Tardi e per quel che conta, aderiamo alla mobilitazione di editori, librai, scrittori e lettori per bloccare la cosiddetta “legge sul libro” o “legge Levi”. E’ già passata alla Camera e verrà discussa martedì in Senato.
Questa legge metterà in difficoltà i piccoli editori e metterà a rischio la sopravvivenza delle librerie indipendenti, quelle che privilegiamo nei nostri tour di presentazioni, quelle dove un evento come la presentazione di un libro è davvero “sentito”, quelle che purtroppo muoiono già come mosche, a volte uccise prima di nascere, e chi ancora resiste è campione di salti mortali.
Quando i librai indipendenti riceveranno il colpo di grazia, le grandi catene si prenderanno finalmente tutto il piatto. I loro padroni si mangeranno tutto e faranno pure la scarpetta. Non una lacrima da coccodrillo cadrà dai loro occhi. Non piangeranno nemmeno quelli “progressisti”. I “progressisti” (che negli appelli tanto fichi stan sempre dalla “parte ggiusta”, cioè contro di Lui) sono gli stessi che da anni avanzano nelle città come schiacciasassi, uccidendo la “biodiversità” culturale metro quadro dopo metro quadro.
Cionondimeno, essi sono buoni. Buoni e alternativi. Di sinistra. Non fanno parte del Problema, perché in Italia ha diritto a esser chiamato “Problema” un solo problema. Quello rappresentato da Lui.
E mentre tutti rimirano Lui, gli Altri fanno man bassa. Man bassa. “Contro” o “in combutta” con Lui, ormai fa lo stesso.
Tocca ribadirlo: il post-berlusconismo farà schifo e orrore quanto il berlusconismo. Ci entreremo a furia di cazzate, una appresso all’altra, marciando agli ordini di padroni “buoni”. “Buoni” e, chissà, forse pure “sovversivi”. Rivoluzionari. Troppa grazia!
E’ come dice Mario Tronti: «Il problema non è il Cavaliere, il problema è il Cavallo». Il cavallo, cioè «questo modo d’essere che occupa le nostre vite e che osa sempre di più per avere un comando assoluto, modo d’essere di privilegi intoccabili, di poteri arroganti, di ingiustizie palesi, di sistema di leggi eterne, oggettive, dicono, nei cui confronti non c’è niente da fare se non piegarsi e obbedire.»
Tronti in quell’articolo non parlava della legge Levi. Parlava di Pomigliano. Invitava ad «ascoltare i NO di Pomigliano». Diceva che, se la politica a vocazione alternativa avesse ascoltato quei NO, «un popolo avrebbe respirato». «E certo», aggiungeva, «non il popolo viola, che cercasi invano nei dintorni del problema Pomigliano».
Nelle settimane scorse abbiamo assistito a un massiccio sperpero di neuroni e di energie in anguste e maldirette campagne d’opinione finalizzate a vessare e mettere all’angolo presunti scrittori “reprobi”.
Ora i resti di quella che fu annunciata come una delle campagne più radicali e di massa degli ultimi anni giacciono inerti in blog e gruppi di Facebook aperti con troppa orgogliosa sicurezza e già fermi come paracarri, annuncianti iniziative radiose per date che abbiamo da tempo alle spalle. Remember, remember, the 10th of September.
Come? Non remember? Infatti. Quel giorno non è successo niente.
Come non essere d’accordo col collega Marco Rovelli? «Più importante sarebbe (stato) un dibattito approfondito, con interventi impegnati e appassionati degli intellettuali di maggior peso, intorno alla legge Levi». E su questo non possiamo che ripeterci (lo scriveva WM4 nell’ultimo thread sull’Annosa Questione):
«Il desiderio di semplificazione che ormai ha contagiato la società italiana è il principale sintomo della vittoria psichica del berlusconismo. Ma la realtà resta più complessa e non si può districare con i bei gesti, solo con pratiche di resistenza lenta e duratura.
Le pratiche di resistenza pertengono al modo in cui si decide di svolgere il proprio mestiere di scrittori. E questo riguarda il contenuto di ciò che si scrive; come si affronta il problema dell’estinzione dei lettori, o quello dell’impatto ecologico della propria attività, o ancora quello della fruizione dei testi letterari; insomma il tipo di cultura e di consapevolezza che si alimenta.»
Del modo in cui si decide di svolgere il proprio mestiere di scrittori fanno parte anche i rapporti coi piccoli editori e quelli con le librerie indipendenti. Noi abbiamo sempre coltivato entrambi, e vogliamo continuare a farlo. Ma è difficile coltivare un rapporto con qualcuno che muore, e le sedute spiritiche sono roba da ciarlatani (o da ex-presidenti dell’IRI).
Quindi, per quel che conta, aderiamo. Ma ricordiamo a tutti, colleghi e no, che le librerie indipendenti si fanno vivere principalmente andandoci a presentare i libri.
Tutto quello che c’è bisogno di sapere sulla “legge Levi” e sulla mobilitazione si trova in questo blog interamente dedicato all’argomento:
http://leggesulprezzodellibro.wordpress.com/
Che vergogna… il solito problema del dito e della luna, con il coro da tragedia degli “intellettuali” a buo(n)i già scappati.
[…] [l'articolo, in originale, di Wu Ming si trova qui] […]
Sinceramente eviterei il delirio di onnipotenza. Le librerie indipendenti le farebbero vivere (ma non hanno alcun interesse a farlo) gli editori. Per ovvi motivi, poi, quelli “grandi” che invece, come ben sappiamo (vero che lo sappiamo?), in questi anni si sono dotati di potentissime catene (Feltrinelli, Mondadori Retail e Franchising, Giunti e non ultima Messaggerie con Ubik) che asfaltano il mercato indipendente. Qualche piccola catena “indipendente” esiste ma finirà fagocitata da una di quelle di cui sopra.
Quindi, cari ragazzi, scendete dal pero e non fate gli eroi: non è proprio più il tempo, la ristrutturazione del mercato delle librerie italiane è ormai al termine. Non siamo la Germania, dove grandi imprenditori privati hanno saputo fare gli imprenditori. Nel mondo del libro italiano, il conflitto di interessi non riguarda solo B. ma tutti: siamo l’unico Paese occidentale dove le librerie sono di proprietà dei grandi marchi editoriali. Che sarebbe come pensare che tutte le tv possano essere di proprietà di un solo tizio. O tutti i cinema. E i grandi editori sono cresciuti senza farsi un briciolo di concorrenza o, meglio, facendola ai piccoli editori, a quelli indipendenti, rubandogli gli autori, i libri migliori. Comprandoli.
Qui tutto si (può) compra(re).
Le librerie indipendenti si aiutano dicendo ai consumatori di non andare a comprare da Feltrinelli oppure in quelle orribili Giunti al Punto. Ma no, non si può.
Vuoi mettere quanto è figo fare una bella presentazione da Feltrinelli Argentina invece che in una cazzo di merdosa di libreria indipendente di Cecina (LI) che per avere una presentazione si metterebbe in ginocchio con gli uffici stampa? Oppure vogliamo parlare di qualche anima bella che chiede qualche migliaio di euro per andare a spostare il suo culo su sedie di periferia. Ma davvero, credete a quel che dite?! La Francia ha da anni una signora “legge sul libro”. In Italia chi NON la vuole da secoli? Gli editori, cari, quelli grossi, quelli che hanno in pugno il mercato. Quelli che “per carità, non li possiamo lasciare sennò il padrone ha vinto”. Così il padrone vince due volte, e si porta dietro anche voi come bottino.
Alle volte muoio dal ridere…….
P.S.: non entro in una Feltrinelli da anni, leggo una cinquantina di libri l’anno. Quindi li trovo altrove.
P.P.S.: ma avete mai parlato con qualcuno del marketing di una casa editrice (invece che solo con gli editoriali) oppure con un buyer di una catena o della gdo? Ecco, fatelo. Così scoprireste un mondo…
Guarda, Desian, noi “dal pero” ci scendiamo anche, se ti fa piacere, ma tu dovresti evitare di sparare nel mucchio.
Perché, guardacaso, vieni a scrivere queste cose:
“Vuoi mettere quanto è figo fare una bella presentazione da Feltrinelli Argentina invece che in una cazzo di merdosa di libreria indipendente di Cecina (LI)” etc. etc.
proprio a gente che le presentazioni nelle Feltrinelli di norma non le fa (su oltre 600 presentazioni, nelle Feltrinelli ne avremo fatte sì e no 4 0 5) e predilige le librerie indipendenti, che (nonostante tutto e nonostante il tuo malaugurio da disincantato “uomo di mondo” che ha fatto il militare a Cuneo) esistono ancora, sono migliaia e noi lo sappiamo perché ci andiamo. A Cecina non ci siamo mai stati, mi sembra, ma in un sacco di altri posti sì, e molto meno conosciuti di Cecina.
[Dove tu abbia visto “delirio di onnipotenza” in questo post, poi, è un vero enigma, per quanto ininteressante.]
Sulla questione Einaudi, abbiamo già detto: non sei d’accordo sulla nostra scelta? Boicottaci. Ma, tu come altri, non fare finta che non ci siamo spiegati. Non attacca. E non fingere di voler dialogare con qualcuno che hai già catalogato come nemico.
Sul fatto che “a volte” muori dal ridere: ti informo che si muore una volta sola. Prima o poi qualcuno doveva dirtelo.
@ desian
Un po’ di sana cafoneria a piccole dosi può anche starmi bene. Ma visto che tu vuoi strafogarti e ci aggiungi pure una bella cucchiaiata di saccenza, mi viene da dirti occhio, perché il rischio è di apparire ridicolo.
Prima ci ricordi qualcosa che noi andiamo dicendo pubblicamente da anni, e cioè che “nel mondo del libro italiano, il conflitto di interessi non riguarda solo B. ma tutti”. E vabbé.
Poi ci rimproveri di voler fare tardivamente gli eroi, a fronte di una situazione del mercato editoriale italiano ormai troppo compromessa per assenza di adeguata legislazione e per strapotere dei cartelli editoriali… Ed è precisamente quello che diciamo nel post qui sopra, denunciando la tardività e la lentezza di riflessi di tutti coloro che hanno a cuore la questione (noi per primi). Però aggiungiamo che oltre a muoversi tardi, qualcuno ha anche sbagliato bersaglio, concentrandosi sugli affari di Mr. B e non sull’avanzata del monopolio nel suo insieme.
Quindi, proseguendo sul sentiero della ridondanza, ci dici che “le librerie indipendenti si aiutano dicendo ai consumatori di non andare a comprare da Feltrinelli oppure in quelle orribili Giunti al Punto”. Lo dici a noi che nel suddetto post abbiamo appena invitato i colleghi a presentare i loro libri nelle piccole librerie… cioè a portare i lettori lì invece che nei bookstore delle grandi catene (dove per altro noi di presentazioni non ne facciamo quasi mai).
Umh…
Infine concludi: “ma avete mai parlato con qualcuno del marketing di una casa editrice (invece che solo con gli editoriali) oppure con un buyer di una catena o della gdo? Ecco, fatelo. Così scoprireste un mondo…”
Lavoriamo nell’editoria italiana da oltre dieci anni. Credi davvero che non conosciamo il mondo che tu – dall’alto della tua disincantata saggezza – vorresti farci scoprire?
Suvvia, rileggi quello che hai scritto, perché qui chi fa morire dal ridere non siamo noi, te l’assicuro.
Il tale qui sopra è il medesimo che su lipperatura salutava l’uscita del libro di loredana, invece che per i suoi contenuti, con il fatidico “finalmente qualcuno che non pubblica con mondadori”, approfittandone per dare addosso e fare la moralina a uno come Prosperi, di cui non vale un pelo delle terga. Adesso vi viene a denunciare i monopoli di Feltrinelli & co., per dirvi quanto siete stolti e in malafede ‘supereroici’.
Inoltre, aggiunge la mossa fine di mondo: parlate con qualcuno del marketing, disinformati!
Cazzo! Siete davvero incorreggibili, bisogna spiegarvi tutto.
Che il problema sia il cavallo non c’è alcun dubbio. Ha cagato in testa a troppa gente.
L.
Qui a Vigevano c’era una buona libreria indipendente (“Il convivio”, si chiamava), che faceva anche molte presentazioni di libri con gli autori. Finché è rimasta aperta, ho comprato sempre lì, anche perché erano molto efficienti nel procurare testi di difficile reperimento. Tuttavia la libreria, nonostante il sostegno attivo degli scrittori, ha chiuso nel dicembre 2009, perché non ha retto la concorrenza con un megastore che era stato aperto pochi mesi prima, vicino piazza Ducale. La libraia del “Convivio” ha poi aperto un’altra piccola libreria, ma in franchising con la Mondadori: anch’essa, comunque, ha chiuso i battenti poche settimane fa. Attualmente compro alla Feltrinelli, quasi sempre, e qualche volta nel megastore di cui sopra. L’alternativa è acquistare via Internet: ma, dato che compro perlopiù tascabili e uno alla volta, le spese postali incidono anche per il 100% sul prezzo di copertina. Il Kindle, al momento, costa un botto di soldi.
Se tale è la situazione, che i sostenitori del boicottaggio di questo e di quello (prima solo della Mondadori, poi anche dell’Einaudi, adesso, mi sembra di capire, la parola d’ordine è boicottare tutte le grandi case editrici e tutte le grandi catene di distribuzione) mi spieghino cosa dovrei fare. Prendo il treno una volta al mese per rifornirmi nelle piccole librerie rimaste a Milano o nell’hinterland? Leggo solo testi piratati? Provvedete voi, Boicottisti del Settimo Giorno, a diffondere testi ciclostilati in proprio? Non compro più libri, perché tanto il Giorno dell’Apocalisse è imminente e si salverà solo chi si sarà cosparso il capo di cenere per pentirsi della sua complicità con il Sistema? No, giusto per sapere.
A Vigevano presentammo 54, ma la libreria si chiamava “900”, se non ricordo male. Era il giugno del 2002.
@WM1: sì, me l’hanno raccontato (nel 2002 non abitavo ancora a Vigevano)… Comunque anche quella libreria non c’è più.
:-(
Gentilissimo (e forbitissimo) Luca, non capisco perché sei uscito fuori di testa. Non ho fatto alcuna moralina a Prosperi (che peraltro stimo almeno quanto te): se ti rileggi quell’intervento io mi ero semplicemente limitato ad esporre una mia opinione e poi registrare un evento che è sotto gli occhi di tutti, le risposte arrivate al sollecito di Mancuso. Tra quelle risposte c’era, sculo, anche quella di Prosperi.
Se avessi letto davvero il mio intervento vedresti che non c’è una singola parola di offesa, né personale né intellettuale, contro chichessia, né Scalfari, né Prosperi né nessun altro. Registravo soltanto che quelle risposte lasciavano insoddisfatto ME e mi permettevo di esporre questo pensiero. Punto.
Permetti che si possa esporre un pensiero?
Quindi non vedo perché tu ti permetti invece pesanti offese personali al sottoscritto (“pelo delle terga”?!). Ma come ti permetti?! Ma chi cazzo ti credi di essere?! Un fottuto picchiatore fascista?
Allora, dai retta, fatti una doccia fredda e poi rispetta le persone invece di offenderle gratuitamente. E magari impara a discuterci anche quando non sei d’accordo o esprimono opinioni diverse dai tuoi dogmi.
@ desian,
non puoi aspettarti toni da Lord se sei il primo a cui “parte l’embolo”. Cerca tu per primo di evitare toni offensivi e insinuazioni pesanti. Tu entri in casa nostra e, a mo’ di presentazione, ci accusi di “delirio di onnipotenza”, di voler “fare gli eroi”, ci dai degli ignoranti, dici che non capiamo niente di meccanismi editoriali, dici che stiamo col padrone, alludi a chissà quali compensi per andare in periferia quando noi giriamo da sempre chiedendo il rimborso del biglietto del treno, a cena mangiamo una pizza e va bene anche dormire su un divano. Tutta questa tirata perché? Non si capisce, dal momento che per tutto il tuo commento sfondi porte aperte e ci rinfacci di ignorare cose che invece abbiamo scritto pure noi.
Prenditi un valium.
E ti avviso che a casa nostra la parola “fascista” ha un certo peso. Usala ancora nei confronti di chiunque, e qui non ci metti più piede.
Sul numero di “Carta” attualmente in edicola c’è una lunga intervista a Camilleri. Ne trascrivo un breve stralcio:
“Marchionne secondo me è oggi il problema più grosso che si è posto in Italia negli ultimi anni. Nell’indifferenza generale, salvo per coloro che ne pagano il fio, cioè gli operai. E’ un problema più grosso di Berlusconi […] Perché non è un politico che si può cacciare via. La sua politica tende alla istituzione in Italia di nuovi patti di lavoro che contemplino la fine di quelli che lui chiama privilegi e che erano invece dei diritti […] Quando Bonanni dice che non ci sono diritti se non c’è lavoro, sottoscrive un ricatto. E’ quindi pericolosissimo, perché il modello Pomigliano e la disdetta del contratto decisa da Federmeccanica significano aprire ai modi di Marchionne e questo porterà delle tensioni sociali enormi che in questo momento non ci volevano, proprio perché siamo disastrati.”
Poco prima aveva detto: “Gli operai salgono sulle gru, sui tetti, scioperano. E sono lasciati da soli. Soli.”
E’ quello che scriveva Tronti: invano si cercherà il popolo viola nei dintorni del problema Pomigliano.
L’ossessione per Berlusconi restringe il campo visivo e genera mostri.
Io spero che qualcuno lo farà notare, un giorno, che nell’estate in cui c’erano disperate lotte operaie in tutta la Penisola e i cassintegrati sardi occupavano l’Asinara per trasmettere uno straziante “reality show” sulle loro condizioni, la rete ribolliva di roboante sdegno… contro l’Einaudi e gli scrittori “traditori”.
Dopo averlo fatto in privato, lo faccio anche pubblicamente, mi sembre ce ne sia bisogno, anche per recuperare un po’ di serenità: vi chiedo sinceramente scusa per il mio intervento poco rispettoso e offensivo. Vi assicuro che non era mio intento, avrei preferito contribuire alla discussione con qualche elemento oggettivo e non ci sono riuscito. Mi scuso anche con chi legge…
Resto comunque colpito dalle offese personali: tra i toni da Lord e l’insulto gratuito, solo per aver aperto bocca, immagino ci debbano essere svariati toni intermedi.
Comunque, grazie lo stesso. E, per me, amici come prima e come sempre.
Si sta diffondendo nell’opinione pubblica l’idea(?), il concetto(?) che “visti i tempi di crisi, va bene tutto, purché sia”. E i dirigenti delle aziende si sentono tutti un po’ Marchionne. Delocalizziamo!, ti dicono. E non si spostano dall’ufficio in centro. Tutti dobbiamo saper fare tutto!, ti dicono. E non conoscono i processi produttivi che dovrebbero guidare. O così, o vai a casa!, ti dicono. E non accettano alcun contraddittorio. Fondiamoci!, oppure Sciogliamoci!, ti dicono. E un lavoratore non sa più se è una persona o un gelato al cioccolato. Ecco il vero “berlusconismo” (questo articolo estivo di Giorgio Bocca è illuminante: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/questo-marchionne-pare-silvio/2131274). Ed è così diffuso che chi si trova a parlare di diritti acquisiti, di sicurezza sul lavoro, di dignità del lavoro, è bollato come “comunista”, cioè(?) antico, passato di moda. Ti guardano con uno sguardo di tenera comprensione. Come la Signorina Felicita di Gozzano. Una vecchia signora d’altri tempi…
La resistenza è di sempre, dicevano i nostri Padri partigiani. Proprio vero.
@ desian,
va da sé che, se tu stesso hai sentito il bisogno di chiedere scusa, la reazione non l’hai avuta “solo per aver aperto bocca”, ma per un intervento che tu stesso ora percepisci come “poco rispettoso” e “offensivo”.
Comunque, almeno da parte mia scuse accettate. Chiudiamo la parentesi.
Forse sì, chissà, un giorno qualcuno, seduto sulle macerie dell’ex-Paese, se ne ricorderà dell’ebetizzazione di quest’oggi che non ci offre più parole per raccontarlo. O forse no.
Milioni di persone stillano dolore, psichico e fisico, da ogni poro; la sofferenza sociale sta diventando materia, solida, ti tocca sull’autobus, nella metro, per strada, ne senti il tanfo, è la smorfia stampata su un’infinità di volti.
E non coagula, non si raggruma, non produce empatia e vicinanza, ma ricurva, isola, incattivisce.
E poi c’è sempre quello che blatera, che ti spiega come devi campare, che pretende rispetto ma non ne dà. E ti chiama fottuto picchiatore fascista, pensando di farti incazzare, di colpirti duro.
Ma sai che me ne fotte, di idioti vaniloqui.
Belle le parole di Camilleri. Importanti, e vane.
L.
grazie, Luca, di queste parole: restituiscono non “l’immagine”, ma la realtà dell’indicibile sofferenza sociale che tutti ci avvolge e della vicinanza che manca, inghiottita dalla gelatina “blob”… (davvero, si tratta di ricominciare la lotta da capo, ancora una volta: dall’incontro, dall’ascolto, dalla tessitura paziente)
E – tanto per chiudere il cerchio – Repubblica definisce “choc” la proposta di Sarkozy all’ONU di tassare le transazioni finanziarie!? Choc? La proposta? O il fatto che l’abbia avanzata Sarkò?
Scusate se mi appresto a fare un discorso troppo semplice, però io mi trovo meglio ad andare da Feltrinelli che alla libreria vicino casa mia. C’è più da vedere,c’è più scelta, ci sono più offerte. Certe volte può essere bello fare il romantico e andare nella libreria del mio quartiere in bici, però è piccola , molto spesso non trovo i libri che cerco e a ordinarli tempo che arrivano già mi è venuta voglia di leggere qualcos’altro.
in margine: la puntata dell’Infedele di stasera parlerà *degli operai*… chissà…
http://www.gadlerner.it/2010/09/20/linfedele-gli-operai-da-marx-a-marchionne.html
@ username,
chiaramente non tutte le piccole librerie sono uguali, e non sempre “piccolo è bello”: dipende da caso a caso, da situazione a situazione, e ovviamente da quello che cerchi. Io, ad esempio, trovo molte più cose alla libreria Modo Infoshop di Bologna che in una delle Feltrinelli che ci sono in città. Non è questione di”romanticismo”, è proprio che la Modo Infoshop valorizza una produzione che le Feltrinelli invece gettano nel mucchio, ammesso e non concesso che ce l’abbiano. Detto questo, è chiaro che i libri si comprano dove li si trova, ci mancherebbe.
