Quello nella foto è il “Book Bloc” di Londra, 9 dicembre 2010.
La prassi nata a Roma è arrivata Oltremanica. Nella terza “Giornata X” (DayX3) del movimento contro i tagli all’istruzione, il Book Bloc è stato protagonista del tumulto di Parliament Square.
Lo scrittore Jay Griffiths ha visto un suo libro (Pip Pip: A Sideways Look at Time) trasformato in scudo e – come avevamo fatto noi nell’intervista a “Il Fatto quotidiano” – ha commentato il momento di epifania. Lo ha fatto in un breve articolo sul Guardian. La frase-chiave? “I libri non erano solo sulle barricate: erano essi stessi le barricate.”
Mentre a Londra c’erano gli scontri, sfilava un Book Bloc anche a Genova.
Nella rappresentazione pubblica dei movimenti, mai s’era data ai libri una tale importanza. Certo, è già accaduto che un libro fosse portato in piazza: il “Libretto rosso” di Mao Zedong. Ma, appunto, era un libro, sempre lo stesso, agitato come testo sacro. Oggi, invece, la metafora dei “libri come armi” si concretizza con una molteplicità di riferimenti e una densità di significati che, a nostra memoria, non hanno precedenti. Vedere un celerino che si accanisce a manganellate contro un classico del pensiero, beh… E’ una cosa che non ha prezzo!
La proposta di estendere la pratica a tutti i dimostranti che convergeranno su Roma il 14 dicembre (o almeno a molti di essi) tende a estinguere la separazione in componenti e “spezzoni”. L’idea di promuovere una consultazione su quali libri portare sugli scudi è un momento di pura bellezza. Da scrittori, non possiamo che gioirne.
Solo che bellezza e gioia non possono far dimenticare le necessità strategiche. In vista della scadenza di domani, riproponiamo un nostro vecchio frammento (2003):
«[…] La voce “Guerrilla”, scritta da T.E. Lawrence per l’Encyclopaedia Britannica nel 1929, è disponibile in traduzione italiana negli “Euro” di Stampa Alternativa. Un libretto dal prezzo più che esiguo, poco più di un caffè, eppure non circola quanto dovrebbe.
Del resto, gli scritti di Guevara o di Vo Nguyen Giap sulla guerra di guerriglia sono in fondo al dimenticatoio, come l’apologo della tigre e dell’elefante di Ho Chi Mihn. L’arte della guerra di Sunzi è citato da molti, sovente a sproposito. Sconosciuti risultano Il libro dei cinque anelli di Musashi Miyamoto o Le Trentasei Strategie di Anonimo cinese.
L’ottava strategia dice di “attraversare il passo al buio”. Nella spiegazione di Thomas Cleary: “Stabilisci un falso fronte, poi penetra nel territorio nemico da altre direzioni”. La quattordicesima strategia dice di “fare uso di un cadavere per evocare uno spirito”. Ancora Cleary: “Non usare ciò che usano tutti, ma ciò che nessuno usa.” Sarebbe a dire: non usare un’opzione abusata e sputtanata e sclerotizzata.
Senza andare troppo lontano, molte testimonianze scritte sulla guerra partigiana che si celebra tutti i 25 d’aprile contengono precise istruzioni su come non cadere nella trappola clausewitziana del “contarsi” in vista della battaglia campale, dell’urto frontale risolutore.
Riluttanti, tocca combattere in campo aperto, cercando con le code degli occhi vie di fuga (“la fuga non è una sconfitta”), mentre generali allucinati sognano le Termopili. Cercare vie di fuga, daga alla mano, recitando come un mantra la strategia 35, “inganno dei cerchi concentrici”: quando affronti un nemico potente, non concentrare tutte le risorse su una sola linea strategica; mantieni contemporaneamente diversi piani d’azione in uno schema generale.
Diversi piani d’azione. Il mondo continua a esistere, oltre i lembi della battaglia campale, oltre la gola dove qualcuno vorrebbe bloccare i Persiani (che intanto – loro sì – applicano l’ottava strategia).
La vita è altrove, e la lotta anche. Come diceva qualcuno: la comunità umana è il nostro ghetto di riferimento […]»
In parole povere, speriamo che questo movimento non ripeta l’errore che facemmo noi (il movimento di dieci anni fa) andando a Genova: quello di concentrare tutti gli sforzi sulla Grande Scadenza, di concentrare l’offensiva su un solo punto, seppure cruciale (ieri il G8 a Genova, oggi il giorno della mozione di sfiducia a Roma). Ci auguriamo che questi studenti siano più intelligenti di quanto fummo noi, e che nei loro spazi si stia già preparando il post-14. Ci auguriamo, insomma, che non si riproponga in extremis la metafora dell’Assedio. Chi ci segue da tempo conosce la nostra analisi sulla perniciosità di tale metafora; chi ancora non l’avesse letta, può trovarla qui.
L’ubiqua prova di forza del 24 e del 30 novembre, con azioni in tutte le città, ha avuto più impatto e conseguenze di qualunque mega-manifestazione nazionale degli ultimi anni.
A Bologna, qualche notte fa, le statue sono tornate a parlare.
Lo avevano già fatto in una notte del 2001, ma stavolta non si limitano a dire: “Tutti a Genova!”. Stavolta enunciano un proposito che va oltre la scadenza: “Resisteremo un minuto più di voi”.
Un minuto in più. E’ il tempo sufficiente. Ma per vivere quel minuto servono determinazione, amore e astuzia.
E prima, durante e dopo quel minuto, non dimentichiamo mai l’esigenza, la consegna, l’imperativo, la prassi fondativa primaria: collegare le lotte, perché sono tutte una lotta sola.
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Questo è l’intervento di Tariq Ali alla SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra, occupata dagli studenti.
A volte viene da chiedersi a cosa serva un comunista. Ad esempio a fare un discorso di verità:
– Non dovete credere a chi vi dice che non ci sono soldi per lo studio e per la salute: quando si tratta di salvare una banca o di fare la guerra i soldi li trovano sempre.
– Il problema non è governo liberal-conservatore contro governo laburista, perché le politiche dei tagli sono iniziate con la sinistra al governo.
– Senza lottare non si è mai ottenuto nulla, il luogo comune della “moderata e conservatrice” Inghilterra confonde strumentalmente la moderazione con la repressione delle rivendicazioni sociali. L’Inghilterra è il paese dove per la prima volta è stata tagliata la testa al re; dove è nato il movimento operaio; quello per i diritti della donna, etc. La lotta collettiva, gli scioperi, gli atti organizzati di disobbedienza civile, sono ciò che ha portato alle conquiste formali e sociali. Quindi la lotta paga.
– E’ vero che la riforma in parlamento è passata: ma è meglio essere sconfitti dopo aver lottato che essere sconfitti senza lottare. Perché se lotti e vieni sconfitto, torni a casa e ci rifletti sopra, capisci dove hai sbagliato e sei pronto a tornare a lottare.
– Gli studenti dei vari istituti devono coordinarsi tra loro e poi coordinarsi con i sindacati e con i pensionati. Non bisogna mai commettere l’errore di relegare la propria lotta a se stessi, di pensare che si sta lottando soltanto per la propria condizione o categoria, perché le lotte di tutti sono collegate: quindi c’è bisogno di una cornice/narrazione comune.
