1775. Diciassettenne, Maximilien de Robespierre viene incaricato di tenere un discorso di benvenuto davanti al Re, che deve visitare il collegio dove il giovane vive e studia. Tutti schierati, studenti e tutori attendono Luigi XVI e Maria Antonietta sotto una pioggia battente, e l’attesa dura ore. La carrozza come dio vuole giunge; la coppia reale non ne scende per paura di bagnarsi.
Se si dovesse indagare il personaggio per renderlo un carattere da film o da romanzo, questo sarebbe un buon punto di partenza. La camera inquadra in primo piano gli occhi dell’adolescente, che sono fermi, inespressivi. Poi si allontana, lenta, rende prima la figura intera, poi il gruppo, finché Robespierre giovane non è che una figura tra le tante nell’aria diaccia.
Un’altra scena topica potrebbe essere quella del suo arresto. La mattina del 28 luglio 1794 le Guardie Nazionali irrompono all’interno dell’Hotel de Ville e arrestano Saint-Just. Il fratello di Robespierre, Augustin, si getta dalla finestra. Viene raccolto moribondo, nella polvere della via. E Maximilien? C’è chi dice che oppose resistenza, ma il gendarme Charles-Andrè Merda, dicono, gli fracassò la mascella con una pistolettata. Altri sostengono che tentò il suicidio. Altri ancora, che il colpo partì accidentalmente dalla pistola di Robespierre, mentre tentava la fuga. Il regista, o il romanziere, dovrebbe scegliere.
E una volta fatta la scelta, che cosa avrebbe in mano?
Un personaggio da film, o da romanzo.
C’è un sito francese che consente di parlare con i morti. Su Dialogus2.org la gente fa domande ai personaggi del passato e ottiene risposte che hanno un certo grado di verosimiglianza stilistica e psicologica. E’ un’idea divertente, ci sono esempi interessanti e risposte pregevoli.
Tra i personaggi più richiesti in una ricchissima costellazione c’è proprio l’Incorruttibile, che viene interpellato a proposito di svariate questioni e che fornisce sempre domande filologicamente e stilisticamente impeccabili.
I contemporanei sembrano avere molto da chiedere a Maximilien de Robespierre. Domande sulla sua vita sentimentale, sulla sua dieta: qualche domanda che riguarda snodi politici ed episodi della storia della Rivoluzione; quella con il maggior peso specifico riguarda proprio il presunto tentativo di suicidio poco prima del suo arresto.
Le domande che i contemporanei pongono a Robespierre ottengono quasi sempre risposte di circostanza. L’impressione è che si giri attorno a un argomento. All’Argomento centrale, come se la contemporaneità non avesse nulla, in realtà, da chiedere. Annegato in un profluvio di parole Robespierre, con tutta la sua capacità oratoria, è costretto a tacere.
Tra i contemporanei, non spiccheremmo per profondità. Abbiamo avuto voglia di chiedere all’Incorruttibile cosa pensasse sotto quella pioggia, in piedi davanti al collegio, all’epoca dei suoi diciassette anni, come se l’inquadratura del nostro regista mentale non bastasse, come se avessimo bisogno di parole per confermare ciò che istinto e ragione suggeriscono.
Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre, nato alle due di notte nel nord della Francia, cresciuto per diventare avvocato, che aveva un fratello anche lui rivoluzionario, anche lui finito male, Robespierre l’oratore, Robespierre l’inflessibile, il pacifista contrario all’esportazione della rivoluzione, il politico che esclude le donne dalle categorie filosofiche homme e citoyen, il suscitatore di incontrollabili demoni storici, e, poiché esiste infine una giustizia poetica nella storia, l’uomo travolto dalla stessa dinamica che aveva assecondato, è un personaggio del tutto fuori moda. Sotto quella parrucca si fa fatica a riconoscere un uomo. C’è solo l’eco, distorto, di un’idea. C’è solo un nome sui libri di storia, quelli che in genere ci dicono che la questione dei diritti umani, delle libertà civili eccetera si poteva affrontare e risolvere in maniera meno brutale, con meno sprechi, meno violenza, meno fanfare, meno retorica. Tanto la borghesia avrebbe vinto ugualmente, perché tanto sconquasso?
Il 1789 senza il 1793, quindi. E’ una tendenza del tutto contemporanea. Coca cola senza caffeina, sigarette che si possono fumare in aereo perché non si accendono e non fanno fumo, yogurt senza grassi, dolcezza senza zucchero, sensazioni senza corpo, Guerra apparentemente senza Guerra, nel senso che non tocca noi, Rivoluzione senza Rivoluzione: l’edulcorazione prima di tutto. Secondo il filosofo sloveno Slavoj Zizek questo è un tratto costitutivo del presente, o meglio del “gusto” che forma il presente. Il gusto non sarebbe che una predisposizione ideologica di base. Il gusto dei contemporanei di Robespierre ci è alieno almeno quanto il garum, la salsa di pesce marcio alla base della cucina degli antichi romani.
Ai rivoluzionari, è noto, l’antica Roma piaceva molto.
Il punto è che Robespierre è all’inizio delle incarnazioni moderne di quella che Alain Badiou chiama “Idea Eterna”: la prospettiva di una emancipazione radicale, ugualitaria, che riguardi tutti quanti, proprio tutti, nessuno escluso. Questo gusto per l’uguaglianza ha attraversato il secolo scorso, ed è esattamente ciò contro cui il mondo di cui facciamo parte ha combattuto con ogni mezzo e senza quartiere, fino alla vittoria e all’ingresso nella fase storica che si trascina davanti ai nostri occhi, e che contiene il peso delle nostre vite. Il nostro tempo, che confonde aggressore e aggredito, vittima e carnefice, che tende ad assegnare ad entrambi le stesse ragioni, non è a proprio agio di fronte a certe idee e alle persone che le incarnano. Per noi, schiacciati sull’eterno presente della merce senza caffeina, senza grassi, senza nicotina, con il minimo di effetti collaterali, ciò che Robespierre rappresenta è intollerabile.