Vorrei chiarire che noi non presentiamo quasi mai i nostri libri nelle librerie delle grandi catene non per un banale motivo ideologico, ma per un motivo molto semplice e terra-terra. Le poche volte che lo abbiamo fatto, abbiamo riscontrato che:
– il tempo a nostra disposizione era scarso e lasciava poco spazio alle domande dei lettori, che invece sono il vero fulcro dell’evento (la presentazione vera inizia *dopo* che noi abbiamo fatto i nostri discorsetti). Alle 19:30 si chiude ed è tassativo (e anche giusto, perché i dipendenti devono tornare a casa!), mentre il gestore di una libreria indipendente ha più margine per tenerla aperta “afterhours”;
– l’atmosfera era più formale e da “atto dovuto”, nemmeno lontanamente paragonabile a quella che s’instaura in posti dove l’evento è organizzato con passione, da gente che gestisce una libreria in prima persona e vuole che la serata riesca bene;
– c’era maggiore “verticalità”, cioè distanza gerarchica tra noi e i lettori. Cosa che di solito cerchiamo di evitare.
sulle librerie Feltrinelli, direi che l’unico vantaggio (ahimé!) sono gli sconti (e le convenzioni per musei e teatri) [mica roba da poco, eh!].
Per il resto, da quando hanno deciso di cambiare l’ordine di classificazione, è impossibile trovare qualcosa che già non si sta cercando. Libri tutti di dorso, in ordine alfabetico di autore: un gran disordine, almeno per me. E poi, nelle Feltrinelli che prima erano negozi Ricordi sono rimaste a lavorare le stesse persone, alle quali però non è stato fatto (immagino) nessun corso di formazione, quindi non sono proprio ferratissime, e se non conosci il titolo esatto di un libro e il nome esatto dell’autore, è difficile che riescano a trovartelo…
sulle piccole librerie indipendenti, peccato che “La libreria del buon romanzo” (http://www.edizionieo.it/catalogo_visualizza.php?Id=749) si riduca a un sogno romantico e poco più, già pronto per Hollywood e un nuovo capitolo per Meg Ryan e Tom Hanks (in “C’è posta per te” la piccola libreria chiudeva *però* loro si innamoravano)…
@WM1,
Come funzionano le presentazioni nelle piccole librerie? Vi invitano i librai o ci pensa l’ufficio stampa Einaudi? Ho notato che a volte anche questo può determinare il *tipo* di presentazione…
@ Danae
l’organizzazione dei nostri tour è autogestita. Librerie, biblioteche, centri sociali etc. ci contattano direttamente tramite il sito, e insieme concordiamo date, rimborsi etc.
Quando abbiamo pronto il programma lo passiamo all’ufficio stampa Einaudi (se il libro che andiamo a presentare lo abbiamo pubblicato con Einaudi), che a ridosso di ogni data si metterà d’accordo con la situazione ospitante (es. se non è una libreria, bisogna capire chi procura i libri, si contatta il locale agente Einaudi), contatterà i media locali etc.
@WM1, grazie!
come immaginavo, e come dicevi prima: se l’autore è *invitato*, lo si ospita nel senso più nobile della parola. Lo si fa dialogare con i presenti, non lo si caccia… Bello, sì.
@luca: il rispetto e le scuse ti porgo. E vivi naturalmente come meglio credi. Resta il fatto che ci siamo incrociati in rete tre volte e, senza che io ti abbia mai rivolto la parola direttamente, mi hai sotterrato di merda sempre, fino ad oggi con una definizione ignobile. Cosa vuoi che ti dica? Andrà bene così, andrà bene a te…
Io, per parte mia, mi sento suonato come un pugile…
Beh il discorso sulle Feltrinelli almeno fino a qualche anno fa (mi ricordo che ne aveva parlato una libraia emiliana su un vecchissimo numero di Giap del 2002 o 2003) era che da quando la gestione era passata a un tale ex direttore marketing della Conad l’idea era che se avevi un commesso laureato in filosofia NON lo mettevi a vendere libri di filosofia altrimenti avrebbe “perso tempo” a parlare con i clienti invece che stare dietro un pc a smistare questuanti a destra e sinistra. Non so se sia ancora così perché vado da F solo in casi di estrema necessità ma l’impressione è davvero quella, nulla di diverso da un supermercato, nessuna passione, nessuna anima. Dato che ricordo pomeriggi interi a parlare con i librai quando ancora avevo pomeriggi interi per farlo, è con grande piacere che “perdo” ancora un’oretta a chiacchierare di libri nelle piccole librerie quando capita… capisco che sia anche un p’ romantico e ideologico come atteggiamento, perché per me la letteratura è roba de panza, non cetrioli sottaceto ;o)
Cmq sì, devo dire che delle forse 20 presentazioni wuminghiane a cui ho assistito o ho coordinato, la più bella resterà sempre quella dell’Eternauta: 100 persone pigiate in 50 mq, 30 di fuori, iniziata alle 6 e mezza e finita quasi alle 10 di sera… ragazzi che roba… sembrava un concerto rock..
Ehi, cos’è ‘sto anti-romanticismo? :-)
A me le piccole librerie piacciono perchè in genere ci lavora gente che ti sa guidare, ti ascolta, è curiosa di capire e al tempo stesso sa fare proposte senza essere invadente. Oppure ci sono personaggi “peculiari”, che ti fanno lunghe dissertazioni, a volte pallose, a volte interessanti. Ma a me quei tipi lì piacciono.
Certo, vi si trovano meno libri, ma si possono trovare testi che altrove non ci sono, e si possono scoprire letture interessanti che sfuggono alla critica.
La libreria è un bel posto da frequentare. Il fatto che sia caratterizzata, magari “local”, la può rendere ancora più interessante.
Una libreria di provincia dove vado spesso ha imparato i libri che mi piacciono e spesso mi fa proposte o mi chiede se voglio ordinare alcuni testi. Se non sono interessato, non insiste. Se lo sono, in pochi giorni ho il libro.
Queste cose mi piacciono.
Detto questo, concordo: ognuno trova e cerca i libri dove preferisce.
Ma il “cavallo” non è forse l’economia di mercato?
Difficile pensare a un’economia di mercato senza il pesce grande che mangia il pesce piccolo. Specie nei momenti di crisi come l’attuale, in cui la torta si restringe.
Così com’è difficile pensare a un capitalismo in crisi, senza Marchionne.
Sia nel caso di B. che nel caso di Marchionne, il problema è il cavallo.
Essendo comunista, a volte mi piace fantasticare su come potrebbe essere l’editoria senza economia di mercato. Non è facile! Su bisogni essenziali come l’acqua, la casa, ecc. è più semplice: acqua e casa per tutti, punto. Ma con un bisogno “più complesso” come la lettura che si fa? Chi decide cosa stampare e cosa no, una volta che non vige più la legge del profitto?
O dobbiamo tenerci il cavallo per sempre?
Scusate l’intervento un po’ ideologico :)
Il cavallo è il rapporto capitale-lavoro.
Marchionne/Berlusconi: di che cosa sono il nome?
Nel discorso di Camilleri “Marchionne” non è Marchionne, è la metonimia del capitalismo, o meglio: del rapporto capitale-lavoro oggi in Italia. E “Berlusconi” non è Berlusconi, ma l’antitesi legalità-illegalità (onestà-corruzione etc.).
Nel discorso di Camilleri, “Marchionne” è dunque quel che succede nel rapporto capitale-lavoro mentre tutti guardano solo all’antitesi legalità-illegalità. “Berlusconi” diventa così il nome di un diversivo.
Il problema non è tanto il “Cavaliere” (ovvero quel che succede nella “politica politicata” e nella cronaca scandalistico-giudiziaria), ma il “Cavallo” (quel che succede nell’economia e nel mondo del lavoro). Il “Cavaliere” c’è perché c’è il “Cavallo”, non viceversa. MAI viceversa.
I topi
Nel discorso di Tronti c’è un’altra figura retorica importante: il “popolo viola” non è solo l’omonimo movimento informale, ma tutto il popolo “feticizzato” da anni di centralità della figura di Berlusconi. E’ l’insieme di coloro che negli anni si sono lasciati convincere che il problema riguardasse solo l’antitesi legalità-illegalità e quel che succede nella cronaca scandalistico-giudiziaria, e così si sono disinteressati di quel che accadeva nell’economia e nel mondo del lavoro. “Si cercherà invano il popolo viola nei pressi del problema-Pomigliano”.
Nel suo fantastico pamphlet Sarkozy: di che cosa è il nome?, Alain Badiou utilizza la metafora dei “topi”. Sarkozy (ma anche Berlusconi) è l’homme aux rats, l’uomo dei topi, quello che in Italia chiamiamo “il pifferaio magico”. Ma chi sono i topi? Per Badiou, i topi sono coloro che si fanno imporre i tempi dal potere, dalla cronaca, dai sondaggi, dalle emergenze etc. Infatti cosa fa un topo, se non correre continuamente di qua e di là? Un topo non è mai fermo.
Quindi: l’elettore-topo, l’attivista-da-click-topo su Facebook (ma anche su repubblica.it)… Non si fermano mai per cercare un proprio tempo non “pressato” e non ansioso, non si preoccupano di creare un “frattempo” per poter ragionare, sono sempre in emergenza, hanno sempre fretta di commentare, di cliccare, di far partire mobilitazioni farlocche, di scegliere un “leader”, “Oddio, oddio, e adesso chi troviamo contro Berlusconi?”
Quindi: Sarkozy e Berlusconi sono “uomini dei topi” non soltanto perché, suonando, attirano e mettono in fila i propri topi, ma anche perchè trasformano in topi gli avversari.
Urge una “derattizzazione”. Bisogna abbandonare il concatenamento maligno e distraente (deconcentrante, ansiogeno) “Cavaliere”-piffero-opinione-velocità-scandali-topi. E provare a concatenare così: “Cavallo”-ragionamento-“frattempo”-lavoro-lotte.
Geniale WM1, totalmente geniale.
@WM1 il problema del topo, e dello scandalo, a me ha fatto sempre venire in mente (da “badogliano”) un approccio alla realtà di tipo giornalistico: il problema è anche il tipo di narrazione che viene collegata alla realtà, e il tipo di attivismo che i media veicolano. Se ci pensi, i topi sono quasi tutti benpensanti, di quelli che si scandalizzano per uno sfarfallio di mutande più che per i migranti che ogni giorno subiscono una paga “scandalosa” (o non la ricevono proprio e vengono presi a fucilate). In questo senso, il topo racchiude almeno due categorie concettuali: da una parte, il termidoriano (per l’attitudine a guardare “il dito e non la direzione, in malafede) e dall’altra il piccolo borghese, nell’accezione che la tradizione marxista affida a questa figura (per la sostanziale apatia nei confronti dei destini della classe operaia). Entrambe le figure, però, sono portate a fusione da un’operazione ideologica estremamente chiara, ed estremamente potente.
Il linguaggio della borghesia consiste da sempre nel parlare di “Berlusconi” e non di “Marchionne”. Già alla fine degli anni Cinquanta, Roland Barthes chiamava la borghesia “società anonima”, perché essa si professa malvolentieri e preferisce sparire come fatto ideologico. Il mito borghese è una parola depoliticizzata, che rende tutto innocuo, semplice, immediato. Il capitalismo? E’ una realtà naturale, autoevidente, chiarissima. Non c’è niente da spiegare, è come l’aria che si respira. Per questo la politica borghese mette da parte le vere contraddizioni sociali e ruota intorno a “Berlusconi”, sia che lo si voti, sia che non lo si voti. Il problema è il Cavaliere. Mi piace la metafora dei topi, ma non bisogna fare lo stesso errore che si denuncia: non è Sarkozy che trasforma tutti quanti in topi, è la borghesia che, da sempre, cerca di trasformare tutto l’immaginario in immaginario borghese.
A mio modo di vedere la “funzione Marchionne” sancisce la definitiva subalternità del lavoro al capitale e alle sue esigenze astratte: così come Thatcher in Inghilterra allora, oggi noi subiamo il cambiamento radicale della nostra società senza passare dalla politica ma solo dagli affari.
L’incapacità delle persone di vedere oltre il filtro B. è il risultato scientifico (e forse prevedibile…) della sparizione di organizzazioni politico/sociali di massa. Insomma, da una parte la propaganda ideologica liberista ci “impone” che gli individui siano uguali, liberi, razionali (e soli) di fronte al mercato e che abbiano semplicemente da cogliere le opportunità che questo offre; dall’altra le contraddizioni di fondo nel rapporto del lavoro col capitale sono rimaste praticamente le stesse di sempre. L’elemento nuovo è l’allargamento di ogni confine o, meglio, la loro scomparsa. Non per nulla siamo alla resa dei conti. “Resa” appunto.
Vi segnalo una cosa avvenuta a Torino questo weekend. C’è stato Portici di Carta, evento in cui i librai mettono in bancarella sotto i portici i loro libri. Nel regolamento c’era scritto che era vietato fare sconti. Beh quest’anno le librerie di catena NON sono venute e hanno fatto sconti al 20% per i due giorni di manifestazione. Tanto per.
“non è Sarkozy che trasforma tutti quanti in topi, è la borghesia che, da sempre, cerca di trasformare tutto l’immaginario in immaginario borghese.”
Giustissimo, va infatti chiarito che, per Badiou, Sarkozy è una conseguenza di processi di lungo corso (in quel caso, processi che hanno avuto luogo in Francia, lui ci mette anche il pétainismo). “L’uomo dei topi” non è una facoltà dell’uomo Sarkozy, ma un processo che trasforma Sarkozy (o chi per lui: “Sarkozy” sta per l’emergenza) in immagine ansiogena che i suoi avversari guardano con attitudine da topi.
@monica mazzitelli
“se avevi un commesso laureato in filosofia NON lo mettevi a vendere libri di filosofia altrimenti avrebbe “perso tempo” a parlare con i clienti invece che stare dietro un pc a smistare questuanti a destra e sinistra”
Questa penso sia un’immagine indicativa: l’annacquamento di ogni passione, il fatto di tendere allo schiacciamento di ogni pulsione in nome dell’imperativo «vendi!», la negazione di qualsiasi soggettività attraverso l’eliminazione di una anche breve e minima relazione umana.
La vocazione deve essere quella di un luogo fisico dove non si parla proprio ma si paga e basta, in un silenzio rassegnato alla merce. Chè questo i libri (fra le altre cose) si vuole che siano, una specie di negazione dell’umanità.
@ desian [“la propaganda ideologica liberista ci ‘impone’ che gli individui siano uguali, liberi, razionali (e soli) di fronte al mercato”]. Giustissimo, ma non ti pare che uno degli aspetti di questa ideologia consista proprio nel ridurre tutto ad una questione di scelte di mercato del singolo, eliminando per questa via la dimensione della politica?
Mi sembra di aver visto questa dinamica all’opera nelle discussioni su Lipperatura dei mesi scorsi:
– se l’editoria italiana “di qualità” langue, è colpa del lettore “analfabeta di ritorno” che compra i libri di Fabio Volo anziché Ottonieri o Di Ruscio;
– se denunci la mercificazione del corpo femminile nei mass media, ti danno del totalitario in quanto pretenderesti di coartare le libere scelte (di mercato) delle aspiranti veline; oppure trovi la donna che ti risponde: “ma io la televisione la guardo, eppure non sono diventata una velina”;
– lo stesso problema Berlusconi, per voi boicottisti, si riduce alla “libera scelta” di ognuno di noi di stipulare o non stipulare dei contratti con lui (che si tratti di vendergli il prodotto del proprio lavoro, come è il caso per gli scrittori, o di comprare le sue merci, come è il caso per i lettori).
In questo modo la storia, la politica, la stessa economia nel senso marxista, spariscono dal discorso, e rimane solo un problema di scelta (scelta morale, in ultima analisi) del singolo individuo. Al limite lo stesso capitalismo diventa una faccenda di scelte individuali: siamo noi che “scegliamo” di operare sul “mercato” in qualità di produttori o di consumatori. L’approdo finale di tutto il discorso, a mio modo di vedere, è di tipo religioso: “in quanto compriamo e vendiamo, siamo tutti colpevoli e siamo tutti peccatori, chi più chi meno”. Oppure: “io sono un santo e perciò non accetto di mettermi sul mercato, al contrario di voialtri dannati e servi del demonio”. IMHO, questo è il contrario dell’atteggiamento laico e materialistico che invece dovremmo avere.
Sulla questione del lavoro operaio:
Il lavoro sulla tendenza che abbiamo ereditato dall’operaismo diceva che il lavoro operaio è tendenzialmente sempre meno necessario. L’automatizzazione rende la fatica fisica, la reclusione nelle linee di montaggio tendenzialmente inutile. Questo frame molti di noi se lo portano dentro, ed è persistente. Il mondo produttivo completamente automatizzato sembrava vicino, imminente. Dal nostro punto di vista, quello delle società dell’occidente, del nord del mondo, questo esito finale e ambiguo (proprio questo sarebbe uno dei negriani “prerequisiti di comunismo”)può sembrare ancora vicino. Però se allarghiamo la prospettiva vediamo che il resto del pianeta funziona in modo affatto diverso. L’automazione completa è frenata dal fatto che la manodopera nei paesi in via di sviluppo è più economica della Ristrutturazione Finale. Quindi in realtà, su scala planetaria, il lavoro operaio è tutto tranne che residuale. Le fabbriche chiuse qui si aprono altrove. Una gran parte dell’umanità è ancora soggetta alla fatica fisica, gli oggetti che maneggiamo c’è qualcuno in culo al mondo che materialmente li fabbrica. Ben più della metà del mondo è proletario, in senso stretto, ottecentesco.
Questo è quello su cui sto riflettendo in questo momento, e non so bene che cosa voglia dire a parte che il nostro punto di vista è sempre molto angusto, periferico (ebbene sì, sulla tendenza saremo noi la periferia, ancora più di oggi).
Non sono quindi solo motivi ideali e intellettuali che rendono l’ipotesi comunista valida, ma forze materiali molto potenti attualmente in atto.
Non c’è dubbio che vinceremo :-)
Il capitale “è” religione. Il suo ‘farsi natura’ è il principale, non unico, dogma.
E’ molto, molto difficile sfuggire, svincolarsi dall’inestricabile reticolo del suo discorso mistico, dalla sua ormai molto stratificata teologia e precettistica. In questo senso ogni pifferaio è un vescovo, e il suono che scaturisce dallo strumento è la messa. Le diverse melodie o armonie che escono dal piffero sono ‘omelie’ di varia natura e articolazione, ma il libro è uno solo. E’ il Vangelo.
L’ultimo sfondamento c’è stato alla fine degli anni ’80.
La fine delle ideologie, questo è il Verbo consegnato alla storia. Il vincitore non dice ‘ho vinto’, ma ‘la guerra è finita, andate in pace’. Atto di forza supremo.
Mettetevi l’anima in pace.
Così Marchionne, papa del momento, pronuncia dal soglio la sua enciclica del dopo cristo: basta per sempre alla lotta di classe!
E’ come Ratzinger che dice: basta al peccato!
Ma il cattolicesimo senza il peccato non ha ragine di esistere, non ha senso.
Non crederete mica che la lotta di classe l’hanno inventata i proletari, vero?
L.
@ Wu Ming 5
Sì, sono i danni che ha fatto certo post-operaismo, i frame concettuali ottundenti che hanno spadroneggiato nella teoria radicale degli ultimi vent’anni. In realtà a livello planetario il taylorismo è vivo e vegeto, la condizione dell’operaio di fabbrica è diffusissima perché imprescindibile, gli scioperi operai cominciano a svolgersi dove hanno potenzialità dirompenti, come in Cina. E’ nel nostro angusto budello europeo che c’è la “marginalità operaia”, ma solo perché la produzione (e con essa il conflitto) è stata spostata altrove. “Non c’è nessun dopoguerra… Oltre la prima duna gli scontri proseguivano.”
Una delle conseguenze più NEFASTE dell’accettazione acritica del frame “post-operaio” è stata l’accettazione, in nome del “nuovo”, del divide et impera capitalistico: mettere le categorie di lavoratori l’una contro l’altra.
Quante volte abbiamo sentito, tra i compagnuzzi eredi del percorso post-operaista, commenti sprezzanti o comunque snob sugli operai di fabbrica “garantiti” (contrapposti ai precari) o sulle loro lotte “di retroguardia” (perché “non si sono accorti che siamo nel post-fordismo”), come se un operaio la sua lotta la potesse scegliere, come se non fosse una questione di sopravvivenza.
A proposito di questo, in uno dei suoi ultimi libri Zizek racconta un aneddoto su Negri molto istruttivo: Negri viene intervistato da un giornalista; mentre parlano camminano insieme per la strada; passano davanti a una fabbrica occupata per impedirne la chiusura e Negri fa commenti irridenti su quegli ingenui rimasti al fordismo, quei poverini che pensano di poter fermare lo sviluppo. Per lui, in quel momento, la chiusura di una fabbrica è solo questione di teoria. Per chi invece la sta occupando, è questione di poter o meno dare da mangiare ai propri figli. A loro non gliene frega niente se è una cosa un po’ “passée”.
La prole, appunto. Da cui deriva il termine “proletario”.
Tanto per far capire che il problema non è di Negri, ma di un intero filone teorico, tocca anche registrare il fastidio di Sergio Bologna per la lotta di Pomigliano e l’attenzione che questa è riuscita a conquistarsi nei media. Bologna diceva, in soldoni: che senso ha fare tutto questo strepito sui diritti che perderanno quegli operai di fabbrica, quando fuori dalla fabbrica ci sono milioni di precari che quei diritti non li hanno mai avuti? Ecco, questo è un discorso che io ho sentito fare (nei centri sociali, nelle assemblee) centinaia di volte. Come se difendere i diritti che già ci sono impedisse automaticamente di estenderli a chi ancora non li ha.