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Il 3 dicembre scorso Girolamo De Michele (autore del libro La scuola è di tutti, Minimum Fax, 2010) ha accolto l’invito della FAF (Facoltà di Architettura di Ferrara) occupata, ha incontrato gli studenti in lotta e parlato di quel che sta succedendo. Il video dell’incontro è on line qui.
[Il video vero e proprio comincia al minuto 16’30”, non chiedeteci il perché.]
Ricordiamo che l’audio della presentazione bolognese del libro di De Michele (con Wu Ming 1 e Mirco Pieralisi) è ascoltabile/scaricabile qui.
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Sempre a proposito di come raccontare le lotte: sul sito Materiali foucaultiani c’è un’intervista a Wu Ming 1 sul “giornalismo filosofico”. E’ un’intervista doppia (sul sito è definita un “forum”), perché le stesse domande sono state rivolte (all’incirca un mese fa) a WM1 e a Sandro Chignola, docente di filosofia politica a Padova. Anticipiamo l’ultima risposta:
«…per quanto mi riguarda, ogni espressione è “militante”: militia est vita hominis super terram. Ogni produzione discorsiva e testuale è potenzialmente conflitto, resistenza, politica. Certo, il lavoro teorico può ridursi a vaniloquio incomprensibile e incapace di incidere, per questo torna utile (anzi, è necessaria) la mappatura di quella zona di convergenza tra archivio e strada. Nel memorandum sul Nuovo Epico scrivevo che a farci tornare in quella zona è un “desiderio feroce”. È il desiderio di tenere il culo in strada, anche mentre si “vola alto”. Può sembrare la quadratura del cerchio, e in effetti lo è. Siamo nel mondo tangibile, dove il cerchio esiste come oggetto solido, fatto di qualche materiale. Un cerchio di ferro, ad esempio. Per trasformarlo in quadrato, serve qualche colpo di martello ben assestato. Bisogna imparare a usare il martello. Giornalismo filosofico a colpi di martello. Lo aveva già detto Nietzsche, in fondo. Il problema è che non siamo gli unici a usare questo utensile, anzi! Altri soggetti, ben più potenti di noi, vogliono afferrare oggetti e imporre loro certe forme. I loro martelli sono più grossi dei nostri? Può darsi. Proprio per questo, perché per le strade c’è disparità di forze (e monopolio legale della violenza), vanno inventate, apprese, insegnate nuove arti marziali concettuali. Si dice che i calci volanti del Tae kwon do furono inventati affinché un appiedato potesse disarcionare un guerriero a cavallo. Si dice che il silat, arte marziale indonesiana che si combatte soprattutto a terra (inginocchiati, accovacciati, avvinghiati all’avversario), si sia evoluto in quel modo per annullare il vantaggio fornito all’avversario da una maggiore statura. Non so se sia vero, ma sono buoni esempi. Serve fare qualcosa del genere. E servono “alleanze tra locutori”. È una guerra, uno non può combatterla da solo. Sogno un “giornalismo filosofico” che sappia frequentare i picchetti operai di questi giorni, le lotte contro le discariche, i sit-in anti-TAV, le intemerate dei pastori sardi incazzati. Sogno un baratto di parole e azioni, tra soggettività diverse, intorno ai fuochi che scaldano i presidi notturni.»
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Per finire: sabato 11 dicembre abbiamo presentato al Modo Infoshop di Bologna, insieme all’autrice e alla semiologa Giovanna Cosenza, il libro di Loredana Lipperini Non è un paese per vecchie (Feltrinelli, 2010). Serata ricca di spunti: la discussione (durata più di due ore) si è concentrata su tre tabù, tre interdizioni, tre rimozioni che orientano il discorso pubblico nel tardo capitalismo. Tre cose di cui si deve parlare il meno possibile: la vecchiaia, il morire e la divisione della società in classi. Numerosi i riferimenti, diretti e indiretti, alle lotte in corso, a cominciare – com’è ovvio – da quella degli studenti. Nei prossimi giorni metteremo on line l’audio della presentazione.
Grazie! Avevo seguito tutti i “pezzi” di questo post su Twitter e mi ronzavano in testa da un po’. Grazie di averli messi insieme e grazie del consiglio. Per martedì e il post-X, speriamo..
[…] This post was mentioned on Twitter by bituur esztreym and spleen, Giovanna Tinunin . Giovanna Tinunin said: RT @Wu_Ming_Foundt Quadratura dei cerchi concentrici – #nogelmini #bookbloc #demo2010: Quello nella foto è il… http://goo.gl/fb/Acoij […]
Speriamo. Speriamo davvero.
Rispetto al 2008 ci sono stati dei passi in avanti, il che è un buon motivo per sperare.
Ma premesso che non ho ben capito cosa si stia chiedendo a questa nuova Onda, e in generale a tutti gli altri focolai di lotta, nutro comunque l’impressione che tutti questi movimenti di protesta stiano coinvolgendo ancora troppo poche persone direttamente (e indirettamente) interessate.
Se quando vai a manifestare è presente il 5% dei diretti interessati, si può davvero pensare di ottenere qualcosa?
@ Ekerot
credo che a questa nuova onda “si stia chiedendo” innanzitutto di bloccare (non da sola, chiaramente) controriforme che vanno a intaccare diritti sociali fondamentali, smantellano altri pezzi di welfare (cioè di conquiste ottenute nei passati cicli di lotte), e fanno pagare la crisi a chi già la subisce anziché a chi l’ha provocata.
Un’altra e non meno importante domanda che a questo movimento viene fatta, e che mi sembra abbia già ottenuto una prima risposta, è: siete in grado di dimostrarci che non tutto il Paese è sotto narcosi, e che il conflitto sociale può erompere e trovare forme d’espressione efficaci?
Quanto al 5% che va alle manifestazioni, tu la dài come percentuale bassa, ma in realtà è alta. Se pensi che il campione statistico dell’Auditel è composto da 5.200 famiglie, cioè circa 14.000 persone su sessanta milioni di italiani…
L’Università di Bologna ha 81.000 iscritti. Il 5% di 81.000 è circa 4000 persone. A Bologna una manifestazione studentesca di 4.000 persone è una manifestazione più che riuscita. Per dire, quattromila persone quasi riempiono Piazza Maggiore, che è circa 6000 mq.
Del resto, se scendessero in piazza *tutti* gli iscritti all’Alma Mater Studiorum, la città non potrebbe nemmeno contenerli.
In Italia ci sono circa sette milioni di operai dell’industria. Il 5% di sette milioni è 350.000. Una manifestazione nazionale di trecentocinquantamila operai sarebbe, giustamente, considerata un grandissimo successo.
l’idea (bellissima a mio modo di vedere) di far “parlare” statue, ovvero oggetti inanmati ma perfettamente rappresentativi di soggetti che non possono esprimersi (perche’ di pietra) non e’ una novita’ ma e’ stata a ripresa da vari movimenti piu’ volte. forse i capostiti e quelli che l’hano fatto in maniera piu’ eclatante ono stati quelli di Terra!, un’associazione ambientalista, qualche anno fa. Vi mando due link per conoscenza:
– http://www.youtube.com/watch?v=fUz67a6Ddo8
– http://www.terraonlus.it/it/immagini/category/4-150-statue-a-roma-dicono-no-alla-co2
ciao
Kuka
@ kuka
spiacente di “deluderti”, ma i capostipiti non sono stati quelli di Terra!, la cui azione è del 2008. Noi (come da link inserito nel post qui sopra) l’avevamo fatto nella primavera del 2001 :-) E l’azione di qualche notte fa citava espressamente quella di allora. Questo solo per amor di precisione, s’intenda: l’importante è che le pratiche si diffondano, non chi ha avuto l’idea per primo. Anche perché il primo, a essere rigorosi, fu Pasquino. Anzi, probabilmente nemmeno lui!
purtroppo già mi vedo la scena, una viuzzola che porta al senato con i celerini, tutte le altre chiuse e sbarrate, centomila persone che ci sbattono la testa contro e cento giornalisti che descrivono le cariche. ma roma è grande e se i persiani si barricano nella zona rossa significa che c’è una città intera sguarnita.
