Come è stato per la recensione di Saverio Simonelli de L’eroe imperfetto, è giusto dialogare con quella di Claudio Antonio Testi, membro fondatore dell’Istituto Filosofico di Studi Tomistici di Modena (e anche lui, come Simonelli, studioso dell’opera di Tolkien). Questo non solo per la sintesi dei contenuti e gli apprezzamenti che Testi muove al mio lavoro e a quello di tutto il collettivo Wu Ming; non solo per la valutazione positiva del mio approccio “narrativo” a un classico come Tolkien; ma anche e soprattutto perché Testi non si fa scrupolo di entrare in collisione critica con il mio saggio, in particolare per quanto concerne il taglio “gravesiano”. Quindi offre lo spunto per parlare ancora e meglio di questioni che mi interessano.
La recensione è qui: http://www.istitutotomistico.it/risorse/wuming4.html
La distanza tra l’angolazione da cui il sottoscritto (e Wu Ming) guarda non soltanto a Tolkien ma in generale alle narrazioni, alla filosofia, etc. e quella di Testi è un’evidenza che non ha bisogno di essere sottolineata, ma tutt’al più sviscerata e tematizzata, come è già capitato di fare in questo blog. Proprio l’assenza di reticenze è la condizione necessaria perché la stima intellettuale possa alimentarsi, senza alcun bisogno di andare d’amore e d’accordo su tutto. Del resto è già indice di onestà intellettuale che un recensore si approcci al nostro lavoro partendo dalle opere e che esprima un giudizio su Wu Ming ammettendo una conoscenza ancora parziale, quindi riservandosi di “ritornare su alcuni giudizi” espressi, nel caso si rivelassero dovuti a una “insufficiente conoscenza” delle nostre produzioni. Chapeau.
I punti critici individuati da Testi nella sua recensione de L’eroe imperfetto, possono e devono quindi essere discussi.
1) Mitopoiesi
Prima di tutto è necessaria una precisazione. Quando Testi parla dell’impegno narrativo di Wu Ming rende troppo lineare la funzione che la mitopoiesi ha nella nostra poetica. Nella concatenazione che lui individua tra “Storia” e “Miti”, Testi coglie l’importanza che noi attribuiamo alle narrazioni, ma elide un passaggio fondamentale. Il racconto del mondo agisce sulla storia solo se è in grado di allacciarsi alle forze reali che in essa si muovono. Il racconto che ci interessa è cioè quello che parla di un’alterità possibile, che entra in conflitto col dato e allude al suo superamento. In altre parole, non è già la narrazione stessa a produrre di per sé il cambiamento, bensì la sua capacità di parlare a un lettore che in essa veda rispecchiata una potenzialità concreta, un riferimento alla propria vita. Per dirla con Gilles Deleuze: “Non c’è opera, neanche breve, che non implichi una grande impresa… Non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora…” e che pure, aggiungiamo, vive in potenza nel mondo.
2) La contraddittorietà della Dea
Testi critica l’ambiguità dell’archetipo letterario che io chiamo in causa e lo fa proponendo un semplice assioma logico: A non può essere uguale a non-A. La Dea risulterebbe in sostanza una figura troppo ambigua e malleabile per poter essere credibile.
Credo che se Graves potesse rispondere a questa obiezione, direbbe che cercare di interpretare la Dea attraverso la logica è un’impresa impossibile, dato che la logica è una modalità di pensiero non poetica. La tesi di Graves era proprio questa: i filosofi greci furono ostili alla poesia magica consacrata alla Dea perché essa era incompatibile con “la nuova religione della logica” (vedi la Prefazione a La Dea Bianca) e quindi espulsero la Dea (cioè la poesia) dall’ambito della conoscenza. Come ci ricorda Testi, la logica è anti-contraddittoria, ci dice appunto che A è uguale ad A e diverso da non-A. La poesia magica di cui parla Graves invece si fondava precisamente sulla valorizzazione della contraddizione, ovvero sul fatto che A e non-A potevano tenersi reciprocamente e identificarsi. Graves individua infatti una triplice immagine della Dea: A è B ed è anche C, senza che questo significhi, come vorrebbe la logica, che A = B = C. Secondo lui era questa la prima trinità mitica apparsa nella storia umana (non a caso viene da usare un termine religioso).