E’ paradigmatico il tono di disprezzo che nell’ambiente post-operaista si riserva al “posto fisso”, alla difesa dell’impiego. Si dà per scontato che l’unico trend del capitale sia la “flessibilità”, e quindi ogni battaglia che la contrasta è tacciata di essere reazionaria. Qui Tronti dice parole che sono sciabolate:
«L’idea secondo cui il reddito deve sostituire il lavoro a me pare più una rivendicazione subalterna allo stesso capitalismo che non una fuoriuscita dal problema. La flessibilità finora non ha portato a liberarsi dal lavoro, semmai ha condotto ad una condizione di precarietà, anche esistenziale, che la sinistra non può e non deve sopportare. Bisogna marcare questa insopportabilità soprattutto nei confronti di chi, giovanilmente e ingenuamente, pensa che il flessibile è bello. Se il flessibile diventa precario come sempre accade, quella vita lì è molto peggiore della vita di un lavoratore alla catena di montaggio. Almeno questi ultimi potevano progettarsi la vita.»
Ecco, in nome della ricerca spasmodica della tendenza più “avanzata” (ma solo qui nel Nord del mondo e solo per un effetto di prospettiva) si è accettato che i lavoratori competessero tra loro per le briciole della torta.
E sull’altro versante (quello socialdemocratico) c’erano gli sproloqui sul fatto che ormai la società era quasi tutta “ceto medio”. Altro effetto di una chiusura provincialistica ed eurocentrica. Proviamo a ragionare a livello planetario, ed ecco che il “ceto medio” scompare, la sua percentuale demografica è *irrisoria*.
Il problema è il cavallo. Non c’è alcun dubbio in proposito.
Sacrosante le precisazioni sulle “funzioni” Berlusconi, Marchionne e Sarkozy e su ciò che rappresentano (anche in senso narrativo).
Solo, una pignoleria (da niente). Non confondiamo “mercato” e “capitale”.
Non coincidono né hanno gli stessi meccanismi interni.
Il mercato è un meccanismo che si innesca tra comunità umane non appena esse raggiungono un certo livello di complessità e una densità demografica che ne consentono il funzionamento. Non c’è nulla di intrinsecamente autoritario in una compravendita, o nel banalissimo gioco della domanda e dell’offerta (che vale anche per il baratto più elementare).
Ma il capitale è un altro paio di maniche. Il mercato esisteva da millenni, quando il capitale, il suo “dispositivo”, la sua logica, sono diventati dominanti nel mondo (e non sto parlando di mille anni fa).
Il cavallo è il capitale. Ed è un cavallo stanco morto. Almeno dal 1971-3 assistiamo ai colpi di coda del capitale, che si contorce contro la sua stessa fine. Il problema è che questi colpi di coda sono tanto più tremendi proprio perché la sua logica, la sua “ideologia”, si sono imposte egemonicamente. E tanto più pervicacemente (ed efficacemente), quanto più si intravvedeva la fine del capitale (o dei suoi presupposti materiali, storici, biologici, antropologici).
Pensiamo che di questo i padroni delle ferriere non siano consapevoli? Basta poco per farsi un’idea anche per noi comuni mortali: anche solo una lettura del Rapporto sui limiti della crescita. Figuriamoci se non lo sanno quelle poche centinaia di persone al mondo che hanno tutte le informazioni del caso (e ne controllano in buona parte la diffusione)!
Il problema, dunque, non è il cavallo morente, ma l’assenza di una cavalcatura alternativa. Quella che dovrebbe essere l’opposizione politica, in Occidente, agisce e offre narrazioni tutte interne al modello economico e culturale del capitale. Fallito il tentativo sovietico (semplifichiamo), non c’è all’orizzonte una narrazione diversa da quella egemonica.
Insomma, quando il capitale avrà raschiato il fondo del barile (e magari scavato anche un po’), alle condizioni attuali, saranno ancora i capitalisti a cavarsela, utilizzando una buona fetta della popolazione mondiale come risorsa materiale per la propria sopravvivenza. Con tutto ciò che questo può comportare.
Pessimista? Forse. Ma è un pessimismo della ragione, cui mi sento di far corrispondere, come contrappeso, l’ottimismo della volontà.
Ma il discorso non deve essere individuale, bensì collettivo. Questo credo sia chiaro.
È molto interessante questa discussione, vorrei dire anch’io qualcosa su questione operaia e allargamento della prospettiva: secondo me è vero, come notava WM5 che un’inquadratura più ampia ci mostra, ancora una volta, l’Ottocento. Però la prospettiva che si apre oggi rispetto a quella di 150 anni fa mi pare abbastanza differente: l’Ottocento costituiva il principio di un’epoca di crescita che sarebbe proseguita pressochè ininterrottamente (nel mondo occidentale) per oltre un secolo. Un’epoca nella quale il proletariato aveva la possibilità di giocare unito e “in attacco” rispetto al nemico di classe. La prospettiva attuale mi sembra invece più tetra: in particolare non mi pare plausibile un’epoca di crescita (stavolta per il mondo nel suo complesso) come quella passata perché il dramma che abbiamo di fronte è l’esaurimento delle risorse. In sintesi, mi sembra che la prospettiva dei prossimi decenni sia la crisi, non l’espansione. E dalla crisi onestamente io non mi attendo mai nulla di buono, specie per le classi subalterne. Mi attendo anzi guerre, di poveri contro altri poveri. Perlomeno fino a che un nuovo equilibrio sarà stato raggiunto tra noi (noi, gli uomini) e il pianeta che abitiamo. Come diceva, se non sbaglio, WM1, la lotta è la stessa ma il contesto cambia. Ecco secondo me il contesto con cui fare i conti e entro cui riuscire a inquadrare la lotta di classe, oggi, è questo: l’esaurimento delle risorse.
@ Michele
parole sante. Ed è per questo che ha poco senso la credenza che il capitalismo porterà per forza con sé i germi del suo superamento (e quindi bisogna assecondarne la spinta generale). Questo approccio fideistico si basa su una premessa fallace, quella dell’inesauribilità delle risorse (e quindi dello sviluppo), e su una tremenda rimozione (e infatti ho registrato più volte, in privato, la reazione di sufficienza di certi intellettuali post-operaisti quando si tirava in ballo la questione ambientale, come se fosse un “falso problema” di cui il capitale si sarebbe occupato di default).
Nel 2003 descrivevo così il filone teorico da cui mi stavo distaccando:
«Negli ultimi dieci anni… certo pensiero critico neo-marxista ha inseguito miraggi, parlando di “immaterialità” della produzione (e del lavoro) nell’economia “post-fordista”. Teoria interamente fondata su uno stratagemma: spingere la polvere (cioè la questione ambientale) sotto il tappeto, alimentando “da sinistra” la credenza superstiziosa nella “crescita” e in una ricchezza sociale illimitata. Un filone di pensiero “caduto nella pozione da piccolo”, come Obelix: discendente dell’operaismo dell’epoca del Boom, cresciuto negli anni Settanta dell’ “esproprio proletario”, del “diritto al lusso” e del disprezzo per l’Austerity, nel decennio scorso si è appiccicato alle pareti della bolla “new economy” senza mai mettere in discussione i propri miti fondativi. Nessuna seria critica dei consumi, nessuna analisi dei limiti dello “sviluppo”. Anzi, questo pensiero è caratterizzato da un vero e proprio orrore per l’idea stessa di “limite”. A dispetto di ogni “immaterialismo”, mai nella storia degli umani si è prodotta tanta materia (rifiuti, monnezza, rumenta, rusco), si sono distrutte tante risorse, si è consumato in maniera tanto irresponsabile. »
Urca, qui la situazione si fa pesante.
Wu Ming, la critica a una certa corrente post operaista e al problema che ha l’Europa nel vedere troppo centrati su di sé i processi evolutivi dell’economia mondiale la condivido. E lo dico come uno che l’ha vissuta intensamente in una lunga fase del proprio percorso politico (come te d’altronde, non nascondiamoci dietro a un dito).
E trovo molto interessante anche l’intervento di Camilleri anche se mi pare che trascinarlo poi come chiosa sulla querelle degli scrittori “traditori” mi pare una piccola forzatura pro domo tua (nel senso pro domo tua posizione :))
Io penso che in realtà quello che sta accadendo è che le recenti evoluzioni dello scontro nel mondo del lavoro (incluso quello precario) ci mette di fronte a dei grossi errori di valutazione strategici fatti nel passato di cui oggi scontiamo di brutto il dazio.
Adesso lancio una bomba, ma ci sto pensando da parecchio: l’assalto di Marchionne oggi avviene perché hanno già vinto su tutto il resto. Forse un tempo accondiscendere a dei criteri più “laschi” sulla questione del licenziamento (ovviamente non quelli che vuole la confindustria, però il problema del cosiddetto “ingessamento” del mercato del lavoro è un problema reale) forse non avremmo subito lo stillicidio dello sgretolamento del diritto del lavoro pezzo per pezzo, nel senso che avremmo mediato su un punto per tenere il resto.
E questo è un punto.
Ma ti dirò di più: il problema che poni sulla distanza tra popolo viola e diciamo così movimenti dell’indignazione varia che c’è in rete e i reali momenti di conflitto è un problema concretissimo. Ma è un problema che deriva dai danni che sono stati fatti alla capacità critica e di elaborazione della popolazione italiana (e non solo italiana) negli ultimi anni. Abbiamo vissuto un cambiamento culturale feroce, e non siamo stati in grado di mettervi un freno. E ora le uniche forme di conflitto concepite sono: o l’individuale guerra contro il mondo per realizzare un vantaggio privato; o la verbalizzazione di una indignazione senza alcun effetto pratico. Un dramma. Un’afasia conflittuale collettiva che mi lascia disarmato.
Scusa la confusione, ma i temi sono molti, e forse andrebbero affrontati uno per volta: valutazione storica dell’approccio alle lotte sul lavoro; valutazione culturale e concreta dello stato di cose presenti tra le generazioni che adesso dovrebbero essere protagoniste del conflitto; luoghi e tempi dei conflitti; ecc ecc.
Ciao e a presto.
@ WM1
Proprio così.
In tutta quella linea di pensiero c’è l’idea che le dinamiche all’interno della società capitalista siano in qualche modo neutre, o addirittura in se stesse positive, progressive e liberanti “per natura”. E che ci sia un comando capitalista che forzi queste dinamiche all’interno di uno schema, di un meccanismo di riproduzione, e che basti allentare quel comando per fare in modo che tutto torni a misura di umano, di vivente, di concreto. Se uno sfugge al comando, non c’è bisogno nemmeno di pensare a una “presa del potere”, no? E’ la tematica dell’Esodo.
Il potere, il comando del capitale è però una microfisica. E così, una volta che uno si ritiene in qualche modo “esterno” al capitale, poi riproduce logiche di potere addirittura precapitalistiche, feudali, brutali, primitive. Cose che abbiamo visto accadere, sì.
@ Blicero, e chi si nasconde? :-) Proprio perché ci sono passato attraverso (e ne ho esperito tutti i “tic”, gli automatismi, le credenze indotte, i “conformismi al contrario”) ho maturato questo distacco. E’ la premessa del mio discorso. Nel 2002-2003 a un certo punto ho pensato: “M’avete proprio rotto i coglioni!” :-D
…però mi sa che stiamo inibendo i commenti su piccole librerie, legge sul libro etc. :-P
@Wu Ming 1: eh, mi sa di si… =D
Dai vediamoci, che è un po’.
bè, ma anche i libri sono merce … no? :-)
Scusate se non ho il tempo di leggere i commenti. Due cose di fretta.
L’Italia ha tra le peggiori borghesie industriali d’Europa.
Numeri e parole
Numeri:
la retribuzione di Marchionne: 4 milioni 782 mila euro all’anno.
Un operaio fiat base poco più di 10.000 euro all’anno.
Per guadagnare quello che guadagna Marchionne in un anno dovrebbe lavorare 400 anni.
Parole:
“La mia è alta perché è commisurata ai risultati. Se non porto risultati, io guadagno zero, sono cresciuto nel Nord America dove tutti, per definizione, sono precari. Non ho mai avuto e non credo di avere nemmeno adesso un contratto che mi protegga. Io sono il più precario della Fiat”. (Marchionne, Repubblica 1/6/2008)
«Mi hanno chiesto se è giusto che venga pagato 400 volte il salario più basso di questa azienda. Intanto la domanda è sbagliata perché bisogna fare il calcolo su un salario medio pagato dalla Fiat in tutte le parti del mondo. E poi io chiedo: quante di queste persone sono disposte a fare questa vita qui? Mi si domandi quando è l’ultima volta che sono andati in ferie e poi ne parliamo. Si parla sempre di diritti e mai di doveri io questa mattina, quando sono arrivato alle 6,30 dagli Stati Uniti, non mi sono preoccupato se i miei diritti erano stati rispettati, sono andato a lavorare». (Marchionne, Corriere 16 /9/ 2010)
@ i boicottatori Mondadori/Einaudi
Boicottare i libri è boicottare le idee e come operazione è autoritaria e decadente. Boicottare le grandi librerie avrebbe molto più senso. Inizierebbe un trend che alla lunga potrebbe arrecare seri danni all’oligarchia distributiva e indurli a cambiare rotta o quantomeno ad allentare l’aggressione omologatrice.
Torniamo a bomba, allora.
Ciò che sta devastando lo scenario editoriale e il tessuto delle librerie indipendenti non è il mercato, ma il capitale.
La base ideologica della “legge sul libro” è il capitalismo, l’applicazione delle dinamiche intrinseche del capitale a quello specifico settore economico e culturale.
Il capitale, di suo, è incompatibile col mercato. Tende al monopolio e alla massificazione controllabile (delle cose e degli esseri umani).
Nonostante le fanfaluche degli economisti neoclassici e monetaristi, non esiste un individuo consumatore ideale, che si regola razionalmente in base al proprio vincolo di bilancio. Io non sono il mio vincolo di bilancio e se devo comprare un libro, magari capita che preferisca spender di più e comprarlo in libreria piuttosto che risparmiare qualcosina e comprarlo in un supermercato.
Ma questo il capitale (scusate le semplificazioni) lo sa. Infatti tende a distruggere tale possibilità di scelta, privilegiando la Grande Distribuzione Organizzata a discapito delle librerie indipendenti (l’indipendenza – sotto qualsiasi forma e declinazione – non è vista di buon occhio dal capitale).
La pretesa che un commesso della grande distribuzione libraria non possa occuparsi di filosofia se è laureato in filosofia non è un’aberrazione, ma una perfetta applicazione della logica del capitale alla mercificazione dei libri (vera minaccia incombente, per ogni pretesa egemonica: vedi Fahrenheit 451!).
Il capitale si è appropriato delle parole e ne ha fatto dei mostri semantici. Cosa sono infatti questi fantomatici “mercati” che da un giorno all’altro decidono del fallimento o meno di interi stati (ossia della vita materiale delle persone che li abitano)? E cosa hanno a che fare col mercato propriamente detto? Mistero.
Soggettività mitiche, volontà imperscrutabili che fanno scelte sulla nostra vita senza che noi possiamo farci nulla.
Niente di strano che, arrivato al crepuscolo, il capitale cerchi di trarre vantaggio da qualsiasi cosa. Dall’acqua, dalle reti infrastrutturali, dalla scuola e – ovviamente – dai libri.
Non c’è nulla di cui stupirsi, dunque. Possiamo magari indignarci. Ma serve a poco anche quello.
Serve una nuova narrazione e una narrazione cui corrisponda una elaborazione politica generale ampiamente condivisa, basata sulla crescita non della produzione e dei consumi (processo ormai impossibile), quanto della consapevolezza diffusa, e sulla assunzione di responsabilità di ciascuno verso la collettività.
Una cosa da niente, appunto.
Mi permetto di segnalare questo libro militante su Negri e l’operaismo:
http://www.leftcom.org/it/articles/2006-10-01/il-libro-di-mauro-stefanini-sulle-dotte-farneticazioni-di-toni-negri
Condivido la critica al filone di pensiero “filo-postfordista”. E anche le altre osservazioni fatte in questa sede. Ma vorrei sottolineare il rischio inverso, cioè quello di alzare lo sguardo sulla globalizzazione e dire: “Visto da qui è tutto come prima e più di prima”. Perché significherebbe non tenere conto che l’operaismo per come l’abbiamo conosciuto è una storia “nostra”, non necessariamente condivisa nello stesso modo in altre aree del pianeta. Il punto di vista di Tronti è ancora molto eurocentrico e – per sua stessa ammissione – volto a salvare la memoria, la storia di un ciclo imponente di lotte come patrimonio condiviso della sinistra. Ma, guardando avanti, sappiamo che la delocalizzazione della produzione si accompagna all’importazione massiccia di manodopera dai paesi poveri e questo cambia il quadro culturale – inteso anche e soprattutto come cultura del lavoro.
I nostri eroi di queste settimane, in lotta contro l’arroganza di Marchionne, sono ancora tre giovani operai maschi bianchi, che rappresentano l’epitome del soggetto operaista novecentesco. Eppure accanto a loro, al centro dei processi di sfruttamento e ristrutturazione più brutale, esistono ormai altre figure. Innanzi tutto quelle femminili, che portano con sé una serie di rivendicazioni qualitativamente diverse. E poi i lavoratori immigrati, provenienti da contesti in cui la cultura del diritto del lavoro è molto lontana dalla nostra (là dove esiste!). Se dovessi pensare a un soggetto cruciale oggi, su cui rideclinare il paradigma e di conseguenza le lotte nel mondo del lavoro, penserei piuttosto a una donna e a una donna immigrata, cioè un soggetto portatore sano tanto delle problematiche di genere quanto di quelle legate al rapporto lavoro-cittadinanza.
Qualunque ripresa di un discorso serio sul lavoro e sui diritti, non può non passare da uno spostamento in avanti della trincea, cioè dall’abbandono dell’unicità del soggetto paradigmatico. A mio modo di vedere è soltanto questo che può sventare il rischio di una lotta di “retroguardia”, che poi significa appunto lotta tra generi e tra poveri.
Condivido. Aggiungo una sfumatura: non dobbiamo più pensare a un “soggetto cruciale”. Uno dei problemi storici (e, a dispetto di tutto, mai superati) del filone che qui abbiamo criticato è proprio la ricerca affannosa del Soggetto, il più cruciale, il più centrale, il più avanzato: l’operaio-massa è démodé? Viva l’operaio sociale! E’ l’operaio sociale che ha in mano la leva per rovesciare il comando! L’operaio sociale, in definitiva, non si capisce che cazzo sia? Proviamo con “l’intellettuale-massa”, il soggetto del general intellect! La leva sta lì, perchè la produzione è immateriale, il lavoro mentale è più importante del lavoro manuale, del resto, bastava saper leggere i Grundrisse! L’espressione (tentata all’inizio degli anni ’90) non “cattura”, non attecchisce? Proviamone altre! E via così, fino all’uso indiscriminato della parola “moltitudini”. Tendenza già satireggiata da una vecchia canzone degli anni ’70, contenente il verso: “Proviamo coi Grundrisse… o coi canguri”.
Se non si è capito, la sfumatura che volevo introdurre è: nessun soggetto è “cruciale” da solo e di per sé, fuori da una relazione e un’alleanza con tutti gli altri soggetti. Per cui anche la donna migrante, se non entra in rapporto con l’operaio e tutti gli altri, non ha un ruolo cruciale nel conflitto. Non basta essere al centro di un processo importante come l’immigrazione, altrimenti i migranti sarebbero tutti conflittuali, cosa che invece non si dà. Ci vuole un passaggio in più. Ad esempio, quando Tronti parla di “mantenere un punto di vista operaio anche quando non ci sono gli operai”, mi sembra usi l’attributo “operaio” nel senso di “consapevole che ci sono gli sfruttatori e ci sono gli sfruttati, io faccio parte dei secondi e ci sono altri nella mia condizione con cui posso comunicare e lottare”. E’ questo “scarto” che conta. Nessuna figura del lavoro è già conflittuale per la sua posizione e condizione sociologica, ma lo diventa adottando un certo sguardo sul mondo.
@WM1 la discussione si fa estremamente interessante. a mio avviso urge una vostra presa di posizione sulla scenetta di ieri sera a l'”infedele” di Lerner.
@salvatore_talia
E’ esattamente così, quello che voglio indicare è proprio la riduzione del singolo a consumatore. Che poi il dibattito su Lipperatura o in tanti altri luoghi, anche tra persone in carne ed ossa, è spesso ridotto ai termini che tu indichi e credo sia necessario trovare il modo di portare “fuori” (perdonami la semplificazione) le riflessioni che spesso finiamo per fare in questo altrove. Mi domando, senza alcuna retorica: quanti operai o quanta classe media oggi è in grado di recepire riflessioni differenti da quelle legate al consumo?! Quanti nella nostra società pensano ancora alle “dimensioni della politica”?
Il capitalismo non solo dà di sé l’immagine vincente, ma si pone come orizzonte totalitario, che contiene e rappresenta e spiega e genera “tutto”. Una somma di singoli che cosa produce: una società “totalizzata”?!
@desian
due riflessioni: in primo luogo, la classe media oggi non recepisce questioni ed orizzonti diversi dal consumo, perché è “cresciuta” nel consumo, è stata prodotta (in senso economico e sociale) dal consumismo. è grazie alla produzione di massa (e al consumo di massa da essa prodotto) che ha trovato una collocazione nel mondo del lavoro ed è nel consumo che cerca una risposta ai problemi della produzione, dell’economia, del benessere. in secondo luogo, l’immagine che il capitalismo dà di sé è uno degli elementi del discorso-capitale, che è un’insieme di pratiche, alcune mediatico-ideologiche, altre produttive (interrelate). il capitalismo è un modo per produrre recinti attorno ai desideri, per circoscriverli e cavarne profitto, in sostanza. Se sei una mucca, selezionata nei millenni per l’allevamento, non ne capisci molto di cosa sia la libertà. né, ovviamente, capisci i rischi del vivere senza recinto: ti basta che ti diano da mangiare tutti i giorni e tu continuerai a fare latte.