In Q sarebbero passati dalle fogne, come in altri contesti in stazione centrale ci si poteva sbucare dal tunnel della ferrovia sub-urbana. Sarebbe stato epico, ma forse solo su un romanzo che, appunto, è fiction.
a proposito: voi che fate?
E’ davvero da un sacco di tempo che speravo di postare qualcosa di sensato nel vostro blog. Questa è l’occasione giusta, visto che ho partecipato in prima persona alle mobilitazioni contro il DDL Gelmini.
Per essere breve, credo che un dato fondamentale non citato nel vostro articolo (giustamente, perchè sarebbe off topic) ma tangente alle riflessioni lì esposte sia il livello di identificazione che hanno avuto le persone con la protesta.
La modalità dei blocchi, spesso e volentieri anche molto estesi, efficacissima visto il numero ridotto dei partecipanti e l’urgenza dell’obietto, ha riscosso un inaspettato successo con la gente comune. Il livello di condivisione, persino da parte della stampa, da sempre pronta a scattare contro qualsiasi minimo spostamento dalle regole del gioco, è stato altissimo. Tra tetti delle facoltà, book blocks e blocchi metropolitani, ci si è conquistati uno scenario mediatico prima inesistente, mentre le persone hanno solidarizzato in strada con chi gli causava disagi.
Uno scenario che fino a pochi mesi fa era impensabile, e che durante l’Onda era assolutamente inimmaginabile.
@ Johnny
noi attraversiamo il passo al buio, e usiamo un cadavere per evocare uno spirito. Cioè: saremo altrove, prenderemo un’altra via, useremo altri strumenti. Da quando è iniziata questa marea, stiamo molto attenti a non essere invadenti, a non immischiarci, a non sovradeterminare, a non “tecnicizzare” miti. Con la Grande Scadenza abbiamo già dato, e… non abbiamo dato molto di buono. Stiamo “out of the balls” e diamo il nostro contributo, cioè a modo nostro.
WM1: domanda da ignorante. Ma quando ci fu in Francia l’idea di attuare una legge che scardinasse il mercato del lavoro – come è successo a noi tramite con la legge Maroni -, rammento di settimane di protesta tra studenti e lavoratori, ecco quale fu, più o meno, la percentuale di accoglienza di tale manifestazione?
Se non erro, mi pare che poi il governo francese fece dietrofront.
All’epoca almeno dagli articoli di giornale che lessi sembrava che la società francese, anche non direttamente interessata (per quanto possa esserlo su una riforma del lavoro) rispose alla grande.
Non è forse, anche questo, un segnale che quest’Onda dovrebbe ottenere?
Trovo interessante la discussione sui numeri e le percentuali dei manifestanti.
Sto partecipando attivamente al movimento a Perugia e dopo la manifestazione del 30 novembre con più di mille persone, 7 ore di manifestazione, blocco delle strade “selvaggio” (non autorizzato) con due diversi cortei ed occupazione dei binari della stazione (mai successo a perugia), ed alla fine in molti a dire che eravamo troppo pochi e non andava bene.
La motivazione era il rapporto numerico tra i manifestanti e il numero degli iscritti all’università
Secondo me c’è un transfert tra la logica referendaria o elettorale, dove si deve raggiungere un quorum o una percentuale, e il conflitto in piazza.
Anche il commento sopra mi rimanda a questo tipo di ragionamento.
L’ “errore” logico secondo me sta nel confondere un voto o un click “Mi piace” e la partecipazione di piazza dove ti metti in gioco interamente con il corpo ed anche con una certa fatica fisica e pericolosità.
In Inghilterra i numeri della protesta sono molti minori rispetto all’Italia ma la protesta è comunque incredibile visto:
-le precedenti mobilitazioni di piazza in Inghilterra
-la radicalità
-i nuovi soggetti attivi
-mediacità (aggredire la macchina di carlo e camilla non ha prezzo)
-e molto altro
Ovvio qua a Perugia, e altrove, c’è tutto da migliorare e mille errori da correggere ma secondo me questo gioco dei numeri e del contarci è riduzionista e demoralizzante.
E’ come valutare una persona con dei numeri come a scuola e nell’università, perdi interamente di vista la qualità di ciò che si sta facendo riducendolo ad una soglia numerica.
E’ il volto feroce del merito e della meritocrazia, ridurti ad una misura, ad un numero
Propongo di rileggere Georges Canguilhem
Sono d’accordo con Situative. C’è una fallacia logica dietro l’impressione che i numeri ai cortei siano “bassi”, ed è una fallacia di cui siamo vittime tutti quanti, ogni giorno. Una fallacia… mercatista, aziendalistica, ma anche “sondaggistica”, opinionistica, orientata alle classifiche etc. E’ una distorsione che chiamerei “dei numeri che ovunque li metti sono uguali”, ovvero l’idea che si possano traslare direttamente le “prestazioni” (e quindi i risultati) da un contesto a un altro diversissimo.
Anche il raffronto tra Italia e Francia credo che non possa avvenire per traslazioni dirette, soprattutto per quanto riguarda un dato sfuggente e imprevedibile come la partecipazione di quali categorie a quali lotte, cioè: il fatto che diversi soggetti percepiscano una lotta iniziata da altri come la *loro* lotta. La Francia ha una storia diversa da quella dell’Italia, e quest’ultima vive una situazione peculiarissima. Tant’è che il berlusconismo si è prodotto qui da noi, non Oltralpe (anche se i “cugini” ne hanno importato alcuni tratti, cosa di cui negli ultimi tempi si rendono conto con crescente disappunto).
Detto questo, @ Ekerot:
sì, hai ragione, non c’è dubbio che quello che dici è un risultato da ottenere. E’ sempre la questione della “cornice che accomuni”, della narrazione comune, del collegare le lotte.
[…] I en els seus blogs, en parlen alguns dels autors “citats” al carrer: els italians Wu Ming, per Q (publicat amb el seu primer pseudònim, Luther Blisset), i la britànica Jay Griffiths, per […]
I RISULTATI DELLA CONSULTAZIONE SUL BOOK BLOC DI DOMANI :
1. La volontà di sapere – Foucault
2. 1984 – Orwell
3. Il cavaliere inesistente – Calvino
4. L’origine della specie – Darwin
5. Noi saremo tutto – Evangelisti
6. L’etica – Spinoza
7. Fahrenheit 451 – Bradbury
8. Fight Club – Palahniuk
9. Il dottor Zivago – Pasternak
10. In ogni caso nessun rimorso – Cacucci
11. La divina commedia – Dante
12. Q – Luther Blissett
13. Cosa può un corpo – Deleuze
14. Manifesto cyborg – Haraway
15. Casino totale – J. Izzo
16. Odissea – Omero
17. La tempesta – Shakespeare
18. Shock economy – Klein
19. Comici, spaventati guerrieri – Benni
20. I demoni – Dostoevskij
(da http://www.uniriot.org )
FOTO FENOMENALE
http://bit.ly/fTFNfR
[…] This post was mentioned on Twitter by Simona Sorrentino, valentina avon. valentina avon said: RT @Wu_Ming_Foundt Per #bookbloc di domani: i risultati della consultazione popolare http://bit.ly/dW2zzx […]
Impagabile la foto di “Spettri di Marx” manganellato. Grazie. E ottava strategia, perché gli spettri di via Tolemaide non tornino. Lo scontro frontale è una logica da sconfiggere.
