie su di voi e sui vostri libri.