@sleepingcreep
eh certo, ma qui in occidente siamo tutti cresciuti nel consumo ed è forse questo circolo vizioso che va spezzato a meno che volessimo sostenere che certi comportamenti siano “naturali”. Alcune pratiche alternative possono essere identificate e messe in atto? Ad esempio, fare parte di un “gruppo di acquisto solidale” è qualcosa di concreto e utile? Mette in campo comportamenti differenti e consapevoli, direi. Chiama al mercato (remunera equamente i produttori, spesso piccoli) ma non al comsumo.
Immagino si possa provare ad uscire da una logica di immutabilità. E poi, che colpa ha la mucca se è stata “selezionata” così? Spezzare il recinto può toccare alla mucca (?) e chi sta fuori dal recinto potrebbe dare una mano. Nemmeno io credo all’ingrasso, sia chiaro. :-)
@ sleepingcreep
io non l’ho vista.
@desian
assolutamente tocca alle mucche! magari è pensabile una piccola mano da parte di qualche altro animale che gli testimoni di un “fuori” possibile. e possibile solo nel senso che va prodotto, non che ci sia già.
Sui GAS non saprei risponderti: sono certamente un tentativo di bypassare la logica del consumo, ma non quella della produzione di massa: in sostanza, comprare all’ingrosso, significa che ci sia qualcuno che produce all’ingrosso, più o meno spostando il problema. Ed anche facendo una sorta di favore al sistema: riduci gli sprechi, diminuisci la percentuale di lavoro improduttivo, deprezzando ulteriormente il lavoro produttivo. Perché il problema non è soltanto il consumo, ma anche la logica che gli sottende, la logica del produttivismo e dell’accumulazione che funziona come regola di base del setting capitalista. Certo, comprare in cooperativa è una delle cose che si possono fare, ma da sola (e slegata, soprattutto, da tutte le altre) rischia di essere una formula autoassolutoria. Rischia: non vuol dire che lo sia o che io abbia ragione.
@ wm1, in estremo ritardo.
Io suppongo tu abbia estremamente ragione, si dovrebbe smettere di parlare di soggetti rivoluzionari. Però qualcuno dovrebbe riuscire a spiegarmi perché gli operai votano lega, pdl. Il problema dello sguardo sul mondo è semplice: non dico che Marx sia morto, ci mancherebbe. Però è un po’ vecchio il ragazzo, è 127 anni che è morto. Nonostante tutti gli sforzi e tutti gli innumerevoli contributi di lotta, di pensiero. Siamo ancora fermi al punto di vista operaio sul mondo (non è proprio un’intuizione di Tronti, mi sa più di Lenin, ora che ci penso, una rivoluzione intellettuale che pensi in modo operaio).
E’ vero, non sono cambiate le condizioni di sfruttamento, però sono cambiati tutti i personaggi, i macrosoggetti. Ce ne sono un sacco in più. Marx non immaginava certo che un giorno ci sarebbero stati tantissimi lavoratori intellettuali sottopagati (primo macrosoggetto: Intellettuale sfruttato), migliaia di persone in movimento senza un diritto o con diritti risibili (secondo macrosoggetto: Migrante), lavoratori manuali sfruttatissimi (terzo macrosoggetto: Operaio).
Marx non immaginava un ceto medio gigante, non immaginava che molti operai dei paesi industrializzati si sarebbero riusciti a staccare dal modello economico proletario per arrivare a quello della classe media (per esempio la classe operaia tedesca). Insomma, non sapeva un sacco di cose, anche perché morì nel 1883.
La differenza fra noi e lui è semplice: lui leggeva il presente in modo straordinario, unendo una figura da Messia a quella di uno scienziato sociale straordinario (critica come scienza della società che disvela i rapporti di produzione). Per lui non era la solita minestra, era una insalata sempre diversa, sempre da smontare in modo diverso, e gli strumenti della critica dovevano cambiare con ciò che veniva criticato. Risultato: ci siamo spinti poco oltre, e i concetti critici sono sempre i suoi. C’è qualcosa di malincoico nello sguardo operaio, perché si guarda a un grande assente: la classe operaia come unicum si è differenziata. E’ un enorme buco che non capiamo da almeno 30 anni.
Mi è partito il submit prima di copiare tutto, scusate.
Per concludere però, con i macrosoggetti Marx ha preso un secolare buco nell’acqua. Quindi parlare di classi è un po’ dubbio dal punto di vista politico, intellettuale. Magari dal punto di vista economico. Però se un operaio e un ricercatore prendono gli stessi soldi, non significa siano uguali. Magari sarebbe meglio parlare di cerchie, o di gruppi. Però a tal punto ritorna la domanda: cosa accomuna tali gruppi?
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@Omar,
condivido quanto hai scritto. Al libro, però credo si possa attribuire una identità sua, meno indifferenziata, per così dire. Cioè si tratta sempre di merce, ma potenzialmente di merce pericolosa: dentro ci potrebbero essere delle idee (occhio).
Dunque la palla passa al “filtro” che (sempre potenzialmente) potrebbe essere rappresentato dalle case editrici. Più sono “individuali”, indipendenti, più potrebbero essere insidiose. Al contrario, più sono grandi e “più cartello” fanno, meglio è, sotto un certo profilo.
Aggiungiamo la scuola? Ieri ho visto recensione ed estratti del nuovo libro di Girolamo di Michele “La scuola è di tutti” che, purtroppo non ho avuto ancora tempo di leggere con la dovuta attenzione. Dice Benedetta Tobagi sul finale del suo pezzo:
“Lo scenario tracciato da De Michele è inquietante: c´è un disegno politico per smantellare la scuola pubblica, per foraggiare il business delle scuole private, perché l´ignoranza rende le persone più controllabili.”
@ Giorgio
mi sembra tu non colga il senso di un’espressione come “punto di vista operaio anche quando non ci sono operai”. E’ un paradosso, come “operaio” è una metafora. Significa guardare alla società con occhiali che vedano lo sfruttamento, anche dove non è evidente. E nulla di quanto tu hai descritto mi sembra renda obsoleto questo guardare, anzi, mi sembra ne rafforzi l’esigenza. Anche (proprio) perché oggi “gli operai votano Lega” (che a sua volta è un’iperbole: non accade ovunque), cioè ascoltano le sirene di un’ideologia populista, interclassista e xenofoba che nasconde lo sfruttamento.
Perché mai l’elencazione dei tre “macrosoggetti” dovrebbe rendere “vecchio” un discorso basato sullo sfruttamento, tanto più che tutti qui abbiamo detto che i soggetti devono interagire tra loro e non c’è IL soggetto “più soggetto” e con l’esclusiva dell’importanza strategica?
Poi: questa storia del ceto medio gigante sta diventando un po’ stucchevole, mi sa proprio che è questa la vera narrazione antiquata. Tutte le società del pianeta stanno conoscendo una sempre maggiore polarizzazione tra ricchi e poveri, con una proletarizzazione e precarizzazione crescente di quelle che una volta avremmo chiamato le “piccole borghesie”, inoltre – ripeto – se guardiamo al pianeta il “ceto medio” si rivela larghissimamente minoritario: la maggior parte della popolazione è composta da proletari e da disperati, altro che ceto medio.
Sul fatto che i “concetti critici” che vedi in giro siano sempre quelli ottocenteschi e che i discorsi siano rimasti fermi, mah, onestamente non mi sembra. Anzi, io ho proprio l’impressione contraria.
Chi sta riproponendo l’impianto della dialettica hegeliana? O la forma-partito leninista? O la fede in una linearità della Storia? Ormai da parecchio tempo, tutto questo trova ben più critiche che adesioni. Infatti, mi sembra che i movimenti più significativi degli ultimi anni, con tutti i loro limiti, avessero ben poco a che fare con la riproposizione di visioni di 150 anni fa (chessò, i movimenti femministi, lo zapatismo, le lotte ecologiste più radicali, i movimenti per la “decrescita”, il movimento per i commons e contro la recinzione dei saperi etc.), e che da oltre mezzo secolo l’arsenale della critica si vada arricchendo di concetti e sguardi nuovi e complessi sulla società dei consumi, sui media, sui meccanismi disciplinari e poi di controllo.
Infatti, che ne siamo consapevoli o meno, quasi nulla di quello che stiamo dicendo anche qui prescinde da quello che è stato scritto da Benjamin, dalla scuola di Francoforte, da certe correnti della psicanalisi, dal marxismo eterodosso occidentale, da McLuhan, da strutturalisti e post-strutturalisti e poi avanti.
Per dire, io faccio spesso ricorso a concetti proposti da Foucault (che era ben lontano dall’essere marxista), Deleuze & Guattari (che non erano marxisti se non per boutade), Badiou (che ha un modo molto peculiare di riproporre l’ipotesi comunista), Zizek (che fonda i suoi discorsi sulle teorie di Lacan), Jesi (un marxista assolutamente sui generis) etc. Tutti costoro hanno messo o mettono in campo “sguardi” estranei a qualsivoglia “continuismo” nostalgico.
Anzi, mi sa che il pericolo è proprio quello opposto, è quello del pout-pourri, perché veniamo da una sbornia di “nuovismo” che ci ha dotati di plètore di concetti nuovi… che spesso si sono rivelati inservibili, oppure hanno prodotto nuove “lingue di legno”. Già una parola come “decrescita” rischia di diventare un termine-valigia. Comunque, il punto su cui volevo porre l’attenzione è che di teoria critica o comunque di saggistica d’inchiesta sulla globalizzazione, la finanziarizzazione, le nuove forme del dominio etc. negli ultimi decenni se ne è prodotta a iosa.
@WM1
Ho letto “I posteri e il nucleare”, nel frattempo la discussione è andata avanti. L’orrore per il limite dei post-operaisti (peraltro curiosamente simile, lo dico con rispetto per i post-operaisti ma lo dico, alle posizioni dei liberisti più dogmatici: lo stesso Bush rifiutò di firmare Kyoto perchè tanto ci avrebbe pensato il mercato) mi sembra, appunto, il riflesso condizionato di un’epoca superata.
Riguardo ai soggetti, sono molto d’accordo, non esiste, a priori, il soggetto cruciale. Forse è una banalità, ma a me sembra che esistano solo relazioni cruciali e la più importante di tutte è quella che ciascun soggetto intrattiene con il capitale, sia oggi sia, soprattutto, in prospettiva. Ed era così anche cento anni fa, solo che cento anni fa la relazione di subalternità al capitale (di sfruttamento da parte del capitale) individuava in maniera quasi univoca il soggetto classe operaia. Oggi non più, alla relazione “sfruttamento da parte del capitale” non è più possibile ricondurre un unico soggetto e proprio per questa ragione tale relazione è meno riconoscibile che in passato da coloro che la subiscono (perlomeno è meno riconoscibile come elemento comune tra i diversi soggetti: l’operaio vede in molti casi il migrante come concorrente nell’accesso al lavoro o a diritti minimi).
Infatti lo sforzo costante è di occultare tale relazione molto più che i soggetti che vi sono coinvolti (sforzo che sarebbe vano se essa interessasse un soggetto omogeneo, come in passato). Non sono gli operai a essere invisibili, è il loro destino di sfruttamento a essere taciuto. Prendete ad esempio gli spot che circolano ultimamente sulla sicurezza sul lavoro (“La pretende chi si vuol bene”): la (mancanza di) sicurezza sul lavoro è una delle più evidenti manifestazioni del fatto che il lavoratore è sfruttato dal padrone. Ma in quello spot viene fatta passare per una mancanza del lavoratore, manco fosse un motociclista che guida senza casco. Di più, si inserisce nel calderone delle vittime di, a questo punto, “sbadataggine” sul lavoro soggetti eterogenei come operai e imprenditori.
Allo stesso modo con i migranti: sono ben presenti in TV e sui media in generale, ma solo come protagonisti di fatti di cronaca (o, al più, di aneddoti edificanti tipo “immigrato salva uomo”), mai come protagonisti di conflitti (non dico attivi, ma nemmeno passivi).
@ Michele,
mi ritrovo in piena sintonia con le tue osservazioni, e qui rientra anche il discorso che faceva Salvatore Talia nel suo commento delle 10:39. C’è una narrazione dominante in cui sembra che essere sfruttati, stare nel capitalismo, muoversi nel mercato siano questioni di *scelta*. Perché, appunto, se è una mera questione di scelta, di etica individuale, si occulta la relazione (di produzione, di potere, di proprietà) che determina tutto.
E così lo spettacolo estivo della crisi di coscienza del teologo Mancuso ha sviato l’attenzione di tutti (anche la mia, faccio mea culpa) dall’iter parlamentare della legge Levi, che riguarda il monopolio nel mercato del libro. Perché se è tutta una questione di scelta, di etica individuale, allora le cose sono semplici, i topi possono correre di qua e di là, e (come si diceva nelle assemblee d’antan) “mentre noi stiamo qui a farci le seghe, fuori la ristrutturazione passa.” :-)
E così la mancanza di sicurezza non è colpa del padrone che da un lato sfrutta e dall’altro tira al risparmio: questo non si può dire. E’ colpa del lavoratore che non la “pretende”.
Etc. etc.
A proposito:
http://www.militant-blog.org/?p=3326
Sì, se ne è prodotta a iosa. E ha portato a concetti vuoti, come quello di decrescita. Ho capito che devo decrescere, ma non ho ancora capito come.
Manca sempre l’analisi economica: la scuola di Fancoforte all’inizio la perseguì, poi più nulla. Pollock fu messo a dirigere le finanze della scuola, con risultati capitalisticamente ragguardevoli. Insomma, nesuno si è messo a leggere i libri di economia e a osservare l’economia per capire la società. Il miglior lascito di Marx nel cesso.
Era questo il punto: se non critichi il cavallo, come caspita fai a capire chi lo doma?
@ Giorgio,
non sono d’accordo. Mi sembra che i libri di Luciano Gallino, di Joseph Stiglitz, di Benjamin R. Barber, di (per citare un post-operaista meno onirico e prometeico) Christian Marazzi e anche opere più divulgative ma documentatissime come Shock Economy di Naomi Klein (e potrei citarne tanti altri), ci forniscano una visione d’insieme del cavallo, concetti per nulla vuoti e strumenti critici da utilizzare. E parlano del cavallo di oggi, non di quello di centocinquant’anni fa.
Diffido sempre e di default di qualunque approccio “non-c’è-niente”, “non esce niente”, “non si dice niente”, “nessuno fa niente”.
Sarò vetero, ma credo che la teoria della lotta di classe di Marx sia ancora più attuale oggi che nell’Ottocento.
Bisogna innanzitutto rilevare come i termini “proletariato”, “classe”, ecc. siano stati banditi dal linguaggio comune in seguito alla repulisti ideologica che è seguita al crollo del socialismo reale, una repulisti a cui l’interclassismo e il populismo del Pci avevano comunque preparato il terreno già da tempo. E, ovviamente, questi termini sono stati smarriti insieme ai concetti e alla visione della società che rappresentavano: la divisione in classi, la coscienza di classe, la lotta di classe e via di seguito. La conseguenza di questa sconfitta ideologica è stata che molti antagonisti al sistema capitalista – genericamente intesi – hanno abdicato e si sono adeguati al linguaggio volutamente incerto e vago (la gente, i cittadini, ecc…) del nemico di classe.
Ora, la nostra società è liquida e complessa quanto si vuole (e per “nostra” intendo soprattutto l’Occidente, perché in altre parti del globo la polarizzazione sociale è molto più netta), ma il proletariato è ancora lì com’è lì il capitalismo: molto semplicemente, i proletari sono tutti coloro che vivono non grazie all’investimento di un capitale, piccolo o grande che sia, ma grazie alla vendita della propria forza-lavoro – facilmente sostituibile perché abbondante sul mercato – in cambio di un salario o di uno stipendio, vale a dire, ad esempio, l’operaio di fabbrica, l’operatore di un call center, lo spazzino, il postino, la cassiera, il precario della scuola… in sostanza, tutti i lavoratori dipendenti. Sono da escludere, è ovvio, quelli in possesso di un’alta qualificazione o che ricoprono ruoli dirigenziali perché, in base alla loro posizione e alle retribuzioni che percepiscono (manager d’azienda, dirigenti statali, ecc.) sono oggettivamente legati alla salvaguardia di questo sistema e non certo al suo abbattimento.
Certo, esistono settori che, da un punto di vista di classe, sono molto più omogenei di altri. In fabbrica, ad esempio, sono tutti proletari, mentre a scuola c’è il docente che vive solo del proprio (basso) stipendio, ma c’è anche quello che oltre a insegnare fa il commercialista, oppure quella che è sposata con il notaio o l’imprenditore, ecc. Il fatto è che le classi sono astrazioni, non caste che distinguono i propri membri da un marchio sulla pelle. Per cui è normale che, in mezzo alla polarizzazione classista borghesia/proletariato che si intensifica nelle fasi di acuta crisi economica come l’attuale, esiste un magmatico e multiforme ceto medio che si avvicina all’uno o all’altro polo a seconda del momento. Questo è un motivo in più per dire che solo il proletariato ha interessi sempre e comunque opposti a quelli del sistema capitalista, ed è perciò la classe – presente a livello internazionale – potenzialmente e oggettivamente rivoluzionaria.
Ma io sono dello stesso avviso, solo che non vedo l’altro Marx.
Marx è il culmine dell’analisi capitalistica. Ne ha scoperto il meccanismo. Solo che tutti gli autori che hai citato forniscono una visione del capitalismo senza portare a un livello successivo, quello della lotta. Non si lotta contro la nebbia per nulla, il problema è una visione. Marx ne ha data una sua (non i socialisti reali, Marx). Una roba che il mio prof di filosofia sociale all’università ha più o meno introdotto così: “un mondo in cui scrivo la filosofia del diritto, poi vado a pesca e porto un branzino da 5 chili a pranzo e dopo mi scopo una pornostar. Ci vanno almeno 3 vite per fare queste cose. Io sceglierei la terza.”
però ha dato una visione che libera gli animi e scalda i cuori, scientifico e messianico.
Mi sembra il limite invalicabile della critica. Il filosofo più letto dagli analisti finanziari. Loro studiano il nemico molto attentamente. Il capitalismo è l’eterna rivoluzione dei mezzi di produzione, aveva ragione Marx. Uno come Boltanski si spinge a dire quel che nessuno osa proferire: la critica artistica è funzionale al capitalismo. E da qui, dalle magliette con che guevara fatte da semi-schiavi in paesi a capitalismo precognitivo, come se ne esce, se ogni volta la critica si arresta laddove dovrebbe spingersi? Verso la critica pratica?
Il problema che ho sempre avuto con Negri riguarda la questione del nesso valore/lavoro. In sostanza, mi pare che in Tronti (e nell’analisi economica operaista più vicina a Marx) il proletariato non fosse semplicemente “la classe lavoratrice” ma una classe determinata all’interno della produzione capitalistica, una forza produttiva, capace di fornire lavoro vivo, lavoro produttivo, contrariamente alle altre categorie della forza lavoro, che svolgevano un lavoro improduttivo (come la vendita, il trasporto di merci, ecc.). Ora, la cosa che mi sembra problematica nel post-operaismo è appunto la tesi secondo la quale il rapporto valore/lavoro sarebbe saltato, facendo perdere in questo modo centralità alla produzione operaia. Non è tanto che “gli operai non ci sono più”, ma che ormai la produzione di valore attraverso il lavoro vivo non è un’esclusiva del proletariato.
I tentativi di allargare la definizione di proletariato a tutta la classe lavoratrice, hanno generato dei piccoli mostri (uno dei quali fu il PCI di Berlinguer, per certi versi, e la CGIL di Lama), per cui riprendere il discorso oggi, partendo dalle condizioni materiali, per me, significa: chiedersi se e come la produzione e l’accumulazione di valore passano solo dal lavoro produttivo in senso stretto o anche da forme di lavoro tradizionalmente definite improduttive.
Non è questione di lana caprina, perchè è a partire da questo punto che possiamo effettivamente definire un “piano d’azione” per smantellare lo stato odi cose presenti. Sono molto d’accordo con WM1, non esiste il soggetto definitivo, quello che guiderà la rivoluzione e ci condurrà alla vita eterna, questa fiducia ci ha già condotti al disastro, come al disastro ci ha condotti – però – la fiducia in una moltitudine che fosse politica in sé, senza necessità di organizzazione, di strategia, di lungimiranza. Di politica.
P.s. Mi spiegate come siamo passati dalle librerie al post-operaismo?
Un appunto: in Marx i proletari sono quelli che non hanno che gli occhi per piangere, e la religione come oppio. E’ la fame che li muove, è la consapevolezza di essere una classe di diseredati. Non è scemo Marx, lo sa che è una esagerazione euristica per rendere il discorso logicamente impeccabile. Però abitava a Soho, e ha visto morire un sacco di persone di fame e stenti, figli compresi. Nell’arco di cento anni dalla sua morte, la classe operaia è stata investita (letteralmente) di beni di consumi abbordabili. Non è roba da poco. La coppia valore/lavoro è saltata per questo. Il valore del lavoro (primo capitolo del capitale) era legato alla sussistenza fisica dell’operaio. Con il tempo e le lotte, ci si è allargati, per grazia del cielo. Come notarono Horkeimer e Pollock, questo fu un fattore DECISIVO per l’abbassamento delle tensioni nella lotta. Il problema è molto semplice: il capitale educa al suo cambiamento, è come se i videogiochi simulassero la vita di un lavoratore medio odierno: cambio di stimoli, cambio di livelli, pressione costante. Non vi ricorda un lavoratore atipico?
@ Giorgio,
credo che di Negri e Hardt si possano dire tante cose negative, e come hai visto le dico pure, ma certo non sono timidi nel dire quali siano per loro i soggetti, le lotte da valorizzare, i campi di intervento. Che poi uno sia d’accordo in tutto, in parte o per niente, è un altro paio di maniche. Su un altro versante, Zizek e Badiou (autori che io leggo criticamente, prendendo molte cose con le pinze) si sforzano sempre di indicare i punti da tener fermi, le tendenze su cui intervenire, le alleanze possibili, le prassi reali da sostenere con il discorso critico. In questo il pamphlet di Badiou su Sarkozy sfiora addirittura la prescrittività.