Se domani si aprissero i cieli e, come nel film di Vittorio De Sica con Paolo Stoppa, Vittorio Gassman, Fernandel e – inevitabilmente – Alberto Sordi una voce annunciasse il Giudizio Universale, allora quello sarebbe Terrore. Certo molti di noi continuerebbero, come nel film, a fare esattamente quello che fanno, come Sordi, che continua a vendere bambini in America. Molti confonderebbero il terrore con la paura, cioè con l’abitudine, con il nostro quotidiano di incertezze, e chiederebbero un azione dell’amministrazione contro il degrado che un Giudizio imporrebbe alle nostre strade, ma quando l’idea di Giustizia appare nella storia, come un fulmine, non ci sono politiche possibili che prevengano dal terrore, e Robespierre lo sapeva. Quando la Giustizia smette di essere un problema, e viene confusa con la moralità dei governanti, è il tempo delle politiche che amministrano la paura.
Bah! Quel deista devoto… Io son sempre stato con Jacques Roux ;-)
E Leclerc, e Varlet. Enragés, hébertisti. E poi Gracco Babeuf. Filippo Buonarroti.
La rivoluzione francese va presa in blocco. Lo ha già detto Hobsbawm nel suo bel libro Echi della Marsigliese (1989). Dalla convocazione degli Stati Generali fino a Waterloo è tutta rivoluzione francese. Non si può dire: prendo questo e non quest’altro. L’89, il Terrore, il Termidoro, Napoleone. E’ un unico concatenamento, non si capisce il fenomeno rivoluzionario se non si coglie la pazzesca complessità del “più grande spettacolo mai offerto al genere umano”.
[…] noto colletivo di scrittori Wu Ming su GQ di luglio 2010 e che traiamo direttamente dal loro blog GIAP sia illuminante ed interessante da moltissimi punti di […]
Qualche titolo per capire bene la Rivoluzione Francese?
Una curiosità (vado un po’ OT), per caso avete letto il libro di Luzzatto su Robespierre junior uscito di recente? È un libro che mi incuriosisce molto, ma che non ho avuto ancora modo di leggere.
http://www.ibs.it/code/9788806199647/luzzatto-sergio/bonbon-robespierre-terrore.html
Bel post.
Qualcuno potrebbe consigliarmi qualche buon libro sulla Rivoluzione Francese, Robespierre e altri rivoluzionari che hanno segnato la storia? Grazie. ciao
@ claudio185:
Albert Soboul, Storia della rivoluzione francese. Non sarà esattamente l’ultimo grido della storiografia (il testo, se non ricordo male, risale agli anni ’50) ma l’autore è un solido studioso marxista e difende con competenza l’operato di Robespierre. Letto una ventina d’anni fa nella gloriosa collana supereconomica Newton Compton, da un rapido controllo su Internet mi risulta ora riedito nella BUR.
Noi abbiamo appena intrapreso un percorso di studio della rivoluzione francese, però si sa che noi privilegiamo gli sguardi sghembi, i coni d’ombra, quindi stiamo leggende cose più (almeno in apparenza) bizzarre. Però…
Vogliamo i “classiconi”? Quelli dei tempi dell’università? I libri di Georges Lefebvre. Anche quelli non sono proprio “l’ultimo grido”, ma sono un grido fondamentale. “La rivoluzione francese” di Mathiez e Lefebvre (in 2 volumi, Einaudi).
Queste sono grandi opere, vasto respiro, sguardo largo, mole consistente. Potrebbero non essere la cosa migliore per cominciare. Esistono moltissimi libri “pop” o comunque divulgativi, molti ne uscirono in occasione del Bicentenario. La bibliografia sulla rivoluzione francese è sterminata a tutti i livelli, e tante cose sono fuori catalogo, reperibili solo in libreria. E’ la sorte anche del libro di Hobsbawm citato sopra (che non è sulla rivoluzione francese, ma su come l’eredità della rivoluzione francese sia stata campo di battaglia ideologico e storiografico nei due secoli a venire).
Forse prima di leggere della rivoluzione francese bisognerebbe leggere del Settecento, un secolo che tradisce ogni aspettativa (ma in fondo tutti i secoli tradiscono le aspettative, se esci dai percorsi turistici). Su questo secolo, si sa, noi consigliamo sempre le opere di Robert Darnton, da qualche anno il nostro storico preferito. L’età dell’informazione è una buona porta da cui entrare. Darnton ha studiato la formicolante genesi dell’immaginario che si espresse nella Rivoluzione, ha tracciato una genealogia degli elementi più “strani” (è l’aggettivo, apparentemente antistoriografico, che usa lui) di quell’immaginario. Ad esempio, ha studiato come funzionava il gossip a Parigi nei decenni precedenti l’89.
Prima ancora, si potrebbe leggere un bel romanzo popolare, un polpettone di quelli fantastici e vibranti di energia, che restituisce benissimo il fermento dell’89. Scaramouche di Rafael Sabatini è appena stato ristampato in italiano.
Sopra si parlava della “estrema sinistra” della Rivoluzione. Io tengo cara una raccolta di interventi degli Enragés (Léclerc, Roux e Varlet) che si intitola Gli arrabbiati. La fecero gli Editori Riuniti nel 1976, oggi si può trovare solo in qualche biblioteca.
Un sacco di riferimenti li trovate anche nel sito degli “Amici di Robespierre”:
http://www.robespierre.it/discorsi.htm
Scusate il caos. E’ che stiamo cercando di entrare nel tema da più direzioni contemporaneamente, possibilmente imprevedibili e serendipiche.
Non ho citato opere di Furet e di altri storici revisionisti. Sono troppo incazzati. Anche quando dicono cose giuste, danno sempre una cattiva impressione. Come Adornato quando parla del PCI o Pansa quando parla dei partigiani. Certo, si tratta di gente *più seria* di Adornato e Pansa. Insomma, se vi interessa quella roba si può usare google.
“Noi abbiamo appena intrapreso un percorso di studio della rivoluzione francese” dice Wu Ming 1…
Non credo che studiate tanto per fare, bolle qualcosa in pentola? Dopo la rivoluzione americana di Manituana quella francese?
Magari sbaglio e studiate per i fatti vostri e per cultura personale, ma se leggo “stiamo cercando di entrare nel tema da più direzioni contemporaneamente, possibilmente imprevedibili e serendipiche” penso a qualcosa di più.
Scusate se questo commento suona inopportuno ma il tema rivoluzione francese mi appassiona e l’ho di recente studiato dal punto di vista della formazione dell’opinione pubblica e sarebbe bello se rientrasse in qualche modo in un vostro futuro lavoro.