Va aggiunto che La Dea Bianca non è un testo scientifico, così come Graves non era un accademico. Graves era un poeta e da poeta andava in cerca della Dea, cioè della radice originale della poesia. Il suo ragionamento non è propriamente storico-letterario, ma avanza seguendo dei “temi” poetici, cercando tracce disseminate qua e là nelle storie che ci sono state tramandate. Tracce, indizi, che in quanto tali non possono che essere assemblati in maniera intuitiva e arbitraria, e nondimeno reali.
3) Arbitrarietà e incoerenza
Testi mi imputa poi una parziale incoerenza metodologica. A suo dire, nel terzo saggio – L’eroe e la dea – io finirei per sostenere una lettura allegorica e quindi per contraddire la mia dichiarazione di intenti iniziale, dal momento che “alcuni personaggi non sono visti nella loro ‘individualità concreta’, ma in quanto ‘rimandi’, ‘immagini’, ‘corrispondenze’ o ‘figure’ di altro (nel caso: la Dea)”.
Questa obiezione è simile a quella già mossami da Saverio Simonelli. L’arbitrarietà consisterebbe nell’associare alle figure di un testo letterario immagini ulteriori provenienti dall’esterno.
Occorre innanzi tutto sciogliere un equivoco. Rifiutare una lettura allegorica non equivale a negare la complessità di cui le figure del linguaggio poetico-letterario sono portatrici, perché questo significherebbe negare la poesia stessa. Ogni testo rimanda sempre a qualcosa che sta oltre di sé, fuori dalle pagine. Se rifiutassimo questa semplice evidenza negheremmo la possibilità di qualunque lettura comparativa e interpretativa, e ci condanneremmo a considerare le figure di un racconto come monadi monolitiche, chiuse dentro i confini invalicabili del racconto stesso, anziché come vettori complessi di significato. Diceva Tolkien che rifiutare l’allegoria non significa inibire l’applicabilità di una data lettura a un testo letterario. L’allegoria – specificava – è un atto impositivo compiuto dall’autore, mentre l’applicabilità concerne la libertà del lettore. E’ infatti di letture che stiamo parlando, come campeggia a chiare lettere nel sottotitolo de L’eroe imperfetto. Per dirla ancora con le parole di Tolkien: “Non mi piace l’allegoria – l’allegoria usata consapevolmente e intenzionalmente – tuttavia ogni tentativo di spiegare il significato del mito o della fiaba deve usare un linguaggio allegorico. (E, naturalmente, più una storia ha ‘vita’ più sarà suscettibile di essere interpretata allegoricamente…)” Lettera 131.
Detto questo, ciò che è legittimo chiedersi è se una specifica lettura sia fondata oppure no; cioè se tenga conto delle sfumature e della complessità del testo (nel caso ci siano); se pretenda di imporre una versione allegorica univoca – come fanno le letture confessionaliste o ideologiche – o se provi invece a dischiudere strati ulteriori di significato presenti nell’opera, mantenendo aperto il margine interpretativo.
Prendiamo, ad esempio, Il Signore degli Anelli. I lettori “confessionalisti” del romanzo leggono nella partenza finale di Frodo per Valinor un’allegoria della salvezza ultramondana nel paradiso cristiano. Questa lettura, pur legittimamente applicabile, impone al testo qualcosa che nel testo non c’è. Il racconto di Tolkien infatti si sospende un attimo prima che Frodo tocchi le sponde del reame beato. L’autore non ci parla di alcun Aldilà, non ce lo mostra né specifica quale sarà il destino del protagonista in quei lidi. Sovrapporre Valinor al paradiso è quindi una forzatura extra-letteraria.