Ma tutto questo lo fanno senza fretta da “topi”. Se adesso ci monta pure l’ansia perché non vediamo un “nuovo Marx”, stiamo freschi :-D
[A parte che Marx quand’era vivo era sì considerato e stimato da molti, ma non era ancora il “faro” che è diventato nel XX secolo dopo la Rivoluzione d’Ottobre… E’ come in letteratura: ci vogliono anni e anche decenni per capire se un testo sarà un “classico”.]
Ma mica ho fretta da topo, io. Dico solo che per fare certe cose ci va l’uomo giusto.
Solo dico che dopo Marx non c’è stato nessuno in grado di ri-analizzare il presente e darne soluzioni (magari sbagliate, per dire) di una tale potenza. Zizek e Badiou li vedo sempre come poco incisivi dal punto di vista critico, molto dal punto di vista del proscenio.
Per esempio, ritrovo concetti di indubbio valore critico nei francofortesi, però erano lanciati da una torre d’avorio: la dialettica dell’illuminismo è una lettura stupenda, ma si nuota in mari di sabbie mobili. Poco messianico, anzi no: una messa in latino direttamente.
Marx era una personalità ieratica, anche lasciando perdere i testi. Mica tutti gli operai del biennio rosso avevano letto il capitale. Erano topi anche loro, forse. Mica tutti i partigiani di stella rossa erano comunisti, e mica tutti quelli comunisti lo erano perché avevano letto Marx. Credevano in un mondo migliore, dove sorge il sol dell’Avvenir. E io, purtroppo, vedo un sole oscuro, e nessuno che riesca a rischiararlo.
Ora tiro una bestemmia per un comunista, però è profondamente vera per quel che mi riguarda. Con linguaggio e prosa diversi, negando dio, Marx è il profeta a noi più vicino. Una visione che abbia spostato così tanto gli animi non veniva da tempo immemore. La potenza sta tutta lì: nell’inscindibile carica di speranza e di critica bruciante al presente. Finché non arriva una visione nuova, poco si può fare. Ripeto per chiarezza. Non mordo le lenzuola aspettando, sono solo consapevole che non si lotta senza un sogno. E ora come ora, è poco più che mattina, e lottano i pochi che hanno un sogno, troppo pochi. Ricordi la scena iniziale del declino dell’impero americano? Analisi spietata ma vera. Senza numeri, si perde.
Per riallacciarmi al discorso iniziale: senza lettori, niente librerie. Difendere il sistema scolastico non è così lontano da quell’obiettivo. Senza numeri si perde. Parlare di scrittori senza parlare di lettori è assurdo. E in questo paese ci sono lettori forti, non-lettori e lettori per forza (quelli durante la scolarizzazione). Senza qualcuno in mezzo, il mercato non regge. Lo so, sono molto caustico. Arrivo da una serie di periodi passati in Germania e so che lì il piccolo libraio è possibile perché moltissimi leggono almeno 20 libri l’anno. In Italia no. Con i numeri si vince, senza si perde. Il vostro lavoro è encomiabile, lavorate su una base di lettori (fra cui me) e la fate crescere, vi confrontate. Però stare nel mercato vuol dire sapere che le uniche sue leggi sono i dannatissimi numeri, e le uniche sue regole sono delle infinite diramazioni della partita doppia. Niente numeri, niente spazio.
Mah. A me il culto della Personalità nella storia non convince. “Marx” non era solo Marx, non è sul presunto titanismo di un singolo uomo che dobbiamo mettere l’accento. Marx fu l’interprete (non l’unico né isolato da altri) di un sommovimento epocale, un terminale che processava i “flussi” di quella temperie e ne traeva delle sintesi di discorso. A trasformarlo in icona è il movimento operaio del secolo successivo, e quest’operazione ne isola la figura, la astrae dalla rete di relazioni che resero possibile la sua teoria. Parlare di profeti e di messia non porta da nessuna parte se non nella terra del mito tecnicizzato.
P.S. Lo stesso Engels, con riferimento a Marx, scrisse in una lettera del 1894:
«Gli uomini fanno essi la loro storia, ma finora non con una volontà generale e secondo un piano generale, neppure in una data società limitata. Le loro aspirazioni si contrariano; ed in ogni simile società prevale appunto per questo la necessità, di cui l’accidentalità è il complemento e la forma di manifestazione. Ed allora appaiono i cosiddetti grandi uomini. Che un dato grand’uomo, e proprio quello, sorga in quel determinato tempo e in quel determinato luogo, è naturalmente un puro caso. Ma, se noi lo eliminiamo, c’è subito richiesta di un sostituto, e questo sostituto si trova, tant bien que mal, ma alla lunga si trova. Che Napoleone fosse proprio questo corso, questo dittatore militare che la situazione della repubblica francese, estenuata dalle guerre, rendeva necessario, è un puro caso, ma che in mancanza di Napoleone ci sarebbe stato un altro ad occuparne il posto, ciò è provato dal fatto che ogni qualvolta ce n’era bisogno l’uomo si è trovato sempre: Cesare, Augusto, Cromwell, ecc.».
Subito dopo, con riferimento al materialismo storico, Engels scrive: «i tempi erano maturi e quella scoperta doveva essere fatta»
Giacomo avrà riconosciuto subito la fonte di questa citazione :-)
E’ un celebre (oddìo, mica poi tanto) scritto di Amadeo Bordiga, “Il Battilocchio nella Storia” (1953), di cui riporto parte del cappello introduttivo:
«[…] Da tutte le bande infatti, e al suono di tutti i credi, cattolici o massonici, fascisti o democratici, liberali o socialistoidi, sembra che – in misura assai più estesa che per il passato – non si possa fare a meno di esaltarsi e di prostrarsi in ammirazione strofinatrice dinanzi al nome di qualche personaggio, ad esso attribuendo ad ogni piè sospinto il merito intiero del successo della «causa», di cui trattasi.
Tutti concordano nell’attribuire influenze determinanti, sugli eventi che passarono e che si attendono, all’opera, e per essa alle personali qualità dei capi che alla sommità si assisero: disputano fino alla noia se si debba farlo per scelta elettiva o democratica, o per imposizione di partito e addirittura per individuale colpo di mano del soggetto, ma concordano nel fare tutto pendere dall’esito di questa contesa, sia nel campo amico che in quello nemico.
Ora se questo generale criterio fosse vero, e noi non avessimo la forza di negarlo e minarlo, dovremmo confessare che la dottrina marxista è caduta nella peggiore bancarotta. Ed invece, al solito, fortifichiamo due posizioni: il marxismo classico aveva già messo senza riserve i grandi uomini in pensione […]»
Il testo completo è qui:
http://www.sinistra.net/lib/bas/progra/vako/vakoecidui.html
E no, occhio. Non si può sempre dire che parlare di messia porta nella terra del mito tecnicizzato. Marx fu IL simbolo per moltissimi, è inutile negarlo. Persino Engels (coautore del manifesto) passò in secondo piano. Dire che Marx era un profeta non è dire che avesse ragione. Però per molti fu la sostituzione di un profeta a un altro, e fu questo (assieme alla fame) che mosse le persone. Per accorgersene, basta fare un giro nei cimiteri di paese: alcuni al posto della croce hanno falce e martello. A Cavriago si portanoi fiori sotto il busto di Lenin, una roba che mia nonna fa con la madonna, per esempio.
Non è un mito tecnicizzato dire che il materiale da lui fornito era vissuto come una offerta profetica, e che parte della sua potenza stava lì.
E’ ovvio che studiandolo si capisce quanto fosse necessario capire il sistema relazionale entro cui agiva, da questo punto di vista Karl Marx Show di Goytisolo però è fenomenale: una metanarrazione del crollo del mito del comunismo attraverso una narrazione tecnicizzata del mito dell’uomo Karl, una soap.
Io non voglio fare questo: però sono cosciente che ci vada un sogno per lottare, un fine, e qualcuno che te lo offra che sia convincente. E’ vero, era un terminale di flussi. Però se a un inesperto di energia elettrica chiedi cosa gli ricordi di più l’elettricità, lui ti risponderà che è la lampadina. Sarà un terminale anche quello?
Non fu isolato da altri, però fu l’unico a capire certe cose, a non fare filosofia della miseria.
En passant: io Furio Jesi non sapevo chi fosse, grazie di avermelo fatto scoprire!!!
Il fatto che una pulsione sia genuina e “dal basso” non vuol dire che non la si debba superare. Quel genere di narrazioni ricalcate sulla religiosità popolare sono la cosa più strumentalizzabile e “tecnicizzabile” del mondo. Infatti, in mano ai regimi che sappiamo, le icone di Marx e Lenin sono diventate totem di alienazione. La fede diventa religione, e sono due cose molto diverse. Ovvio che per lottare servono narrazioni, sogni, miti. Ma una narrazione serve finché è fluida e viva. Quando si raggruma e si indurisce, bisogna andare oltre e guardarsi bene dal riproporla. Coi “profeti del proletariato” abbiamo già dato, quindi non mi sembra un frame desiderabile. E in ogni caso, dovrebbe sorgere spontaneamente. Con il Georges Sorel che stava dentro di noi abbiamo già fatto i conti: il mito non si può costruire a piacimento né dirigere a piacimento, pena la sua tecnicizzazione.
Io non sto parlando della teoria in sé e basta, ma della presa sulle persone di *quella* teoria.
Da lì arrivarono periodi di lotta incredibili. Mi permetto di citarvi: in Q la lotta arriva perché c’è una visione alternativa del mondo, se non mi ricordo male, mica perché quello che c’è ci fa schifo e basta. O meglio: una commistione dei due. Quello che c’è fa schifo, e la loro visione ci dona la forza di reagire.
Di Q tutti ricordano l’esaltazione dei momenti iniziali della lotta, e mai che quella lotta va a schifìo grazie alla splendida “visione” dei “profeti”, gente come Ian Matthys o Ian di Leyda :-)
Il valore reale di Marx sta – a mio parere – nel fatto di aver elaborato un’analisi e una teoria che oggi sono ancora feconde, e di averci mostrato – una volta per sempre – “lo spettro che si aggira per l’Europa”.
Mitizzarlo, temo che porti solo allo sbandamento, alla malinconia, al vagheggiamento, all’insensata ricerca di un altro “mito”… E’ rischiosa, un’idea che si incarna in una persona.
Non dobbiamo distrarci, invece. E proseguire la lotta. Con gli strumenti che abbiamo ora, con un orizzonte più ampio, un punto di vista non troppo “europocentrico” (sono d’accordo con quello che diceva WM5). Fare memoria di quanto è stato, e proseguire la lotta. L’obiettivo, lo conosciamo.
Non si può costruire a piacimento, ma il mito esiste ogni volta che c’è lotta. E ora un mito non sembra esserci, ecco. Per dirla con i Chemical Brothers:
“I needed to believe in something | I need you to believe in something”
http://www.youtube.com/watch?v=c_IkUysQASQ
Non era la proposta della creazione di un mito, solo la constatazione che per lottare ci va un sogno. E quel sogno io non lo vedo.
in aggiunta: la vulgata di un Marx “mitico”, “apocalittico”, scivola pericolosamente verso le contemporanee “mitizzazioni”, le contemporanee “apocalissi” (vedi: il terrorismo islamico), e così, per la proprietà transitiva dei salti logici, dai profeti del popolo d’Israele si arriva in 6 gradi di separazione ad Al-Qaeda… (non intendo far pubblicità al testo, ma vi posso dire che per lavoro ho dovuto leggere un tomazzo di tal fatta!!)
@ Giorgio1983,
il mito c’è, il sogno c’è. Dobbiamo solo “leggerlo” secondo il mondo nel quale ora ci troviamo a vivere e lottare…. :-) (a volte mi sembra una vecchia zia…)
ops! mi sembro una vecchia zia…
@ Wu Ming 5
Quando tra il finire degli anni ’90 e l’inizio degli anni zero i vari Rifkin, Forrester o l’italiano Revelli andavano cianciando di fine del lavoro e di orrori economici a me, che ero ancora quasi un pischello, veniva da ridere.
Era impossibile quello che teorizzavano: il capitale non può fare a meno del lavoro vivo; di gente che, in varie forme, svolge un compito. Meglio se standardizzato.
Senza il lavoro salariato il capitale avrebbe perso il controllo su quei corpi, su quelle menti.
Avrebbe reciso ogni legame con quella gente.
Inoltre, problema non da poco per un capitalista: chi avrebbe comprato le merci prodotte dalle macchine in quantità sempre maggiori?
Qualcuno risolveva il problema con il reddito di cittadinanza.
Io pensavo, e continuo a pensare, che i capitalisti non sono così idioti da fare il comunismo pur continuandolo a chiamare capitalismo.
Perché una società del genere sarebbe una società comunista a tutti gli effetti.
Una società “in cui scrivo la filosofia del diritto, poi vado a pesca e porto un branzino da 5 chili a pranzo e dopo mi scopo una pornostar”.
@Giorgio1983
Quella che il tuo prof faceva non era che una citazione rivisitata di Engels che, con una frase più o meno simile, cercava di spiegare quello che secondo lui era il comunismo in una lettera non ricordo più a chi.
Se non ricordo male è riportata, più o meno integralmente, in un’edizione de “La concezione materialistica della storia” pubblicata dagli Editori Riuniti penso alla fine degli anni ’60.
(Purtroppo non ho il libro qui…)
Ritornando al discorso di prima per una serie di ragioni sono convinto che fin quando il capitalismo sopravviverà non ci sarà nessuna sostituzione dell’uomo con le macchine, per il semplice fatto che ai capitalisti non conviene affatto.
Questo è, secondo me, uno degli errori dei post-operaisti.
Ma forse non è manco il più grave.
L’altro errore, a mio avviso madornale, che compiono è quello di confondere il cambiamento di un modello produttivo con la fine delle strutture fisiche in cui quel modello veniva applicato.
Post-fordismo non vuol dire scomparsa delle fabbriche ma una diversa organizzazione della produzione all’interno delle fabbriche.
@ Wu Ming 1
Secondo me, nel criticarli, anche tu compi questo errore.
Le fabbriche ci sono ancora in occidente, figurarsi nei paesi “a capitalismo di nuova generazione” (non saprei come definirli, ma non li ritengo più in via di sviluppo dato che la Cina, per esempio, è la seconda economia mondiale e si appresta a diventare la prima…).
Ma quelle fabbriche, molto spesso, non sono tayloriste. Sono organizzate in maniera diversa, la produzione stessa è standardizzata in maniera diversa.
Non si produce su larghe scale e a ciclo continuo, si produce in base alla domanda.
La catena di montaggio non è più lineare, ma organizzata a isole.
Spesso un’isola rappresenta un intero stabilimento, a volte fisicamente anche molto lontano dall’altra isola in cui si producono altri componenti del prodotto che, a sua volta, è lontana dall’isola in cui il prodotto finale viene assemblato.
Se proprio vogliamo dargli un nome potremmo chiamarlo toyotismo, perché come paradigma produttivo somiglia molto di più a quello che Ohno aveva ideato per la Toyota che a quello che Taylor aveva progettato per la Ford.
Non è questione da poco, le nuove soggettività di classe e l’organizzazione sociale credo dipendano anche dall’organizzazione della produzione.
In Italia i primi a introdurlo su larga scala furono quelli della Fiat, proprio nello stabilimento di Melfi dove la Fiat non si chiama Fiat, ma Sata Spa. Fu uno stratagemma trovato all’epoca per beccarsi i contributi statili indirizzati a chi apriva nuove attività imprenditoriali al Sud.
Non penso che sia casuale il fatto che in quello stabilimento ci siano stati i conflitti più aspri degli ultimi anni. E il fatto estremamente importante è che quei conflitti non erano “conservatori” ma indirizzati a migliorare le condizioni di lavoro all’interno di un nuovo paradigma produttivo.
Perché è vero, il nuovo un po’ ci ha ubriacati. Ma è un dato di fatto che il mondo che ci circonda è nuovo, è organizzato diversamente.
Sono d’accordo con te quando parli di “proletarizzazione crescente”, penso anch’io che sia avvenuto un fenomeno molto simile.
La nuova organizzazione della produzione capitalista ha portato soggettività e mansioni che un tempo erano più elevate nella scala sociale e produttiva allo stesso rango di quelle operaie.
Con salari simili (a volte anche molto più bassi), (non) prospettive di vita simili, esigenze simili, ecc.
Marx aveva previsto che sarebbe successo, e non è neanche la prima volta nella storia che succede.
In Italia, per esempio, è successo nel periodo immediatamente precedente al fascismo, dopo la crisi agraria.
Molti di quei borghesi proletarizzati aderirono al fascismo, pensando così di poter mantenere i propri privilegi.
Un po’ come l’impiegato o l’operaio ancora garantito che vota lega…
Adesso il fenomeno è ancora più complesso, perché avviene in un momento di cambiamento. In un orizzonte in cui il mutamento è ancora in corso e, a parte Negri che vede l’Impero, nessun altro riesce a scorgere dove si approderà.
Inoltre c’è stata proletarizzazione quando di proletariato non si può più parlare, se non perché si è legati affettivamente a un termine.
E’ vero che è una condizione ancora presente nei paesi capitalistici di nuova generazione come dice Wu Ming 5. Ma è anche vero che in quei paesi si stanno avviando processi di lotte che porteranno al superamento della condizione proletaria esattamente come è avvenuto da noi. In alcuni, come la Corea del Sud, questi processi sono già avanzati, durano da almeno un decennio e hanno portato alla conquista di molti diritti.
Poi potrebbe esserci anche lì un processo di restaurazione come quello che sta avvenendo da noi e che ormai dura da un trentennio, ma la restaurazione non riesce mai a portare completamente indietro le lancette dell’orologio, anche se la storia non è lineare. Inevitabilmente, e involontariamente, innesca nuovi processi e contraddizioni.
Nell’ultimo trentennio ogni settore della cosiddetta sinistra è stato caratterizzato dallo sconfittismo.
Un pianto generale che penso ci abbia portato a vedere come vittorie del capitale anche quelli che in realtà erano successi del movimento operaio.
E’ quello che penso sia avvenuto soprattutto con il superamento della condizione proletaria.
Molti, quando si dice che i proletari, almeno in occidente, non esistono più, si chiudono, si preparano a difendersi.
E’ come se ti dicessero: “non solo ci avete sconfitti, mo’ volete pure negarci il diritto di esistere?”
Eppure il superamento della condizione proletaria non è una sconfitta, è una vittoria riportata in un ciclo di lotte che nella storia non ha precedenti.
La “rivoluzione restauratrice” che il capitalismo ha messo in atto è proprio una risposta a quel ciclo di lotte, a quella vittoria.
E i mutamenti introdotti non possono che innestarsi sui, e scontrarsi con, i successi ottenuti da quelle lotte.
Io non penso che una soggettività collettiva non esista, credo che non abbia un volto.
Penso che sia molto diversa dall’operaio massa per il semplice fatto che si manifesta come moltitudine. Produce culture e linguaggi diversi, non un unica cultura e un unico linguaggio come, seppur per un periodo limitato, è avvenuto con la massa.
Il problema penso sia il fatto che non ci sia coscienza di classe, ma è un altro discorso.
E qui subentrano tutti i riferimenti che, penso Michele, faceva prima circa il negare e nascondere l’esistenza di alcune soggettività, siano esse operaie o operaizzate.
@ Michele
Condivido il tuo discorso sulle risorse esauribili.
Ma credo che il capitale stesso, producendo enormi disastri, conflitti e contraddizioni, “risolverà” il problema. Magari quando il mondo sarà diventato molto simile a quello di Ken il guerriro…
E lo risolverà non perché esiste un capitalismo buono, ma perché anche la produzione di energie pulite è un business ed è un business oggi in contrapposizione rispetto a quello portato avanti da chi vorrebbe sfruttare fino all’esaurimento i giacimenti delle più svariate risorse.
E’ uno dei conflitti interni al capitale, forse uno dei più acuti.
Perché il capitalismo non è animato solo dal conflitto capitale/lavoro ma anche da conflitti tra i capitalisti stessi.
Conflitti che di volta in volta, seguendo schemi spesso paradossali, fanno individuare una parte “progressiva” all’interno del capitale.
Conflitti che Negri a volte non vede, o finge di non vedere, per dimostrare le sue tesi. Conflitti che Lenin invece vide, e sfruttò. Tanto da arrivare in quella che sarebbe diventata l’Unione sovietica a bordo di un treno blindato tedesco.
Proprio Lenin io non lo butterei completamente nel cesso.
Ne “L’imperialismo” descrive un processo di fusioni e acquisizioni, oltre che di finanziarizzazione dell’economia, molto simile a quelli odierni, ma in una fase meno evoluta del capitalismo. Per un’analisi del contemporaneo penso possano essere utili.
Poi nello stesso libro compie il medesimo errore di Negri, cioè vede nell’imperialismo “la fase suprema del capitalismo” (è anche il sottotitolo…) non considerando che è solo una delle opzioni possibili…
@ Punco
se c’è “proletarizzazione crescente”, mi pare difficile che si possa parlare di “superamento della condizione proletaria”. “Proletarizzare” significa “rendere proletari”.
E infatti quella parte del tuo discorso non la capisco, guardacaso è l’unica in cui non fornisci esempi. Stai parlando di tenore di vita o di cosa? Se ti riferisci al fatto che mio padre viva meglio di quanto vivesse mio nonno, e io, proveniente da una stirpe di braccianti e operai, sia stato il primo laureato della famiglia e per giunta sia riuscito (daje oggi, daje domani) a inventarmi un lavoro che mi piace, allora siamo nella narrazione del benessere, della classe operaia che è diventata ceto medio etc.
Certo, la conquista di una migliore qualità della vita è stata anche il risultato di lotte che hanno esteso i diritti, ridotto le ore di lavoro etc. Quindi c’è un innegabile aspetto di vittoria.