@Superpu,
non è un mistero: tre anni dopo l’uscita di Manituana, siamo tornati a lavorare sull’Atlantico e sul Settecento.
Ma questa è l’unica anticipazione che siamo disposti a dare :-)
hmmmm… Gatta ci cova: interessante!!!! ;-)
non so quanto c’entri (forse sì, andrebbe indagato), ma proprio ora La7 sta trasmettendo il documentario francese sulla nuova versione dell’esperimento sociale sull’obbedienza condotto da stanley milgram nel 1961, sulla scorta delle riflessioni sul processo ad Eichmann e sulla banalità del male (http://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_Milgram).
In breve: si coinvolgono delle persone in un gioco nel quale devono porre domande a un’altra persona. A ogni risposta sbagliata, chi pone le domande deve “punire” colui che ha dato la risposta sbagliata mandandogli scariche elettriche sempre più forti (ovviamente le scariche non sono vere e il giocatore che risponde non c’è, ma chi gioca non lo sa).
In questo caso, “l’autorità” è rappresentata dalla conduttrice di un gioco televisivo. L’80% dei concorrenti coinvolti ha giocato fino in fondo. Ha posto cioè 27 domande, infliggendo scosse fino a 480 volt a una persona di cui sentiva grida e richieste di aiuto.
Lo psicologo che ha condotto questa versione televisiva sottolinea il comportamento eteronomico dei concorrenti che, lasciati soli davanti all’autorità (la conduttrice che lo invita, lo esorta, gli impone di continuare a fare domande), rinunciano alla propria concezione del mondo e si mettono al servizio dell’autorità: soli, cioè senza un gruppo che li sostenga e li aiuti a riflettere sulla tensione creatasi tra “legge” e “morale”, sono senza difese e quindi non possono fare altro che obbedire.
Solo 9 concorrenti riescono a dire “non voglio” all’inizio del gioco (altri solo più avanti), scatenando l’atto di disobbedienza, e si rifiutano di andare avanti. In condizioni estreme, solo pochissimi sono riusciti a rompere il meccanismo.
La disobbedienza, quindi, è un atto individuale che nasce da una comunità che condivide valori comuni; è il frutto di esperienze che ci aiutano a imparare a dire di no, ad opporci all’autorità costituita.
C’entra Robespierre?
un ingresso “laterale” interessante può essere “novantatrè” di victor hugo.
questo splendido romanzo si può trovare ancora, credo, negli oscar classici mondadori.
Quoto Danae: “La disobbedienza, quindi, è un atto individuale che nasce da una comunità che condivide valori comuni; è il frutto di esperienze che ci aiutano a imparare a dire di no, ad opporci all’autorità costituita”.
Questo, IMHO, ha a che fare con un concetto che è solo apparentemente ossimorico: il concetto di “tradizione rivoluzionaria”. Robespierre, come i rivoluzionari americani, era giusnaturalista. Tradizione, comunità e diritto naturale oggi sono ritenuti per lo più concetti “di destra” (in particolare il diritto naturale è finito in mano a Ratzinger e gente del genere). Ma esiste come un filo rosso che attraversa tutta la storia europea fin dal pensiero greco, l’idea, che riemerge continuamente ora qui e ora là, della eguaglianza originaria e del fatto che “omnia sunt communia”. Robespierre ne è uno degli snodi. Un altro è il giovane Marx, quando scriveva articoli contro la legge che vietava alle comunità contadine di raccogliere la legna nei boschi. Ne ha parlato Ernst Bloch, fra gli altri, in quel testo difficile e poco conosciuto che s’intitola Diritto naturale e dignità umana (1961), dove ai giacobini e ai sanculotti è riconosciuta tutta la loro importanza. Contro un certo pseudo-marxismo che è sempre stato pronto ad etichettare come “borghese” tutto ciò che non reca ben visibile il timbro di approvazione del Comitato centrale.
Ma che ve lo dico a fare? E’ lo stesso filo rosso che percorre i romanzi storici di Wu Ming. Compreso il prossimo, evidentemente.
@ salvatore_talia
La tua analisi mi piace e risuona con la posizione di Badiou rispetto all’idea di Comunismo. Lui la chiama “idea eterna”, altro che pensiero debole-molle-imbelle.
Bello..! L’occhio filmico sul ragazzo che attende sotto la pioggia è magistrale..
Grazie Danae, quello che riporti è molto interessante..
Moniq: “l’occhio filmico” nun me l’aspettavo proprio!!! ;-)
Messa così, e pensando alle degenerazioni che il concetto e la pratica di Giustizia hanno avuto nei totalitarismi, effettivamente il Terrore ad un dato momento vi ha fatto capolino. Non so se esso sia insito a priori dentro il concetto di Giustizia inteso come “sistemazione ugualitaria”, però sono convinto che quando ci si deve (auto)organizzare in tanti, quando ci si dispone a preparare qualche atto sovversivo dell’esistente, il principio democratico non funziona. Non piacerà a molti, ma l’esperienza indica che un’azione collettiva necessità di autorità. Piano con la mitraglia, adesso :-)
D.
Il problema del Terrore è che nei loro sogni i rivoluzionari si immaginano sempre ad amministrarlo, mai a subirlo :-)
E tanto più uno si era vagheggiato in quel ruolo, tanto più alte sono le probabilità che si ritrovi sul lato sbagliato del fucile.
Però il Terrore (qualunque Terrore) va capito, va inteso, ne va fatto “tesoro”, cioè: dobbiamo assumercene la responsabilità, non ricorrere al facile alibi “Noi non c’eravamo ancora”. In un certo senso c’eravamo già anche noi, la nostra adesione a un’idea di [uguaglianza] [rivoluzione] [comunismo] [etc.] è in un certo senso retroattiva. Badiou intende anche questo quando parla – come sempre in modo piuttosto criptico – di “Essere” e di “Idea eterna”.
Mi spiego meglio, o almeno ci provo:
noi siamo eredi di tutta la tradizione radicale e rivoluzionaria, compresi i percorsi sfociati in orrori e degenerazioni. Non possiamo scrollarci di dosso quel fardello come se nulla fosse, dobbiamo farci i conti senza rimuovere, senza rinnegare, senza rimpiangere, senza riproporre.