Nel terzo saggio de L’eroe imperfetto io affermo che le figure di Baccadoro, Galadriel, Elbereth, Shelob – così come Atena ne l’Aiace, Morgana nel Sir Gawain e Ysobel ne La Santa Rossa – ricoprono la funzione che la Dea svolge in molti racconti mitici e letterari. Lo affermo assumendo il discorso e la terminologia gravesiani, a loro volta basati sulla ricorrenza di alcune costanti poetiche in miti e opere diverse. Le domande che dobbiamo porci sono quindi due:
a) La chiave di lettura prescelta disvela qualcosa che è presente nel testo o impone a esso elementi ulteriori provenienti dall’esterno, come nel caso della corrispondenza Valinor = Paradiso?
b) Cosa intendo per “Dea” nella mia lettura? Ovvero: di che cosa la Dea è l’incarnazione poetica?
Per rispondere alla prima domanda proviamo a buttare via la chiave, a dimenticarci Graves, a lasciare perdere il discorso sulla Dea e tutto il resto. Ciò che rimane è la specifica relazione tra i protagonisti maschili e le figure femminili nel Signore degli Anelli, che è innegabilmente parte integrante del racconto. Ebbene, a prescindere dall’interpretazione che vogliamo dare della sua figura, Galadriel svolge effettivamente una determinata funzione nei confronti degli Hobbit; Elbereth è effettivamente l’unica presenza “divina” che viene invocata in tutto il romanzo; Frodo sconfigge effettivamente Shelob con il dono di Galadriel; Éowyn uccide effettivamente il Capo dei Nazgûl in virtù della sua appartenenza di genere; e così via. Questi aspetti del racconto ci consentono di mappare la presenza e il ruolo del femminile nel romanzo e di constatare che nel Signore degli Anelli la relazione instaurata dai protagonisti maschi con le presenze femminili è determinante per la riuscita dell’impresa eroica. Il legame particolare tra eroismo e componente femminile è quindi un tema presente nel romanzo, non importato dall’esterno. La chiave gravesiana che io ho scelto di utilizzare per isolare questo tema è solo uno strumento, utile a dischiudere un significato che sta “dentro” l’opera, come giustamente pretende Testi, “per scoprirne tutta la ricchezza, l’architettura sottesa e i meccanismi letterari che la sorreggono”.
Detto questo, il fatto che il tema in questione compaia anche altrove nella storia letteraria, non è qualcosa che dipende dalle tesi di Robert Graves. E’ l’assonanza reale che spinge a cercare una chiave di lettura comune (nel suo caso la “Dea”), non viceversa. Graves ha soltanto offerto un modo tra i tanti possibili di leggere quelle coincidenze, non ha inventato le coincidenze stesse. Per rispondere quindi alla seconda domanda, è evidente che ho scelto di avvalermi del discorso gravesiano perché ritengo che dietro il reiterato e multiforme archetipo della Dea si celi la rappresentazione dell’elemento femminile e che il tema poetico a essa connesso – la necessità del suo apporto all’impresa eroica – abbia una portata universale, cioè rimandi a uno degli aspetti essenziali dell’esperienza umana: la complessa e contraddittoria relazione tra i generi. Del resto, la grande poesia e letteratura – direbbe Graves, ma anche Tolkien – fa questo: esprime verità parziali sulle cose, cioè sulla nostra vita. E’ ciò che rende possibile a un mito coniato nella notte dei tempi, a un poema medievale, o a un romanzo del secolo scorso, di parlarci ancora. E certo lo fanno usando il linguaggio che è loro proprio: quello poetico, composto di “rimandi”, “immagini”, “corrispondenze”, “figure”…
4) Tolkien e il cristianesimo
Testi sostiene infine anche che la mia lettura del Signore degli Anelli “finisce per eliminare sostanzialmente dall’analisi ogni riferimento alle tematiche cristiane presenti nell’opera tolkieniana…” che invece “emergono dal testo con una forza almeno pari ai contenuti pagani del medesimo”.