“Ogni volta che scrivo una parola, capisci, una parola che amo e che amo scrivere, il tempo di quella parola, l’istante di una sola sillaba, il canto di questa nuova internazionale sorge allora in me. Non gli resisto mai, sono in strada al suo richiamo, anche se apparentemente, dall’alba, lavoro in silenzio alla mia scrivania” (J. Derrida).
Ciao. E’ la prima volta che intervengo in questo blog (ma anche in un internet blog in generale) e mi sembra corretto che mi presenti brevemente.
Sono insegnante, per scelta, da quasi un decennio (prima ho trascorso qualche annetto in collaborazioni redazionali, quindi, mentre anche io mi stavo dando da fare in una parte del movimento che ‘culminò’ poi in Genova 2001, ho lavorato per un po’ nella ‘rete’ delle biblioteche universitarie della mia città). Negli ultimi anni, già insegnando, ho elaborato i progetti e partecipato alla stesura di alcuni testi di manualistica scolastica che hanno avuto un buon riscontro (e se ne avremo l’occasione mi piacerebbe che si potesse discutere anche circa la totale assenza di qualcosa di simile a un “humus da dibattito culturale” alla base, intorno e a valle del processo di produzione dei testi scolastici oggi, ma per ora lasciamolo OT).
[per WM1: io ti ho visto all’ultima rappresentazione di Altai Lyric version, e ora so ‘chi’ sei tu, ma non credo proprio tu possa dire altrettanto di me: che dici, sono in vantaggio?!]
Ma basta di me. Vorrei qui intervenire su questo: son diversi anni che nel dibattito culturale (ad es. Morin) e in quello lato sensu politico (movimento dei movimenti, nuovi stili di vita, MAUSS e decrescita ecc. ecc.) ‘ci’ diciamo che il paradigma del post-umano (lo nomo così per brevità, rubando a voi la def.!) gode del vantaggio della semplicità e della possibilità di tracciare i propri ‘testi’ con poche linee di un nitore essenziale (e non sempre rozze, purtroppo, anzi fors’anche talora, accidenti, più facilmente attingenti la bellezza?), mentre il paradigma della sostenibilità, della irriducibile complessità ecologica, del grado di civiltà che si misura dalla sua capacità di (ri)coinvolgere gli esclusi, di una scuola che si proponga prioritariamente di promuovere un apprendimento cooperativo vivendo il quale gli alunni maggiormente deprivati possano conseguire non tanto le competenze ‘sufficienti’ (siano dannati i 9/10 dei miei colleghi ‘valutatori folli’!) quanto quelle che permettano loro di partecipare alla vita civile; il paradigma insomma cui questo blog fa riferimento, è ‘difficile’, fragile, necessariamente più cedevole agli inesorabili attacchi dell’entropia…
Cavolo, sapete che non mi ero reso conto, finché non mi son confrontato con le vostre stupefacenti tenacia ed energia, di quanto, dentro, fossi abbattuto dalla constatazione che, causa l’irriducibile complessità del paradigma in cui credo, la lotta nel campo del post-umano è davvero molto, molto difficile… E vi garantisco che, sia pure cambiando spesso fronti e trincee, non ho mai mollato un giorno! Insomma, secondo voi le ‘armi’ a cui non vogliamo e non possiamo rinunciare (meravigliosa anche per questo, ovvio, la metafora dei book bloc) davvero possono vincere contro le Armi vere (ormai fra l’altro sempre più impersonali)? Insomma, cacchio, ce la faremo, prima o poi?
Credo non sfugga a nessuno di coloro che leggono, e chiudo, che qui intendo la complessità e la sua irriducibilità non mai come un limite, ma come un valore, pena il tradire l’umano che è in noi – e l’umano inteso anche, alla nativi americani (buon nuovo lavoro ai WM!), come umano-in-un-cosmo-naturale…
Passo.
Solo per notare che in sto giro nel book bloc i libri d’autori italiani sono cresciuti in presenza, aggiungendosi autori che, fra l’altro, sono ancora in vita… ed è bellissimo che il più voluto sia stato La volontà di sapere di Foucault… :-)
«A group of demonstrators, dubbed the “book bloc”, brought giant polystyrene shields to the protest, each covered and painted to look like a famous work of philosophy, political theory or literature. Alongside titles by Hegel, Derrida, Adorno, Badiou, Debord and Orwell was Just William, ironically understating the ensuing conflict between the civil disobedience of the young and the full weight of the Metropolitan police. When the two sides clashed on Whitehall, the book bloc’s attempts to counter police force with thought created images that were both powerfully symbolic and disarmingly tongue-in-cheek (even in footage released by the police). They certainly give the lie to the popular conception that those involved in police violence are mindless thugs.»
http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2010/dec/14/student-protest-surrealism-art
A botta calda: l’assedio, la grande calata a Roma, l’ora X, la scadenza cruciale, la giornata campale… Questo frame non funziona.
Le giornate del 24 e, soprattutto, del 30 novembre hanno espresso una potenza e fantasia che il frame dell’assedio mortifica.
Last but not least, la Grande Scadenza incentiva il parassitismo di chi usa un corteo per farsi i cazzi propri sotto i riflettori.
E come scrive @j0hngr4dy su Twitter:
«Questo frame ne causa un altro bello potente: “E ora?” (come la scena finale di “Alla ricerca di Nemo” della Pixar).»
La cosa più sconcertante è che la borsa di Milano è in rialzo. Sconcertante, ma tristemente prevedibile.
La Borsa ragiona sul breve periodo, alla giornata: per il suo modo di “pensare”, un governo che evita la sfiducia per 3 voti comprati e rimane appeso a un filo di bava, guidato da un vecchio in sfacelo fisico e politico mentre fuori il Paese è in malora, è comunque un governo che “si è salvato”. “Stabilità”. Poco importa se durerà a lungo o solo qualche settimana.
Più grave mi sembra il dato di un movimento che, dopo settimane di lotte condotte con intelligenza e fantasia, si ritrova a subire la coazione a ripetere. E non è una questione di “violenza”, chissenefrega: gli scontri c’erano anche prima. Ma incorniciare la lotta insieme alla mozione di sfiducia, trasformare il voto in parlamento in una Grande Scadenza del movimento, ha tolto autonomia alla mobilitazione, convogliato le energie in un punto solo, prestato il fianco a parassitismi… Insomma, ha avuto le conseguenze che temevamo. Il frame dell’assedio secerne pus nero. Ora incrociamo le dita per tutti quelli che sono in quelle strade: primum vivere, deinde ragionare su errori e strategie.
Si, prima di tutto l’empatia con chi è in strada.
Sì, la vocazione romanocentrica della manifestazioni è sempre dannosa (ahinoi). Quanto è stato forte vedere il 30 Novembre sui siti il rimpallo delle azioni di protesta da una città all’altra?