A sinistra e nei movimenti radicali è pieno zeppo di gente che, in soldoni, dice: “Non c’entriamo un cazzo con lo stalinismo”, “Non c’entriamo un cazzo con questo”, “Non c’entriamo un cazzo con quello”, “Non è quello il mio album di famiglia”, “Vengo da un’altra tradizione” (che può essere quella del “comunismo di sinistra”, del consiliarismo, del comunismo libertario, dell’anarchismo, dei situazionisti etc.)
Questo è un modo di deresponsabilizzarsi, e di non ammettere che un po’ di Stalin è in chiunque di noi, un po’ di Necaev è in tutti noi, un po’ di Pol Pot, di Brigate Rosse, di anarco-insurrezionalista mentecatto è in chiunque di noi. Chiunque di noi può scivolare in uno di quei dispositivi, rimanere preso in quelle soggettivazioni. Lo eviteremo solo se non rimuoveremo quella parte di noi. Appunto, capire il Terrore.
Al di là di una somiglianza fugace e superficiale, questo atteggiamento non ha nulla a che vedere con il revisionismo degli ultimi decenni. Quello ti dice: non celebrate l’89 perché portò al ’93. Non celebrate il ’17 perché portò al gulag. Non celebrate la Resistenza perché nell’immediato Dopoguerra vi furono abusi etc. etc.
Invece “capire il Terrore” significa dire: non si può celebrare adeguatamente l’89 senza interrogare il ’93. Capire il Terrore è l’unico vero modo (non conciliante, non edulcorato) di celebrare la Rivoluzione.
A chi fa l’innocente e si dichiara fuori dalla foto di gruppo andrebbe risposto:
“Cari signori, non ci sono *tanti* album di famiglia rivoluzionari, ce n’è uno solo.”
Ce n’è uno solo, per quanto diseguale, rabberciato, lacerato. Noi WM ne abbiamo dato una rappresentazione pittoresca in Spettri di Muntzer:
«Se prestiamo al XVI secolo l’attenzione che ci chiede, incontreremo anarchici, proto-hippies, socialisti utopici, leninisti tutti d’un pezzo, maoisti mistici, stalinisti folli, le Brigate Rosse, l’Angry Brigade, i Weathermen, Emmett Grogan, Fra’ Tuck, il punk, Pol Pot e il compagno Gonzalo di Sendero Luminoso. Una grande armata di spettri e metafore.»
Vuol forse dire che nella tradizione rivoluzionaria tutto è uguale a tutto?
No. Vuol dire che nulla che appartenga a quella tradizione mi è alieno. Con tutti i problemi che questo comporta.
Evitare la rimozione, pre-venire. In ogni azione rivoluzionaria dunque ci sono i germi della sua possibile degenerazione. Dipende dal fatto che ci si prepara a immaginare/realizzare una giustizia terrena difficilmente attuabile ? Dipende dal fatto che in ogni atto rivoluzionario c’è sempre un’Altro da denudare, poi da arginare e forse eliminare ?
Victor Serge, in ” Memorie di un rivoluzionario” spiega nei dettagli la degenerazione stalinista, ma non offre mai il fianco al revisionismo che lancia via il bambino e l’acqua sporca. Quel libro è un atto d’amore verso qualcosa che è diventato altro da sè e si è abbrutito. E’ ancora possibile vederla così, o Serge è un folle ?
” nulla di quella tradizione mi è alieno.” Perchè un principio d’autorità, di responsabilità individuale e collettiva, degenera in Terrore ? E’ un processo necessario ?
Faccio domande perchè non ho risposte quadrate, e perchè l’alternativa è la resa.
D.
Non è questione se sia necessario o meno. Anche perché questo è il genere di domande che, appunto, reclama risposte “quadrate”, cioè euclidee, bidimensionali, con angoli facilmente misurabili e lati perfettamente diritti, mentre il divenire non è così. E’/era necessario? E’ accaduto. Noi siamo stati generati anche da quell’accadere, ne siamo figli (e di nuovo potenziali genitori) e non dobbiamo mai scordarlo.
“Noi siamo stati generati anche da quell’accadere, ne siamo figli (e di nuovo potenziali genitori) e non dobbiamo mai scordarlo”.
Un motivo per cui sicuramente dobbiamo fare tutti i conti con quegli anni è l’attrito provocato da quella Rivoluzione da un valore tanto sbandierato (l’uguaglianza, il pari diritto per ognuno di essere un cittadino) quanto poi interpretato in modo ristretto (tutti i borghesi sono uguali e hanno pari diritti). Da allora si amplia la schiera dei borghesi, ci sono entrati mano a mano braccianti, operai, donne e oggi potremmo quasi dire che ci stanno (ri)entrando i gay e la terza generazione di immigrati. Il punto è che per quanto si allarghi la schiera ci sarà sempre bisogno di trovare qualcuno da mettere fuori, ciclicamente. Perchè su questo si basa la società borghese, predica uguaglianza e applica discriminazione, gli “schiavi” le servono come l’aria. Che siano emarginati, veri schiavi, laureati sottopagati o immigrati del terzo mondo l’importante è che qualcuno sostenga l’ingordigia di chi ha diritto a tutto perchè lo ha deciso lui. La guerra per entrare nel novero dei “cittadini” mi pare ancora ben lontana dal risolversi (se è possibile che si risolva mai) e la si può in qualche modo ricondurre alla Rivoluzione che proclamava “Libertà, Uguaglianza, Fratellanza” fra tutti gli uomini senza concederla a tutti.
I diritti universali dell’uomo valgono per tutti? Oggi meno che mai, però sono stati dichiarati e che si voglia o no la storia ha preso quella direzione. Dall’attrito fra gli ideali e la loro applicazione vedo l’inevitabilità del 1793 come passaggio di quella Rivoluzione.
sul trittico rivoluzionario posto una frase sentita da Ivan Della Mea (pace all’anima sua…) qualche anno fa… “Dopo più di due secoli sulla libertà abbiamo ottenuto qualcosa, sull’uguaglianza ci manca ancora da fare quasi tutto e per quanto riguarda la fratellanza ancora non abbiamo combinato proprio un cazzo…”
Una lettura interessante e molto consigliata sui temi che riguardano Terrore e Rivoluzione, Evento e falso evento, irruzione del Reale, Giustizia Divina ecc. è “In Difesa delle Cause Perse” di Slavoj Zizek. Direi che qui il filosofo sloveno è al suo meglio. Il libro è lungo, l’analisi appassionante, poche cadute di tensione – come sempre quando irrompe materiale preso dalla pop culture che sembra appeso lì – il punto è che Zizek, ad es, non conosce il rock ‘n roll e le sue letture del cinema Hollywoodiano sono spesso forzate. Però qua dentro ci sono pezzi magistrali, un’analisi indimenticabile della nona sinfonia di Beethoven e pagine e pagine sull’Incorruttibile.