Questa critica sarebbe fondata se io avessi preteso di fornire un’esegesi complessiva del romanzo. Cosa che non ho fatto. Il mio è un esercizio di lettura dichiaratamente mirata e parziale. Limitando quindi il discorso alla presenza del divino femminile nel Signore degli Anelli, nel mio saggio affermo che “i protagonisti del romanzo compiono la loro impresa sotto l’egida della Dea” (pag. 125) e motivo la mia tesi analizzando i passi dell’opera in cui essa si manifesta. Ebbene, da un punto di vista poetico poco importa che le manifestazioni del divino femminile si ispirino a figure pagane o cristiane, mentre ciò che conta è appunto il tema che portano dentro il racconto e i meccanismi narrativi che da esse vengono innescati. Non ho avuto bisogno di occuparmi della compresenza di paganesimo e cristianesimo nel romanzo, dato che si tratta di un discrimine irrilevante ai fini di quello che volevo verificare.
Ecco perché, in linea generale, non ho alcun problema a condividere l’affermazione di Testi in merito alla necessità di considerare gli elementi cristiani alla base di scritti come Il Signore degli Anelli o Il Silmarillion, per comprenderne appieno la profondità. Semplicemente non era ciò che mi prefiggevo scrivendo il mio saggio, che tutto può essere considerato fuorché una monografia o una proposta di lettura complessiva delle opere di Tolkien.
[…] Wu Ming 4 ha scritto un gran bel pezzo che si chiama (e per questo gli sia reso grazie-sai) La dea colpisce ancora. Lo trovate sul blog dei Wu Ming. Ne traggo però un brano, pur sapendo che estrapolare non è il […]
Chiedo scusa se la sede non è quella corretta, ma come sempre c’è una prima volta, magari un po’ pasticciata ed imbarazzata, anche per uscire da un silenzio di qualche anno. Volevo condividere un pensiero che mi è venuto a proposito della dea: qualche anno fa manifesto libri ha pubblicato un saggio storico/antropologico intitolato “i sette serpenti” in cui tra l’altro vi erano delle interessanti riflessioni sui rapporti tra società matriarcali e patriarcali e sui passaggi dalle prime alle seconde. Personalmente ricordo che leggendolo mi erano venute in mente assonanze con Tolkien. Sono passati più di una decina di anni dalla lettura di entrambi, per cui può essere che io abbia preso un abbaglio, ma forse quel libro può essere utile per la tua/vostra ricerca. Un saluto.
Anche in questo caso, come per la recensione di Saverio Simonelli, andare alla fonte rende più semplice arrivare a comprendere il discorso.
Perché, mi sono chiesta leggendo la recensione, Testi deve mettere in campo la logica e il principio di contraddizione? Perché – mi sono risposta leggendo l’intestazione della pagina web che lo ospita –, da bravo tomista, deve analizzare una per una le tesi che intende discutere e, eliminando quelle contraddittorie (nei loro assunti) e quelle non verificate (dall’esperienza), salire a raggiungere la Verità. E’ il metodo della confutatio, il metodo di quello strano tipo di aristotelico che è Tommaso d’Aquino. Ora, il metodo della confutatio mi sta bene quando si parla di metafisica (ecco perché il “Dottor Angelico” mi sembra uno strano tipo di aristotelico…), ma quando si parla di letteratura non mi sembra molto pertinente.
Si perde cioè di vista l’oggetto della nostra analisi, che è, appunto, una narrazione: quanto di più allegorico, cioè ricco, debordante, sfaccettato, emozionante, ci sia…
Credo che i diversi approcci a uno stesso testo (se condotti con serietà e metodo) ne dimostrino la ricchezza, la *classicità* come la intende Calvino: Un classico è un testo che ancora non ha finito di dire quello che ha da dire. Sono quindi benvenuti, soprattutto per la narratologia, se ci mostrano cioè sempre nuovi modi di narrare storie.