Solo che quel processo si è esaurito: la mia generazione e quelle successive in media stanno *peggio* di quella di mio padre. I trentenni di oggi vivono una condizione di eterno presente, di erosione dei diritti, non possono aprire un mutuo, spesso non riescono nemmeno a lasciare la casa dei genitori.
E se il capitale trascina in basso e impone a sempre più figure, come hai scritto tu, “salari simili a quelli operai (a volte anche molto più bassi), (non) prospettive di vita simili, esigenze simili”, io onestamente fatico a vedere un “superamento della condizione proletaria”. Vedo invece una generalizzazione di quello che caratterizza tale condizione. E qui la vittoria mi pare dubbia, o comunque i suoi effetti sono in via di esaurimento.
Non vorrei che anche tu soffrissi di un certo “tic” del post-operaismo, cioè il “trionfalismo” ideologico derivante da una lettura meccanica della dialettica lotte operaie – sviluppo capitalistico. Quel trionfalismo è l’altra faccia dello sconfittismo, ne è il rovesciamento speculare. Nel mondo capovolto dal negrismo, tutto quel che accade è descritto (con stridente approccio “contro-intuitivo”) come una vittoria delle lotte e quindi come una conferma della teoria. Ma il fatto che il capitale sia “reattivo”, che si ristrutturi in seguito alle lotte, non vuol dire che le lotte abbiano vinto. Una reazione dell’avversario non è già una mia vittoria. Se io dò un cazzotto a uno e lui risponde dandomi un calcio in faccia che mi stende, certo, io l’ho “costretto” a reagire alla mia iniziativa, ma non è una mia vittoria.
[Estremizzo a scopo parodico, ma non vado tanto lontano da discorsi che ho sentito davvero: c’è un comando spietato sulla forza-lavoro? Benissimo! E’ una conseguenza delle lotte! Vuol dire che il capitale era stato messo in scacco e ha dovuto uscire dall’impasse massacrando tutti! Meglio di così non poteva andare! :-D ]
Sul fatto che l’organizzazione interna alla fabbrica modifichi la soggettività operaia, sono ovviamente d’accordo. L’operaio professionale era diverso dall’operaio-massa etc. Resta il fatto che stiamo parlando di lavoro operaio, che, come giustamente ricordavi anche tu, *non può scomparire*. Erano completamente sbagliate anche quelle riflessioni della critica radicale post-situazionista e dintorni, come quelle di Giorgio Cesarano sulla “utopia del capitale”, cioè il sogno di liberarsi del lavoro. Il capitale non sogna affatto di liberarsi del lavoro! Senza il lavoro, il capitale non è niente.
Catta, urge un nuovo post, questo sta diventando impenetrabile :-D
ancora @Punco, dimenticavo:
Riguardo alle risorse in via di esaurimento etc. Faccio notare che sono quarant’anni che certa scafatissima teoria critica dice che sarà il capitale a risolvere il problema dell’inquinamento e dell’ecocidio, perchè il disinquinamento è un business etc.
Lo scriveva anche Baudrillard ne “Lo scambio simbolico e la morte”, che è del 1976, e lui lo dava come processo imminente, anzi, praticamente come già iniziato, perché ovvio, scontato, prevedibilissimo.
Nell’anno di grazia 2010, il capitalismo è più energivoro, inquinante, avvelenante e surriscaldante che mai.
Ma in realtà a me appassiona.. :D
La gamma di spesa che si può permettere una famiglia operaia va oltre o no la sussistenza? Non vanno oltre a quelle dei loro genitori, però da qui alla povertà il passo è lungo. La povertà magari è esperita rispetto alle condizioni di partenza (esempio: “mio padre era operaio e andava in vacanza, io faccio il ricercatore e non ci vado”).
Ceto medio è in questo caso anche una percezione della propria posizione: raramente ti si dirà di essere di classe operaia, perché quella classe ha una certa collocazione storica. Si percepisce un livello di consumo maggiore, ecco.
Inoltre: Le famiglie sono ancora proletarie? No, fanno un figlio alla volta. E voi penserete “eh, bella scoperta” e invece no, perché la riduzione di prole ha alzato i consumi vertiginosamente, e allontanato la percezione di classe proletaria, almeno per gli italiani.
Infine, sullo sconfittismo. Constatare che va maluccio non mi piace un cazzo, intendiamoci. Per esempio vedere l’Onda non montare come si doveva mi è spiaciuto tantissimo, però l’ho DOVUTO vedere.
Suppongo che nei prossimi anni ne vedremo delle belle con i primi laureati stranieri in evidente svantaggio nonostante una formazione equivalente, i figli dei primi immigrati residenti e i figli dei primi laureati in Italia stranieri residenti in Italia, e questo per motivi che stanno lì dove li possono vedere tutti: la discriminazione genera gruppi oppressi che lotteranno appena avranno le risorse per farlo (vedi banlieue, per esempio: furia cieca secondo i media francesi, che si rifiutano di vedere la lotta a occhio nudo).
osservazione puramente statistica e OT: se i trentenni di oggi vivono nello stallo, non è solo per questioni capitalistiche, ma anche e soprattutto demografiche. Il mercato del lavoro sta “stallando” perché la baby boom sta lasciando i ponti di comando solo ora, dopo aver riempito ogni buco possibile. Le aziende italiane, in ritardo evidente, fanno piani riserve solo ora, perché si accorgono che la coorte del 1945-1960 vede la pensione, e loro non sanno come fare a mandare avanti la barca. Nel resto d’Europa lo fanno già da almeno 5 anni.
@ Giorgio,
tu trovami un solo precario che, se interrogato, si definisca “ceto medio” :) Magari non dirà di essere “classe operaia”, perché appunto è un’espressione rigidamente connotata, ma è più probabile che ti dica: “Sono un disgraziato” piuttosto che “Sono ceto medio”. Al massimo ti dirà che “viene” dal ceto medio.
Questo è uno dei thread ( se si dice così ) più complicati, e spero per voi complessi, da seguire, richiede molto impegno e più letture. Non si potrebbero trasformare le piccole librerie indipendenti in biblioteche, con prestiti, noleggi ecc. ? Ora, io personalmente la maggior parte dei libri che leggo li prendo in biblioteca, sennò spenderei troppo, e sono un mantenuto totale; il resto nelle due librerie, da un mesetto sono tre, del centro. Una città da poco più di centomila abitanti, un’ottima biblioteca, qualche altra libreria sparsa che soprattutto vende libri scolastici. Non ci sono Feltrinelli’s store, ovviamente c’è qualche supermercato. Infine compro su ibs, di solito remainders: riesco a comprare per 50 euro, libri che arriverebbero a costare il doppio e di più.
Beh, dici poco. Lui si *sente* ceto medio: ha abitudini da ceto medio, consumi da ceto medio. Mangia bene, legge libri, si informa però non ha cash. Ceto medio, classe da disgraziato.
Bourdieu parlando di distinzione faceva notare che non sempre classe e ceto sono simili: il suo esempio preferito era il salumiere. Classe alta, ceto basso (consuma molto, ma lo fa con poca qualità). Il ricercatore è l’opposto: consuma poco, di una qualità *mediamente* maggiore. Quindi lui è ceto medio, solo che è più povero del dovuto rispetto ai suoi consumi.
Per il nuovo post mi sa che bisogna attendere domani, oggi non ce l’ho fatta, mi sono messo a rispondere a due interviste, di cui una in francese, e ci ho passato le ore. Non voglio fare il topo, mi prendo un po’ di frattempo.
Buonanotte,
Catta.
@ Giorgio,
ma noi sappiamo bene che la “privazione relativa” è peggio (cioè: più frustrante, più angosciante, meno tollerabile) della “privazione assoluta”, e innesca più conflitti. Questo è un classicone: W.G. Runciman, Ineguaglianza e coscienza sociale (1966). Lo portai a un esame di Storia del lavoro, nel ’91! In soldoni: se uno non ha mai avuto niente e continua a non avere niente, soffrirà meno di uno che ha avuto qualcosa e l’ha perso. Nel nostro caso: se uno viene dal ceto medio, è abituato a consumi di qualità ma è più povero “del dovuto” (di quello che per lui è il dovuto), sarà ben più frustrato e incazzato di uno che viene dalla miseria, è diventato benestante e ha consumi di merda. Perché il primo percepisce lo scarto, il secondo no. E io non ho mai visto un precario incazzato definirsi “ceto medio”. Almeno, non durante la scarica di bestemmie :-)
@ Wu Ming 2
le interviste per iscritto stanno diventando “insfangabili”, mi sa che il frattempo va costruito con una bella moratoria.
Probabilmente le generazioni che si sono affrancate dalla terra, dal tempo ciclico, dall’oscurità dell”ordine naturale” sono, nella storia del nostro paese, due o al massimo tre. Stiamo ricadendo in un “ordine naturale” distorto, mortifero, in cui bisogna accontentarsi, semplicemente, di essere vivi.
La mia famiglia viene per metà dall’Appennino bolognese, per metà dalla pianura veneta. Sono, siamo tutti di estrazione contadina. Veniamo dalle terre derelitte da dove venivano i vari Zanni della commedia dell’arte. A Venezia, la periferia povera era Bergamo. Nell’odiosa, supponente, laida Bologna della mia infanzia la periferia del mondo che turbava la quiete e il decoro erano “quelli venuti giù con la piena”, i montanari. Anche se a un certo punto qualcuno della famiglia “ha studiato” (geometra, maestra di scuola), l’estrazione rimane quella. Io sono a disagio di fronte a un borghese. Una parte di me si sente sempre trattata con condiscendenza. Visto che ciò che sente il mio corpo viene avvertito in modo trasparente dalla mia coscienza, per me la lotta di classe è un fatto. L’estraneità, la lontananza, l’alienazione sono il mio quotidiano, dall’infanzia.
La maggior parte degli italiani vengono da un mondo ancestrale in cui trovarsi alla catena di montaggio, a un certo punto, era un decisivo passo avanti. Intendo dire che per molti la schiavitù della catena di montaggio era preferibile all’oscurità delle zolle dalle quali provenivano. Era progresso questo? Senza dubbio, io penso di sì. Era schiavitù trasparente a se stessa. L’origine di quella schiavitù, un certo punto, era nota, generalmente nota, ed era il denaro, cioè i padroni. Dio, il diavolo o il destino non c’entravano un cazzo.
La storia degli avvenimenti non è la storia delle mentalità. E’ per questo che quello che sembrava consolidato in un certo momento del Novecento ora, semplicemente, suona alle orecchie dei più come privo di senso. L’idea che gli interessi del servo siano opposti a quelli del padrone, ad esempio. L’idea gloriosa che basti una semplice capacità umana, il fatto di essere nati come membri di questa specie per avere gli stessi diritti, non ultimo l’accesso alla verità.
Quando ero sbarbo, nessuno voleva “stare al proprio posto”. Io credo che quella sensazione nella pancia, nutrita da studio, esperienze e riflessione, sia ancora quella giusta.
Guardo le cose dal punto di osservazione degli anni che si ammucchiano, e il punto di osservazione eè sempre più alto, mi pare di vedere più lontano.
Il fatto che una consistente percentuale della popolazione abbia avuto la possibilità di formarsi una visione del mondo ed abbia concepito in più una visione critica dell’esistente potrebbe essere una parentesi, un episodio nella nostra storia, qualcosa che dura lo spazio di pochi decenni.
I cicli di lotta, i periodi rivoluzionari sono momenti in un certo senso “miracolosi”.
Ora sembra che l’inumano prevalga. La cifra, il codice, l’esponente, l’astratto contro la carne, il sangue, il pensiero.
Ora sembra adatto solo un pensiero notturno. Potrebbe essere solo un errore di prospettiva.
@ WM1
Ottima la citazione di Amadeo (anche se sono “bordighista” solo fino agli anni Venti : ) è una lunga storia…)
Io non credo affatto che le fabbriche continuino a esistere perché sono uno strumento di dominio. Le fabbriche sono il luogo in cui si estorce plusvalore, la messa in discussione della teoria del valore/lavoro avanzata da operaisti e post-operaisti non mi convince per niente, mentre la caduta del saggio del profitto (non dei profitti, si badi) come motore della crisi, ce l’abbiamo davanti agli occhi e spinge sempre più capitali alla delocalizzazione per trovare manodopera sempre più a basso costo, oppure verso la speculazione finanziaria, che però non produce nuova ricchezza a fa avvitare la crisi su se stessa…
Marx non dev’essere un mito e il marxismo non dev’essere un dogma, ma è senz’altro un metodo d’analisi utilissimo per capire il presente.
Se dico che è la terra a girare intorno al sole e non viceversa, non mitizzo certo Galileo.
Su molti aspetti dell’analisi sovrastrutturale il marxismo va certamente integrato, arricchito, riletto, ecc. Ma sull’analisi strutturale credo che il Moro di Treviri possa essere considerato a tutti gli effetti uno scienziato.
Certo, la sua è una scienza dannata e sovversiva. Come quella degli alchimisti. E come quella di Galileo : )
@ wuming
scusate, ma “Il cinema libera la testa” di Fratel Luther Blissett c’entra qualcosa con voi?
@ Wu Ming 1
No, no.
Sapevo di essere stato poco chiaro, ma non fino a questo punto.
Nessuna narrazione del benessere e della classe operaia che si fa ceto medio.
Per carità!
La mia stirpe è simile alla tua, e sono tra i trentenni che se la passano peggio dei genitori e forse anche dei nonni.
Se avessi voluto intendere una cosa del genere non si sarebbe trattato solo di tic, ma proprio di fuga dalla realtà, di ignorare la mia stessa condizione.
Quello che intendevo dire è che la condizione proletaria (proprio il termine proletario in senso etimologico) è stata superata grazie a un ciclo di lotte senza precedenti.
I figli hanno smesso di rappresentare una ricchezza materiale, hanno smesso di lavorare per integrare il proprio reddito a livello familiare. Soprattutto se ancora bambini.
Il lavoro minorile, almeno in occidente, è vietato oltre che deprecato e deprecabile.
Grazie a quelle lotte l’unica fonte di ricchezza dei lavoratori è stata rappresentata dal frutto del lavoro, dal salario. Un salario, che sempre grazie alle lotte, non solo cresceva di contratto in contratto ma si adeguava automaticamente ai tentativi del capitale di recuperare un saggio di profitto per loro accettabile e che le lotte invece erodevano.
In Italia, per esempio, questo era garantito dalla scala mobile.
Per il capitale la situazione era diventata insostenibile, i lavoratori non solo pretendevano sempre di più ma mettevano in discussione l’ordine capitalista stesso.
Dovettero reagire.
E lo fecero con una grande innovazione, ma con lo scopo di restaurare.
Solo che quei mutamenti andarono a innestarsi su una società che si era modellata anche grazie alle lotte. Lotte che avevano fatto superare la condizione proletaria.
Non riescono a far ridiventare i lavoratori proletari (perlomeno ancora no) ma comunque ne peggiorano le condizioni e le prospettive di vita.
Io non affermo affatto che ora si stia meglio, dico solo che io non sono proletario e con me tutta la mia generazione e anche quella precedente.
Io a un figlio non ci penso proprio, perché non avrei idea di come mantenerlo.
Sono un proletario senza prole? Mi sembra ridicola come definizione, non trovi?
E anche quelli che decidono di farlo un figlio…
Rappresenta per loro una ricchezza materiale? O è invece un costo?
Il suo futuro non è forse uno dei tanti pensieri che la mattina appena ti alzi ti fanno bestemmiare?
Sulle risorse esauribili:
in quello che ho scritto non c’è traccia di un capitalismo che risolve il problema dell’inquinamento e l’ecocidio. Anzi ho detto che probabilmente il mondo in cui il problema sarà “risolto” sarà molto simile a quello di Ken il guerriero, che non è affatto un mondo popolato da animali felici e ricoperto di foreste…
Però è un dato di fatto che sia in atto uno scontro tra chi trae profitto dalle risorse esauribili e chi, invece, vorrebbe trarne uno maggiore da quelle rinnovabili.
Anche gli ultimi casi di corruzione italiana riguardano le energie rinnovabili, e sempre l’italiana Enel, tramite una controllata che si chiama Gree power, sta raccattando in tutto il mondo contratti per centrali eoliche e fotovoltaiche.
Senza contare gli investimenti della Cina in questo senso e anche quelli di Obama che, comunque, ha di fronte la lobby di petrolieri più potente del mondo.
Tocqueville dice che le rivoluzioni arrivano quando si alza la testa, e nota che nel periodo della rivoluzione francese il popolo stava già molto meglio che nei periodi precedenti.
Però il mondo spadella giovani laureati senza futuro da almeno 15 anni (nota che ne ho ventisette, sono uno degli ultimi). Ancora non è successo moltissimo: i processi del lavoro sono cambiati da anni ormai, e si deve ancora ricostruire un modo di protesta decente, o riprendersi l’unico che funzioni. Lo sciopero ormai in Italia è una roba ridicola, prendi i trasporti: se viene detto una settimana prima non crea che un disagio leggero e controllabile, niente a che fare con una roba che mette in ginocchio un sistema fino a farlo recedere dalle sue intenzioni (ultimo obiettivo dello sciopero: rompere le palle e fermare la produzione, l’unica lingua che capisce un capitalista).
Per esempio il lavoro dell’insegnante è ancora percepito come un lavoro da classe medio-alta, quando sappiamo che le retribuzioni sono non proprio medio-alte e i precari hanno anche 45-50 anni, e si picchiano per i posti in graduatoria. Eppure la percezione è quella di un ceto medio, non di uno basso (se non vuoi chiamarlo operaio).
La privazione relativa è frustrante, ma difficilmente porta alla lotta, di solito porta al fascismo (15 anni di B. è un buon indizio della questione).
Però questo è l’ultimo commento di oggi, le lenzuola mi attendono.
@ Giorgio,
però io ho detto che la privazione relativa “innesca conflitti”, non che porta alla lotta. Un conflitto può anche essere acefalo, una lotta no. Anche la guerra tra poveri è un conflitto. Di quelli che sarebbe meglio evitare.
Anche per me ultimo commento e poi nanna. Thread impegnativo anzichenò!
Sposto un po’ il discorso .
Il capitalismo globalizzato e la finanziarizzazione selvaggia richiedono, credo, un superamento delle letture nazionali del conflitto di classe. La riduzione e la frammentazione della classe operaia nell’ Europa occidentale c’è stata perché il capitalismo ha trovato altri terreni vergini da aggredire e sfruttare: India, Cina, Europa dell’Est. In Italia, sono d’accordo con Wu Ming 1, come nel resto del mondo occidentale si assiste ad una proletarizzazione crescente. Direi di più, il femomeno è così forte che si può parlare di un esubero di proletariato. E’ un proletariato che il nuovo capitalismo non trova più conveniente come forza lavoro ma che interessa esclusivamente come consumatore di beni. Tutto questo avviene entro le proprie tradizioni nazionali sia chiaro. Se in Inghilterra o In Francia questo proletario – consumatore “esuberante” ( il disoccupato o il precario per intenderci) trova il modo di consumare grazie al reddito minimo, in Italia sono le famiglie che fanno da supporto al consumo.
Produrre nei paesi poveri e consumare ovunque: è questo che il genio Merchionne ha imparato nelle scuole di finanza creativa degli Stati Uniti. Io vengo da una terra di braccianti agricoli e i caporali hanno la stessa funzione che hanno gli amministratori delegati pagati 5 milioni all’anno (trovare manodopera a basso prezzo, terrorizzare, plagiare, dividere, fare i conti). La violenza e la rapacità del capitale non cambia ma cambiano gli scenari.
In Italia la classe dominata è frammentata. La massa operaia è diminuita e ha perso, per cause che avete in varia misura già detto il suo potere di contrapposizione ( in altri tempi le azioni e le affermazioni di un Marchionne non sarebbero state tollerate). Il resto è un proletariato informe, frammentato, senza coscienza di classe, spesso conformista. Non ha comunque la capacità di agire come un soggetto unico. I sindacati giocano un ruolo fondamentale in questa frammentazione, quindi più che un impulso al cambiamento sono un freno. In tutto questo la cultura operaia potrebbe avere un funzione importante nel risveglio di classe ma dovrebbe uscire dalle fabbriche e andare nei nuovi e numerosi territori dello sfruttamento.
@ paperinoramone
io non ne so niente.
@ punco
starei attento a non appiccicare il concetto di proletariato all’etimo della parola latina, al suo significato letterale. A me sembra che “proletariato” e “tanti figli” si siano resi autonomi da molto tempo, nella sociologia e nell’analisi di classe. Nel marxismo novecentesco, “proletario” è chi, non avendo altra risorsa che la propria forza-lavoro, è costretto a entrare come salariato nel rapporto di capitale e nella relazione di produzione, e più questa relazione è diretta ( = più centrale è il ruolo del salariato nella produzione) e più sfruttamento c’è ( = divario tra il suo salario e la ricchezza che produce per il padrone), più viene identificato come proletario, anche se è senza figli etc.
Poi nella retorica c’è stato un uso più esteso della parola “proletariato”, per intendere tutta la classe sfruttata (e a volte addirittura con connotazioni di “popolo”).
Ad ogni modo, l’etimologia fornisce sempre spiegazioni parziali, perché un vocabolo col tempo diviene autonomo dalla sua origine e la maggior parte degli usi di un termine che si impongono stabiliscono discontinuità con quell’origine, altrimenti dovremmo usare la parole “denaro” solo per somme che sono multiple di dieci.
@ Punco
Scusa, ti rispondo solo ora.
Per quanto riguarda la soluzione del problema dell’esaurimento delle risorse da parte del capitale: beh, sì, nel senso in cui tu intendi la “soluzione”, il capitale senz’altro farà la sua parte, più o meno allo stesso modo di colui che, scatenando la guerra nucleare, “risolverebbe” il problema della corsa agli armamenti (e molti altri) :-) …
Ma quando parlo di esaurimento delle risorse mi riferisco a un problema più ampio di quello dell’esaurimento delle fonti di energia: penso al pianeta nel complesso, al fatto che ben presto non basterà più come discarica dei nostri rifiuti, che aumenteranno le sue aree inabitabili, ecc.
