Live in Pavia, 2010 (preceduto da alcune note sul “frattempo”)

Premessa: alcune cose che ci frullano in capo

Abbiamo parlato più volte, qui su Giap, della necessità di un “frattempo”, un tempo nostro, sfasato e autonomo rispetto alle aggressioni della cronaca, dell’opinionismo, delle storie tossiche, delle voghe culturali. Un tempo non ansiogeno, che accolga in sé e rallenti pressioni e sollecitazioni, e ne smorzi l’impeto per rielaborarle. Lavorare con lentezza. Questo per non ridurci, come dice Alain Badiou, a topi:
«Topo è chi, tutto all’interno della temporalità dell’opinione, non può sopportare d’attendere […] Topo è chi ha bisogno di precipitarsi nella temporalità che gli viene offerta, senza essere affatto in grado di stabilire una durata propria.»
L’aria è piena del suonar di pifferi che ci richiamano in quanto topi.  Topo è anche il “tuttologo”, chi si precipita a farsi un’opinione su qualunque fatto, per gettarla subito in pasto al mondo. Topi sono certi “attivisti da click” che aprono gruppi su Facebook su qualunque cosa accada e montano campagne immaginarie su pseudo-eventi. La rete è piena dei “fossili” di cose fatte in fretta e poi abbandonate. Topo è lo scrittore che risponde a domande su qualunque argomento, a prescindere dalla conoscenza che ne ha. Topo è chi non si prende il tempo di elaborare e riflettere.
La “tentazione-topo” si presenta tutti i giorni, quando hai un blog molto seguito. Alla vigilia di ogni post che non sia “di attualità” (a pensarci bene, che espressione insensata!), noi ci chiediamo: “Ma possiamo davvero non parlare della tal altra cosa?”, oppure: “Che impressione diamo se, mentre succede la cosa X e tutti se ne occupano, noi pubblichiamo un post su tutt’altro?”

«I temi piovevano da tutte le parti ed erano tutti “fatidici”», scrive Furio Jesi in una lettera a un caro amico. Jesi annuncia (“gloriosamente”) di aver terminato la stesura del suo Spartakus. Simbologia della rivolta.
La lettera viene scritta la sera dell’11 dicembre 1969 e – verosimilmente – spedita il giorno dopo. Si presume sia già in un sacco postale quando, quel tardo pomeriggio, scoppia la bomba in Piazza Fontana.
«I temi piovevano da tutte le parti ed erano tutti “fatidici”». Quando succede qualcosa di grosso, qualcosa che esiste all’improvviso e con un’intensità che fa impallidire quel che sta intorno, l’ingenuo può pensare che i temi fatidici del giorno prima diventino meno importanti. In realtà, se i temi erano davvero fatidici (e quelli affrontati da Jesi in Spartakus lo erano senz’ombra di dubbio), il nuovo avvenimento ne intensifica l’importanza. Sapere che, nei mesi in cui qualcuno preparava la Strategia della tensione, Jesi si interrogava a fondo sulla rivolta spartachista; su mito, propaganda e simboli del potere; sulla lotta contro i “demoni” del capitalismo e, infine, sui modi in cui i detentori del potere possono “ripristinare il tempo normale” scaricando la tensione sociale “in un momento voluto e in forme volute”… Ciò aggiunge nuove connotazioni al testo, ne arricchisce la lettura.

Si può dare l’ok a un post già pronto sullo specifico poetico/tecnico/letterario del nostro lavoro… mentre intorno l’Europa ribolle? Terzigno, la Francia, la Grecia, il corteo della FIOM…
Si può e si deve, se crediamo in quello che facciamo, se pensiamo al nostro agire in modo “giusto e serio”, se vediamo in quel che accade il ritorno dello stesso rimosso che esploriamo nei nostri libri.
Negli ultimi tempi abbiamo pubblicato molti post “di attualità”. A volte la cronaca ci dà l’ultima spinta, è pretesto di intuizioni folgoranti. In un istante prende forma pubblicabile quel coacervo di pensieri che già correva qui e là per le sinapsi.
Altre volte l’elaborazione richiede tempo.
Se siamo davvero di fronte a un evento, esso brillerà in qualunque cosa lo circondi. Il momento di scriverne direttamente maturerà… nel frattempo.

Venendo al punto

Abbiamo ricevuto la registrazione della serata al Collegio Nuovo di Pavia, 24 maggio 2010. C’erano Wu Ming 1 e Wu Ming 2, unica volta in cui si è presentato questo abbinamento durante il tour di Altai (*). Non era una presentazione del romanzo, ma una serata sul nostro lavoro e su quel che abbiam voluto dire in New Italian Epic. A introdurci e incalzarci c’era la professoressa Carla Riccardi, docente di Letteratura italiana all’Università di Pavia. La serata ci sembra fornire una buona sintesi della nostra poetica e di come ci siamo mossi nel periodo 2008-2010, e c’è anche una lunga parte sul nostro lavoro collettivo, con alcuni aneddoti noti a chi ci segue e altri che coglieranno di sorpresa. Abbiamo diviso la registrazione in capitoli e li mettiamo a disposizione qui, ciascuno con un titolo e un breve sommario. Buon ascolto.

SALUTO DI PAOLA BERNARDI, RETTRICE DEL COLLEGIO NUOVO
SALUTO DI PAOLA BERNARDI, RETTRICE DEL COLLEGIO NUOVO – 4′ 45″

L’INCREDIBILE STRONZATA (SECONDO EMANUELE TREVI)
L’INCREDIBILE STRONZATA (SECONDO EMANUELE TREVI) – 20:05
Carla Riccardi legge un attacco di Giuseppe Antonelli dal Domenicale del “Sole 24 Ore”. Risponde prima WM1, poi WM2. Esterofilia del nome NIE? La “stronzata” del connubio etica-letteratura (dice Trevi). New Italian Epic e “New Italian Realism”. In questo momento non c’è il New Italian Epic. I due dibattiti paralleli. L’invenzione ad hoc del “New Italian Realism”. L’equivoco sulla parola “etica”: non “letteratura etica”, ma “etica del narrare”. L’archivio e la strada: il “realismo” è un falso problema.

LETTERATURA POPOLARE E “OGGETTI NARRATIVI NON IDENTIFICATI”
LETTERATURA POPOLARE E “OGGETTI NARRATIVI NON IDENTIFICATI” – 12:10
Domanda di Carla Riccardi, risponde WM1. Cos’è la “realtà” in letteratura? Cos’è un UNO? Risposta: un futuro romanzo. Se questo è un uomo, Gomorra, il Don Chisciotte. Libri che fondano discorsività.

LO “IATO” 1945-1990 E IL LAVORO SULLA LINGUA
LO “IATO” 1945-1990 E IL LAVORO SULLA LINGUA – 12:40
Domanda di Carla Riccardi, risponde WM2. E’ una questione di “nebulose”. La lingua: interviene WM1. Ascoltare radio in giudesmo da Gerusalemme. Il “metodo Strasberg” in letteratura. Le gondole e il treno. Pagine che non si “pavoneggino”.

IL CINQUECENTO, LEPANTO E LA STORIA “PIETRIFICATA”
IL CINQUECENTO, LEPANTO E LA STORIA “PIETRIFICATA”- 10:50
Domanda di Carla Riccardi, risponde WM2. Avevamo “presagito”. Lepanto e lo scontro di civiltà. Le crepe nel monumento. Gli inizi e la percezione del “profano”. Di quale guerra fa parte una battaglia? Sokollu e Nurbanu. Uno di quei passati che non passano.

“EPICO” COME I MANOWAR
“EPICO” COME I MANOWAR- 10:35
Domanda sul binomio epico-etico e sulla produzione degli ultimi 15 anni. “Già Renato Barilli…” Risponde WM1: non è l’epica classica, è l’epic metal. L’ironia come ultimo rifugio di tutti. Noi con Barilli non c’entriamo niente. Excursus su Simone Sarasso. Non abbiamo detto “questo è il meglio”. Un martello giudicherà una vite poco interessante.

LAVORO COLLETTIVO E INTERCAMBIABILITÀ
LAVORO COLLETTIVO E INTERCAMBIABILITA’- 24:05
WM2: tipologie del lavoro collettivo in letteratura. La Pixar o Miyazaki. Modalità per impedire l’appiattimento. La “mediazione al rialzo” contro il minimo comune denominatore. La questione dello “stile personale”. I Led Zeppelin e l’Olanda del calcio totale. Il tempo-macchina di un romanzo. WM1: le “fasi” del lavoro. Aneddoto su Lafayette e Mesmer.

PRODUZIONE COLLETTIVA E PRODUZIONE “SOLISTA”
PRODUZIONE COLLETTIVA E PRODUZIONE “SOLISTA”- 18:52
Quel che rimane è il nome “Wu Ming”. Il problema dei personaggi femminili. Ancora sul rapporto tra collettivo e solista: i nostri racconti 2000-2010. Stella del mattino. Il segreto del nostro accordo? Teniamo ben piantata la bandierina della creatività collettiva.

Un ringraziamento a Saskia Avalle, Paola Bernardi, Carla Riccardi  e tutto il Collegio Nuovo.

* A proposito di Altai, qui abbiamo messo tre brani dello spettacolo Altai Lyric Suite, registrati a Chivasso (TO) il 16 ottobre scorso. Nell’ordine: “8 Muharram 977”, “Le anatra dell’Absurdistan” e “Il volo dei falchi sugli altipiani”.

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63 commenti su “Live in Pavia, 2010 (preceduto da alcune note sul “frattempo”)

  1. a me è rimasta la curiosità da quando ho letto NIE di sapere quali sono i libri, gli autori, che andavano per la maggiore in quel periodo detto, se non sbaglio, post-moderno, in cui regnava l’ironia. Il senso dell’epico come d’ampio respiro lo capisco benissimo, associato ovviamente alla storia narrata in ognuno dei libri, invece l’etica dell’autore in storie appunto non epiche mi sfugge. Provo con un esempio: Bret Easton Ellis. Oppure nel cinema, Tarantino. Insomma la letteratura italiana che si può connotare come “gelidamente ironica”. Ovviamente per favore…

  2. Su questa faccenda dell’ironia sono frequenti i malintesi, perché molti associano l’ironia al far ridere o comunque sorridere, a un effetto umoristico.
    In realtà l’ironia consiste nell’affermare qualcosa che non si pensa, o meglio: nell’accentuare un distacco tra chi dice e ciò che viene detto.
    Di base, è una figura retorica; in senso più ampio, è uno stato d’animo e uno schema mentale. Quando si fa generalizzato, diventa de-responsabilizzante: tutti i dicenti accentuano il distacco da quel che dicono. In parole povere: fanno capire di non credere a quel che dicono. Meglio ancora: mantengono l’ambiguità su questo punto. Meglio ancora: fanno capire che gliene fotte ben poco del credere o non credere, perché è tutto un gioco etc.
    A un certo punto, con il fallimento di narrazioni basate su un progetto di liberazione, si è affermato l’imperativo: sii ironico! (E ovviamente anche: sii autoironico!) Tutti hanno iniziato a predicare e ostentare l’ironia e il non prendersi sul serio.

    Non è una cosa che riguardi solo né principalmente la letteratura: il più grande spacciatore di ironia è stato ed è la TV, il mezzo dove nulla di ciò che viene mostrato o detto permane né “impegna” chicchessìa. Pensa all’ironia intrinseca a un telegiornale: prima mi dài una notizia terribile, chessò, mi mostri bambini che crepano di fame o di malattie, oppure gente disperata mandata a spasso dalla rilocalizzazione di una fabbrica; due minuti dopo, sorridendo, ti colleghi col teatro dove sta per andare in onda un varietà e ti metti a cazzeggiare col conduttore. Ecco, questa è ironia: quando mi hai dato la prima notizia, quella terribile, tu sapevi che io sapevo che non dicevi sul serio, e io sapevo che tu lo sapevi etc. Il dispositivo stesso dell’informazione televisiva è costruito sulla consapevolezza che nulla è sul serio, perché due minuti dopo ci sarà l’intervistina col comico di merda, o il servizio sul negozio di cravatte per cani. E non mi si risponda che: “E’ sempre stato così”, perché non è vero, nei TG c’è tendenzialmente sempre più cazzeggio e “alleggerimento”, e c’è sempre più ibridazione (“ironica”, of course) tra informazione e cazzeggio. Su TV e ironia, la cosa più bella mai scritta rimane il saggio “E unibus pluram” di David Foster Wallace.