Non è proprio un libro da ombrellone, ma chi vuol fare lo sforzo sarà ripagato.
Io direi che se proprio dobbiamo essere per forza figli, allora siamo figli soprattutto degli errori delle rivoluzioni.
E se proprio dobbiamo celebrare, beh, bisogna andare a cercare col lanternino.
Perché appunto, come nelle migliori partite di scacchi, nelle vicende rivoluzionarie si sono commesse catacombe di errori.
Penso anche che bisognerà smettere di considerare le rivoluzioni alla stregua delle hit musicali, o dei film, i cui due possibili giudizi sono o successo o fallimento; perché nessuna rivoluzione potrà mai essere un successo.
Fatta questa premessa, la Rivoluzione Francese mi pare ancora il banco di prova fondamentale di qualsiasi riflessione sulla rivoluzione. Aldilà dei comunismi, dei socialismi, dei liberismi, dei capitalismi, e di tutti gli ismi (che sono un po’ sfrangimaroni, almeno per il sottoscritto). C’era ancora una certa semplicità di termini cui fronteggiarsi, che lungi dal banalizzare, può invece aiutare a chiarire.
Ecco, concludendo che le mie opinioni sulla Rivoluzione dell’89 sono tutt’altro che statiche, penso che al bivio della Pallacorda si intrapresero alcuni sentieri. Per fortuna l’umanità non ne inforca mai uno solo alla volta.
Uno di questi, era il peggiore possibile.
Devo ancora capire – presumo per mia ignoranza di studi – se le cose buone combinate da allora (tipo il Cinema, i Led Zeppelin, l’uomo sulla luna) siano state fattibili solo perché intraprendemmo il peggiore dei sentieri possibili, oppure sarebbero state lo stesso.
Messa così pare una domanda idiota, ma mi dà lo stesso assai da pensare.
Comunque, ovviamente, ci tenevo a dire che io faccio spudoratamente per Oscar François de Jarjayes.
(tifo!)
Divertente la prospettiva dei mitici Offlaga Disco Pax al riguardo:
“Ho fatto l’esame di seconda elementare nel 1975.
Il socialismo era come l’universo: in espansione.
La maestra mi chiese di Massimiliano Robespierre.
Le risposi che i Giacobini avevano ragione e che,
Terrore o no la Rivoluzione Francese era stata una cosa giusta.
La maestra non ritenne di fare altre domande.”
Dalla canzone “Robespierre”.
http://testi-canzoni.musiczone.it/offlaga-disco-pax/socialismo-tascabile/testo-canzone-robespierre.html
“perché nessuna rivoluzione potrà mai essere un successo.”
Penso al contrario che ogni rivoluzione sia stata un successo, quantomeno nel senso che ogni rivoluzione (diciamo “riuscita”) ha modificato il corso della storia e lo dimostra il fatto stesso che si continui ad analizzare: che offra esempio (positivi o negativi).
Dunque la rivoluzione come rifiuto di ineluttabilità, come pretesa dell’uomo di scegliere il proprio destino, dimostra la sua validità nella misura in cui incide su questo destino.
Che poi incida positivamente o negativamente è una cosa impossibile da definire: dovremmo poter sapere cosa sarebbe accaduto se questo intervento non ci fosse stato.
Inoltre bene e male, giusto e sbagliato, sono categorie mentali di ciascuno di noi e per ciascuno di noi sono fondate su storie e valutazioni differenti e dunque applicarle alla storia mi pare semplicemente assurdo. La storia non è giusta o sbagliata: è il passato, è stata, il massimo che possiamo fare è cercare di approfondirla, capirla ed utilizzarla per aiutarci a progettare il futuro, non certo giudicarla, non soprattutto in termini di giusto o sbagliato
Ciao Francesco.
Forse la mia frase abbisogna di un inserto esplicativo. Intendo dire con “nessuna rivoluzione potrà mai essere un successo” che il fatto già di dover ricorrere ad una rivoluzione – appunto, non un pranzo di gala – significa che l’uomo e la comunità di riferimento hanno fallito.
Non so quanto la rivoluzione sia così alto come concetto, ossia il rifiuto dell’ineluttabilità del destino.
Il destino di un singolo?
O il destino di un popolo?
Ma: esiste, il destino di un popolo? E chi lo conosce? Chi lo sceglie, chi poi realmente lo esercita durante una rivoluzione?
Non voglio infilarmi neanch’io nella nassa del “giusto” e dello “sbagliato”.
Però credo fortemente – quasi come una fede – che l’uomo arrivi sempre ad un punto in cui abbia delle alternative.
Si può fare questa cosa, ma si potrebbe anche fare quest’altra.
E nel momento in cui si sceglie e si agisce, allora io da postumo o contemporaneo ho tutto il dovere di giudicare. Altrimenti come approfondisco, capisco, ed utilizzo per il futuro?
Se una scelta non è mai giusta né sbagliata, significa che sostanzialmente si va avanti unicamente a tentativi.
Non credo si possa parlare nemmeno di fallimento, non almeno nei termini di “l’uomo”.
La società è un insieme (relativamente) equilibrato; un ecosistema nel quale si bilanciano diversi fattori e poteri. In questo contesto “bene” e “male” sono (abbastanza) ben definiti: l’uno è il rispetto della legge, l’altro la violazione.
Per modificare (intendo in maniera drastica ovviamente!) questo equilibrio, probabilmente non c’è nessuna alternativa all’atto violento, all’imposizione della volontà di un gruppo che finora non è stato egemone su quella di chi lo è stato. Qui la definizione di “destino”, almeno come lo intendevo io quando l’ho scritto: subire l’egemonia altrui o tentare di costituirne una nuova: prendere in mano la mia/nostra vita per decidere che farne.