Non so quanto sia esteso il conflitto tra capitalisti delle risorse rinnovabili e capitalisti delle risorse esauribili (in senso lato, includendo tra i primi pure quelli che producono filtri per i camini delle fabbriche o che gestiscono impianti di riciclaggio dei rifiuti), ma, in ogni caso, confidare nel fatto che da quel conflitto arriverà la soluzione, mi sembra, appunto, un atto di fede, peraltro sconfessato da quanto avvenuto in passato. Dopotutto, a meno di violazioni del secondo principio della termodinamica, una crescita perenne dei consumi implica una crescita perenne degli scarti, se non si cambia il modello di sviluppo che richiede la prima (cioè il modello di sviluppo capitalistico) non vedo come si possa uscire dal problema rappresentato dalla seconda.
E il problema è che, più tardi se ne esce, maggiore sarà secondo me la tentazione di risolvere il problema coi “metodi classici”: le guerre (anch’esse una “soluzione”, dopotutto).
ok, grazie
e mentre qui si parla di cose davvero serie, su Repubblica (cartaceo, il sito ci risparmia…) si discetta di un futuro di Profumo (con la maiuscola, eh! l’AD appena sfiduciato da Unicredit) come leader del PD (avete letto bene: PD, senza la L). E sì, perché Profumo ha già ‘votato’ a due primarie del ‘partito’… (a p. 7 c’è pure una bella foto del “papa straniero” in pectore – di chi ancora non si bene – del PD, in golfino azzurro, mentre depone nell’urna il suo straordinario voto)
E’ sempre la mozione Nazzari, danae, sempre quella.
-Lo so, compagni… Era perfetto.-
Che ci vuoi fare. Quello sono, quello sanno fare.
L.
sì, Luca, proprio quella. Quindi, a questo punto, dobbiamo aspettarci… Napo Orso Capo!
@ Wu Ming 1
Certo!
Però credo anche che man mano che il vocabolo diveniva autonomo dalla suo origine perdeva la forza evocativa, diventava meno “potente”.
Penso sia più facile avere coscienza di essere qualcosa descritta da un termine che vuol dire quello che sei, rispetto ad avere coscienza di essere qualcosa descritta da un termine che significa quello che era tuo nonno o tuo padre. Indipendentemente dall’uso che i sociologi ne fanno.
Legarsi a un vocabolo per questioni affettive, per il ruolo che ha giocato nella storia, mi pare qualcosa di molto vicino all’ortodossia. E se il marxismo diventa ortodosso si allontana dall’essere scientifico. In un certo senso smette di essere marxiano.
Almeno credo…
@ Michele
Lo penso anch’io: probabilmente la “soluzione” che troveranno per risolvere il problema, e le diatribe tra loro (che non riguardano solo le energie rinnovabili), sarà proprio la guerra…
Almeno fino ad adesso è andata sempre così.
@ danae
Fino a quando è Napo mi sta pure bene. Ma per loro è troppo sovversivo, pensano già a Lapo. :-D
@ Punco,
scusa, ma se è più che altro una questione “nominalistica”, continuo a non capire dove starebbe la grande vittoria di cui scrivevi, cioè la “fine della condizione proletaria”, che io invece vedo generalizzarsi… Qual è il punto? Sembra quasi una vignetta di Altan:
– Siamo disperati, rovinati, messi male…
– Guarda il lato positivo: siamo messi male in modo diverso da quello racchiuso nell’etimo della parola “proletario”! Pensa se, con tutte le sfighe, avessimo anche un nome poco evocativo!
:-D
@ Wu Ming 1
Il punto cerco di descrivertelo a parole vostre:
“Nemmeno a me importa chi sono.
Italiano, ottawa, francese, inglese,
uno da solo può anche vantarsi di essere clandestino.
Ma devo sapere cosa siamo:
Alleati? Cittadini?
Stranieri? Dipendenti?
Devo sapere cosa siamo
perché non sia precaria,
straniera, la dignità”
Oggi non sappiamo cosa siamo, proletari non è il termine adatto per spiegarlo. E non è più adatto proprio perché quelle vittorie sono state talmente importanti da svolgere una funzione di freno, forse tu (o Tronti) diresti catecontica, nei confronti di chi, “innovando”, voleva farci tornare proletari.
Forse è solo una questione nominalistica, ma i nomi sono importanti. Se qualcuno non sai chiamarlo, se usi un nome che non è suo, quello mica ti risponde.
Hai pienamente ragione quando dici che siamo messi male in modo diverso, anche se lo fai dire ad Altan.
Potremmo essere messi molto peggio se non ci fossero state quelle lotte e quelle vittorie.
Tanta gente non solo non avrebbe i soldi (adesso già ne ha pochi), ma neanche la cultura e la mentalità di risparmiare su altre cose per comprare, per esempio, i libri.
Inevitabilmente anche tu saresti più povero.
@ Punco,
scusa, va bene tutto, per carità, ma questa digressione sul termine “proletario” non è nata da una mia presunta tigna nel volerlo utilizzare, come sembrerebbe leggendo il tuo commento qui sopra, ma da una mia richiesta di spiegazioni, che rinnovo. Perché c’è una cosa che non si capiva (e secondo me tuttora non si capisce) nel tuo primo commento di questo thread, e cioè: hai scritto che è “scomparsa” la “condizione proletaria” (non il nome, hai parlato della condizione) e questa scomparsa è una “vittoria”. Io non ho capito né la prima affermazione né la seconda. Anche la spiegazione “catecontica” che dai qui sopra a me sembra un ibrido tra la narrazione del benessere (che non è falsa, è solo limitata) e il “tic” di cui dicevo.
@ Punco,
per dirla in parole più povere: sì, veniamo da un periodo in cui siamo (alcuni di noi sono) stati meglio grazie alla sedimentazione delle lotte, perché grazie a queste ultime si erano estesi i diritti, si era estesa l’alfabetizzazione e la scolarizzazione, si erano aperti degli spazi. Ma questo significa che è scomparsa la condizione proletaria? Secondo te sì, ma io continuo a vederci un salto logico.
Tanto più che la spinta propulsiva si va esaurendo rapidamente, e se non la si rinnova si tornerà indietro di parecchio. E anche quelle conquiste non erano arrivate a tutti. E le avevamo ottenute anche perché il capitale sfruttava e schiavizzava altrove. In quel resto del mondo che viene depredato e in cui la condizione proletaria è oggi più che mai diffusa. Come diceva Cosimo, è falsante una visione “nazionale” (o anche solo continentale).
E allora ti ho chiesto: intendi dire che qui da noi il proletariato è diventato ceto medio? Tu mi rispondi: no, per carità.
E allora in che senso non c’è più la condizione proletaria? Tu mi rispondi richiamandoti all’etimologia.
E allora ti chiedo: è una questione terminologica? In pratica mi rispondi: sì ma non solo.
Il “sì” lo capisco, mi è chiaro, ma il “non solo”?
Il “non solo” mi sembra basarsi su quello che descrivevo nel primo capoverso di questo commento. Ma secondo me quella descrizione non ha mai significato che non ci fossero più i proletari (comunque li si voglia chiamare).
…E alzi la mano chi sapeva che Mario Tronti è lo zio di Renato Zero!
http://bit.ly/bjbqp2
Ora provo ad arrischiarmi in un terreno impervio e desolante, in cui sono sicuro di fare un casino immondo, però ci provo.
Quello che mi sembra sia successo, e in cui è difficile porre mano, è una divaricazione dei destini di coloro che non detengono i mezzi d produzione. Quando si parla di capitalismo avanzato, si parla di persone che, nonostante siano alla base della piramide, sono ubriache di oggetti (non posseggono solo le loro braccia, ma televisori, junk food ecc.).
C’è poi un’altra categoria di esseri umani che non posseggono nulla o quasi, e di sicuro non posseggono la dignità di esistere: sono migranti, definiti clandestini, per cui esiste un reato di tipo ontologico, che li riguarda in quanto tali. Non devono agire, non devono compiere delitti: se esistono, sono delittuosi nel loro (r)esistere. Come se la dialettica servo/padrone fosse esplosa.
Come se al servo del capitalismo avanzato fossero state date le chiavi per entrare nella sala d’aspetto del padrone e divertirsi con alcuni suoi gingilli, e ad altri servi (nuovi) non fosse stato dato nemmeno il diritto di esistere, e fossero stati relegati non solo a non entrare nel campo del padrone, non solo a non poter nemmeno entrare nelle stalle del padrone, ma a essere rinchiusi in campi di concentramento, fuori dall’immaginario degli altri servi, dei padroni.
Il servo del capitalismo avanzato non è divenuto padrone ovviamente, è semplicemente ubriacato in modo costante di oggetti per cui sviluppa amore feticistico, perdendo di vista che le condizioni sono cambiate solo quantitativamente, non qualitativamente.
“è formato da file di baracche o container disposte ordinatamente, contenenti i dormitori, i refettori, gli uffici e le altre strutture necessarie, e circondate da reticolati di filo spinato o altri tipi di barriere. Il perimetro del campo è sorvegliato da ronde di guardie armate.” è la definizione di Wikipedia per i campi di concentramento, e sembra la descrizione di un cie.
Ora, come già fu per i campi di concentramento nazisti, questi erano non soltanto tristemente fisici, ma mentali, psichici. I prigionieri dei lager, i sopravvissuti, lamentano spesso l’impossibilità di uscire mentalmente da quei luoghi, che divennero delle gabbie entro cui i loro pensieri rimasero intrappolati, urlando verso chi si prendeva la briga di ascoltare.
Anche coloro che restano fuori dal cie (o dai campi di concentramento) sono comunque intrappolati entro le mura psichiche di una minaccia costante, aggressiva. Parlare con un ragazzo senegalese di diciannove anni e scoprire che i suoi incubi sono popolati di carabinieri che se lo portano via nel sonno è una roba che stordisce, lascia interdetti.
Quello che intendo dire è che ciò che continuiamo a definire il proletariato (magari chiamiamola classe bassa, medio-bassa, è meglio e meno problematico) è fatto di persone che (grazie al cielo, almeno per loro) non hanno su di sé un tappeto di emarginazione inimmaginabile fino a trenta anni fa. Nessuno avrebbe mai immaginato che un razzismo così pervicace e istituzionalizzato avrebbe preso piede in modo così incontrollato e istituzionalizzato. Agli operai di Pomigliano viene chiesto di divenire invisibili, non viene loro ordinato per legge, almeno per ora.
Per questo motivo, come ho già detto più volte, sono convinto che vada rivista la composizione dei gruppi di lotta: semplicemente perché chi lotta è chi non ha NULLA da perdere. Nemmeno il diritto all’esistenza in una società e in uno stato di diritto che lo nega di principio.
Non a caso Marx nel XXIV° capitolo del capitale racconta la storia dei proletari eslege, a cui veniva negato il diritto di esistere.
Per questo ho dei dubbi sulla possibilità che altri abbiano la forza di reagire. E non dico che degli operai non mi frega nulla, anzi. Spero seriamente che questo autunno possa essere il momento di far capire che non è possibile trattare i lavoratori come pedine. Però, nel tempo lungo (senza fare il topo, guardando oltre il velo del presente) vedo esplodere conflitti altrove, che spero possano diventare lotte, magari saldandosi assieme alle lotte precedenti. Non dimenticandole, ma capendo che il mondo cambia e con esso le lotte, che rallentano il suo cambiamento e tentano di dirigerlo altrove, in cui però alcuni avranno un diritto ontologico ad essere considerati soggetti che lottano (come i proletari in Marx), pur a fianco di altri che comunque lotteranno, come sempre è stato, per fortuna.
Solo un appunto, ché devo uscire:
se uno fosse rimasto escluso a lungo dal discorso pubblico, vi rientrasse oggi e leggesse l’ultima parte di questo thread, avrebbe l’impressione che negli ultimi anni non si è fatto che parlare di “proletari” o “proletariato”. Dev’essere per forza così, visto che in alcuni commenti si contestano quei termini con tanta foga.
Ma scusate, quante volte avete visto apparire la parola “proletario” nei media, nello spettacolo dell’economia, nelle (poche) discussioni sul lavoro? Il termine è stato *sepolto*, perché il concetto stesso è stato reso invisibile. Non si può dire che oggi c’è lo sfruttamento, questa è la realtà. “Proletario” e “sfruttamento” sono due parole maledette, questo è lo stato delle cose linguistico (e non solo) nel nostro paese (e non solo). Non c’è discorso sull’economia in cui l’accento sia messo non sulla produzione ma sulle relazioni di produzione.
E allora, soffermarsi a contestare l’utilizzo di una parola che non viene utilizzata non equivale a sfondare la solita, idiomatica, proverbiale porta aperta? L’hanno già aperta i padroni, quella porta. L’hanno sfondata.
Non è questione di lessico, di singole parole: è questione di discorsi, cioè di “cornici concettuali” (frame). Oggi domina una cornice concettuale in cui non ha posto lo sfruttamento. Contestiamo quella, non un singolo termine che non può “sviare” nessuno, essendo stato *interdetto* dal discorso pubblico.
Cerco di aggiungere qualcosa.
Primo punto:
Una cosa peculiare del neo capitalismo globalizzato è la tecnologia.
Se nel 900 in una fabbrica di 100 operai si produceva 1000 adesso si produce 100.000 ( i numeri sono imprecisi e improvvisati). Nonostante i consumi siano diventati abnormi c’è sempre una percentuale alta della forza lavoro che resta fuori dai giochi ( forza lavoro in esubero secondo il linguaggio padronale).
Secondo punto:
La differenza tra paesi ricchi e paesi poveri porta ad una forte differenza tra proletariati.
Nei paesi ricchi si è assistito, grazie ai periodi di lotta, ad un miglioramento delle condizione materiali e intellettuali che ha abbassato la violenza dello scontro e assopito se non annullato la coscienza di classe. Le forze in esubero vivono, come è facilmente percepire sulle proprie pelli, un forte isolamento, con forte responsabilità dei partiti popolari e dei sindacati.
Fuori dall’Occidente la condizione lavorativa non è diversa da quella dell’ Europa prima delle lotte sociali. Condizioni materiali pessime e livello intellettuale tenuto sotto controllo. Non mancano le tensioni e i cambiamenti di rotta. In Cina le proteste nelle fabbriche stanno portando in questi ultimi mesi al raddoppio dei salari.
Qui gli “ esuberi” sono un problema difficilmente reintegrabile nelle economie nazionali e l’emigrazione verso i paesi più ricchi può rappresentare una soluzionne.
“I proletari di tutto il mondo” sono comunque per il momento ben lontani da essere un soggetto unico e se la percezione di esserlo non sarebbe impossibile con una buona pratica intellettuale degli intellettuali marxisti, l’azione congiunta per il momento è lontana da praticare.
Per il resto sono d’accordo con te, Wu Ming 1, che i termini proletariato, borghesia, coscienza di classe sono stati deliberatamente privati di potenza dalla reazione delle classi dominanti grazie soprattutto ai poteri mediatici. Il collaborazionismo degli ex partiti marxisti ha accolto con entusiasmo tali logiche pensando di ottenere vantaggi elettorali e a seguito del vacillamento ideologico post sovietico. I proletari stessi inoltre si sono convinti del pericolo “sovietico” di certi termini e in molti sono stati contenti a scrollarsi di dosso l’etichetta di classe dominata ( il successo della lega ne è il simbolo). Se si pensa d’altro canto alla velocità con cui certi termini calcistici come “squadra” o personali come “mi consenta” introdotti da Berlusconi abbiano contagiato tutto il linguaggio politico degli ultimi vent’anni si capisce la potenza devastante dei media di massa e la capacità persuasiva della reazione.
La tua riflessione, Giorgio, è comunque valida nel senso che esistono diverse condizioni del proletariato (zone ricche e zone povere) ed esiste anche un sottoproletariato senza coscienza di classe, non rappresentato dai sindacati, che vive di lavori saltuari, di espedienti, di illegalità, quello pasoliniano, per intenderci. Questa condizione, a parte le differenze culturali, inoltre , non è dissimile dal precariato intellettuale italiano. La massa giovanile istruita e disoccupata in Italia ha infatti più le caratteristiche di sottoproletariato ( precarietà, scarsa coscienza di classe, nessuna rappresentanza sindacale) che quelle del proletariato.
Tutti insieme comunque formano la “classe dominata” che è il termine che dovremmo reintrodurre con forza nel paese.
Rischio di aumentare la caoticità del thread, lo so. Ma vorrei lo stesso quotare, sottolineare tre volte, evidenziare in giallo fluorescente, segnalare con freccia a margine e commentare brevemente la seguente affermazione di WM1 dal suo commento del 21 settembre ore 11:39:
“Una delle conseguenze più NEFASTE dell’accettazione acritica del frame ‘post-operaio’ è stata l’accettazione, in nome del ‘nuovo’, del divide et impera capitalistico: mettere le categorie di lavoratori l’una contro l’altra.”
Questo atteggiamento del pensiero operaista e post-operaista è un caso eclatante di bambino buttato via assieme all’acqua sporca. Nello specifico, penso che negli anni ’60 sia stato giusto criticare la politica togliattiana delle alleanze, la quale aveva quasi sempre l’effetto perverso di bloccare le lotte operaie (secondo il PCI dell’epoca, infatti, gli operai non dovevano mai andare “troppo avanti” nelle loro rivendicazioni, per non pregiudicare il loro rapporto con i contadini, con le classi medie, col mondo cattolico ecc., tutte aree sociali che il PCI concepiva a priori come arretrate, “di destra” e pronte a buttarsi in braccio al fascismo non appena gli operai avessero alzato “troppo” la testa). Fu per liberarsi di questa zavorra che gli operaisti coniarono lo slogan “classe operaia senza alleati”.
Solo che, assieme a Togliatti, gli operaisti buttarono via anche Gramsci, e questa, IMHO, fu una scelta gravida di conseguenze negative che tuttora perdurano. Infatti, non vedo come si possa vincere senza una qualche forma di alleanza politica, sociale e culturale tra i vari settori delle classi subalterne. I concetti gramsciani di “egemonia” e “blocco storico”, al fondo, significano proprio e solo questo.
Certo, dicendo “una qualche forma”, non faccio che nominare il punto in cui casca l’asino: *quale* forma, di grazia? Lo stesso Gramsci non aveva la ricetta già pronta in tasca, e durante il suo percorso di militante propose soluzioni diverse al problema: dapprima i Consigli, poi (seguendo Lenin) la funzione-guida del partito, infine sembra che Gramsci abbia pensato ad una repubblica democratica, in funzione transitoria, che avrebbe dovuto essere fondata da un’apposita assemblea costituente.
Chiaramente la ricetta non ce l’ha nessuno neanche oggi, però il problema permane e anzi si è aggravato, visto che le classi subalterne sono ancora più frammentate, disperse e scazzate di quanto non lo fossero al tempo di Gramsci. Ma è un problema che va affrontato, e non rimosso, aggirato o ignorato come spesso fanno gli epigoni dell’operaismo.
Tante volte fosse sfuggita questa, per tornare agli autori Mondadori… ^__^
http://www.carmillaonline.com/archives/2010/07/003561.html#003561
Evangelisti, in questo splendido articolo apparso su Carmilla, ha fatto notare una cosa: se vedi che nei discorsi le differenze di classe sfumano per essere parificate con differenze fra popoli, preparati perché nel giro di un minuto si comincerà a sentire puzza.
E io non voglio fare quella fine lì, intendiamoci. Però quello che ho sempre visto succedere a proposito di termini come “proletariato”, “borghesia”, “sfruttamento” “mezzi di produzione” è: una rimozione costante da un lato, e un uso completamente feticistico dall’altro. Per esempio: avete idea di quanta gente trovi atroce anche solo *sentire certe* parole di qui sopra? Io non sono uno di loro, intendiamoci. A me non disturba parlarne, sono termini che per me hanno ancora un senso profondo, e li uso volentieri.
Però noto una insofferenza verbale quando ne parlo a certi amic*, dei quali molti si definiscono astrattamente “di sinistra”, pur sbadigliando appena provo a porre sul campo certi discorsi, tentando un cambio di argomento.
Sono in perfetto accordo sul fatto che questo possa essere frutto di un imbarbarimento culturale, ma resta la difficoltà di parlarne, persino con chi in teoria è più affine a te. Come se il riflusso degli anni Ottanta fosse lì, costantemente.
Come se improvvisamente fosse diventato, anche per chi bazzica circoli arci centri sociali ecc., una roba da sfigato usare certi termini. Però mi chiedo: quanto hanno contribuito a questo stato di cose le mitiche riunioni dei comitati marxisti-leninisti con vocabolario sul tavolo perché non capivi che cazzo diceva il compagno che aveva la parola? Io ci sono andato una volta, avevo 20 anni, mi ricordo. Fu esilarante, sembrava un scena da film. Ho amici che han cambiato numero di telefono perché avevano fatto il madornale errore di darlo ai tizi che bazzicano l’atrio di palazzo nuovo (Torino). Come se un uso eccessivo avesse svuotato quei termini di senso, rendendo quei termini un arcano per gli altri, che sentendoli hanno sensazioni di nausea tremende. Ripeto: non è una mia sensazione, è una reazione che noto in molti di coloro che mi stanno a fianco. Non sarà mica che prima di (ri)introdurli si debba giocare allo stesso gioco di riappropriazione?
Ricordo che “proletario” è un termine spregiativo che i romani utilizzavano per chi aveva come unica ricchezza i figli, e li dava alla patria. Fu successivamente che il termine divenne una etichetta rivendicata da coloro che ne facevano parte, allargando il concetto originario fino a comprendere chiunque fosse *sfruttato*, anche senza figli. Poi con il tempo, a forza di sentire quella parola, venne bandita dal discorso pubblico perché diventata quasi un termine per addetti ai lavori. Per altri versi, il termine riforma sta facendo la stessa fine da tempo immemore.
Allo stesso modo chi oggi viene definito “a tempo determinato” eccetera, assume su di sé il termine precario, che di per sé è, appunto, spregiativo.
Il recupero delle parole passa anche per un loro uso prudente, magari in seconda battuta, dopo aver mostrato che i veli che ne ostacolano un uso decente sono solo, appunto, veli. Sennò diventano feticci e dopo un po’, si sa, uno dei feticci si stufa.