    Ora: noi siamo il paese più ironico e autoironico del mondo, nell’accezione spiegata sopra. Da tempo abbiamo conseguito la massima deresponsabilizzazione del proferir parola: il discorso pubblico è sommamente vacuo, le parole passano e vanno e nessuno le ricorderà più. Il “carattere nazionale” si basa sugli immortali principi del “qui lo dico e qui lo nego” e del “tanto in qualche modo tutto si aggiusta”. Ne abbiamo esempi tutti i giorni, e sono talmente tanti che non li riconosciamo più come tali.

    Lo scrittore o l’artista ex-di talento che va al reality monnezzone manda continuamente il segnale: io sono meglio di così, la mia è un’operazione “spiazzante”, una critica geniale etc. Oppure: sono qui perché non bisogna prendersi sul serio, non bisogna essere tromboni etc.
    In entrambi i casi, si tratta di ironia. Poi magari piazzo lì una scenata e mi faccio sbattere fuori, così passo pure per ribelle, non omologato etc. Il massimo dell’ironia.

    Ecco, Aldo Busi per me è un esempio perfetto. Nel corso degli anni ha inondato le librerie di schifezze come i suoi “manuali” (il perfetto gentiluomo, la perfetta mamma, il perfetto papà), e poi il “flirt con Liala”, le canzoncine, le dritte per l’aspirante artista… Eppure, misteriosamente, è un Genio. Un Grande Scrittore. E’ stato per anni una macchietta della TV, ma è un Artista con la maiuscola reverenziale. Spara cagate come gli vengono, ma è praticamente un Vate. Questo perché è riuscito a infinocchiare tutti, e – forte dell’indubbia qualità dei suoi primissimi libri – ha sfruttato al meglio le possibilità offerte dal regime dell’ironia, continuando a strizzare l’occhio, a segnalare in svariati modi: io sono meglio di così, questa è solo una presa in giro, un divertissement, posso permettermelo perché io so e voi sapete che c’è un Vero Busi che è al di sopra di queste cose, non è la TV a ingoiarmi, sono io che la ridicolizzo etc.

    Per capirci: un modo *assolutamente non ironico* (veramente lacerato) di andare in televisione era quello di Pasolini:
    http://www.youtube.com/watch?v=B6avHlAcMko&feature=player_embedded

    In letteratura, nel periodo in cui si affermava la dittatura dell’ironia, un atteggiamento sempre più frequente era:
    scrivo un romanzo ma lo so benissimo anch’io che “il romanzo è morto” e quindi lo faccio strizzandovi l’occhio e facendovi capire che in realtà non è davvero un romanzo, la mia è un’operazione diversa, che parte dalla consapevolezza che il vecchio, pesante romanzo che racconta storie impegnative non è più possibile, ora stiamo facendo un gioco, una ricombinazione, sono operazioni sottili etc.
    La pezza d’appoggio, esplicita o implicita, è una malintesa idea calviniana di “leggerezza”. Alessandro Baricco ci ha costruito l’intero suo prestigio, su quest’impostazione. E con lui tanti altri, sebbene meno fortunati e telegenici.

    Ovviamente, è molto ironica, obbligatoriamente ironica, tutta la “cazzonaggine” ostentata nel mondo culturale. Sono molte ironiche le foto in posa “simpatica” etc.

  3. mi torna in mente Giorgio Gaber quando parlava dello squash ^__^

    “Ma io mi ricordo che qualche tempo fa si parlava, si parlava, si parlava con i comp… con gli amici, si parlava nelle case ma anche fuori nelle piazze, si discuteva, si discuteva di tutto, il mondo, la politica, la vita, i fatti personali, insomma… si parlava… anche troppo!
    Poi di colpo niente! No voglio dire altre cose: il tennis, i vini del Reno, com’è la neve a Cortina… per carità io non c’ho niente contro la montagna e neanche contro il tennis o il cricket o lo squash.
    Ci dev’essere uno strano godimento a sentirsi inutili perché sono tutti più allegri, più ottimisti e tutti via a sciare e vela, windsurf, equitazione, golf… bello!
    Secondo me per essere bravi in quegli sport lì non è che bisogno essere proprio imbecilli, però aiuta!”

  4. ‘mazza! Intanto grazie per avermi ricordato il saggio di Wallace e lo spezzone con Pasolini. E infatti ritorna la domanda “perché cavolo tanta gente passa le ore a guardare spazzatura?” più o meno. Mi viene in mente “adesso” che ormai la “Potemkin” è diventata una battuta, e così si è perso anche il gusto ( per me ) di poterne ridere. Su Pasolini, anche se ovviamente non ti chiedo di tornarci su, posso dire però che in fondo lo sto conoscendo perché qui se ne parla, Salò e Petrolio su tutto, e la sua abiura della trilogia, che per me rimane troppo sincera, in eccesso; ecco, anche se su Petrolio hai scritto che è attuale e che siamo i posteri a cui sono arrivati i suoi brandelli, l’impressione che ho avuto finora è quella di un incubo, un Horror senza ironia, a cui non posso credere. E’ come se fosse sopraffatto dalle ossessioni, e questo se penso alla metafora dello scalpello che si insinua nelle crepe, va oltre, polverizza.

    In questi giorni sto leggendo “la filosofia dopo la filosofia” di Rorty, e così metto assieme un altra descrizione di ironia, lui parla di ironico liberale, e in certe cose mi ritrovo, ma può anche essere che essendo digiuno di filosofia quello che assaggio è tutto buono… comunque Rorty afferma che la filosofia ironica gli piace per il privato, e che “non ha fatto e non farà molto per la libertà e l’uguaglianza. Ma spiega anche perché la’letteratura’; stia invece facendo molto, e così l’etnografia e il giornalismo”.

    ok, ce n’è da riflettere. Nel frattempo come faccio a non dirti che Baricco lo adoro? :-)

  5. Vi sono fasi, contesti, situazioni in cui l’ironia è uno strumento critico e addirittura un’arma contro le dittature. Come ogni strumento critico, va usato con criterio (quindi ne va fatto un uso *rarefatto*, solo quando si pensa sia efficace).
    Vi sono altre fasi in cui l’ironia è adeguamento a un esistente, ed è essa stessa la dittatura. Questo succede quando il ricorso a essa si fa indiscriminato.
    Su Baricco: anch’io fino a qualche mese fa bevevo il caffè zuccherato, e molti mi dicevano: comincia a berlo amaro, all’inizio si fa fatica ma poi ti rendi conto che quello che bevevi prima era zucchero, non caffè, e non proverai mai più il desiderio di addolcirlo. Ci ho provato, e posso dire che è così :-)

  6. Ehi, ho apprezzato molto il riferimento all’epic metal e ai Manowar :D

  7. Era il più adatto alla bisogna! :-)

  8. Scusate l’interruzione tecnica.
    Me li mettete scaricabili anche dalla WU MING AUDIOTHEQUE su iTunes?
    Da qui non riesco a tirar fuori i file .mp3

  9. @ Marco
    Non li abbiamo ancora messi nell’audioteca per non sovrapporre. Per scaricare un mp3 da qualunque link di testo (compresi quelli qui sopra) basta cliccare col destro e nel menu a tendina scegliere “Salva come” o “Salva destinazione con nome” (dipende dal browser).

  10. Ops, scusate l’ignoranza allora.
    Sarà che con il Mac ho un tasto solo e non penso mai a provarci con ctrl. Domani in macchina ascolto tutto :-)

  11. L’ho già fatto in passato, ai tempi dell’Officina sul sito di Manituana, ma torno a ringraziarvi per il modo così trasparente e privo di autocompiacimento in cui raccontate del vostro modo di lavorare.

    PS1 – Occhio ai paragoni con i Manowar, quella è gente che, lasciando stare l’abbigliamento, gridava “Death to false metal” e firmava contratti discografici col sangue – il che non mi impedisce di avere nel mio Benno un paio di loro CD, per quanto polverosi :-).

    PS2 – Ho da poco finito di leggere i 550 commenti di Stroook!, e dopo la rissa con Cortellessa mi stupisce una metafora così benevola nei confronti di Baricco :-)

  12. E’ celebre l’aneddoto sui Manowar in cui un giornalista inglese chiede a Joey DeMaio cosa ne pensi dei Metallica, e lui risponde: “Mi spiace, non seguo la musica country”. In questo sì, siamo più vicini al particolare humour di Stroooook! :-)

  13. Sempre a proposito dell’abuso di ironia:
    proprio il qui presente @alexpardi, in un suo pezzo pubblicato tempo fa su Carmilla:
    http://www.carmillaonline.com/archives/2008/12/002861.html
    raccontava un apologo “lacustre” sull’aspetto sociale della narrazione. Bene, lì è spiegato molto bene come l’ironia usata a sproposito (e quando il ricorso a essa è sistemico, l’uso è inevitabilmente “spropositato”) impedisca lo stabilirsi di un patto vitale tra chi racconta e chi ascolta.

  14. Heh, heh, grande Joey :)

    Perdona l’OT: a proposito di Stroooook! (ristabilisco il numero corretto di ‘o’) e di musica, leggendo mi è capitato di pensare che lo stesso tipo di difficoltà nel comunicare si sarebbe potuta incontrare in un’analoga discussione sullo stato della musica tra i Fugazi e, che so, Abbado.

  15. I Manowar sono smargiassi, pacchiani e a volte ambigui (l’aquila romana in copertina, “back to the glory of Germany…”) ma sono indubbiamente la band fondatrice dell’epic metal e, per gli amanti del genere, negli anni Ottanta hanno prodotto dei veri e propri capovalori: “Batte Hymns”, “Into Glory ride”, “Hail to England” e il non plus ultra SIGN OF THE HAMMER (assaggio: http://www.youtube.com/watch?v=qL1xDNrYTSo)
    Per chi cerca un epic metal più raffinato consiglio i Blind Guardian (assaggio: http://www.youtube.com/watch?v=hYqWJQCptV0)

  16. Ma mica dobbiamo sposarceli, i Manowar. Non c’è bisogno di chiarire o vagliare etc. Servono come esempio di accezione aperta (non strettamente filologica) del termine “epica”.

  17. Tra le band italiane del momento trovo che i Baustelle siano abbastanza epici (http://www.youtube.com/watch?v=oksz49x6XkI) Certo, non come i Re del Metallo, però…

  18. Mi è sovvenuto il sospetto che molta gente non abbia la minima idea di quel che stiamo dicendo, perché non esplicitiamo i riferimenti.
    Ecco, per me l’epitome di ciò che rende “epic” l’epic metal è il video qui sotto, al di là del bene e del male.
    http://www.youtube.com/watch?v=BFuIc2sRFxs
    Certo, ad alcuni è richiesto un piccolo sforzo per andare “al di là del male”, cioè: al di là delle pose sovraccariche, smargiasse e machiste; al di là del testo ridicolo della canzone; al di là dell’esibita (ma in parte giocosa) verticalità nel rapporto tra artista/leader e folla etc. Quel che è “epico” in questo video lo è *al netto* delle cazzate. Una narrazione possente, di ampio respiro, che ricorre ad archetipi e mitologemi ed è condivisa da una comunità informale, appassionata e aperta (quelli nel video sono fan portoghesi). Comunità che cerca momenti di “epifania” e auto-rappresentazione nel solco di un continuum, di una tradizione, per quanto recente e “leggera” (i fans di lungo corso dimostrano di essere tali “rubando la voce” al cantante).
    Dal che si capisce che il termine “epic” è usato in modo libero, non vincolato alle accezioni tipiche del dibattito accademico etc.

    Post scriptum. Si potrebbe anche dire che questa comunità cerca momenti di “mito genuino”, vuole confusamente “accedere al passato” (un passato vagamente percepito, bricolage di elementi mitici e storici accostati alla rinfusa) “come ad una fonte vitale di guarigione”. Guarigione dall’atomizzazione dei legami sociali, dalla solitudine.
    Nel descrivere il “mito genuino”, Furio Jesi citò questo frammento di Eraclito: “Coloro che restano svegli hanno un unico cosmo in comune, cioè un unico mondo al quale partecipano tutti insieme”. All’opposto, il mito tecnicizzato si rivolge a “coloro che dormono”, e dice loro che *non c’è un solo mondo*, li aizza contro i nemici che vengono “da un altro mondo”.
    Quello fornito dai Manowar è un immaginario facilone e confuso, ma non mi sembra ancora mito tecnicizzato. Lo stesso Jesi scrisse che (corsivo mio) “il mito genuino può anche assumere parvenze orride nell’opera di artisti che, lungi dal voler tecnicizzare il mito, sono intimamente segnati da malattie spirituali”. Il machismo e la tamarraggine sono inequivocabilmente malattie spirituali. Qui manca un requisito fondamentale del mito tecnicizzato, cioè un chiaro scopo politico, una direzione precisa, una situazione contingente a cui il mito viene piegato. “Morte al falso metal” non è una vera chiamata alle armi, è solo una dichiarazione di poetica.