Una volta praticato l’atto violento, per un certo periodo convivranno due differenti legalità: quella tradizionale e quella rivoluzionaria. In una situazione di questo genere nessun “giudice” (in senso lato) potrà essere legittimato a valutare giusto e sbagliato, bene e male, proprio in quanto vi sono contemporaneamente più sistemi di riferimento, ciascuno dei quali legittimato solo dalla sua forza.
E’ in questo contesto che nasce il “terrore” (sempre: in qualsiasi situazione di delegittimazione di un potere costituito). In assenza di una legittimazione condivisa non può che valere la legge del più forte.
A posteriori noi possiamo condividere o meno, ma non possiamo dire cosa avremmo fatto se fossimo stati immersi nella situazione. ne possiamo dire cosa sarebbe accaduto se chi ha scatenato il terrore non l’avesse fatto.
In questo senso dico che non possiamo giudicare. Non nel senso che non siamo leggittimati a farlo: anzi è fondamentale che noi si applichi il nostro giudizio morale alla storia perchè così facendo possiamo “moderarci” nelle nostre scelte per il futuro.
Ma applicare un criterio analogo a quello che – ad esempio – applichiamo con nostro figlio per punirlo o premiarlo, oppure con il politico di turno per votarlo oppure no, ha poco senso se non nessuno: sono cose ormai accadute, terminate: perfette come dicevano i latini! Non possiamo che prenderne atto cercando di fare tesoro delle esperienze e non riprodurre gli errori… O quelli che riteniamo tali.
@ Francesco-iQ
Ho forti dubbi che la questione Terrore possa essere posta in termini di mera legge del più forte. Il Terrore ha sempre a che fare con una dimensione tragica. Il Terrore è dell’ordine, in altri termini, dell’umano come istanza che porta oltre l’animale uomo; è qualcosa a che fare con i soggetti che immediatamente, per il fatto di aderire a un processo di verità, accedono alla dimensione dell’universale, non ha a che fare con gruppi umani in quanto comunità, gruppi culturali-ritualistici-iniziatici-razziali in lotta per la supremazia. Se il fascismo trionfa, questo non lo rende vero. Il suo concetto di Bene e il suo concetto di Male continuano ad essere falsi. Falsi, non “sbagliati”.
Questa distinzione è importante. occorre capire che il Terrore è una dinamica tipica degli Eventi rivoluzionari in cui l’Idea Eterna di emancipazione radicale-egualitaria-universale appare come forza trainante del processo storico: in altri termini, il Terrore è sempre Terrore Rosso. I giacobini mettono in atto una dinamica che li travolge; il posto meno sicuro dove stare, in un regime comunista come quelli che si sono dati storicamente, sono le posizioni di potere vero, politico- non si parla di amministrazione.
Non bisogna cioè confondere il Terrore con la dura punizione che il vincitore infligge al vinto, se non altro nel senso che il Terrore è sempre, in certa misura “autoinflitto”. Qui non è in ballo l’egemonia, è in ballo la verità.
Nei regimi fascisti in cui il punto d’origine è una pretesa “rivoluzione”, le dinamiche dell’esercizio della violenza sono profondamente diverse. Da un certo punto di vista, il fascismo non è che il doppio osceno della legge finalmente reso visibile: l’orrore infinito del campo di concentramento, le metodologie dell’industria utilizzate per l’annientamento dell'”inferiore”, la sozza impunità dei caporioni, la tortura praticata apertamente, o come nel mondo del dopo 11 settembre, ammessa, dicibile, evidente. Il fatto che l’ideologia-mondo si sostenti con la forza e con la guerra permanente non le conferisce alcuna legittimità, ai miei occhi semmai il contrario. Esiste, lo sappiamo tutti, e ne abbiamo esperienza quotidiana, una legalità illegittima.
Ai miei occhi ciò che è legittimo, invece, è provare a pensare l’impensabile e tentare l’impraticabile.
Non ho ben capito se WM5 voglia intendere che di fatto il Terrore è una tappa necessaria del processo rivoluzionario.
Se penso al Terrore giacobino e quello bolscevico, mi pare che alla base ci sia l’idea – sintetizzo – del “Dobbiamo salvare la rivoluzione”.
Salvare e ovviamente allestire le strategie per il futuro.
Adattare cioè la rivoluzione alla vita sociale quotidiana.
Normalizzare cioè la nuova situazione.
Stemperati gli entusiasmi iniziali per il ribaltamento di fronte, nel momento in cui bisogna passare all’atto pratico, ecco che spunta fuori il bisogno del Terrore.
Nella maggior parte delle rivoluzioni note (e sottolineo questo fatto, perché non penso si possa tracciare una teoria scientifica su di esse) quando è mancata la fase del Terrore, la rivoluzione è stata più o meno immediatamente soffocata.
Ma se la Storia deve insegnarci qualcosa, mi pare che questo Terrore porti con sé parecchi difettucci.
Il What If non è operazione tanto inutile, soprattutto in narrativa.
Robespierre era convinto di fare il Bene della Rivoluzione, quando decise di far fuori gli Arrabbiati e gli Indulgenti. Perché non avevano capito quanto e come aveva capito lui.
Immaginare cosa sarebbe successo se l’Incorruttibile avesse fatto un passo indietro, la trovo operazione assai utile.
Il che non significa dare il voto a Robespierre (per rispondere a Francesco): o per essere più espliciti, dire “fossi stato in lui, avrei fatto meglio”.
Significa piuttosto creare una nuova strada. Simularla e vedere dove ci porta.
@ Ekerot
Sì, potrebbe anche essere detto così. Necessariamente, quando appare un gesto rivoluzionario che davvero altera gli equilibri, che innalza ciò che era in basso e deprime ciò che era in alto, allora la fase del Terrore come autodifesa è inevitabile.
Però occorre tenere presente la distinzione tra Evento e falso Evento: l’Evento è ciò che taglia la rete della realtà socialmente condivisa per toccare il Reale, l’indicibile -nel caso di un evento rivoluzionario: i rapporti di produzione. Un falso evento rivoluzionario è la produzione di mito tecnicizzato, mito delle origini pseudo-rivoluzionario, la “rivoluzione fascista” come caso tipico. Una “rivoluzione” che salva in toto gerarchie, rapporti di potere eccetera. Che si limita a mettere “i propri” tra gli intoccabili.