Poi Roma è la tana del lupo. E’ grande per accogliere milioni di persone, ma ti dà un malus di -20 prima di cominciare…
@ Ekerot
Non è che dieci anni fa la vocazione genovacentrica portò molto meglio. Il problema non è tanto Roma, quanto l’accentramento, appunto. E soprattutto il “frame” del Grande Assedio. E’ mille volte più efficace manifestare dovunque – come nei giorni scorsi e come sta succedendo anche oggi, in molte città italiane -, perché invece di concentrare la forza e l’aspettativa in un unico punto, la sprigiona in lungo e in largo, dando un’idea di onnipresenza. Di sicuro quando si è dovunque non c’è testa o coda del corteo che possa essere monopolizzata dai soliti tristi figuri neroincappucciati.
Detto ciò, ovviamente:
1) solidarietà a chi è in strada adesso, in mezzo all’inferno;
2) ogni movimento ha il diritto di tentare e sbagliare. Noi per primi, a suo tempo, non sapemmo fare meglio.
Solidarietà a chi è in piazza ora. Ma i “soliti tristi figuri neroincappucciati” e la logica da scontro finale in cui ci si fa dettare dal nemico terreno, tempi e modalità di lotta, rischiano di distruggere quello che le lotte delle scorse settimane erano riuscite a costruire.
@ Simone
non si esce dalla coazione a ripetere.
@ Simone Regazzoni & Wu Ming 1
Appunto, noi non sapemmo fare di meglio, quindi più che dare il consiglio non richiesto di cui sopra (cambiare frame), derivato dall’esperienza, non possiamo. Sì, la coazione a ripetere, ma nulla si ripresenta mai uguale a se stesso e io non ho saggezza da dispensare. Del resto so che se fossi a Roma, probabilmente sarei là in mezzo.
@ WM4
Stavo per aggiungere un commento molto simile al tuo. Noi proiettiamo parte della nostra esperienza su quanto sta accadendo. Oltre alla solidarietà, a chi è andato in piazza va tutta la mia simpatia umana. Nei prossimi giorni assisteremo a vere e proprie cacce all’uomo, mediatiche e giudiziarie, accompagnate dalle solite sghembe e ridicole analisi “sociologiche” sulla rabbia di una generazione, etc. Anche allora occorrerà essere solidali e far sentire una voce.
Pare proprio che abbiano fermato/arrestato uno del Book Bloc, quello che portava sullo scudo “Uno nessuno e centomila” di Pirandello. Almeno, si ha quest’impressione guardando questo video (dopo il terzo minuto):
http://www.youtube.com/watch?v=K1ik3ptQnrM
Foto dal sito de La Stampa
http://www.lastampa.it/multimedia/multimedia.asp?p=1&pm=7&IDmsezione=9&IDalbum=33358&tipo=#mpos
http://www.lastampa.it/multimedia/multimedia.asp?p=1&pm=9&IDmsezione=9&IDalbum=33358&tipo=#mpos
http://www.lastampa.it/multimedia/multimedia.asp?p=1&pm=10&IDmsezione=9&IDalbum=33358&tipo=#mpos
Curioso… il sito di Repubblica online continua ad etichettare come “teppisti” i manifestanti che si sono resi protagonisti degli scontri di queste ore.
Sorvolando sul fatto che si tratta probabilmente del solito eufemismo un po’ paraculo per “salvare il salvabile” a livello mediatico (la deriva violenta è sempre un boomerang per proteste e manifestazioni di questo tipo, per cui tanto vale limitare le azioni di forza a un ristretto gruppo di “teppisti” isolati, di “black bloc”)… a me sembra che questo errore di etichettatura nasconda in realtà una falsa coscienza molto più pericolosa, perché basata su un bisogno di rimozione.
Sbaglio, o quello che sta succedendo a Roma rappresenta il ritorno di una violenza politica che, in questa estensione e intensità, non si vedeva da anni? Una violenza politica che, a prescindere dalle ricadute potenzialmente disastrose su quello che di buono stava nascendo in queste settimane, trova il Paese completamente impreparato, privo degli strumenti per interpretarla?
@ Don Cave
Intendi la “violenza politica” da corteo, immagino. Perché di violenza politica tout court, anche per le strade (per non dire in Parlamento), se ne vede a iosa ogni giorno.
Enorme dispiacere. Ansia per chi è in strada. I ragazzi pensavano di farcela, di averli già mandati a casa. Questo è un classico fallo di frustrazione.
Dovranno contare i danni, subire feroci attacchi, ricostruire solidarietà. Sarà dura.
Nel 2011 lo scontro sociale assumerà proporzioni ignote da molti anni a questa parte.
L.
Sarà dura sì. In cuor nostro speriamo che alla domanda “E ora?” questi ventenni rispondano come noi non ci aspettiamo e che sorprendano, noi per primi…
Una nota di bifo – un pò di ottimismo via… – qui:
http://www.rednest.org/abbandoniamo-le-illusioni/
Un’immagine, un pensiero.
Mi piacerebbe vedere domani, dopo pranzo, riempirsi le città italiane di persone. Tante.
Tutte assieme, armate di un cuscino e una coperta. Senza cellulari, macchine fotografiche, videocamere. Con l’assoluto divieto di proferire verbo.
Mi piacerebbe vederle invadere le arterie principali, tutte in fila. Silenziose. Volendo, con una mano stretta nella persona affianco.
Né lumi, né candele, né striscioni, né casse, né microfoni, né musica. Come dei fantasmi.
Arrivare nelle piazze grandi o piccole, e via via riempirle, sedendosi sul cuscino avvolti nella coperta. Non necessariamente tutte insieme. Ma lasciare al serpentone la sua libertà di movimento, di scegliere dei luoghi belli.
E una volta seduti, ognuno fermo a meditare su di sé, unicamente su di sé, per un’ora. Due ore, mezzora. Quanto ritiene necessario.
Ritagliarsi uno spazio assoluto, fuori da qualsiasi stress, da qualsiasi ordine, da qualsiasi bisogno, se non pensare a sé. A dove si è giunti, e dove si sta andando, e come ci stiamo andando.
Poi alzarsi, senza dar fastidio, sempre in silenzio, e andare via a casa.
Non so a cosa possa servire questa mia immagine.
Forse perché mi capitò di partecipare ad una di queste “passeggiate silenziose”, e pensai che fosse un bellissimo modo di energizzarsi. Un buon rito per cominciare una fase nuova. Un ciclo nuovo.
Magari anche la rivoluzione. Come rientrare il giorno successivo al lavoro, in classe, in famiglia, con un’idea. Un’idea su come esaudire un proprio grande desiderio.
E col diritto di poterla esprimere, senza che altri la giudichino. Una per una.
E magari prendersi un’ora per pensare se le nostre idee sono davvero così diverse dagli altri.
O ci accomunano.
Poi però la mia immagine si fa confusa. E si perde.
Nescio. Sed fieri, sentio et excrucior.
@ Wu Ming 4
Giusta obiezione ad un uso superficiale di un’espressione tutt’altro che “neutra”.
Violenza politica “di reazione” forse rende meglio l’idea che volevo esprimere.
Forse però le due cose sono strettamente connesse. La violenza di cui parli tu – se interpreto correttamente – non è affatto percepita dalla maggioranza delle persone nei termini di una violenza “politica”.