  19. Insorto in me il dubbio di avere scritto – pur con l’attenuante che si concede agli “appunti volanti” – cazzate che non stavano in piedi, ho chiesto un parere a Enrico Manera, uno dei massimi esperti di Furio Jesi che ci siano in circolazione (io sono solo un “infarinato”, lui ha proprio letto *tutto*). Ha letto e mi ha mandato una mail, a cui ho risposto. Col suo permesso, pubblico qui lo scambio:

    Enrico:
    Devo dire che mi ha un po’ spiazzato vedere comparire i Manowar, che fin da ragazzino ho sempre considerato la cosa più kitsch che ci fosse… Probabilmente sono vittima di un pregiudizio anti-metallaro, e mi sono sempre trovato più nel punk, post-punk, grunge, noise e non sono riuscito a prenderli sul serio, ma proprio per la loro vocazione anti-intellettuale, le pose, il machismo, l’onore etc. etc., ho addirittura sempre creduto fossero proprio dei fasci per dirla tutta.
    Provo a riflettere:
    la tua analisi non mi sembra stiracchiata, nel senso che effettivamente quando parli di “narrazione possente, di ampio respiro, che ricorre ad archetipi e mitologemi ed è condivisa da una comunità informale, appassionata e aperta” che cerca “momenti di ‘epifania’ e auto-rappresentazione”, effettivamente quello è “mito genuino”, e quel metal, “genuino”, con tutti i limiti del caso, lo è.
    Anche la nozione di “orrido”, e di “malattia spirituale” direi sono calzanti, Jesi aveva in mente certo Rilke, l’espressionismo tedesco, insomma quegli esempi anche di reversione negativa del mito di cui parla in Germania segreta, che però funzionano per spiegare in termini di scienze della cultura le tematiche dark, le ossessioni scure di tanta controcultura giovanile dagli anni Settanta in poi, ma anche prima, insomma voci di un autentico dolore che condivise hanno parlato a una o più generazioni, e per questo direbbe Jesi, non sono tanatofile ma autenticamente umanistiche (questo è Rilke).
    Quello però che ancora non mi convince pienamente è il carattere smaccatamente kitsch del mito in tutta una cultura per dire così “fantasy”, includo i Manowar, che non riesce a essere allegorica, e uso il termine nell’accezione benjaminiana che anche tu illustri in NIE, ma al limite nostalgica.
    Penso che insieme al concetto di mito genuino dello Jesi 67-69 (che è quello appunto di Germania segreta e Spartakus) vada letto lo Jesi de La festa e la macchina mitologica, ovvero dopo il 1972: lì la “festa” e quindi il “mito genuino” sono dichiarati impossibili per tutti noi moderni, almeno dai tempi della Rivoluzione francese e dalla dimensione della festività come imposizione identitaria del dover essere.
    In altri termini, il tentativo di trovare/creare momenti di epifania e autorappresentazione nelle forme identitarie neo-tribali o di gruppo sono sempre e comunque tecnicizzazioni del mito nella misura in cui non possono che mimare le pratiche estatiche e collettive del mito, e mentre dicono “mito” in realtà indicano la sua insopportabile assenza che viene riempita con pallide imitazioni sorte dalle tracce di quello che noi immaginiamo fosse “mito”, perché figli della morte di Dio e della distinzione tra poesia ingenua e sentimentale (Nietzsche e Schiller sono tra i must di Jesi).
    Ora, sono d’accordo con te che l’ironia post-moderna e il cazzeggio/pastiche all’estremo abbiano esaurito la loro funzione critica, si siano narcisisticamente avvitati su loro stessi e siano addirittura talvolta diventati strumento al servizio della reazione, ma quando Jesi parlava di ironia si riferiva a Mann e a Brecht, di cui amava lo straniamento: ovvero pratica che spezza la mimesis e genera distanza e riflessione, lontana dal post-modernismo deleterio e macchiettistico. C’è nel Brecht di Jesi una frase fulminante in cui dice che il commento di Benjamin è straniante, è il correlato scritturale del teatro rivoluzionario.
    Per lo Jesi maturo l’uso del mito legittimo è quello appunto che si basa sullo straniamento, cioè monta insieme i pezzi del mito e ne è la parodia per limitare gli effetti emotigeni del mito e il suo debordare nella coscienza, e questi sono ancora termini tuoi, così come la teoria della narrazione mitologica che “mostra la sutura”, cosa che hai detto a Torino e mi è rimasta molto impressa.
    Il vostro montaggio cinematografico nello scrivere, come il Mann parodista del ciclo di Giuseppe, usa il mito ma lo disinnesca e in questo rende il mito leggero, perché se mostri la sutura dichiari che c’è una macchina mitologica in azione che usa materiali mitologici e usa leggerezza per dire altro, mette in moto intelligenza senza che l’emozione la soffochi completamente.
    Per questo penso che i Manowar non siano un buon esempio: non vedo allegoria né ironia, ma un uso del passato piuttosto nostalgico-celebrativo.
    In più, se parliamo del medium, penso che la letteratura possa essere epica poiché è scritta, ovvero è una serie di sequenze di parole su fogli di carta che generano immaginazione e significati (questo è il Calvino delle Lezioni americane o Se una notte d’inverno), mentre alcune migliaia di maschi che cantano in coro e mettono insieme i loro corpi al centro della scena mi sembrano andare in un’altra direzione e, non ti nascondo, mi inquietano.
    Certo il metal nel mondo musulmano ha un’epicità che ha un ruolo antagonista, è ancora ribelle e “genuino” ma quello forse dipende dal bisogno di rifunzionalizzare una dimensione collettiva per certi versi pre-moderna e dal fatto di trovarsi di fronte un mondo tradizionale, autoritario, fondamentalista.
    Credo che nelle società occidentali complesse, dopo aver bevuto il calice del nichilismo fino in fondo il mito vada ancora toccato con le pinze e usato solo alleggerito,
    e poiché l’idolatria è in agguato ovunque, credo che il contatto diretto tra mito e massa sia avvelenato per sempre.
    Spero di non aver menato troppo il torrone,
    e se ritieni che queste righe abbiano una qualche utilità pubblica fanne l’uso che riterrai più opportuno.

    WM1:
    Sono d’accordo, e non solo in linea di massima, anche se sul fantasy ci sarebbe molto da discutere, discernendo caso da caso. Il lavoro che sta facendo WM4 su Tolkien, ad esempio, serve proprio a separare il grano dal loglio. Il mio ragionamento sui Manowar era “a prescindere” da molte cose, che ho elencato e che ovviamente non sono davvero “prescindibili”: la confusione, la verticalità del rapporto, la “smargiassata”, l’intollerabile machismo etc…
    [Non so se davvero manchi l’ironia, nella mascherata dei Manowar: in fondo tra loro e il pubblico c’è il tacito accordo che si tratta, appunto, di una mascherata: cantano di gesta belliche ma non combattono, cantano della “bella morte” ma dopo trent’anni di carriera sono vivi e vegeti… Insomma, solo un idiota penserebbe che dicono sul serio :-)]
    Diciamo che, più che sui Manowar, la riflessione andrebbe fatta sul *bisogno di epica* e sulla ricerca (impossibile eppure indispensabile e per questo sempiterna) di mito genuino e di epifanie. C’è chi le cerca (e crede di trovarle) nel metal, chi altrove. A me in questo caso interessa quell’interzona che sta tra l’impossibilità del mito genuino e il mito non-ancora-tecnicizzato. C’è una dimensione mediana, magari una sottile striscia, una zona di tumultuosa fluttuazione degli enunciati, in cui il mito non è né genuino né tecnicizzato? Se sì, come ci si interviene dentro? A ben vedere, tutta la riflessione di noi WM cerca di rispondere a queste due domande, anche se non le abbiamo mai poste in questi termini. E’ ancora tutto un mettere “zeppe”: diciamo “comunità” e aggiungiamo subito gli attributi “aperta” e “informale” etc.
    Sì, l’ironia nell’accezione non-pastiche, lo straniamento… e aggiungo la “propaganda genuina”… Ma non sono ancora la risposta, sono strategie testuali e poetiche che “pendono” più verso l’avanguardia che verso un popolare depurato dal populismo… E questo rimane il limite, secondo me.

  20. Parlo da comunista, fan dei Manowar da quando avevo tredici anni. Fan nel senso che canto spesso le loro canzoni a squarciagola quando guido o sono sotto la doccia, per intenderci. Ma non per questo voglio andare a sgozzare i nemici del vero metallo.
    La mia passione per i Manowar è iniziata nello stesso periodo in cui è iniziata quella per la lotta politica, e non credo per caso. Nella seconda metà degli anni Ottanta una certa fetta dei pochi giovani ribelli rimasti in circolazione, amava l’heavy metal e in particolare il metal epico – dei Manowar e di altre band – proprio perché NON era all’acqua di rose come la musica commerciale, NON era intellettuale come il rock e i cantautori “di sinistra”, e NON era “no future” e nichilista come tanta sottocultura punk.
    Era musica selvaggia, romantica, furiosa e preistorica. E noi ci sentivamo così.
    Lontani dalle mode ma anche dalle contro-mode. Lontani e basta.
    Non sopportavano i discorsi per cui il sacrificio è di destra, il coraggio è di destra, lo scontro frontale è di destra… e non sopportavamo – oggi come ieri – chi sosteneva che il metal e il fantasy fossero di per sé di destra. Forse senza saperlo, non accettavamo una visione totalitaria (che come ogni totalitarismo ha fatto danni a non finire) per cui chi la pensa in un certo modo deve anche avere certi gusti.
    Di più. Il sentimento semplice e assoluto del “barbaro”, in quella fine di millennio così barocca e post-moderna, era per noi ingenue testecalde il miglior appiglio per non naufragare.
    Ma nei Manowar non abbiamo mai cercato “la linea da seguire” (a pensarci mi vien da ridere). Solo la melodia solenne che ti coinvolge e ti scalda il cuore.
    “Build a fire, a thousand miles away, to light my long way home…”

  21. Provo a essere più concreto rispetto alla mia risposta notturna a Enrico. Un esempio. Qui la discussione si sovrappone a quella sulle “storie tossiche” in calce al post sui minatori cileni.

    La guerra partigiana. Fenomeno complesso e non riducibile a formulette. Parafrasando lo storico Claudio Pavone: tre guerre in una. Almeno tre guerre in una. Guerra civile (italiani vs. italiani); guerra di liberazione nazionale (occupati vs. esercito occupante); guerra di classe (proletariato in armi vs. mostri e demoni imposti dalla classe dominante; lavoratori che si vendicano localmente dei soprusi subiti da possidenti e sbirri).
    A seconda dei momenti, delle zone e dei “cappelli” politici e ideologici, prevale l’uno o l’altro aspetto, anche nella rievocazione. Ogni prevalenza produce una “mancanza”: c’è chi critica la resistenza perché fu troppo una cosa e troppo poco quell’altra, a seconda degli interessi e delle inclinazioni.

    Non si può dire che la resistenza sia stata mito interamente “genuino”, dal momento che fin da subito la “tecnicizzarono” gli stalinisti (qui ci vorrebbe un inciso sul fatto che lo stalinismo italiano fu peculiare, bucherellato dall’interno dal pluridecennale scavo di una “vecchia talpa” non-stalinista come l’influenza di Gramsci etc.). Il PCI chiuse la Resistenza in un mausoleo dopo averne amplificato la seconda dimensione (quella patriottica) a scapito delle altre due. Le polemiche su “triangolo della morte”, foibe, regolamenti di conti nell’immediato Dopoguerra etc. non sono state altro che il *ritorno del rimosso*, di quel rimosso, cioè: la Resistenza fu anche guerra civile e guerra di classe. La ri-scoperta dell’acqua calda, a causa delle rimozioni precedenti, ha avuto un effetto dirompente. In fondo, se blocchi l’afflusso di acqua calda e poi rimuovi il blocco all’improvviso, cosa ottieni? Un geyser!