In questo modo è possibile, se non una teoria scientifica della rivoluzione, almeno applicare uno strumentario concettuale adeguato che ci permetta di riconoscere ciò che è Evento da ciò che non lo è. In più, nel caso delle rivoluzioni che generano il Terrore, è sempre possibile immaginarne una versione “diversa”, “migliore”, partendo dai presupposti ideali: non lo è nel caso dei fascismi. Non è immaginabile un fascismo “migliore” rispetto a quello che si è prodotto storicamente. Per questo nego che ragione e torto, distinzione tra bene e male eccetera dipendano dal prevalere di un gruppo sull’altro. Per me è una forma di indifferenzialismo non accettabile. Lo ripeto: un fascismo vincente non renderà mai “veri” i suoi concetti sociali, politici e culturali.
@ Ekerot
Sono due piani diversi.
Il “what if” come simulazione di scenario, lettura “sghemba”, trivellazione critica nei coni d’ombra, indagine ex post per capire potenzialità future nascoste nel passato, va sempre praticato. Purché non sia finalizzato a dire: “di questo evento storico prendo una cosa ma non l’altra”.
All’inizio di questo thread citavo un libro di Hobsbawm che davvero vi invito a cercare in biblioteca o sui siti dell’usato. Hobsbawm racconta che le prime due generazioni di storici che ricostruirono gli eventi della Rivoluzione (anche quelli moderati e liberali) non avevano difficoltà a considerare la Rivoluzione in modo “olistico”. Cito un passaggio:
«…Anche se in ogni fase del processo rivoluzionario vi fu chi, ritenendo che le cose fossero andate abbastanza avanti, avrebbe preferito porvi un freno, gli storici liberali della Restaurazione, a differenza dei liberali moderni e di alcuni storici revisionisti contemporanei, avendo vissuto una grande rivoluzione di persona, sapevano bene che simili avvenimenti non si possono accendere e spegnere come fossero programmi televisivi. L’immagine evocata dalla metafora del dérapage [cambio di direzione] cui ricorre François Furet non ha corrispondenza storica: essa sottintende una possibilità di controllo del veicolo, mentre è proprio delle grandi rivoluzioni, come pure delle grandi guerre del XX secolo e di altri fenomeni paragonabili, sfuggire al controllo […] I liberali della Restaurazione, per quanto sgomenti da gran parte di ciò che era avvenuto nel loro Paese, non rifiutarono la rivoluzione, né se ne dolsero […] Nonostante tutti gli eccessi della Rivoluzione, non sarebbe stata peggiore l’altra alternativa: non fare la rivoluzione? Come diceva François-Xavier Droz, che da giovane aveva vissuto il periodo del Terrore: “Non imitiamo quegli antichi che terrorizzati dalle fiamme del carro di Fetonte chiedevano agli dèi di lasciarli in permanente oscurità.»
Poco più avanti, Hobsbawm cita Guizot (che più tardi Marx & Engels avrebbero nominato nel prologo al “Manifesto del partito comunista”, includendolo fra i tormentati dallo spettro del comunismo):
«Non voglio rinnegar nulla della Rivoluzione. Non voglio alleggerirla di nulla. La prendo nel suo insieme, con le sue verità e i suoi errori, le sue virtù e i suoi eccessi, i suoi trionfi e le sue disfatte… Mi direte che essa ha violato la giustizia, oppresso la libertà. Mi troverete d’accordo. E mi unirò a voi nello studio delle cause di queste deprecabili aberrazioni. Ma andrò anche più in là. Vi dirò che il seme di quei misfatti era già presente fin dagli albori della Rivoluzione.»
Ancora Hobsbawm:
«In realtà alla Rivoluzione appartengono tanto il 1789 quanto il 1793-1794: essa fu moderata, ma anche giacobina. Ogni tentativo di separare i due momenti, di accettare Mirabeau e respingere Robespierre, è irrealistico.»
Comunque le categorie di Badiou a me qualche problema lo pongono. Possono essere fatte lavorare, “giocate” contro altri reagenti, possono fornire stimoli, ma non mi sento di adottarle in toto. Non mi piace la terminologia che usa, perché è generatrice di ambiguità. Non mi piace la sua “metafisica”, il trascendente che sta in agguato dietro l’angolo. Non mi piace che rimuova dal quadro l’economia in cerca di una politica “pura”.
Detto questo, nella fase attuale trovo comunque più utile Badiou di Negri.
L’adozione sconsiderata delle categorie di Badiou comporta qualche rischio, è vero. E’ vero anche che più di una volta Badiou parla del suo approccio come di un pensiero di pura immanenza.
Il mio intervento però è centrato sull’idea che per raggiungere il reale occorre toccare l’economia, i rapporti di forza reali. Anche a me, in Badiou, non piace la rinuncia a Marx.
Il problema di Badiou è che se introduci attributi come “eterno” e orge di maiuscole reverenziali, e se parli di “Essere” a ogni pie’ sospinto, evochi comunque la trascendenza anche se affermi di parlare di immanenza. E’ un problema di frame concettuale: ne attivi uno pensando di muoverti in un altro.
Quella di Badiou è un’ontologia e resta legata a tutte le difficoltà dell’ontologia occidentale: ne eredita le tare secolari. Per quanto si sforzi di farla poggiare su basi materialistiche ed immanentistiche, non riesce mai ad uscire da quella che – a mio parere – resta un’impasse fondamentale del suo pensiero: da dove viene e come si produce l’evento (che poi è il punto cardine del suo pensiero). Il resto è estetica (le lettere maiuscole, l’allusione all’essere…) di eredità heideggeriana e sartreana: ed è appunto il frame all’interno del quale si muove il problema dell’evento, lasciando libero campo ad una sorta di attesa messianica.
Va preso con le molle, è vero, ma a mio avviso riesce a molto come scardinamento del post-modernismo.
A Ricca’, abbiamo solleticato i “badogliani” di Napoli! ;-D
hahahah. Beh, diamine, mi avete punto sul vivo. Mi piacerebbe tanto parlarne con voi davanti ad un bicchiere di vino, prima o dopo.