Femminicidio, episodi di razzismo, tagli allo Stato Sociale… non vengono quasi mai inseriti nel frame corretto. Anziché essere contestualizzate come altrettante forme di violenza politica, vengono collocate in cornici narrative completamente diverse (a titolo di esempio, per i tre casi sopra citati, cito altrettanti possibili “interpretanti” che ricorrono con una certa frequenza: “follia d’amore”, “disagio giovanile”, “dura legge del Mercato”).
Il fatto che, al di fuori delle solite narrative repressive (come quella che ha appena sciorinato l’ex neofascista Alemanno), si fatichi ad ammettere un carattere di violenza politica per episodi come quelli di Roma, riflette secondo me questa rimozione di fondo.
Se non sei disposto ad ammettere che la violenza subita quotidianamente da centinaia di milioni di persone in famiglia, sul posto di lavoro e in decine di altri luoghi, ha spesso una forte componente “politica”, difficilmente sarai disposto a concepire la reazione – giusta o sbagliata che sia – a questa violenza, come, appunto, “violenza politica”.
Ed ecco che allora – forse – nasce il bisogno di chiamare in causa il teppismo e “i black bloc”.
solo un piccolo trucco giornalistico, le avete viste le foto su Repubblica?
Angolature, particolari, primi piani, video individuali…
E invece la foto di apertura del fattoquot?
che messaggi differenti…
hanno cambiato la foto anche loro adesso…
Sulla questione sollevata da WM4:
“Il problema non è tanto Roma, quanto l’accentramento, appunto. E soprattutto il “frame” del Grande Assedio. E’ mille volte più efficace manifestare dovunque…”.
“Ma anche nelle altre città, specie a Milano, ma anche Genova, Palermo, Napoli, Bari, Venezia, Vicenza e Padova, Cosenza e Savona – nel corso della mattinata si sono svolti cortei con alcuni momenti di forte tensione.”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/14/le-grandi-citta-sotto-assedio/81880/
Il problema forse non era l’assedio-unico oggi, sarà presentato così in tv immagino, ma i cortei erano ovunque. Anche in giro per l’europa. La cosa mi fa ben sperare.
@ mr mills
Ho letto Bifo.
Il concetto centrale, mi pare, è quello di autodifesa. Devo riflettere, le analisi a botta calda non fanno per me. Grazie comunque a Franco Berardi per il tentativo, che mi sembra generoso.
Tra l’altro l’intervento di Luca mi pare consonante… anche se non si spinge fino a profezie per l’ intero decennio.
Sapete quale sarà uno dei problemi? Il fatto che molti di quelli che erano in piazza oggi, e quindi non hanno visto com’è stata “incorniciata” e narrata la giornata, torneranno carichi di adrenalina e si scontreranno con le perplessità di chi invece ha visto la cosa da fuori, dalla distanza. Ne nasceranno forti incomprensioni, e anche scazzi.
Chi ha vissuto per ore un momento di “fusione”, correndo insieme a tanti altri, difendendosi insieme a tanti altri, e prova la soddisfazione di esserne uscito incolume, pensa a quel momento come a un “universale”, a qualcosa che lo connette a una comunità molto più ampia. E sotto un certo aspetto ha ragione.
Tuttavia, questo è anche un limite, perché costui o costei, avendo una percezione tutta “dall’interno” e *inclusiva*, faticherà a rendersi conto di molte cose.
Ad esempio, del fatto che, al contrario, una dinamica come quella odierna può essere fortemente *escludente*, perché taglia fuori chiunque vorrebbe andare in piazza ma non è in grado di sostenere quel livello e quindi non vuole rischiare di finire in mezzo a certe scene: genitori con bambini, persone più attempate, disabili, soggetti ricattabili (come molti migranti), o anche persone che hanno motivi di lottare ma sono lontane da un immaginario da riot o da jacquerie… Con buona pace delle necessità di ricomporre la classe, di superare le guerre tra poveri e il “divide et impera” capitalistico.
Badate che non è affatto una questione di “violenza”, perché anche nelle mobilitazioni “policentriche” delle settimane scorse si è fatto uso della forza e ci si è scontrati con la polizia. Ma, guardacaso, dopo quegli episodi c’è stata pochissima condanna morale, se non da parte di chi condanna sempre e comunque. La parte di società a cui il movimento si rivolgeva ha capito benissimo che erano “solo scontri”, cioè cose che succedono, non feticismo dello scontro-per-lo-scontro. L’uso della forza conviveva già alla prima occhiata con tanti altri elementi, con forme di lotta fantasiose e ispiranti, con una freschezza d’approccio che tutti abbiamo elogiato. Quindi quella “violenza” NON era escludente. E infatti molti settori di società hanno iniziato ad avvicinarsi al movimento degli studenti.
Tanto che qualche sera fa, alla presentazione bolognese del libro di Loredana Lipperini “Non è un paese per vecchie”, diverse persone hanno detto che le lotte degli studenti potevano essere un processo di avvicinamento tra diverse generazioni, e contribuire a superare quel risentimento a cui ci ha abituati il discorso dominante: figli precari contro padri “garantiti”, lavoratori attivi contro pensionati etc. etc. etc.
Oggi abbiamo assistito a un’altra cosa, più pericolosa, più foriera di scazzi e fraintendimenti a valanga, più produttiva di prese di distanza, e secondo me è stata la conseguenza inevitabile della credenza nella Battaglia Campale Nazionale.
Noi siamo un paese meno centralista della Gran Bretagna, non è obbligatorio che ogni conflitto cerchi sempre la stessa via maestra, la spinta che ineluttabilmente lo incanali verso Roma (e per “Roma” non intendo necessariamente la città; anche Genova era “Roma”).
Come chi tornò da Genova dieci anni fa, chi torna da Roma oggi è un/a “reduce”, e ogni reduce, tornando dal fronte, trova incomprensioni. A ben vedere, questa verrà agitata come la “separazione primaria”: tra chi non c’era (e quindi “non può capire” o, peggio, non vuole) e chi c’era (e quindi “ha sbagliato”, si è lasciato trascinare etc.)
Come si può impostare, nei prossimi giorni, un discorso che eviti questa contrapposizione, che per me sarà quasi automatica?
@ superpu
è ottimo che ci siano comunque state mobilitazioni, anche grosse, in altre città. Ma questi sono “nudi fatti”, che senza una cornice narrativa contano poco. Si sta già facendo tutto il necessario perché la narrazione del pomeriggio romano oscuri tutto il resto. Ecco, allora un elemento di risposta può essere: mantenere il racconto di oggi aperto a quello che è accaduto altrove.
Con riferimento al video linkato sopra, quello dell’arresto di “Uno, nessuno e centomila”, sapete cosa mi sembra molto bello, e commovente?
Che mentre lo sbirro lo tiene per il collo e lo porta via, il ragazzo non molla lo scudo. Lo tiene stretto.
Quello scudo è un libro, non dimentichiamolo. E’ Uno, nessuno e centomila di Pirandello (che tra l’altro era fascista!)
Sarà accaduto per istinto, per riflesso spontaneo, o chissà per quale motivo, poco importa: quel ragazzo non ha mollato il suo libro-arma. Non ha mollato il suo libro-difesa.
E lo sbirro non glielo ha strappato di mano. Anche questo sarà accaduto per caso, ma è un’immagine potentissima. Un libro non è uno scudo qualunque, non è un oggetto qualunque. Ispira fiducia in chi lo alza sugli scudi, e timore reverenziale in chi lo combatte.
“Ecco, allora un elemento di risposta può essere: mantenere il racconto di oggi aperto a quello che è accaduto altrove.”