    Ma:
    non si può dire che la Resistenza sia stata solo mito tecnicizzato. Se la pensassimo così, non si capirebbe la periodica esigenza di tornarci sopra, di sentire quelle storie e scoprirne sempre di nuove, di cercare in essa “la melodia solenne che ti coinvolge e ti scalda il cuore”. Non è solo perché fu un “mito tecnicizzato d’opposizione” anziché di governo; c’è un’eccedenza, qualcosa che ha resistito alla tecnicizzazione, un… nucleo di verità. Altrimenti non si capirebbe perché, al netto di tutto quanto detto sopra, in molti sentiamo di venire da lì e difendiamo la memoria pubblica di quel momento. Quando facciamo questo, noi ci stiamo accostando a un mito genuino. Impossibile ma vero. Anzi: vero benché impossibile. Fu Lacan a dire, cripticamente come al solito: “Elevare l’impotenza all’impossibile”. Cioè: compiere quello scatto che ti fa superare l’impotenza perseguendo ciò che viene dato per impossibile. Il mito genuino nella modernità è forse quell’impossibile che fa superare l’impotenza.

    Come si risponde all’offensiva della para-storiografia di destra contro la Resistenza?
    Certo, si può rispondere con l’ironia nell’accezione che diceva Enrico, l’approccio che ri-racconta la Resistenza e lavora su quel mito “tenendo aperta l’officina” del narratore e mostrando al lavoro la macchina mitologica (“mostrando la sutura”). Lo abbiamo fatto.
    Si può rispondere con lo straniamento, con gli sguardi obliqui: raccontare la Resistenza in modi diversi, illuminando i coni d’ombra, descrivendola come se non fosse mai stata descritta prima, o meglio: provarci. Abbiamo fatto anche questo.
    Ma il nostro fallimento come “narratori di movimento” nel frangente del 2001 ci ha dimostrato che l’officina aperta e la luce sul cono d’ombra non bastano, se sono solo strategie “d’autore”, cioè portate avanti da un soggetto separato (che sia un individuo-artista o un comitato di Agitazione & Propaganda). Bisogna anche, come minimo, che:
    1) questa ri-narrazione-non-più-tossica, questo “impossibile” del mito non tecnicizzato lo perseguiamo tutti insieme. Tutti chi? Ecco, questa è la domanda che da qui si biforca. Qual è la comunità di questo impossibile?
    2) il mito non venga semplicemente “demitizzato”, facendogli perdere la sua poesia. Lo “smontaggio” ironico può diventare l’altra faccia della tecnicizzazione. Il mito non può essere ridotto solo al suo dato storico, altrimenti non sarebbe mito, non avrebbe quella forza, e noi non lo cercheremmo per la nostra “guarigione”.

  22. Sulla questione n°2, direi che lo smontaggio non deve restare orfano. Occorre rimontare altrimenti. Se con i miei figli smontiamo un giocattolo e poi lo lasciamo lì, in pezzi, forse ci siamo divertiti per una mezz’ora, ma il gioco è finito, se non ci rendiamo conto che lì, in quei pezzi, c’è una potenzialità creativa: rimettere a posto il giocattolo oppure farcene uno nuovo. “Mostrare la sutura” del proprio “raccontare altrimenti” significa tenere assieme lo smontaggio ironico e la poesia del mito. La sutura allude infatti allo smontaggio, dice che esso è possibile e invita il lettore a smontare a sua volta, ritagliando lungo le linee tratteggiate. Il racconto, d’altra parte, ripropone *un* mito, dice che esso è necessario, e invita una comunità di lettori a ricercarlo.

  23. Questo però presuppone che un mito sia smontabile con nitore, in pezzi ben definiti e ri-incastrabili l’uno nell’altro. Dai formalisti in avanti, sappiamo che *una storia* può essere vista in questo modo. *Un mito*, però, è più di una storia.

    Lévi-Strauss si è impegnato a fondo ad analizzare il mito come linguaggio, a tracciare le linee di una scienza del mito, a trovare le serie combinatorie degli elementi di base del mito. Ma quest’approccio tutto razionalizzante, cartesiano, è limitato. Scegliendo di non dare importanza alle emozioni e analizzando il mito come qualsiasi altro aspetto concettuale, Lévi-Strauss se ne fotte del suo aspetto “fusionale” (“l’unico cosmo” del frammento di Eraclito), quindi non coglie la specificità del mito (e del sacro) e ci disarma di fronte alla sua forza. Il mito e il sacro sono visti come prodotto di un pensiero più “arretrato” rispetto a quello dell’intelletto razionale, cioè: prima viene il mito, poi la ragione. L’emozione è solo caos, disordine da superare. E così si misconosce il *bisogno di mito* che in tutte le epoche, compresa la modernità e l’iper-modernità, la comunità umana non può che provare.

    Quando penso alla “sutura” del mito, a me vengono in mente parti di *corpi*. Carne, pelle, sangue, organi. Il mito, proprio perché “fusionale”, mi sembra più organico che meccanico. E’ più difficile ri-scomporre e ri-ricomporre il mito rispetto a quel che si può fare con una qualunque altra storia, perché un mito è *eccedente* rispetto a una storia, è una storia che, nel suo essere ri-narrata, ha acquisito una tale intensità emblematica da *essere viva*. Un mito respira. La tecnicizzazione del mito è la sua trasformazione in cyborg eterodiretto. Come quando in Star Trek i Borg rapiscono un umano e gli innestano tutti quei chip e circuiti.
    Forse dovremmo cambiare metafora: un mito tecnicizzato va “de-condizionato”. Al vivente che c’è sotto vanno espiantati tutti quei chip e va tolta tutta quella ferraglia.

  24. @WM1
    Disclaimer: se su Jesi tu sei solo “infarinato”, io non sono neanche mai entrato dal panettiere…

    Però, dato per scontato l’afflato epico dei Manowar, è vero che non è *ancora* un mito tecnologizzato, nel senso che non individua un nemico concreto, ma mi pare ne sia una sorta di sublimazione (una visione appena un po’ più fantastica dei trecentomila bergamaschi pronti a prendere le armi di cui cianciava Bossi). Se il mondo del mito genuino è “un unico mondo al quale partecipano tutti insieme”, mentre il mito tecnicizzato parla di “nemici che vengono “da un altro mondo””, a me viene da semplificare e dire che il primo è un mondo di pace, e il secondo un mondo di guerra. Il che non significa che nel primo non ci si possa trovare a combattere, ma che non è un mondo fondato sulla divisione noi/loro (dove “loro” sono per di più alieni), e quindi sulla paura del nemico.
    Non credo sia un caso che WuMing abbia raccontato la Resistenza e la storia delle Six Nations, gente che si è trovata in guerra suo malgrado. I Manowar hanno scritto una canzone intitolata ad Achille, voi credo preferireste parlare dal punto di vista di Ettore.

    Detto questo, mi è chiaro (e condivisibile) l’utilizzo del mito proposto dallo Jesi “maturo”, di una sorta di “maneggiare con cura” uno strumento estremamente potente e facile preda del fanatismo, mi è meno chiara la modalità di narrazione mitologica che “mostra la sutura”. Potreste gentilmente chiarire?

    grazie

  25. Sulla scorta degli studi di Dumézil, io ritengo che i miti siano tutti IN PARTE tecnicizzati.
    “I miti non si lasciano comprendere se vengono scissi dalla vita degli uomini che li raccontano. Quantunque chiamati presto o tardi ad una carriera letteraria propria, essi non sono delle invenzioni drammatiche o liriche gratuite, senza rapporto con l’organizzazione sociale o politica, con il rituale, la legge o la consuetudine; il loro ruolo è al contrario di giustificare tutto ciò, di esprimere in immagini le grandi idee che organizzano e sostengono tutto questo.”

    (G. Dumézil, dalla prefazione a Mito e epopea, vol. I)

    In questo più marxista di tanti mitologi marxisti, Dumézil sostiene che i miti (e non il Mito, che non esiste) hanno sempre avuto una importantissima FUNZIONE IDEOLOGICA, ossia il compito di giustificare l’esistente, e in particolare l’organizzazione sociale.
    I miti sono “politici”, non si scappa.
    Ora, il fatto è che, esattamente come la storia che ci raccontano sui libri di scuola e nelle grandi narrazioni più o meno condivise, i miti sono una MESCOLANZA DI ELEMENTI, alcuni tecnicizzati da chi ce li racconta, altri che affondano le proprie radici nell’immaginario mitico collettivo, sedimentato non nel corso di due o tre generazioni, ma di millenni.
    Ecco perché i miti vanno studiati e smontati! Perché bisogna saper scindere i primi elementi dai secondi.
    Esempio, il mito di re Artù ferito a morte e condotto ad Avalon, per ritornare un giorno a liberare il popolo bretone dall’oppressione.
    Arturo Graf ci insegna che in Bretagna, nel Medioevo, si rischiava la lapidazione se si negava la veridicità di questo mito, tanto era forte la convinzione che un giorno Artù sarebbe tornato davvero.
    Su questo mito che possiamo tranquillamente definire genuino e millenario – la speranza che “un giorno le cose cambieranno” perché arriverà il nostro eroe – si è poi innestata la tecnicizzazione operata dall’aristocrazia medievale messa in crisi dal crollo del feudalesimo e dall’avvento del ceto mercantile. Il povero cavaliere, scalzato dal ricco villano.
    Tutti avranno in mente la scena del cavaliere di re Artù che va per gettare Excalibur nel lago ma tentenna (c’è anche nell’ottimo film di Boorman “Excalibur”).
    Nei romanzi del ciclo arturiano che descrivono questa scena, il cavaliere in questione è Beduer/Bedivere, il Maggiordomo, ossia colui che si occupa delle vivande. Non Galvano il Temerario e nemmeno Lancillotto il Coraggioso. Ma Bedivere il Maggiordomo. Il “borghese” della situazione.
    Bedivere voleva tenersi la spada per le pietre preziose che ricoprivano il pomo e l’elsa. Ecco perché l’attacco di Artù, che in Malory definisce Bedivere traitor untrue (la peggiore offesa per un cavaliere!) è così inaspettatamente violento. “…would betray me for the richness of the sword” – dice poi Artù. Il re dunque sa bene per quale motivo Bedivere lo avrebbe voluto tradire: per la ricchezza materiale di Excalibur, come se non fosse altro che una spada, ritenuta solo particolarmente nobile e pregiata. Excalibur, invece, è l’arma fatata del potere e deve ritornare alla Dama del Lago. Solo un vero “aristocratico” la dovrà impugnare.
    Quale immagine si adatta meglio a rappresentare l’ideologia di un re cavaliere che vuole contrapporsi a un re dei siniscalchi?
    Questo è mito tecnicizzato.

  26. @ Alexpardi

    Nello stesso disco (The triumph of steel) i Manowar dedicano anche una canzone a Ettore, “Hector’s final hour”, tra l’altro bellissima: http://www.youtube.com/watch?v=TVyVeDFBtpI
    Copertina indecente :D

  27. @ alexpardi,
    “Mostrare la sutura” nel senso di: ricomporre narrazioni *facendo vedere il lavoro di composizione*, cioè esplicitando quali elementi siano stati usati e come. Ovviamente, bisogna anche individuarla, la “sutura”, per poterla mostrare. Quindi bisogna essere consapevoli del lavoro che si sta facendo. E su questo:
    @ giacomo
    che i miti vadano smontati per discernere cosa li componga, cosa in essi sia espressione di una pulsione irrinunciabile e cosa invece utilizzo per la giustificazione dell’esistente, è il punto di partenza. Quindi, se è il punto di partenza, non è il punto di arrivo. Perché dopo averli smontati o de-condizionati, rimane il problema di montarne / farne vivere altri. Perché l’umanità senza narrazione mitica non può stare, questo è davvero un universale, è parte basilare della nostra condizione. Ed è qui, non prima, che insorgono dubbi e difficoltà, ovvero: come raccontare storie che siano politiche senza essere tossiche; come lavorare con il mito senza finirne di nuovo vittime. Foucault userebbe le parole “discorso” e “dispositivo”, Jesi parlava di “macchina mitologica”, altri parlerebbero di “ideologia”, ma alla fine siamo sempre da quelle parti.