Se però consideriamo un testo come un monolite, rigido, chiuso, nel quale è contenuta la Verità, nel quale è riversato tutto il sapere e il pensare e il credere (e poco il sentire) di un autore, allora le letture che ne daremo saranno più simili a dimostrazioni matematiche. Poco utili. E date una volta per sempre. Solo ripetibili, ma non modificabili, perfettibili, scombinabili.
Ecco, non conosco Testi, non voglio tagliare con l’accetta le sue parole, non ho letto altro di suo, ma mi sembra che il suo ragionamento sia un po’ viziato da pre-giudizi (occhio, eh! ho messo il trattino!!!). Ne intravedo uno in questo passaggio: «Venendo all’Eroe Imperfetto, io credo che la dichiarazione di intenti iniziale dell’autore [cit. 2], che rifiuta letture allegorizzanti e confessionaliste, si riferisca implicitamente anche a tutte quelle letture cristiane dell’opera tolkieniana nelle quali i personaggi sono visti come immagini o emanazioni di elementi appartenenti a tale religione».
Credo che il rifiuto di letture “confessionali” sia la base di partenza di ogni ricerca. Mi spiego (spero…): se già so dove voglio arrivare, che senso ha mettermi in marcia? Se comincio l’analisi di Tolkien e voglio arrivare a dire che siccome lui era credente ed era cattolico, tutti i suoi scritti trasudano cattolicesimo, la mia riflessione, la mia ricerca, sono già viziate, perché piegherò ogni elemento a questa tesi. Niente mi sorprenderà, nella narrazione. La mia sarebbe una lettura confessionale, ideologica.
E poi (ma è una considerazione generale sui critici letterari “cattolici”), ma perché nei testi degli autori cattolici dobbiamo per forza trovare sempre le tre persone della Trinità, Maria, gli angeli, ecc., nascosti sotto un velo impalpabile che ce li rendono comunque riconoscibili? Perché uno scrittore cattolico deve per forza mettere i santi nelle sue narrazioni? Perché deve per forza citare il Vangelo? E’ meno cattolico se non lo fa? E’ meno credente se non lo fa? Questo è un punto su cui la critica letteraria “cattolica” ancora non mi ha convinto.
Per tornare all’Eroe imperfetto, cosa “fa paura” di questo saggio? Cosa sta andando a scardinare questo nuovo approccio narratologico? Ecco, questo è un punto su cui davvero vale la pena di riflettere… Il mio tempo di “meditazione”, in questo periodo, è molto limitato, ma non rinuncio a quanto detto fin dall’uscita: bisogna mettere alla prova questa griglia di lettura appoggiandoci sopra rampicanti di tutti i tipi, e stare a vedere cosa succede…
@ danae:
A scanso di equivoci è meglio specificare che Claudio Testi non è un lettore cattolico confessionalista. E’ tomista, è cattolico, ma non è fautore di una lettura univocamente cattolica dell’opera di Tolkien. Infatti nella sua recensione parla degli elementi cristiani sottesi alla narrativa tolkieniana, ma non li identifica affatto come unici.
Io credo che, a parte l’impossibilità di leggere la narrativa con il linguaggio della logica – argomento di cui io e Testi abbiamo già discusso in questo blog -, ci sia un misunderstanding d’altro genere. Il mio discorso sulla Dea non vuole avallare una lettura neopagana dell’opera di Tolkien. Non professando io alcuna fede religiosa, non do importanza al fatto che una figura narrativa la si identifichi con la “Dea” o con “Maria Vergine”: per me sono solo aspetti diversi del “divino femminile”. E non credendo io nel divino, assumo questa presenza come archetipo mitico-letterario, il quale porta con sé un tema poetico particolare. Tema ricorrente, non originale, anche se originalmente presente nell’intreccio del Signore degli Anelli.