Esatto. Non mandare tutto a puttane per un fallo di frustrazione. Davvero, questa cosa è molto più grande. Peccato oggi sia andata così, la situazione politica schizofrenica non ha aiutato. Parlamentari comprati, risse, insulti, scene da stadio terminale di un governo spompato. E “Roma” oggi sarà usata per fare qualche gioco di prestigio nei tg, per camuffare lo scempio politico.
A Ferrara manifestazioni in piazza, nel gelo. Per una volta ancora, quest’anno, non i soliti quattro gatti. E coordinamenti studenteschi, con facce mai viste fino a tre mesi fa, che possono vantare un’occupazione liceale, la prima da molti anni. Scuole in fermento. Immancabili scazzi tra il lato “politicizzato” della piazza e il sindacatino universitario “apolitico” RUA, che però ha alle spalle un’occupazione universitaria, la prima di Ferrara. Però, intanto, ci sono gli uni e gli altri. E in agenda, tra una sigla e l’altra, ci sono appuntamenti per tutta la settimana.
[…] This post was mentioned on Twitter by secret furry hole, Alberto Berlini and uomocane, Marco. Marco said: RT @Wu_Ming_Foundt: A botta caldissima, una nota sulle possibili incomprensioni dei prox giorni http://bit.ly/fvcpu5 #nogelmini […]
A margine, una stranissima sequenza d’azione:
http://bit.ly/igRcci
Stranissima sequenza d’azione: se gli studenti hanno imparato poco, i poliziotti non imparano mai…
Su Twitter, @DeeMo ha proposto un’altra ricostruzione della sequenza, la copio messaggio per messaggio:
le foto di quel link sono utili, ma la ricostruzione è palesemente sbagliata. Segue
L’uomo in beige nell’ultima foto impugna un manganello raccolto per terra, non una pistola. si vede bene nelle altre.
il momento in cui l’uomo in beige raccoglie il manganello è la 5° foto dall’alto che vedete qui: http://bit.ly/eGniYF
a me pare piuttosto che nel parapiglia ci sia stata una “caccia al souvenir”: manette e manganelli che cambiano di mano =)
l’evidenza è la pistola in mano al finanziere in divisa antisommossa. Non capisco se viene sorretto o bloccato.
L’uomo in beige raccoglie il manganello ( non una pistola) Immagine: http://bit.ly/fWDTsA – a sinistra, margine del parapiglia
Il concetto di dinamica “escludente” espresso da Wu Ming 1 mi sembra inquadrare perfettamente ciò che sta accadendo.
Questa mattina sono arrivata al Colosseo per accodarmi insieme agli altri “non studenti” alla manifestazione e mi sentivo molto felice di esserci.
Ho voluto esserci per molti motivi, ma soprattutto perchè ho due bambini piccoli ai quali devo qualcosa da un punto di vista etico e morale e perchè Genova era stata per me una meravigliosa esperienza non conclusa.
Solo che anche oggi torno con la stessa sensazione di essere stata tradita.
Trasformare un movimento bello in una manifestazione violenta di questo genere mi esclude perchè ho avuto paura un paio di volte durante il percorso e alla fine mi sono allontanata pensando che è bello lottare per i propri figli, ma è bellissimo tornare a casa ad abbracciarli.
Insomma, se dei gruppi di studenti (anche se molto pochi) scendono in piazza come oggi, semplicemente per farsi guidare dalle forze dell’ordine verso uno scontro che pareva programmato a tavolino, io non ci sto. Se gli studenti non vogliono essere soli nella lotta e credono che sia importante essere sostenuti anche da altre realtà devono lasciarle partecipare.
Lo scopo non era certo non far passare la fiducia, ma far sentire lo sdegno e la rabbia e la rabbia è di molti, ovunque.
Questa sera speravo (poco, ma speravo) di tornare a casa e poter dire ai miei bambini “ci stiamo muovendo anche per voi”; invece, anche questa volta, gli potrò solo parlare di una spirale inutile in cui l’incappucciato di turno tira la bomba carta e il poliziotto usa il manganello.
Scusate il commento a caldo. Ora ci rifletto un pò e poi magari riesco a dire anche cose più intelligenti su quanto è accaduto.
L’analisi di Wu Ming 1 mi sembra lucidissima. La dinamica di oggi è stata “escludente”. Prima ancora che per la violenza messa in scena, per la logica che la ha nutrita: lo scontro finale, “capitale”, quello in cui ci si gioca tutto – e in cui si è anche disposti a “perdere tutto”. Tutto quello – consenso, solidarietà, sim-patia, coesione -che è stato costruito nelle scorse settimane.
Credo sia di vitale importanza criticare senza sconti questa logica del grande evento in cui se la giocano davvero quelli che in piazza sanno starci a muso duro: i maschi adulti feticisti dello scontro per lo scontro. Altrimenti non solo tutte le altre e tutti gli altri, come giustamente dice federica, si sentiranno “traditi”, ma le battaglie stesse non avranno futuro.
E’ secondo un’altra logica che credo si debba provare a pensare. Non c’è un potere da prendere o da abbattere domani. C’è in primo luogo un tessuto sociale da ricostruire. Ed è un lavoro lento, paziente, difficile. Fatto anche di forza di piazza, ma non solo: di creatività, di nuovi linguaggi, di relazioni intessute tra soggetti con domande diverse, ma che necessitano di reciproco riconoscimento.
WM1 l’ha solo evocata di sfuggita; visto che (come “purtroppo” accadde anche per Genova al G8) l’azione l’ho osservata da lontano (oggi dall’altrove lavorativo di un’altra nazione) ritengo importante rendere esplicita, epifanica forse, la parola che le immagini sui principali quotidiani (a me trentacinquenne oramai padre di famiglia, passato “militante” ed ancora con amici “in lotta” in Italia) ha presentato: PAURA!
Ho avuto paura nel vedere un finanziere con l’arma in pugno in mezzo ad una folla (e poco mi importa se la giustificazione era che ne stava solo reclamando/difendendo il possesso), ed ancora ho avuto paura nel vedere manifestanti picchiare contro le camionette con i martelli.
Ed era la stessa paura di dieci anni fa, la sensazione che, varcato un invisibile Rubicone, fosse oramai legittimato colpire chiunque.
Ed allora, la domanda che risuona é; davvero un libro é uno scudo sufficiente? Quella che WM1 ha descritto come un’immagine vincente (non efficace, vincente, se nella foga dello scrivere “a caldo” non confondo termini e motivazioni) non sottende forse piuttosto la percezione di una innocuità della rivolta “pacifica” (l’uso delle virgolette é ampio, ma non vorrei che si credesse che sostengo l’idea di un book-block che faccia un sit-in)?
Non passa l’idea che il libro, come arma in uno scontro, non fa male quanto un colpo di pistola?
Per la cronaca (nonché per amore di sincerità, e per non dare adito a letture sbagliate a queste mie parole) l’anno del G8, per una di quelle grottesche sceneggiate degne della burocrazia di un Gogol, ero in una caserma dell’esercito, in divisa, tra gli ultimi scaglioni della leva obbligatoria…
@ sportgooffy
ho scritto che quello scudo tenuto stretto era un’immagine potente e commovente. Che non vuol dire necessariamente “efficace” né tantomeno “vincente”. Potente perché molto emblematica, densa di significato; commovente, perché sfido chiunque abbia sangue nelle vene a non sentirsi vicino a quel ragazzo tenuto per il collo da un marcantonio in divisa.