  28. @ Tutti

    per conoscere Furio Jesi, è irrinunciabile questa imminente uscita:
    http://www.rigabooks.it/index.php?idlanguage=1&zone=9&id=853
    Seguendo il link, trovate l’annuncio, l’editoriale e l’indice del numero.
    Ne parleremo anche su Giap.

  29. Che tristezza quando gente di questo calibro muore così giovane.

  30. Come ricordava la redazione di Carmilla (en passant, parlando di Tolkien), c’è chi ha usato le circostanze della morte di Jesi per affibbiargli una “definizione” in apparenza neutrale e oggettiva, ma in realtà biecamente sarcastica.
    http://www.carmillaonline.com/archives/2010/01/003302.html
    Triste vendettucola di un evoliano per quel che Jesi scrisse del suo Venerato Maestro?

  31. Ho dato una scorsa al passaggio linkato. Laidissimo. Mi sa che Jesi (che non ho letto) sul Venerato Maestro ha colto nel segno…

  32. A Jesi i “paladini della Tradizione” ne dicevano di tutti i colori. Alfredo Cattabiani “ha definito Jesi ‘un modesto scrittore autodidatta (…) esperto in strumentalizzazioni politiche’, insinuando inoltre che a screditare la Tradizione si corre il rischio di inaridirsi se fortunati (sarebbe il caso di Eco) e di lasciarci la pelle nella peggiore delle ipotesi (sarebbe stato, per l’appunto, il caso di Jesi, morto tragicamente all’età di 39 anni).” Alessandro Campi, nota 18 della prefazione a J.C. Rivière, “Georges Dumézil e gli studi indoeuropei”.
    Che bassa umanità. Avevano il sangue avvelenato perché Jesi smascherava sistematicamente le LORO strumentalizzazioni (in primis quella di Dumézil).
    Qualche settimana fa su una bancarella ho trovato un libro di Jesi rarissimo: IL LINGUAGGIO DELLE PIETRE. Alla scoperta dell’Italia megalitica. Rizzoli 1978.
    Un altro viaggio nell’archeomitologia…

  33. qui enrico,
    grazie per la segnalazione del mio lavoro, ci ho lavorato per più di tre anni anche duramente e penso che davvero il modo in cui WM 1 ha affrontato Jesi sia completamente condivisibile e assai produttivo. Lo scambio precedente è esemplare in tal senso; detto questo:

    Jesi è morto per le esalazioni di uno scaldabagno difettoso di un piccolo appartamento del centro di Genova, affittato in fretta dopo il trasferimento all’Università; aveva 39 anni. All’Università era entrato nel 1976 a Palermo, dopo aver per anni rifiutato l’insegnamento per motivi ideologici, aveva appena finito un lungo periodo di lavoro, una estenuante traversata del deserto, pubblicava continuamente e traduceva da free lance divorato dai suoi interessi intellettuali. Pare che lavorasse fino a tarda notte e poi fosse uso rilassarsi nella vasca da bagno. Gli studenti, che l’attendevano in facoltà, lo hanno trovato lì la mattina successiva.
    Per un po’ di tempo negli ambienti intellettuali circolò l’ipotesi del suicidio, poi quella della malattia, ma si è trattato di leggende nere che associavano lo studio del mito e dell’esoterismo a un non meglio precisato fascino dell’oscuro. Jesi, che anche aveva un un lato saturnino e melanconico, era al tempo stesso vulcanico, mercuriale, ironico, un trickster irriverente, in più era un militante molto energico nel pieno del riconoscimento della sua attività. Insomma la mia impressione è che si tratti di un gioco di proiezioni che appartiene a una mitologia del mitologo morto giovane, un fascino ambiguo frutto della macchina mitologica, cosa di cui lo Jesi demitologizzante e illuminista avrebbe sorriso…

    Ho apprezzato molto il commento di Giacomo e il riferimento a Dumézil, che sottoscrivo in pieno, e rilancio con il fatto che Jesi lo considerava uno dei suoi maestri e gli assegnava la preferenza proprio per la capacità di riconoscere nel mito gli aspetti ideologici della società e le tracce di una «ultrastoria possibile», ovvero la storia della preistoria le cui tracce sfigurate rimangono in strati di civiltà successive. Spero di riuscire a postare tra un po’ la lunghissima voce ‘mito’ dell’Enciclopedia Europea Garzanti, 1978, scritta da Jesi, ancora valida e molto chiara in tal senso.

    faccio anche ammenda dei miei pregiudizi sui manowar, credo che anche in questo caso la ‘macchina mitologica’ sia un concetto teorico più raffinato di quello di mito genuino/tecnicizzato, perché include quella dicotomia ma la porta a un livello più alto con gradazione più sensibili e su quella soglia di oscillazione di cui si parlava nel post di WM 1.
    La ‘macchina mitologica’ traspone a livello della coscienza individuale l’inganno in cui si cade quando si prende per genuino un mito tecnicizzato, scrive Jesi 1975 in Gastronomia mitologica (nei Materiali mitologici, Einaudi, 1979).
    Ciò vuol dire che in qualche modo ogni mito è sempre tecnicizzato, anche il più antico e comunitario; ma anche le mitologie personali sono forme di tecnicizzazione perché perché ogni conoscenza è una modalizzazione di materiali inerti precedenti che ogni ricezione rivitalizza e trasforma in vissuti emotivi, simboli portatori di senso che è anche corpo e rapporti materiali.
    Le identità si costruiscono attraverso diverse “macchine mitologiche”, serie testuali di immagini sedimentate, condivise e risemantizzate, documenti che si trasformano in monumenti e che determinano le memorie culturali e le strutture connettive dei gruppi umani. Sono vettori emozionali che costruiscono intersoggetività.
    Per dirla con Calvino, che è molto vicino all’ultimo Jesi in nome di una comune sensibilità post-strutturalista, ciascuno di noi «è una combinazione d’esperienze, d’informazioni, di letture e di immaginazioni», «ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili».
    In altri termini, ognuno è una macchina mitologica;
    questo probabilmente spiega perché una stessa esigenza di miticità e comunione passi attraverso l’interpretazione e il vissuto di ognuno, soggettiva prima che intersoggetiva, e quella felicità calda che uno prova con i manowar io la trovassi ad esempio nei fugazi, per stare nello stesso mood esplosivo; e oggi ancora di più nei national, che hanno un’epicità la cui intensità viene da un rigore spettrale dalle tonalità crepuscolari.
    pace.

  34. ‘Il linguaggio delle pietre’ è splendido e andrebbe ristampato, c’è lo Jesi adulto che si rilegge da giovane e paga tributi a Benjamin e Caillois, con alcune pagine memorabili di scrittura e un grande tributo al più grandi storico ‘minimalista’ della preistoria Leroi-Gourhan.

    Ho ancora qualcosa che frulla nella testa, ed è il commento su Lévi-Strauss: su questo credo ci sia un fraintendimento e un’esagerazione, e che in qualche modo LS sia stato forse troppo criticato e forse ingiustamente da molti.
    La critica di aver neutralizzato la storia, rifiutato contenuti e negato valore ai fatti che nella loro contingenza sarebbero inferiori alla forma, sembrano oggi eccessivamente severe. A conferma di ciò sta la fusione di strutturalismo e marxismo: a proposito del «potere polemico del metodo strutturale» si è espresso anche Barthes. «La descrizione sincronica delle strutture, condotta in un certo modo, può risultare anch’essa armata di un efficace potere contro ogni mistificazione: come la Storia, l’idea di Cultura non è forse l’antidoto all’idea di Natura?» (Il grado zero della scrittura).
    Nelle Mythologiques (1964-1971) Lévi-Strauss ha proposto un’analisi dei patrimoni mitologici in modo che sia possibile tornare da un certo mito verso un altro da cui si erano prese le mosse: l’analisi strutturalista permette cioè di smontare e rendere criticamente apprezzabile i miti presentandoli in forma di elementi nel loro stato disaggregato.
    Si tratta del procedimento inverso all’uso politico dei miti, che sono il caso estremo di manipolazione di un materiale linguistico o iconografico: lì si vede l’intervento in virtù del quale elementi sintagmatici sono resi operativi dalla violenza esecutiva che separa il linguaggio dalle pratiche sociali in cui era inserito in un determinato punto della sua storia e diviene altro, simbolo caricato di un aumentato potere performativo in un momento della sua ricezione. (cfr. J. -P. Faye, Violenza, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, Torino, 1981, pp. 1098 ss.).
    Ora il fatto che LS non abbia analizzato il calore del mito, non vuol dire che non lo riconoscesse o che ne negasse l’importanza, semplicemente lo dava per sottinteso e ne cercava le condizioni di possibilità: ancora nel 2002, in una bella intervista di Massenzio, ha detto: «Ma un mito, in che cosa consiste? di che cosa è fatto? come viene elaborato? In altre parole, prima di interrogarmi sul ruolo che il mio orologio svolgerebbe nella mia vita emotiva […] ho scelto di aprire l’orologio, smontarne gli ingranaggi e di chiedermi: come funziona?».
    Jesi, ritorno lì perché quello ho fresco in questo momento, riconoscendo il magistero di LS ha cercato di rendere ‘caldo’, storicamente dinamico, quello che LS ha inteso raffreddare fino a ipotizzare che dietro a una serie mitologica si potesse individuare il mito come stuttura nella forma fantasmatica dell’algebrizzazione. Questo è un suggerimento di Belpoliti, che ho trovato molto fecondo.
    In sintonia con Dumézil (che però LS ha sempre considerato analoga alla propria per l’approccio storico-morfologico), Jesi ha verticalizzato in senso diacronico gli elementi statici, orizzontali e sincronici che lo strutturalismo illustra nella loro disponibilità, in conformità alle indicazioni originarie di de Saussure che vedeva nella linguistica tanto lo studio della coesistenza simultanea dei fenomeni, quanto il mutamento dei valori da una fase storica all’altra.
    Che poi LS cercasse la mente e noi – questo mi commuove – invece cerchiamo la comunità possibile nonostante tutto questo è vero.
    C’è in LS una sorta di melancolia post-umana e misantropica, a suo modo struggente: «La mia analisi mostra dunque il carattere mitico degli oggetti: l’universo, la natura, l’uomo, che per migliaia, milioni, miliardi di anni non avranno dopo tutto fatto nient’altro che dispiegare, come un vasto sistema mitologico, le risorse della loro combinatoria prima di invilupparsi e annientarsi nell’evidenza della loro caducità». (L’uomo nudo, 1971).
    Eppure è quando vedo più forte lo stigma della morte su di noi umani che sento il bisogno di comunità, di immortalità e di memoria.

  35. @ Enrico

    io sento la fortissima esigenza di distinguere tra le ricombinazioni affettive di materiale mitico che ciascuno di noi compie e la manipolazione collettiva e organizzata dei miti a fini politici, operata sfruttando apparati di consenso etc.
    Distinguere, cioè: non usare la stessa parola per entrambe le cose (“tecnicizzazione”).

    Jesi era nel giusto individuando il presupposto comune nell’impossibilità, per noi moderni, di accedere al mito genuino, quindi sì, anche quella individuale è una sorta di “tecnicizzazione”, più sfumata e meno finalizzata.
    Ma se “tecnicizzazione” deriva da techne, io ricordo che lo spettro semantico del termine greco include una dimensione di consapevolezza: techne è un “manipolare intenzionale secondo una regola”. Non ricorro all’etimo gratuitamente: Kérenyi scelse l’attributo “tecnicizzato” avendo ben presente quel significato.

    Ancora una volta, ricorro a un esempio: io sono cresciuto ascoltando (anche) Alan Stivell, i Lyonesse, i Planxty, i Chieftains, insomma il folk “celtico”, e sicuramente il mio approccio a quei suoni e a quell’immaginario era una ricombinazione affettiva di materiali mitici eterogenei. Tuttavia, non era una tecnicizzazione in senso proprio, nell’accezione usata da Kérenyi e dallo Jesi degli anni ’60. Al contrario, l’uso cialtronesco e razzistico di un immaginario “celticheggiante” da parte della Lega Nord (tendenza che comunque negli ultimi anni mi sembra un po’ in calo) è tecnicizzazione in senso proprio. Quell’immaginario viene trasformato intenzionalmente in uno strumento offensivo.

    La Lega tecnicizza: è mito tecnicizzato il filmaccio di Martinelli su Barbarossa, è mito tecnicizzato l’ampolla con l’acqua del “Dio Po” (che per me è solo una bestemmia monca) etc.