Capiterà. Io però sono astemio :)
Berlusconi oggi:
“Si vuol far ripiombare il Paese in una deriva giacobina”
Maximilien lives!
Eh già, è appunto questo il problema: i giacobini sono quelli che ti entrano in casa e ti ammazzano, rubano, ti spossessano. Non conta che il giacobinismo sia stato alle fondamenta del discorso sul suffragio universale, perchè ciò che conta e spaventa è che i giacobini urlassero che la giustizia andava fatta, praticata. Questa cosa mi fa venire in mente una canzone degli Offlaga Disco Pax che in “Robespierre” cantano “che i giacobini avevano ragione e -terrore o no- la Rivoluzione Francese era stata una cosa giusta”….
Devo essermi spiegato malissimo per spingere WM5 a precisare che “Se il fascismo trionfa, questo non lo rende vero. Il suo concetto di Bene e il suo concetto di Male continuano ad essere falsi. Falsi, non “sbagliati”.”
Concetto sul quale non ho alcuna intenzione di muovere la minima critica! Non è certo questo che intendevo.
il Terrore è sempre quello di una delle fazioni vincenti contro le altre (questone interna ai vincitori) e non certo “la dura punizione che il vincitore infligge al vinto”. E’ lo strumento con cui una delle parti che hanno vinto il precedente nemico comune, cerca di imporre la propria egemonia nel nuovo ordine venuto a crearsi. Forse per questo il Terrore è sempre rosso: senza un drastico ribaltamento dell’ordine costituito può essereci repressone ma non Terrore: le rivoluzioni attuano questo ribaltamento, i regimi no, al più modificano i rapporti di potere
Il Terrore (credo) implica un ordine non ancora sedimentato, nel quale la legge che permetterebbe di scegliere tra giusto e sbagliato (e non intendo legge come una cosa imposta, a piuttosto una cosa condivisa) non è sufficientemente consolidata.
Quanto a Berlusconi secondi me parlava di “nuovi GiacoMini” ma non si è capito
@sleepingcreep
sei già il secondo a citare gli Offlaga!
Comunque, secondo me sottovalutate la comprensione del “giacobinismo” da parte di Berlusconi. E’ una comprensione istintiva, di viscere, da potenziale animale braccato. In quelle condizioni, i sensi si fanno più acuti. C’è un “giacobinismo” che coincide in toto con la paura che provano i potenti. Che tale “giacobinismo” esista, è un bene e non un male :-)
Non sai quanto spero che tu abbia ragione!!!!
Buon 14 Luglio a tutti!
http://www.militant-blog.org/?p=3000
Buon 14 Luglio a tutti!
Buon 14 luglio!!!
Se ha ragione M. Vovelle (La Francia rivoluzionaria. La caduta della monarchia 1787/92, BUL 1992: a proposito di letture universitarie…), forse Berlusconi teme (sente “de panza” di dover temere) il giacobinismo perché mutatis mutandis “la giornata del 10 agosto [1792] rappresenta [per la borghesia montagnarda] la sperimentazione dell’indispensabile sostegno popolare, che le apparirà come una delle garanzie di sopravvivenza della Rivoluzione”. Berlusconi, cioè, sente che il popolo – per quanto si tenti di stordirlo, anestetizzarlo, blandirlo – è il vero “portatore sano” di capacità rivoluzionaria. Per usare le parole di Guzzanti/Funari: “La ggente s’è stufata…!!!”
Ora va a stare in un castello
http://bit.ly/ceXIrc
(Very ancien régime.)
Ieri gridava ai giacobini. Oggi è il 14 luglio. C’è qualcosa nell’aria…
Intanto la baracca si sfascia…
Darnton dice che si comincia col gossip sessuale e col tempo si arriva alla ghigliottina.
Incrociamo le dita.
Tifiamo tutti per la ghigliottina! Buon 14/7 sperando che abbia un seguito….
“Qui non c’è da fare un processo.” Il discorso più famoso e potente di Robespierre:
http://bit.ly/dwcIwM
Questo passaggio mi pare traduca in termini chiarissimi e convincenti quello che cercavo di esprimere in precedenza:
“confondete le relazioni dei cittadini fra di loro coi rapporti della nazione verso un nemico che cospira contro di lei, confondete ancora la situazione di un popolo in fase rivoluzionaria con quella di un popolo il cui governo sia saldamente affermato; confondete una nazione che
punisce un funzionario pubblico mantenendo la stessa forma di governo con quella che distrugge il governo. […]
Quando una nazione è stata costretta a ricorrere al diritto di
insurrezione, essa rientra nello stato di natura nei confronti del tiranno”
Se proprio deve esserci esecuzione del tiranno, la posizione di Robespierre sul processo a Luigi mi sembra preferibile a qualunque processo-farsa. Quando si sono inscenati processi a monarchi o dittatori appena deposti, sono sempre stati eventi falsi, squallidi, meschini. Pensate al video coi coniugi Ceausescu:
http://www.youtube.com/watch?v=3NgcjfBsCkM
Piuttosto che percorrere questa via ipocrita e non certo meno barbara (l’esecuzione è già decisa in partenza e il tribunale è una “kangaroo court” di tagliagole, ma si avvolge la morte in un’ovatta “procedurale”), mille volte meglio il nitore di Robespierre e il suo impeccabile andar dritto al punto!
I comunisti hanno le antenne?
Scusate se mi intrometto in questo interessante dibattito, ma, in questi ultimi due giorni, stordito dal caldo africano di Palermo e sull’onda della scarna celebrazione per i morti dell’8 luglio ’60 – tenutasi in una funerea Palermo (altro che “raggiante Catania”!) – ho buttato giù l’idea di costituire un “Comitato di salute pubblica” per Palermo. La mia città muore, i miei con-cittadini sono anestetizzati, la Sinistra avrebbe un terreno fertilissimo se solo guarisse dalla peste dell’inedia fratricida che la dilania. Il testo che descrive le linee di questo “Comitato di salute pubblica” sarà tra poco disponibile sul blog http://www.rosso-malpelo0.blog.kataweb.it
Spero che susciti almeno un frizzo o un lazzo in questa linea di confine tra l’Africa e l’Europa.
[…] Robespierre e noi. Pensare l’uguaglianza, capire il Terrore […]