Tu ti chiedi cosa “fa paura” del mio saggio, cosa questo nuovo approccio narratologico sta andando a scardinare. In realtà non è un approccio così rivoluzionario da scardinare alcunché. Che la mia intenzione fosse lanciare un sasso nello stagno tolkieniano, questo non lo nascondo, ma l’unica cosa che posso constatare al momento è che proprio il discorso sulla presenza e il ruolo del femminile nel romanzo di Tolkien risulta il più indigesto ai primi due studiosi tolkieniani che hanno commentato il mio libro (e che pure lo hanno generalmente apprezzato). Non so se sia una coincidenza fortuita che si tratti di due studiosi cattolici, ma ritengo che sarebbe senz’altro azzardato e poco serio tirare conclusioni in questo senso.
@Wu Ming 4,
prima di tutto, mi dispiace se con le mie parole ho dato l’impressione di voler tirare conclusioni frettolose e azzardate… Intendevo solo cominciare a mettere sassolini sulla strada…
Conosco poco Tolkien (se non per vie indirette, perché ho fratelli lettori assai appassionati del Signore degli Anelli) e il mondo degli studiosi di Tolkien, quindi non mi intrometto neppure nel dibattito (se non con le cose assai generali che ho già scritto). Vorrei invece che il sasso che hai lanciato andasse a finire anche in qualche altro stagno…
Vorrei cioè che si parlasse dell’Eroe imperfetto anche da altri versanti (= altri narratori che non siano Tolkien). Mi sembra infatti che nelle letture che solitamente si fanno dell’epica, del protagonista si parli in modo potremmo dire “manicheo”: o è un gran figo inattaccabile, meraviglioso (quindi: non lo raggiungeremo mai) o uno sfigato poveraccio (quindi: “come noi”, cioè non combina niente di buono).
Ecco, mi sembra che la tua lettura sia *nuova* (e quindi “perturbante”) perché propone categorie diverse per andare a individuare un eroe in una narrazione. Chi è l’eroe che dobbiamo andare a cercare, e “prendere come modello”? Questa la domanda che mi sembra più interessante a cui rispondere. Un eroe che, apparentemente imperfetto, è però un eroe, compie cioè la sua missione, andando a pescare dentro di sé e attorno a sé elementi che non gli appartengono, ma che capisce essere importanti e gravidi di opportunità. Un nuovo modello di eroe, insomma.
Per quanto riguarda la presenza femminile nell’epica, mi sembra che finora si sia individuato nella *donna* una specie di motore immobile, ieratico. Che noia! E non è per niente un modello (parlo da donna che legge parecchio e cerca nelle narrazioni ‘anche’ modelli di riferimento). Mi piace di più, invece, mi stimola di più, una donna che collabora con l’eroe. Forse mi ripeto: nelle narrazioni ci sono sempre stati elementi femminili di questo tipo, ma forse non sono stati messi abbastanza in evidenza. Qui è la novità del tuo saggio (dai, prenditelo questo complimento… :-) )
Sì, certo, la questione che preme anche a me è precisamente quella che dici. E se tu parli “da donna che legge parecchio e cerca nelle narrazioni anche modelli di riferimento”, figurati quanto me ne metto io che le narrazioni voglio scriverle. In realtà la sensazione che ho è di avere problematizzato e complicato le cose anziché trovare una soluzione. Ma andava pur fatto.
@Wu Ming 4,
hai tirato un sasso, come dici… Ora bisogna stare a guardare dove vanno a finire i cerchi sull’acqua… Parleranno le tue narrazioni e le altrui, parleranno le nostre letture, parleranno (spero!) gli studi nei quali si applicheranno le categorie che proponi (non abbandono l’idea dell’analisi di “Una questione privata” che ho abbozzato questa estate).
Giusto non abbandonarla, perché era interessante.