    Per questo il concetto di “mito tecnicizzato” mi sembra ancora fecondo, e in questi anni ho mantenuto l’antitesi genuino / tecnicizzato. Sempre tenendo presente che sono due polarità di un’oscillazione.

    Il concetto di “macchina mitologica” può essere molto utile, se teniamo presente che la macchina mitologica operante nella coscienza del singolo è diversa dalla macchina mitologica sociale mantenuta in funzione da tecnicizzatori ben consci dei loro scopi.

    Su Lévi-Strauss: hai ragione, ho tagliato con l’accetta, L-S è un autore che non disdegno, è solo che l’approccio del “prima cerco di capire razionalmente e solo dopo cercherò di cogliere emotivamente” mi sembra limitato, almeno nel caso del mito, nel senso che – di questo sono convintissimo – se non mi faccio coinvolgere dal suo calore, dalla sua carica emotiva, dalla sua natura “fusionale”, non lo capirò nemmeno razionalmente.
    [Da questo punto di vista, credo che Lévi-Strauss avesse ancora quella che Lakoff chiama “a 18th century mind”: il cogito, la dicotomia ragione-emozione etc. Una “21st century mind” è quella che, forte anche delle acquisizioni delle neuroscienze, comprende che non può esserci raziocinio senza emozione.]

    Qui (sperando di non complicare troppo) ricorro a una triade concettuale che usa a volte Umberto Eco: tipo cognitivo, contenuto nucleare e contenuto molare. Sono tre espressioni bruttissime e poco intuitive, ma i concetti sono semplici.
    Primo livello: ognuno di noi ha un “tipo cognitivo” della parola “mito”, nel senso che nell’intimo sappiamo cos’è un mito, come sappiamo che quello che attraversa la strada in questo momento è un gatto e non un cavallo;
    Secondo livello: il “contenuto nucleare” della parola “mito” è quello che ci scambiamo tra noi quando facciamo degli esempi: Re Artù, Che Guevara, Orfeo ed Euridice… Esempi eterogenei, ma aventi in comune la riconoscibilità in quanto miti;
    Terzo livello: è la conoscenza allargata del mito da parte degli esperti. “Allargata” nel senso che include più caratteristiche, anche non indispensabili al riconoscimento percettivo.
    La sempre maggiore conoscenza di un concetto si muove dal primo al terzo livello. Nel caso del mito, il “tipo cognitivo” si forma grazie alle emozioni che il mito suscita; il “contenuto nucleare” è scambiato tramite la comune esperienza di quelle emozioni; il “contenuto molare” è la “scienza del mito”, la razionalizzazione operata dal sapere specialistico.
    Ecco, la mia impressione è che Lévi-Strauss cercasse di compiere il percorso inverso: definire nel modo più preciso possibile il “contenuto molare” del mito prima di dedicarsi al “tipo cognitivo”.

  36. @WM1, in primo luogo grazie davvero per l’opportunità che offrite tramite Giap di riflettere su questi temi. Mi sembra che la tua domanda

    «1) questa ri-narrazione-non-più-tossica, questo “impossibile” del mito non tecnicizzato lo perseguiamo tutti insieme. Tutti chi? Ecco, questa è la domanda che da qui si biforca. Qual è la comunità di questo impossibile?»

    trovi nella partecipazione a queste pagine una prima risposta.

    E’ la domanda di base, anche secondo me, la prima a cui bisogna offrire un tentativo di risposta. E’ un po’ che ci penso anch’io e al riguardo ho scritto un post sul mio blog che vuole provarci; si tratta solo di una prima parte di una riflessione più lunga. Molto di esso nasce anche da molti vostri stimoli. Lo riporto qui; mancano naturalmente i link interni, chi volesse può vederli nella pagina originale:

    http://abcdeeffe.wordpress.com/2010/10/28/epica1-3/

    «1. Chi siamo noi?

    Si sviluppa un senso di appartenenza basato su un comune sentire. Si sa e si mena vanto di essere una minoranza, sia essa di volta in volta cronologica, geografica, intellettuale, o persino una minoranza del dolore.

    – I mondiali del 1982 io me li ricordo, la faccia da pazzo di Tardelli quando segnò…
    – Se fai una citazione del Conte Mascetti e il tuo interlocutore la coglie, allora sai di poterti fidare…
    – Mi sono fatto tre gastroscopie, una rettoscopia e due depressioni. Non ho paura più di niente, perchè tanto lo so che si sopravvive…

    Un’appartenenza che si caratterizza per due tensioni opposte, e laceranti: quella di rafforzarsi sempre di più solo nella misura in cui si rimane minoranza, e quella di aspirare a un riconoscimento che solo accade quando la minoranza cessa di essere tale e diventa maggioranza.

    – Io i Litfiba li andavo a vedere quando ancora non avevano pubblicato Desaparecido. Ora fanno musica di merda e c’hanno un pubblico di ragazzini…

    Per l’anagrafe e per i sociologi siamo quelli nati prima dell’era digitale: siamo, cioè, una generazione vasta di transizione, nata e cresciuta in un mondo tecnologicamente (e quindi epistemologicamente) diverso da quello contemporaneo. Testimoni di alcune vestigia di un passato quasi del tutto rimosso – se non in alcune sacche d’isolamento: quello delle famiglie allargate, dell’emigrazione, delle tradizioni locali, dell’ospitalità – siamo cresciuti guardando la TV e facendo merenda con pane spugnato e zucchero, in cucine con i pensili di formica e le piastrelle sale e pepe. Abbiamo cioè un modo di conoscere la realtà che si fonda su parametri internamente contraddittori, nella misura in cui fatichiamo a liberarci – per paura di sradicamento? – di approcci e metodi che mal si addicono al tempo presente. Siamo come quella pianta le cui foglie esterne sono consunte e secche, e a cui le radici, ancora salde ed estese, non riescono però a portare linfa. Il Contadino ci guarda e valuta se estirparci o meno.

    Per gli economisti e i giuristi siamo l’universo dei precari. E da qualche tempo anche per gli psicoterapeuti, che si sono accorti delle nostre devastazioni emotive.

    I demografi ci accusano di non fare più figli. I politici ci accusano di fare troppo i figli.

    Io penso che siamo soltanto le creature di un tempo che non esiste, che non ha dimensione, schiacciato dal peso del passato e dal magnetismo verso un futuro il cui orizzonte più lontano dista solo ventiquattro ore; una spirale storica che si piega su se stessa attendendo e sperando un punto di fuga. Un tempo che non fa in tempo a interrogarsi su di sé, in cui si vive e si consuma come se non ci fosse domani. In questo tempo, noi soffriamo la pesantezza e la lentezza dei nostri corpi, dei nostri organi (e il cervello è un organo, non si dimentichi), inadatti a ingurgitare questo avvolgimento a spirale. Non è un caso che le droghe di maggior successo siano droghe performative, dalla cocaina alle pasticche, dagli integratori alimentari alle chirurgie estetiche (che droghe non sono, ma come stupefacenti invadono il nostro corpo sotto forma di protesi per una natura giudicata avara).

    Tutto questo ormai lo sappiamo e lo diciamo. Malgrado tutto, ci attacchiamo a quelle storie del passato che ancora ci permettono di visualizzare delle alternative. Il paradosso è che i ventenni ci guardano come dei poveri psicotici, e i sessantenni pure. Stiamo stretti tra due fuochi e non andiamo né avanti né indietro.

  37. @ eFFe
    non è quello che intendevo. Mi riferivo alla ricomposizione della classe, per essere marxisticamente diretti. Mi riferivo alla soggettività antagonista collettiva e al suo bisogno di mito.
    Della mia/nostra generazione, francamente, me ne infischio, come me ne sono infischiato delle varie generazioni X, Y, Z, A etc. Il ragionare per generazioni – che ciò avvenga in letteratura o in politica – mi fa venire l’orticaria, penso che il focus generazionale produca automaticamente un immaginario angusto, mesto, perdente e, man mano che la generazione invecchia, sempre più orientato verso i soliti “bei tempi che non ci sono mai stati” (nel nostro caso, quelli in cui tutti capivano il riferimento se dicevi “fantocci cazzi la gomena”, capirai che Giardino dell’Eden che abbiamo perso!)
    Non a caso nel descrivere la “nebulosa” del NIE ho evitato qualunque riferimento a una generazione anagraficamente intesa, e ho parlato invece di una “generazione letteraria” che mette insieme ottantenni come Camilleri, cinquantenni come De Cataldo, quarantenni come Genna, trentenni come Sarasso etc.
    Il focus sulla “complicità generazionale” genera mostri. Uno dei fenomeni più deleteri degli ultimi anni, il veltronismo, partì nei primi anni Novanta da un’intersezione tra cultura pop e politica (le riproduzioni anastatiche degli album di figurine Panini allegate a “L’Unità” diretta da Veltroni), con una domanda “fatidica”: “Ti ricordi Pizzaballa?”. Un portiere del calcio anni ’60. I “baby-boomers”, il pre-’68, Italia – Germania 4-3 e via scoreggiando. Vade retro Saragat! (e anche questo è un riferimento da “Giardino dell’Eden”).

  38. Discussione interessantissima, a dir poco. Sarà che mi riguarda quotidianamente, per ragioni politiche…

    Problema. Mettiamo di avere a che fare con un mito tecnicizzato che si è talmente imposto in una collettività storica da essere diventato una vera ideologia, nel senso più profondo che del termine darebbero Gramsci o Foucault. Ossia una griglia interpretativa della realtà, creatrice di falsa coscienza, talmente radicata, metabolizzata, da condurre a una spontaneità diffusa dei suoi esiti individuali (sto semplificando, beninteso).

    Ora, ipotizziamo che qualcuno intenda mettersi di buzzo buono a de-tecnicizzare questo mito, a smontarlo facendo emergere gli ingranaggi del dispositivo, mettendone in luce forzature, falsificazioni, giustapposizioni arbitrarie e evidenziandone gli scopi egemonici. Ovviamente – detto per inciso – questo lavoro ha un senso se si ha una comunità di riferimento (reale o potenziale) e se si ha uno scopo politico, anche in senso lato. Altrimenti è un mero esercizio intellettuale.

    Ipotizziamo che si riesca a infrangere il mito tecnicizzato, o almeno a produrre delle crepe sulla sua bella superficie levigata e apparentemente perfetta. Ecco, a questo punto, la reazione di chi viene costretto a fare i conti con la propria autocoscienza, con i propri processi di identificazione scoprendoli falsi, non genuini, ecc.non sarà il più delle volte di rifiuto? Non si creerà un trauma difficilmente curabile?

    Proprio perché ormai incapaci di concepire un mito genuino, di farcene avvincere emotivamente fino a farne una struttura portante della nostra esistenza, smontare il mito tecnicizzato non assume i contorni di una violenza?

    E per colmare il vuoto che si crea, il nostro ipotetico liberatore che soluzione adotterà? Dovrà tecnicizzare un altro mito, alternativo al primo, dato che una narrazione è indispensabile, vitale? O lascerà le coscienze a vagare in una dimensione a-narrativa, priva di riferimenti, vittime della pars destruens di un’operazione liberatoria monca?

    C’è una via di mezzo?

    Il problema è grosso. Pensiamo a un mito tecnicizzato italico: il Risorgimento.

    Intanto, che si tratti di un mito tecnicizzato è una mia opinione, sulla quale si può serenamente dissentire. Ma io – da non esegeta di Jesi, né esperto di alcunché – lo vedo così.

    Insomma, mettiamo che il Risorgimento, così come è narrato, si riveli un mito tecnicizzato e si riesca a smontarlo e a mostrarne ingranaggi e scopi di potere. Che succede a quel punto?

    A quel punto, io credo, l’Italia non esiste più, non ha un suo mito fondativo, non c’è più appiglio per tenere insieme 60 milioni di esseri umani che in fondo condividono poco, a volte proprio nulla, al di fuori del recentissimo immaginario collettivo televisivo.

    Questo è un esempio. In realtà il mito tecnicizzato con cui ho a che fare io è un altro. Ma è giusto per porre il problema.

    Si può fare a meno, in questa epoca, di miti? No. Cosa rimane, al di fuori della possibilità di tecnicizzazione di un mito nuovo, quando se ne smonta una dominante?

