ovvero: 27 ore nella vita di Juan Manuel Fangio
La Havana, 23 febbraio 1958, h. 20:45. Un uomo distinto, non tanto alto, i capelli tirati indietro sulla fronte spaziosa, percorre il vestibolo dell’Hotel Lincoln in compagnia di due persone. Gli addetti alla reception lo salutano ammirati, l’uomo ricambia con un sorriso e un cenno del capo. Gli ospiti seduti nella hall si voltano a guardarlo, dandosi di gomito. Due stanno un po’ in disparte, si alzano e vanno incontro al terzetto che avanza verso le scale. L’uomo al centro rallenta il passo e li scruta. Reporter? No, niente macchine fotografiche. Ammiratori? Probabile. Ha firmato autografi tutto il giorno, conteso tra fans, puttane in svendita e un attore americano che voleva a ogni costo una foto insieme a lui. Ora brama soltanto la cena in camera e una notte di buon sonno, per affrontare al meglio la gara dell’indomani. Dall’incidente di Monza non ha più commesso l’errore di presentarsi stanco a una partenza. Quella volta aveva guidato tutta la notte da Parigi, arrivando in Brianza appena mezz’ora prima dello start. Risultato: riflessi lenti, una sbandata in curva, la Maserati sale sul terrapieno, si invola, piroetta per aria prima di schiantarsi. Stagione e titolo compromessi. E’ passato del tempo, ma ogni tanto ci pensa ancora: la vita poteva finire quel giorno. Invece eccolo lì, a 47 anni, ancora pronto a infilarsi in un abitacolo e a interrogare con lo sguardo tre ammiratori cubani, in attesa che gli porgano una foto da autografare.
– Me desculpe… – dice quello più alto, con la giacca di cuoio.
L’uomo non ha estratto una cartolina, ma un revolver, e glielo punta all’addome. Una burla, pensa, un tiro del suo manager, Giambertone, a lui piace scherzare pesante. Guarda i suoi meccanici, i due angeli custodi che lo accompagnano, in cerca di conferme, ma nei loro volti legge la sua stessa incertezza.
Un minuto dopo sta uscendo dall’albergo con la pistola alla schiena, mentre nella hall si diffonde il brusio incredulo degli altri ospiti. Quando lo fanno salire su una Plymouth nera e lo fanno chinare sul sedile, l’uomo pensa che no, non è uno scherzo, e nemmeno un film americano. E’ un sequestro in piena regola.
Lui è Juan Manuel Fangio, El Chueco (“lo storto”, per via delle gambe arcuate), nato nel 1911 da immigrati italiani in Argentina. Ha scalato l’Olimpo dell’automobilismo mondiale partendo da un’autofficina di Balcarce, un paesino a sud di Buenos Aires e diventando cinque volte campione del mondo, di cui quattro consecutive. Mentre viaggia nella notte de La Havana, si domanda chi siano i suoi rapitori, se chiederanno un riscatto e a chi. A Giambertone? O forse al presidente Batista, quel bellimbusto impomatato? In fondo è lui che lo ha voluto a correre il gran premio di Cuba, per attirare l’attenzione sull’Isla Grande e dimostrare che lì va tutto bene.
Invece non va bene per niente, visto che il favorito della corsa è piegato sul sedile posteriore di un’auto senza sapere cosa gli riserverà la sorte alla prossima curva. Che poi, a dire il vero, non l’ha mai saputo. Certo è sempre stato bravo, impeccabile, un maestro, ma a Monza è volato in alto come un missile e l’hanno estratto dalle lamiere mezzo morto. E’ il rischio del mestiere e si può compensare con la perizia, l’esperienza, ma non con la prudenza, quella proprio non è da considerare, altrimenti bisognava fare altro nella vita. Invece lui non ha mai esitato, ha iniziato a correre, a macinare chilometri su e giù per l’America Latina e non si è più fermato. Dopo la guerra ha percorso a ritroso la rotta di suo padre, nei panni dell’eroe nazionale intenzionato a conquistare l’Europa. Gli ultimi dieci anni sono volati alla velocità dell’Alfa Romeo, della Maserati, della Mercedes-Benz. Nel ’54 ha vinto otto gran premi su dodici.
Ma per quanto uno possa correre, c’è un inseguitore che non si può seminare: il tempo. Fangio sa che è quasi giunto il momento di ritirarsi, prima che l’ammirazione diventi compassione, e magari qualche giovane avversario colga l’occasione di umiliarlo elegantemente togliendo il piede dall’acceleratore. Restano gli ultimi colpi in canna e deve usarli bene. Uno lo avrebbe dovuto sparare il giorno dopo, sfrecciando sul Malecòn, con la gente ad acclamarlo al bordo della strada. Invece eccolo lì, su tutt’altra auto, diretto chissà dove.
Quando infine lo fanno scendere viene portato in un appartamento, dove una signora con i capelli cotonati lo accoglie scusandosi per il disordine e gli chiede se ha bisogno di qualcosa. D’istinto Fangio dice che non ha cenato e subito vengono messe a cuocere patate fritte e uova. Poi il capo dei sequestratori fa sparire la pistola e dalla tasca estrae qualcos’altro. E’ una foto di Fangio sulla sua Mercedes. Altri gli porgono pezzi di carta, perfino tovaglioli. Gli danno una penna. Lui comincia a firmare, come poche ore prima, come se fosse la cosa più naturale da fare. Lo hanno rapito per… questo? No, certo che no. E’ il capo dei rapitori a spiegarglielo, non prima di essersi scusato per il disturbo. Nessuno vuole fargli del male. Lo scopo del rapimento è rovinare la fiesta organizzata dal dittatore Batista e far sapere al mondo che a Cuba qualcuno lotta per abbattere il suo regime corrotto.
Fangio non lo sa ancora, ma l’uomo che gli parla è Faustino Pérez, uno dei leader del Movimento 26 Luglio, rientrato in patria clandestinamente dall’esilio un anno prima, a bordo di una bagnarola chiamata Granma. E non sa nemmeno che forse quell’uomo gli sta salvando la vita. Lo scoprirà l’indomani, dopo una notte insonne passata a spostarsi da una casa sicura all’altra, quando la tv trasmette le immagini della gara e dell’incidente mortale tra le vetture di testa, che provoca sei morti e decine di feriti tra il pubblico. Una buona stella rivoluzionaria ha salvato Fangio da un finale tragico e lui non ha problemi ad ammetterlo: “Guardate, signori, che forse mi avete fatto un favore!”.
Adesso però devono fargliene un altro. Troppo rischioso riconsegnarlo nelle mani delle autorità cubane: la polizia sarebbe capace di farlo fuori per accusare e screditare i ribelli. E’ Fangio stesso a suggerire la soluzione: rivolgersi all’ambasciata del suo Paese.
Ventisette ore dopo il sequestro, quando ormai la notizia ha fatto il giro del mondo, il pilota viene consegnato all’ambasciatore argentino, con le rinnovate scuse del Movimento 26 Luglio.
Da allora fino alla sua morte, avvenuta nel ’95, per il suo compleanno Fangio riceverà un biglietto di auguri da Cuba, con una firma inequivocabile: “Sus amigos, los secuestradores”.
Storia affascinante. Come “quasi sempre” lasciate da pensare e riflettere e soprattutto stimolate ricerche e approfondimenti.
Grazie di cuore