Faccio un esempio con due termini che sembrano sinonimi, eppure no. La parola “inceneritore” è sparita dal lessico politico. Adesso si chiamano “termovalorizzatori” e il termine stesso richiama una positività. Se qualcuno si piccasse più spesso di spiegare che non si può valorizzare la ecoballa fatta male, e si smontasse il termine, forse dopo si potrebbe reintrodurre “inceneritore” e a quel punto non sarebbe più un termine obsoleto, ma una bomba lessicale. Un’ascia di guerra. :)
@ Wu Ming 1; @ Cosimok; @ Giorgio1983; @ salvatore_talia
Secondo me se uno fosse rimasto escluso a lungo dal discorso pubblico la prima cosa che chiederebbe sarebbe: “E i Pooh? Ci sono ancora i Pooh?” :-D
A me il termine proletario, con annessi e connessi, mi piace un sacco.
Se fosse possibile ci dormirei abbracciato, me lo terrei stretto, come se fosse la mia copertina di Linus.
Ma, appunto, credo che si tratti solo della copertina di Linus e il movimento operaio, che ormai è movimento dei lavoratori, è diventato grande. E da quella copertina deve pur staccarsi, anche se gli dà sicurezza. Il rischio è quello di diventare ridicoli, oltre che non avere più alcuna attrattiva.
Non è solo questione terminologica, credo che la condizione proletaria sia stata superata. E un superamento di quella condizione non vuol necessariamente dire che il nemico sia stato sconfitto. Vuol semplicemente dire che si è avanzati di qualche posizione e, durante la controffensiva siamo sì arretrati, ma su un terreno diverso, parallelo. Eravamo avanzati talmente tanto che non sono riusciti ad arrivare fino alle retrovie reagendo.
Uno a uno e palla al centro.
Io non credo che Marx abbia scelto casualmente quel termine per indicare i lavoratori salariati, né semplicemente perché gli piaceva ed era appassionato di storia romana.
Penso che lo abbia scelto perché sapeva che i lavoratori salariati potevano riconoscersi, riconoscere la propria condizione, nel significato più intimo del termine. In quello più legato al suo etimo.
Ritengo che alla base di quella scelta ci sia una constatazione profondamente materiale.
Il proletario che Marx descrive vive in una famiglia profondamente integrata, dove i figli, anche dopo essersi sposati, continuano a vivere a casa dei genitori o nelle immediate vicinanze. Si pranza e cena insieme, tutti insieme, come la famiglia Dalcò di Novecento. I redditi, i salari di ciascun componente della famiglia, non sono proprietà del singolo, vanno a comporre un unico reddito familiare, gestito in maniera patriarcale. Rimasugli della civiltà contadina agli albori dell’era industriale.
E’ con lo sgretolarsi di questa struttura familiare, soprattutto a livello di integrazione dei redditi, che i proletari cominciano a non essere più tali.
Non è una cosa avvenuta tanto tempo in là, in Italia una struttura familiare del genere è sopravvissuta fino agli anni ’70.
Un altro “duro colpo” alla condizione proletaria, poi, viene dato dal fordismo, dall’idea di Ford che ogni suo operaio deve poter comperare quello che produce.
Era buono Ford? Per niente!
Aveva solo capito che così poteva guadagnare di più e, per guadagnare di più, non si è reso conto delle enormi contraddizioni che avrebbe aperto.
Poi è intervenuto quel grande ciclo di lotte degli anni ’60 e ’70. E io non sono convinto che le conquiste di quel periodo siano anche dovute al fatto che il capitale sfruttava altrove.
Perché, “altrove”, il capitale aveva le sue belle gatte da pelare, ché era tutta una rivolta dall’Asia, all’Africa e al Sud America.
Vietnam, Algeria, Angola, Mozambico, Cuba, Salvador, Nicaragua, solo per citarne alcune, non hanno forse svolto un ruolo senza precedenti nell’immaginario collettivo di un proletariato che in occidente si ribellava?
E il ruolo dell’Unione sovietica? Ne vogliamo parlare indipendentemente dal giudizio che si ha su quel paese?
Non è forse vero che i governi occidentali avevano la fotta che da un giorno all’altro uno dei paesi che controllavano sarebbe passato sotto l’influenza del “nemico”, e per questo erano disposti a fare maggiori concessioni?
E anche oggi, chi pensa che i paesi che qualcuno continua a chiamare “poveri” siano popolati da Fantozzi che vanno a lavorare a capo chino con l’ombrello in culo, si sbaglia profondamente.
In Corea del Sud, solo per fare un esempio, avvengono cose che da noi non avvengono non dagli anni ’70, ma dal Biennio rosso!
http://bit.ly/93R3tr
E anche in Cina, per la prima volta in un “regime” comunista, sta sorgendo un’opposizione non filo occidentale ma che critica da “sinistra” il governo. Ed è un processo non cominciato ieri, ma che va avanti dai tempi di Tien An Men.
Poi, ovvio, che da noi arrivino solo quei quattro intellettualuncoli filo occidentali di Charta 08 che chiedono la tutela della proprietà privata, ma mica sono loro gli unici oppositori cinesi…
Detto questo, sono convinto che bisogna impiegare tutte le forze per criticare il frame che vorrebbero imporci, quello secondo il quale lo sfruttamento e la sofferenza non esistono e tutti possono essere belli, ricchi e imprenditori. Ma proprio per criticare quel frame penso sia importante individuare le nuove soggettività e chiamarle col nome giusto.
Perché se Romano Alquati poté dire che quello che successe a piazza Statuto loro non se lo aspettavano ma avevano contribuito a organizzarlo, oggi quello che è successo a Rosarno non solo non ce lo aspettavamo ma non ci siamo nemmeno sognati di contribuire a organizzarlo.
E gli immigrati (a proposito di termini: migranti è un termine bello, ma che non mi piace. Mica la l’aspirazione è quella a migrare per tutta la vita…) in rivolta credo siano parte integrante della nuova classe sorta dalla “rivoluzione restauratrice” del capitalismo.
Parte integrante del precariato, che è un termine spregiativo, ma fin quando non avremo coscienza tutti di esserlo distruggere i frame che ci impongono sarà molto difficile.
@ Punco,
al di là di tutto, a me sembra che viviamo su due pianeti diversi :-D
Quando tu scrivi:
“Ma, appunto, credo che si tratti solo della copertina di Linus e il movimento operaio, che ormai è movimento dei lavoratori, è diventato grande. E da quella copertina deve pur staccarsi, anche se gli dà sicurezza. Il rischio è quello di diventare ridicoli, oltre che non avere più alcuna attrattiva.”
Io mi chiedo: ma da quale anno sta scrivendo? Dal ’72??
A Pu’, ma a te davvero sembra che oggi il movimento dei lavoratori (che più che “diventato grande” a me sembra “diventato a pezzi” e in piena sindrome post-traumatica) sia “attaccato alla coperta” del termine “proletario” perché “gli dà sicurezza”?
Io ho appena fatto la ricerca sull’intero sito nazionale della FIOM, lo vuoi vedere il risultato?
http://www.google.com/search?q=proletario&hl=it&as_sitesearch=www.fiom.cgil.it&btnG=Cerca+in+www.fiom.cgil.it
Guarda che il termine “proletario” non circola nel movimento sindacale e tra gli operai attivi da almeno trent’anni, e se non sono così tanti poco ci manca.
Ma si può sapere perché è partita tutta ‘sta contestazione di un termine che nessuno sta utilizzando? Di una coperta di Linus che nessun Linus ha in casa?
Domani faccio tutto un post prendendomela con quegli stronzi che dicono “Poffarbacco!”, che sono una vera cancrena della società contemporanea.
@ Wu Ming 1
No, non credo che il movimento dei lavoratori che, come tu dici, è a pezzi lo sia.
Penso che a esserlo siano tanti che potrebbero fare in modo di ricomporre quei pezzi, e non mi riferisco a voi.
Io nel ’72 non ero manco nato!
Ma mi sa che tu non hai mai avuto un volantino dei Cobas, dell’SdL o di Rifondazione davanti a un call center…
Per inciso la Fiom, guarda un po’, se la fa con alcuni movimenti che si richiamano al post-operaismo:
http://www.globalproject.info/it/in_movimento/Uniti-contro-la-crisi/5780
Sarà un caso?
@ Wu Ming 1
Dimenticavo, la contestazione è partita perché tu mi chiedevi di spiegarti meglio perché ritengo superata la condizione proletaria.
Io per farlo ci ho inserito una critica al termine stesso. Continuo a pensare sia indicativa di quel superamento.
Poi, non c’entra un cazzo, ma grazie per il casellario politico fascista: mi avete fatto ricordare un racconto sul mio bisnonno che erano anni che non sentivo e di cui ho avuto conferma. :-D
Mo’ però non venirmi a dire che ti scrivo dal ’22…
@ Punco
io sono convinto che al momento non esista alcun “movimento dei lavoratori”. Esistono conflitti isolati, portati avanti in settori diversi da soggetti diversi, senza alcun coordinamento né coscienza diffusa della possibilità di un coordinamento.
Ho riportato il link al sito della FIOM perché, se si parla di discorso pubblico e di parole usate di più o di meno, bisogna guardare a chi, sulla questione operaia, produce più discorso pubblico, cioè all’organizzazione (e lo dico senza giudizi di valore) oggettivamente più rappresentativa. Altrimenti ci concentriamo su quello che si dice nelle nicchie (e anche qui, la parola non ha connotazioni dispregiative). Nelle fabbriche c’è la FIOM, molto meno i Cobas (che stanno principalmente nel pubblico impiego) o l’USB (che sta nel pubblico impiego e nelle cooperative sociali).
Mi importa poco chi “se la fa” con chi, dal momento che noi WM non “ce la facciamo” con nessun gruppo organizzato o partito che sia. Faccio solo notare che gli appelli e le petizioni, per definizione, sono firmate da perros y puercos, con accostamenti anche assurdi. Anche noi, firmando appelli, ci siamo trovati in compagnie da cinema surrealista :-)
Comunque, insomma, ci siamo chiariti. Le differenze di impostazione sono chiare, le convergenze / divergenze anche.
@ Punco
La parola lavoratore è una parola di per se neutra che non significa niente all’interno di una struttura classista. La sua deriva razzista o qualunquista dell’uso contemporaneo (“va a lavurè terrun” , “ è un gran lavoratore” ) la dice lunga sulla necessità di parole dense nella lotta di classe.
Se l’uso della parola proletario ha perso i caratteri “sociali” originari questo non significa che la classe che con quella parola si intende non esista più.
Come la chiami allora quella massa enorme di persone che non possiede i mezzi di produzione e per vivere è costretta a fornire la sua forza lavoro?
Lavoratori? Anche un notaio è un lavoratore se è per questo. Anche Merchionne lavora, no? (scusate se insisto con Merchionne ma I can’t stand it) .
L’espressione “Il movimento dei lavoratori” fa parte di quel cambiamento semantico che ha imborghesito il linguaggio antagonista e che è stato deteminante nella scelta di cambiare nome nel PCI. Perché quando hanno visto che il comunismo nella sua pratica reale ha deragliato non hanno pensato a nomi meno nulli, tipo, che so, Partito Anticapitalista o cose simili? Cambiare nome in quel senso ha infatti completamente azzerato la funzione antagonista del partito in un processo che non sembra vedere fine. Cambiare nome ha inoltre segnato il cambiamento antropologico dei militanti PCI. E’ per questo che la parola proletariato sembra goffa, obsoleta o nostalgica, non tanto per il cambiamento di posizione dei proletari nella struttura classista: la gerarchia è sempre là, immobile.
Ripeto, la classe dominata esiste ancora e se la parola proletario non è più recepita come non è più recepita la parola comunismo non si può adottare il linguaggio della borghesia (in molti dicono che neanche questa esiste più). Classi dominate, classi dominanti e anticapitalismo sono al momento le espressioni possibili, in attesa di una ripresa della lingua rivoluzionaria.
Sono contento che:
1) Sia finalmente emerso (dopo più di 120 commenti) il nome di Gramsci; non me ne spiegavo la rimozione. Io credo che l’elaborazione gramsciana sia ancora estremamente feconda e non limiterei le accezioni e le connotazioni di termini come “egemonia” e “blocco storico” al loro significato più contingente e storicizzato.
Senza considerare tutta l’analisi della democrazia rappresentativa, dei partiti, del cesarismo, del ruolo dell’intellettuale, ecc.
Mettete insieme Gramsci, Foucault, un po’ di strutturalismo e pochi altri ingredienti e avrete il Novecento. Ossia, quello che il capitale sta cercando di rimuovere. Non per tornare indietro (cosa impossibile), ma per andare avanti riproponendo le sue solite ricette aggiornate alla situazione attuale (e futura, occhio!).
2) Nessuno se ne sia uscito con citazioni di Bauman e della sua “liquidità”. Più la bazzico, questa cosa della società liquida, meno mi convince.
Il conflitto è intrinseco nella nostra società tardo-moderna. Le distinzioni, generate dai rapporti di produzione e dai processi strutturali in cui siamo immersi (e che fanno parte di noi), esistono eccome.
Unico dubbio: è auspicabile la trasformazione del conflitto latente in vera lotta, o non sarebbe meglio progettare nuovi paradigmi basati sulla condivisione, sull’eliminazione delle cause del conflitto.
Nietzsche diceva che finché esisteranno i troppo ricchi e i nullatenenti non esisterà alcuna democrazia, ma che qualsiasi cosa venga così denominata non sarà altro che il solito dispositivo di dominio mascherato e contraffatto (lui parla della stessa carrozza cui sono stati semplicemente cambiati i cavalli).
Non so cosa c’entri, con questa discussione, ma forse qualcosa sì.
Complimenti a tutti, il post è molto interessante.
Io però volevo spezzare una lancia in favore di Marchionne. Troppo facile prendersela con lui solo per la sua visibilità.
Tanto per cominciare, certo che è un lavoratore, un lavoratore dipendente, mica vive di rendita.
Di più, è un lavoratore precario: come dice lui stesso, il suo contratto è legato ai risultati, se non rende lo mandano a casa. Io sono un precario della ricerca: quelli nella nostra situazione sanno bene cosa prova Marchionne tutte le mattine quando va a lavorare (e si alza anche presto, spesso alle 6:30). Il mio senso di identificazione in lui è totale. E non ditemi che la sua paga compensa tutto questo, sappiamo bene che ci sono cose che non si possono comprare col denaro. In più è un pendolare, vive a Givevra ma lavora a Torino, il che non è affatto comodo, ma si sa, si va dove c’è il lavoro, e poi spesso lo mandano in missione all’estero, il che aumenta lo stress, l’usura, le possibilità di infortunio.
Se proprio vogliamo prendercela con qualcuno prendiamocela con Profumo, l’ad di Unicredit: anche lui era un precario, non ha portato a casa i risultati e infatti è stato fatto fuori, però gli hanno dato una buonauscita di 40 milioni di euro.
Marchionne ci mette 10 anni di duro lavoro per guadagnare una cifra simile. Sempre che non lo caccino prima perché non porta a casa risultati, ovvio.
@ Omar Onnis
Che il nome di Gramsci sia oggetto di rimozione, purtroppo, si spiega benissimo: era il pensatore “ufficiale” del PCI, che lo utilizzò per giustificare teoricamente la propria politica, durante l’intero dopoguerra. Il discredito del PCI presso le nuove generazioni di militanti (a partire dagli operaisti: lo stesso Mario Tronti, per dire, iniziò la sua carriera di studioso con un intervento ad un convegno del 1956 in cui criticò duramente alcuni concetti gramsciani) finì per ricadere sullo stesso Gramsci, e il culmine del rigetto si ebbe durante la stagione del “compromesso storico”, dopo il 1975. (Ne parla ampiamente Guido Liguori nel suo libro *Gramsci conteso*, Editori Riuniti, Roma 1996).
In pratica, da più di trent’anni Gramsci gode di molta maggior fortuna all’estero che in Italia. Ed è un peccato, perché il suo pensiero avrebbe ancora molto da dirci. Ad esempio, se nei Quaderni Gramsci parla di “classi subalterne” anziché di proletariato, non è solo per motivi di censura, ma anche per alludere al fatto che per battere il capitalismo occorre l’unione di *tutti* gli strati sociali oppressi dal medesimo, e non solo dei proletari in senso stretto.
Detto questo, penso che non sia nello spirito del pensiero di Gramsci affermare oggi che questa o quella componente effettiva delle classi subalterne “non esiste più”, non conta, non ha importanza politica, è “superata” e via discorrendo. Viceversa, direi che qualunque approccio che tende ad unificare in un unico fronte tutti i conflitti anticapitalistici è gramsciano.
@ Tutti
è vero, il nome di Gramsci in Italia è meno ricorrente che all’estero. Non però sul nostro sito, dove invece appare piuttosto spesso :-)
http://www.google.com/search?q=Gramsci&sitesearch=www.wumingfoundation.com
E il sottoscritto è anche autore di questa immagine qui che illustra alcune pagine del sito:
http://www.wumingfoundation.com/images/egemonia.jpg
:-D
“In pratica, da più di trent’anni Gramsci gode di molta maggior fortuna all’estero che in Italia”.
Interessante a questo proposito come il pensiero gramsciano, ad esempio, abbia giocato un certo ruolo verso la fine degli anni ’90 a Cuba, dove per un certo periodo ha rappresentato l’unico discorso marxista alternativo all’ortodossia del partito unico.
In quel contesto il pensiero gramsciano veniva interpretato da alcuni settori meno ortodossi del partito come l’unica strada percorribile per un’apertura in senso pluralista della società cubana.
Si può rileggere questo pezzo del compianto Manuel Vazquez Montalban in proposito, scritto ai tempi della visita del papa polacco a Cuba (1998).
http://www.vespito.net/mvm/cubalib1.html
@ Bacio
Un po’ in tutta l’America Latina, Gramsci gode della massima attenzione. Uno dei saggi più chiari e meglio scritti su di lui che ho letto, diciamo negli ultimi dieci anni, lo ha scritto uno studioso brasiliano:
http://www.libreriauniversitaria.it/pensiero-politico-gramsci-coutinho-carlos/libro/9788840011158
@ WM1
E ce lo so, è anche per questo che vi seguo…
La foto di Gramsci sul corpo di Gandhi è notevole. L’ultima volta che ho visto qualcosa di simile è stato da studente, dopo un té a base di funghetti psicotropi :-)
@ Bocio :)
pensa che il compagno Merchionne Marchionne (come cazzo si dice?) è stato nominato Cavaliere del lavoro nel 2006 dal compagno presidente Napolitano. Tutto torna, no?
@tutti
concordo su Gramsci, i capelli più belli d’Italia :)
Anch’io gli ho reso tributo ribattendo parola per parola uno dei suoi primi scritti : Oppressi e oppressori (1910)
http://cosimok.wordpress.com/scritti-derelitti/
@ cosimok
Quando dici:
“La parola lavoratore è una parola di per se neutra che non significa niente all’interno di una struttura classista. La sua deriva razzista o qualunquista dell’uso contemporaneo (“va a lavurè terrun” , “ è un gran lavoratore” ) la dice lunga sulla necessità di parole dense nella lotta di classe”.
Mi trovi perfettamente d’accordo con te!
Infatti, se non ti fossi limitato a leggere l’inizio del post, avresti letto più sotto quello che penso, cioè che precariato potrebbe essere un termine molto più “denso” per descrivere la condizione attuale dei lavoratori salariati, anche degli operai che magari hanno un contratto a tempo indeterminato.
Tutta ‘sta discussione sul proletariato è nata proprio dalla constatazione che il termine proletario non è più abbastanza “denso” per descrivere la condizione attuale, ma non mi sogno minimamente di sostituirlo con il generico “lavoratore”.
Ho parlato di “movimento dei lavoratori” solo per indicare che se partisse una nuova stagione di lotte il movimento non sarebbe composto esclusivamente da operai ma da una serie di soggettività.
Poi la penso come Wu Ming 1 quando dice:
“io sono convinto che al momento non esista alcun “movimento dei lavoratori”. Esistono conflitti isolati, portati avanti in settori diversi da soggetti diversi, senza alcun coordinamento né coscienza diffusa della possibilità di un coordinamento”.
Per quanto riguarda il tuo accenno ironico a Marchionne, ti faccio notare che anche il termine più “denso” di proletario gli calzerebbe quasi a pennello. E’ un lavoratore salariato che non possiede i mezzi di produzione, no?
Ma, per dirla con le parole di Alberto Radius:
“la riconversione non mi sembra una ragione per confondere lo schiavo col padrone”
http://www.youtube.com/watch?gl=IT&hl=it&v=suqnxX-muns
Nell’epoca da cui io scrivo ha appena inciso il primo album, nella vostra invece lo avete quasi dimenticato. Come avete dimenticato la spettacolare cover di questa canzone fatta dai Fratelli di Soledad. :-D
Sul Pci il discorso sarebbe lungo, ma penso che la sua funzione “antagonista” l’abbia persa ben prima di cambiare nome e della svolta semantica alla quale accenni.
@ Wu Ming 1
Quel “se la fa” non era critico, è solo un’espressione dialettale delle mie parti per dire “si accompagna” o, come in questo caso, “agisce insieme”.
In molte situazioni rispetto quello che la Fiom sta facendo e, anzi, volevo sottolineare come positivo l’avvicinamento ad alcuni movimenti che si richiamano al post-operaismo.
Anche se, a quelli con cui la Fiom ha firmato l’appello, ne preferisco altri.
Ah, su Gramsci.
“Americanismo e fordismo” penso c’entri abbastanza con tutto questo thread…
@ Punco
IMHO, la lezione più importante che possiamo trarre da “Americanismo e fordismo” di Gramsci è il riconoscimento del fatto che l’antagonismo di classe non può essere eliminato da nessuna nuova tecnologia e da nessuno dei “nuovi modi di lavorare” che i padroni periodicamente si inventano. Mi scuso per l’autocitazione, ma ne ho parlato qualche tempo fa sul mio blog:
http://blogs.myspace.com/index.cfm?fuseaction=blog.view&friendId=393615375&blogId=524786555