  39. @ Omar,
    attenzione: tu in realtà stai parlando della “smitizzazione”, di un approccio puramente di pars destruens razionalistica che dica: questa storia è falsa per i motivi tali e talaltri.
    Noi abbiamo sempre rifiutato questo approccio non solo in quanto parziale, ma proprio perché illusorio, velleitario. “Smitizzare” è un proposito senza senso, il bisogno di mito è universale. L’approccio dev’essere un altro.
    La “tecnicizzazione” non è un’invenzione che parte dal niente, da una tabula rasa. La “tecnicizzazione” agisce su una base di verità, su una molteplicità di storie significative per la comunità. Di quelle storie vengono distorti gli elementi di base, amplificando alcune caratteristiche a scapito di altre, che invece vengono rimosse.
    Si tratta di far tornare il rimosso, far evadere quelle storie dalla prigione della narrazione unica *raccontandole in un altro modo*. Questa è la critica pratica al mito tecnicizzato. Perciò è importante dire che il lavoro di demistificazione non può essere un mero, meccanico “disassemblaggio” del mito.
    Torno all’esempio della Resistenza: su cosa si fa leva per raccontare quelle storie in un modo diverso da quello della narrazione tecnicizzata (tronfia, patriottica, angelicata etc.) dei decenni scorsi?
    Si fa leva sul loro nucleo di verità, per far tornare il rimosso, cioè quella complessità che era stata ridotta artatamente, quelle asperità che erano state levigate. Si cerca di raccontare la Resistenza da altre angolature, diverse da quelle dei tecnicizzatori.
    Quando abbiamo fatto questo, non abbiamo riscontrato alcun “rifiuto” in chi aveva a cuore la Resistenza, anzi.

  40. Smontare un mito direttamente non è la strada da seguire proprio perché incontra un rifiuto. Nel caso del berlusconismo, la gran parte di chi continua a votarlo ha fatto sulle sue promesse un investimento emotivo a cui non *vuole* rinunciare, e quindi – in questo senso – è inutile sbandierarne nuove malefatte e insistere a dire vedi? vedi?.
    La strada che può funzionare è quella che parte dalla creazione di un mito alternativo, che racconti altro, quella, per intenderci, lungo cui negli ultimi 15 anni la sinistra non ha mosso alcun passo.

  41. Pardon, ho scritto senza aver letto il post di WM1 :-)

  42. Va benissimo, Alex, hai fatto *l’esempio-chiave* :-)

  43. Però la questione che pone Omar è centrale in un altro senso. Al di là dello “smitizzare”, esiste una “via di mezzo” tra il “mito tecnicizzato” e la rinuncia al mito? Un paio d’anni fa, alla sua uscita in Italia, ho criticato con durezza un libro di Christian Salmon (“Storytelling”), proprio perché la sua analisi delle narrazioni come strumenti di marketing e di propaganda, si spinge a sostenere (con Lars von Trier) che le narrazioni sono il nemico, perché manipolare una storia significa per forza manipolare chi la leggerà. Ora noi, evidentemente, non siamo affatto d’accordo con questa tesi, ma per contrastarla in maniera efficace, siamo chiamati a indicare in che modo una storia manipolata riesce a non essere manipolante. In che modo un mito, per forza di cose tecnicizzato “in senso lato” riesce a non essere tecnicizzato “in senso stretto”. In che modo possiamo mettere in moto la macchina mitologica con un carburante ecologico, che non intossichi l’ambiente?

  44. Per questo è importante la discussione/laboratorio sulle “storie tossiche”, ed è importante trarne un primissimo sunto per poter continuare a ragionarci sopra tutti insieme.

  45. Va bene, va bene, mo’ mi metto al lavoro…

  46. @ Omar Onnis:

    IMHO, non è che un mito fondativo debba essere *per forza* anche un mito tecnicizzato. Qui la discussione si interseca con quella in calce all’altro post sui minatori cileni. Il mito tecnicizzato è una storia “tossica”, ma (forse) sono possibili anche miti fondativi “aperti”, non tossici.

    Quando Habermas e altri autori parlano di “patriottismo della Costituzione”, si riferiscono in qualche modo proprio ad un mito fondativo che non abbia le caratteristiche di dogmatismo, di esclusività, di chiusura identitaria ecc. che sono proprie del mito tecnicizzato. Da questo punto di vista, non metterei sullo stesso piano il mito del Risorgimento e il mito della Resistenza. Il Risorgimento è un mito fondativo nazionalista, mentre la “Resistenza (almeno potenzialmente) non lo è. Voglio dire, nel primo caso abbiamo “il sangue e il suolo”, nel secondo caso la Costituzione del ’48, e non è assolutamente la stessa cosa.

  47. E.C. C’è una virgoletta di troppo prima di Resistenza. Errore di battitura, ovviamente.

  48. @Wm1, grazie, mi hai fatto notare che ho usato (anche se una e una sola volta!) la parola sbagliata e forse gli esempi sbagliati.
    Mi pare però che tu abbia letto un po’ oltre quello che dicevo. Che, per farla breve, è molto simile a quanto scrive Christian Raimo su Minima&moralia

    http://www.minimaetmoralia.it/?p=3118

    Stiamo parlando della stessa cosa, presumo. Io ho cercato solo di fare un (breve, e quindi limitato) quadro sinottico di quella che presumo sia la comunità di riferimento che ha ancora bisogno dell’energia simbolica dei miti. Il discorso è piuttosto storico-sociale, non generazionale in senso stretto (e ripeto, ho usato la parola una sola volta, aggiungendoci “vasta” e “di transizione”, proprio per delineare qualcosa dai contorni mobili), nella misura in cui la formazione di una (auto)coscienza di classe a mio parere non può prescindere (per essere marxisticamente diretti!) dall’identificazione di un soggetto rivoluzionario ;-)
    E con tutto il rispetto per Camilleri (simbolicamente inteso), io ho poco a che vedere con uno che non usa l’email, che non usa Google, che non ha mai dovuto lavorare come co.co.co e che non si è sorbito anni di televisione.
    L’accento quindi andrebbe posto – a mio modesto modo di vedere – su quelle trasformazioni sociali, culturali e soprattutto epistemologiche che si sono prodotte negli ultimi 30 anni almeno e che hanno dato luogo a una comunità di persone che condividono un’appartenenza (anche questa è una brutta parola, ma non me ne vengono altre). Identificare i tratti comuni di questa appartenenza e le modalità di adesione ad essa (il “sentimento di appartenenza” di cui dicevo) partendo proprio da un’analisi che tiene in considerazione variabili storiche, sociali, antropologiche, economiche, psicologiche, culturali (un lavorone, per dio!) è, io credo, la miglior via per delineare i contorni (anche qui: aperti, includenti) di questa famosa comunità di riferimento.

    Tutto ciò, mi rendo conto, è ancora molto vago, generalista. Ma il compito principale mi sembra questo, proprio come dicevi tu. E se (ragionando per assurdo eh!) quel sentimento di appartenenza si rivelasse proprio nel momento in cui qualcuno dice “fantocci cazzi la gomena”? Detto altrimenti: la comunità si riconosce e si ricompatta intorno a dei simboli (Manowar, Fugazi, Fantozzi…), o meglio, intorno a un insieme di simboli ecletticamente legati l’un l’altro. Identifica i simboli e le loro relazioni reciproche, e avrai un’idea migliore della comunità di riferimento. La quale (idea) ti consentirà di meglio rielaborare quei simboli in modo narrativo, cioè di costruire storie *alternative*.

    La via per “indicare in che modo una storia manipolata riesce a non essere manipolante” passa, io credo, per il lavoro che si fa su *quei* simboli, una volta individuati. Non solo, come si diceva sopra, mostrando la sutura, ma “riconvertendone” il potenziale simbolico. Esempio? L’unità nazionale, la “patria”, saranno il terreno su cui si misurerà il successo dei finiani in chiave antileghista nei prossimi mesi. Se sapranno fare a contrario il lavoro di creazione identitaria (il carroccio, il dio po etc..) che hanno fatto i leghisti, avranno qualche chance. E’ ovvio che la comunità di riferimento di FLI non è la mia, sia chiaro…

  49. @WM2
    Ma se il mito tecnicizzato è quello che viene utilizzato consapevolmente per manipolare, allora, rispetto al mito genuino, io vedo una differenza non tanto nello strumento (la narrazione) quanto nell’uso che ne viene fatto, cioè nei fini del narratore. Provo a chiarire con uno degli esempi antropologici che mi sono cari :-)
    Se io racconto – in modo credibile – agli altri abitanti del villaggio che sono stato in cima alla collina e sono vivo per miracolo perché è infestata dai serpenti, nascerà il mito della Collina dei Serpenti. Se la storia è vera, il mito è genuino, e utile alla società. Se la storia è falsa, e me la sono inventata perché invece sulla collina ho scoperto un giacimento di pietre preziose di cui voglio godere solo io, il mito è tecnicizzato, ed è utile solo a me – finché non vengo scoperto. Ma la narrazione è la stessa.
    Se io prendo un mito genuino (supponiamo sia sempre la Collina dei Serpenti), e lo manipolo ai miei fini, raccontando ad esempio che i serpenti sono inviati dal dio di cui mi proclamo sommo sacerdote, ho ancora un mito tecnicizzato, che distorce un mito genuino.
    La differenza, però, in entrambi i casi, non riguarda il modo di raccontare una storia, ma proprio la storia in sè. Sostenere che “le narrazioni sono il nemico, perché manipolare una storia significa per forza manipolare chi la leggerà” è un’ingenuità, poiché qualunque forma di comunicazione ha un effetto su chi la riceve, e “manipolare” ha qui un’accezione negativa capziosa. Quindi non credo che il punto sia “indicare in che modo una storia manipolata riesce a non essere manipolante”, perchè:

    a) Qualunque narrazione è “manipolata”, in quanto soggettiva.
    b) Qualunque narrazione “manipola”

    Ma, piuttosto, è di volta in volta necessario entrare nel merito dei contenuti e degli scopi delle narrazioni.

  50. @alexpardi,
    Nel tuo esempio antropologico manca un passaggio fondamentale.
    Tu dici:
    “Se io racconto – in modo credibile – agli altri abitanti del villaggio che sono stato in cima alla collina e sono vivo per miracolo perché è infestata dai serpenti, nascerà il mito della Collina dei Serpenti. Se la storia è vera, il mito è genuino, e utile alla società”
    A parte la semplificazione eziologica, il punto è che dalla storiella dei serpenti non nasce PER FORZA, per generazione spontanea, il mito della Collina dei Serpenti. Da una storia vera, raccontata in modo credibile, non discende in automatico un mito genuino. Se l’indicazione “Non andate su quella collina” genera un mito che la giustifichi, il passaggio è tutt’altro che diretto.

    Rispetto al manipolare, bisogna capire cosa intendiamo.
    Quando (entrambi) diciamo che “Qualunque narrazione è manipolata”, io mi riferisco al significato 1.a del dizionario: “ottenere una determinata preparazione mediante l’impasto dei vari ingredienti”. Quando mi chiedo se può esistere una narrazione “non manipolante” mi riferisco invece al significato 1.b: “adulterare una sostanza A DANNO del consumatore”. In questo senso: 1) Non credo che qualunque narrazione sia manipolante; 2) Penso che la manipolazione dannosa non sia solo una questione di contenuto e di scopi, ma molto spesso anche di forma (infatti succede spesso che i contenuti siano prelibati, gli scopi nobili, ma la narrazione “tossica”…)

  51. Beninteso, lo so bene che non stiamo navigando al buio e senza bussola.

    Per esempio, a proposito di pars construens, possiamo già allineare alcune parole/azioni-chiave:

    – complessità (ritorno della complessità rimossa);
    – comunità di riferimento (ossia, non un discorso meramente teorico ma un’operazione di liberazione ed emancipazione soprattutto storica, reale, politica);
    – ri-assemblaggio degli elementi base come ri-mitizzazione alternativa al mito tecnicizzato.

    Ce ne sarebbero certamente altre.

    Su questo, pienamente d’accordo (diciamo che si tratta di una conferma, anche in prospettiva pragmatica, per quanto mi riguarda).

    Quanto alla fondatività di un mito, OK, non necessariamente coincide con la sua tecnicizzazione. Almeno, non è sempre stato così. Non tutti i miti fondativi sono miti tecnicizzati.

    Oggi questa coincidenza mi sembra più probabile (siamo un po’ meno “innocenti” che in passato, proprio perché meno “genuini”), ma non assoluta.

    Il Risorgimento, per come viene narrato e imposto nell’immaginario collettivo, dalla scuola alla televisione, mi pare che sia un mito tecnicizzato in funzione fondativa. Operazione riuscita così così, diciamo. Ma tant’è.

    Sulla Resistenza, va bene, non è affatto la stessa minestra. Ma siamo sicuri che il “mito” della Resistenza sia compiutamente e diffusamente fondativo? Mi pare di dedurre, anche dalle argomentazioni qui espresse, che non sia proprio così. Forse proprio per la sua natura non del tutto o nient’affatto tecnicizzata?

    Non potendo essere totalmente piegata a una logica di dominio, la Resistenza si presta male ad essere tecnicizzata. Ma nel mondo contemporaneo – che ci ha abituato a rifuggire la complessità – questa è anche una sua debolezza come possibile mito fondativo di un processo di identificazione condivisa. Infatti si cerca di usarla al contrario, semplificando e ricombinandone gli elementi in modo arbitrario, apparentemente disvelatore, ma in realtà politicamente orientato (alla Pansa, diciamo).

    Ma non è il mio campo, questo, né il centro dei miei interessi politici. Perciò me ne torno a esplorare quel confine, quella via di mezzo tra il vuoto di narrazione mitica e la tecnicizzazione del mito, cui accennava anche WM2.

    Grazie a tutti, comunque.

  52. Quindi la chiave narrativa dovrebbe servire a mettere in moto una macchina mitologica virtuosa? O meglio a tecnicizzare eticamente una mitologia già esistente ma magari in ombra?

  53. @WM2
    Accetto la metafora alimentare: una pietanza può essere dannosa sia per gli ingredienti sia per la preparazione, e le due cose sono indipendenti (posso cuocere a puntino dei funghi velenosi, posso carbonizzare uno splendido branzino).

    Per quanto riguarda la terminologia: sulle storie manipolate siamo d’accordo. Sul “manipolante”, invece, io intendevo il significato psicologico (che non ho trovato sul dizionario, ma su Wikipedia sì), di “indurre una persona a fare qualche cosa indipendentemente dalla sua volontà”, e credo che anche questo fosse il senso attribuito da Salmon. In realtà questa definizione mi pare scorretta (direi che è più vicina a “ipnotizzare”), e la sostituirei con: “modificare la volontà di una persona affinché faccia qualche cosa”. Ma questa definizione, più precisa, non ha un’accezione negativa come la precedente, e in questo senso la estendevo alla narrazione di storie in generale (o per lo meno di quelle che ci interessano: il saggio sul NIE chiudeva identificando lo “sforzo supremo di
    produrre un pensiero ecocentrico”). Tutto dipende dal come si cerca di convincere qualcuno, dalla cosa di cui si cerca di convincerlo, e dal perché lo si fa.

  54. da non-tecnico (in vita mia mi occupo di tutt’altro, sono un matematico), vorrei provare a capire attraverso un esempio. qui a trieste, come sapete, c’e’ un grosso problema di nazionalismo di stampo vetero-fascista (solo ieri, per dire, sono comparse scritte contro boris pahor). e’ dai tempi di illy che una parte della sinistra ha provato ad usare il mito dell’ impero asburgico sia in chiave antinazionalista, sia in chiave antileghista. (ma ho visto che bettiza usa lo stesso mito in chiave filoleghista). l’ operazione non mi ha mai convinto. i risultati secondo me sono stati negativi, perche’ l’ operazione ha portato ad un’ idea di multiculturalita’ ferma al 1914. per farla breve, sloveni, serbi, croati, ungheresi vanno bene, taliani, africani, asiatici, musulmani in genere no. allora mi chiedo se da quell’ immaginario si possa comunque cavar fuori qualcosa di buono, e l’ unica risposta che mi e’ venuta e’: lo sc’vejk di hasek. vorrei chiedere a voi, che siete “tecnici”, se lo sc’vejk possa essere considerato della buona epica.

  55. Scusate se gli ultimi scambi non mi hanno visto partecipe, sono in viaggio e mi collego giusto per vedere che non ci siano urgenze nella mail. Veloce, veloce:
    @ tuco
    la mia lettura del “buon soldato” è troppo vecchia per poter essere utile in questo frangente, ma se il soggetto è Trieste sotto l’impero austro-ungarico e non genericamente l’impero austro-ungarico (perché allora ce ne sarebbero di storie da recuperare e ri-raccontare, e voci da far risuonare, in primis Karl Kraus), mi viene da dire che forse andrebbero cercate storie di lotte del movimento operaio/portuale triestino tra XIX e XX secolo, voci di quel movimento multi-etnico, fogli di agitazione e riviste in cui si esprimano in modo forte l’internazionalismo e l’universalismo. A maggior ragione in una città che, allora molto più di oggi, era un “porto di mare” (e non solo letteralmente). In una biografia di Tito che lessi quando studiavamo per “54”, c’era un suo ricordo della prima volta che mise piede a Trieste, la sua eccitazione per la frenesia della città, il suo rimanere a bocca aperta per le dimensioni del porto…
    Sulle altre questioni, appena torno e posso mettermici con più calma.

  56. lo sciopero dei fuochisti del lloyd…

    quanto a sc’vejk, per me e’ sempre stata incredibile la risonanza che trovavo con i racconti di mia nonna, grande raccontatrice di storie, nata nel ’06 dalle parti di gorizia, che ha vissuto la grande guerra da bambina, passando da un campo profughi all’ altro nell’ impero in decomposizione.

  57. Ciao, se può interessare questo libro è la trascrizione di oltre mille lettere che due innamorati si sono scambiati fra Trieste e Graz, fra il 1902 ed il 1902 (sì, più di una al giorno a testa…): http://www.moltoesenzafine.it
    Si fa riferimento a molte situazioni di “subbuglio”, come appunto varie manifestazioni dei protuali represse nel sangue.

  58. Sveik è una buona traccia, non da narratore ma da studioso, segnalo che Jesi ha scritto un saggio che si chiama
    ‘Svejk e altri: le statue come destino’, (in Materiali mitologici, 19179, p. 281 ss.) nel quale contrappone il mito-politica al mito-letteratura mostrando la differenza tra «statua» e «uomo di carta» . L’immagine del ‘buon soldato’ del romanzo di Hasek viene definita Jesi «bidimensionale»: con «il ragionare, la furberia, il piacere di vivere, e quell’arte […] di arrangiarsi» , espressione di una «generica anarchia proletaria» Svejk è figura di carta che non può rientrare nel novero dei «grandi dinamitardi» i quali potrebbero divenire statue, a loro volta, seppur di segno politico inverso. Il poveraccio furbesco e individualista, versione aggiornata del picaro, è «inconsciamente sovversivo» ed è il miglior acido «corrosivo» contro il monumentalismo dell’ideologia trionfante: con il suo involontario sabotaggio del dispositivo bellico, condotto dall’interno con estenuante precisione, è in grado con la sua sola presenza di « “far crollare tutti i concetti d’autorità come Chiesa, Stato, esercito”» . La sua immagine, una figurina adesiva di album per bambini difficilmente esportabile fuori dalla dimensione letteraria , è capace di «distruggere la legge e il potere cancellandone il valore di epifania terribile […] perché le nega l’effetto di stupore epifanico su cui essa si fonda» . La sua goffaggine appartiene a una dimensione ironica che rende di per sé inservibile il pathos tragico insito nella manipolazione ideologica operata dalla propaganda con le figure del guerriero/protettore e terra/donna violata dal nemico e diviene l’antitesi della guerra/morte posta al centro del sistema simbolico della cultura di destra.

  59. PS

    certo ha ragione WM 1, Svejk è datato, e la mia analisi è storicizzante: il fatto che funzionasse allora come antidoto non vuol dire che possa funzionare ora; allora si trattava di avere un buon contravveleno, ora si tratta di trovare miti non tossici e ri-costruire comunità diverse da quelle da cui siamo usciti.
    Anche se da studioso (e insegnante) ci provo sempre a riproporre quelle cose su cui la nostra generazione ha imparato a rifiutare le ‘canzoni da organetto’ e, la sua parte più lucida e capace ha cercato nuove strategie retoriche e comunicative.
    Ad esempio quando leggo Jenny dei pirati nel Brecht de ‘L’opera da tre soldi’ provo ancora brividi lungo la schiena: quello è mito, non è tecnicizzato e mi sembra funzioni per ogni epoca. Se un giorno Sanguineti non avesse detto alla radio che era la sua cosa preferita di Brecht non l’avrei mai scoperta, probabilmente
    Risorgimento: qualcuno ha letto ‘Daghela avanti un passo’ di Bianciardi (Bietti, 1969)?
    Sto per iniziarlo e a occhio potrebbe essere materiale che fa al caso nostro.

  60. ma infatti l’ idea che mi gira per la testa non e’ tanto “sc’vejk come antidoto al militarismo etc”, quanto “sc’vejk come antidoto alla versione patinata e piccolo-borghese dell’ impero austroungarico e della mitteleuropa”. (e qui c’entra anche il discorso su bettiza).

    p.s. la vita stessa di hasek e’ molto interessante: plebeo, ubriacone, anarchico, soldato sul fronte russo, disertore, passato poi coi bolscevichi e infine tornato a praga e trattato da traditore.

  61. Premetto: non sono un esperto di Jesi. Ho preso in mano solo di recente letteratura e mito, e per la tesi triennale ho dovuto leggere qualcosa di suo sull’illuminismo, “Mitologie intorno all’illuminismo”. Nulla di più. Ma sull’occorrenza musicale ho fatto i miei pensieri in questi giorni, e provo a esporli qui, sperando siano dei contributi non inutili.
    Da quando ho letto l’enorme librone di Simon Reynolds (Rip it Up and Start Again: Postpunk 1978-1984) oltre a Please Kill Me, mi viene sempre in mente il punk dei Sex Pistols come un esempio piuttosto recente di mito tecnicizzato andato male. Erano dei manichini per i vestiti di Vivienne Westwood, perlomeno nelle intenzioni di chi li aveva reclutati. Eppure alcuni di loro sono usciti dallo schema (uno su tutti Rotten, più furbo e sveglio del previsto), hanno ispirato una serie infinita di gruppi (Joy Division su tutti) che sono ancora adesso un tesoro, musicalmente parlando (e per quel che mi riguarda). Questo mi ha fatto riflettere su una possibile dialettica fra mito tecnicizzato e mito genuino, in cui ogni nuovo passaggio è una sintesi dei passaggi precedenti: mi viene in mente la diatriba su Giorgio Marincola, o quella sulle foibe (per ritornare alla resistenza). Come se la rivitalizzazione del mito “dipendesse” (non mi viene un altro termine migliore, per ora) da un suo tentativo di tecnicizzazione, o di formalizzazione didascalica: ogni volta che si prova a contenerlo, il mito scappa da tutte le parti e crea nuovo épos. Se l’Inconscio caga, fotte e piscia, il mito non è da meno, e non è comprimibile. Ogni volta che viene costretto scarica nuove deiezioni. Ovviamente riferendosi al mito ci si riferisce a degli autori singoli e/o a dei collettivi più o meno grandi che a tali miti danno voce.
    Mi chiedo, a questo punto: è possibile parlare di dialettica negativa dei miti, che si oppone a ogni forma di costrizione e metodo loro imposta? Piuttosto che di miti velenosi e non, ha senso parlare di buone prassi della narrazione del mito? Mi sembra che una possa essere fornire i materiali necessari a incrinarne la perfezione.

  62. Ho appena terminato di ascoltare tutti i file (ci ho messo un po’…) Bellissima conferenza, molto chiara, mi è piaciuto molto il modo in cui avete trattato la questione dell’epica. Ovviamente, sono estasiata dal riferimento ai Led Zeppelin :)
    Inoltre, finalmente ho l’opportunità di dire che sono una fanatica del mesmerismo!

  63. […] È vero. Da due settimane il blog è fermo e le statistiche degli accessi precipitano vertiginosamente. Del resto quando “si campa” di visite come la mamma-la morosa-l’amico (non sto scherzando) e me stesso quando passo di qui (mi rifiuto come homepage), non scrivere equivale a togliersi l’ultima-unica finestra aperta ai click casuali del mondo: la pagina twitter di autistici.org. Tornando a noi, l’impeto del ritorno della didattica il 5 ottobre, ha inferto un duro colpo al mio proposito di un ‘blog settimanale’ (anche le citazioni sono ferme… vabbè!). Per le difficoltà di cui sopra, scarico tre colpi (di cui un paio “a salve” che porta sempre bene) non più tanto freschi, in elogio al frattempo wuminghiano. […]