Esistono diversi livelli di scontro, e quindi diversi livelli di protezione. Per quello che è successo oggi, uno scudo di plastica con il titolo di un libro è certamente una protezione *insufficiente*, almeno sul piano letterale, materiale, come furono insufficienti gli scudi di plexyglass e le imbottiture della “disobbedienza civile a falange” in via Tolemaide. Nella battaglia campale, quando – come dici tu – sembra che ormai valga tutto e chiunque possa colpire chiunque, quando a dominare è la paura, non valgono più le idee brillanti e gli stratagemmi dei giorni precedenti, perché è cambiata la cornice, e tutto muta di senso.
Il problema, lo ribadisco, sta a monte: va evitata la battaglia campale, va evitata la piana di Frankenhausen, come va evitato il paradigma dell’assedio. Perché, come dicevamo in “Spettri di Muntzer”, quando il movimento crede di assediare, assedia cittadelle vuote, e in realtà viene assediato (mediaticamente).
Domanda: perché si scende (o sale) a Roma?
Risposta: perché si pensa che là stia il potere.
E infatti quali sono stati gli obiettivi, oggi?
I “palazzi del potere”. Circondarli e colpirli. Metterli sotto assedio.
Ma sta davvero lì il potere? Esiste davvero una sua sede centrale? E’ davvero un assedio quello che ha luogo? Davvero le cose importanti si decidono a Roma?
Le lotte più efficaci degli ultimi tempi hanno bloccato o comunque reso intelligibili processi di ristrutturazione decisi in luoghi ec-centrici rispetto a quelli tradizionali del potere politico centrale. E dove li hanno bloccati, o comunque ritardati, o comunque disvelati nella loro pericolosità? In luoghi apparentemente periferici, quando non addirittura marginali. Articolazioni locali di reti produttive o militari assolutamente policentriche e non “romane”.
Il progetto di Marchionne (deciso tra Torino e chissà quali sedi internazionali) ha trovato un ostacolo importante a Pomigliano d’Arco.
La politica emergenzial-camorristica sui rifiuti ha trovato un ostacolo importante a Terzigno.
L’estensione dei tentacoli NATO sul territorio ha subito un importante rallentamento a Vicenza.
La speculazione e devastazione ambientale della TAV ha cozzato contro la resistenza della Val di Susa.
Davvero, è così importante convergere tutti su Roma?
No, non è importante convergere tutti su Roma e a Roma non c’è “il potere”.
Ho sempre pensato che le grandi manifestazioni fossero un momento di incontro tra diverse realtà, non propriamente un modo per raggiungere un fine immediato, ma il culmine di una presa di coscienza e l’espressione della voglia di ritrovarsi per dirsi che c’eravamo, che ci siamo. La necessità di vedersi e toccarsi per sentirsi reali e darsi forza reciproca.
E’ chiaro che mi sono sbagliata; non è propriamente così se non nei giorni antecedenti le manifestazioni.
La notizia degli immigrati di Brescia sulla gru è passata in un modo o nell’altro anche in tv e sui giornali, che oggi fossero a Roma a gridare “siamo tutti sulla gru!”, invece, non importerà a nessuno; sono stati cancellati dal grande evento. Non siamo stati di nessun aiuto gli uni agli altri.
Più ci rifletto e più penso che convergere tutti su Roma cancelli le lotte quotidiane.
E’ necessario un altro modo che spiazzi tutti. Per favore ragioniamoci insieme…
Simbolicamente convergere a Roma può significare l’unità di tutte le lotte sparse sul territorio su un unico terreno e verso un unico obiettivo. Se il significato che si dà all’invasione della Capitale diventa questo, io penso che sia positivo.
Lo “scontro in campo aperto” non è sempre negativo. Ancora non saprei valutare l’esito della giornata di oggi, ma in linea di massima condivido il comunicato di Scienze Politiche occupata di Bologna (pur non facendone parte): http://emiliaromagna.indymedia.org/node/9973
Avrei aggiunto qualcosa sulla lotta di classe, ma ok.
Genova 2001 è stata una Frankenhausen per l’avventurismo di molti suoi organizzatori (do per scontato che la ferocia poliziesca bisogna aspettarsela), ma non è detto che debba andare sempre così. L’importante è invece che non ci sia solo quello, e che soprattutto la lotta non si risolva in periodiche manifestazioni di dissenso, ma che vada prima o poi ad affrontare la questione-cardine, su cui davvero si gioca la partita, che è il mondo del lavoro.
Prima di assaltare il Palazzo d’Inverno ce ne vuole, ma prima o poi…
Vorrei segnalare alla discussione questo contributo di Christian Raimo, in cui c’è il video di uno studente inglese – un ragazzino quindicenne – che spiega perchè non si può più parlare di generazione post-ideologica (il video è ovviamente in inglese). Da brividi. Cibo per l’anima.
http://www.minimaetmoralia.it/?p=3465
Giacomo, secondo te un comunicato come quello che linki va nella direzione che ti auspichi, cioè verso la questione-cardine del lavoro? A me sembra solo il classico, banalissimo, trionfalistico comunicato anarco-d’annunziano che *sempre* viene emesso in circostanze come questa. Davvero non ci vedo alcuna pregnanza né utilità, è la fotocopia della fotocopia della fotocopia di un ur-comunicato che già era sballato quando uscì la prima volta dal ciclostile. Io non ho il minimo interesse per la narcisistica apologia dello spontaneismo, del qui-e-ora senza prospettive e del beau geste pseudo-insurrezionale. “Continueremo a spaccare tutto” è una canzone giù sentita, il ritornello perfetto da canticchiare mentre ci si incammina verso la consueta marginalità che si auto-contempla, in quel ghetto dove si è contenti perché si è “i più radicali di tutti”, e di conseguenza non si sente il bisogno di nulla: niente teoria, niente ricerca di alleanze, niente necessità di organizzazione, niente di niente.
@ Giacomo
Non è una risposta vera e propria, ma leggendoti ho visto che quello che ho appena messo giù entra in risonanza con quanto scrivi.
Questo che Bifo vede come l’avvio di un ciclo di lotta accade, come sappiamo bene, dopo un trentennio e più di guerra di classe serrata, di guerra della borghesia contro tutti, contro il mondo, contro il futuro del pianeta. Queste generazioni che affollano le strade sono cresciute nel deserto, nella distopia di un presente che ai tempi della nostra adolescenza, se fosse stato evocato come futuro, sarebbe passato per atroce distopia. Sono cresciute nel deserto, ma non sono imbelli. Hanno infatti ritrovato un senso nel conflitto. Io non posso che simpatizzare, empatizzare, se mi si passa il termine.
Qui però il punto è il solito, tanto per cambiare. Non servono gesti simbolici, non serve costringere i politicanti dentro i loro palazzi. I tempi che viviamo ci costringono all’efficacia. E’ per questo che non si cessa, dentro WM, di pensare a come sia possibile spostare gli equilibri, anche di una sola frazione, di una virgola, di un decimale. Più che mai, è una guerra di lunga durata. E’ interessante leggere l’evoluzione del thread, e rileggere ogni tanto il post di partenza. E’ appropriata l’evocazione dello stile di lotta del silat, almeno quanto è insensato, ora, il richiamo automatico, pavloviano dei media al’77. Il ciclo di lotte che va dal 68 al 77, per Tronti, non è un Epoca. Ma era una temperie, quantomeno, e di insubordinazione diffusa. Ora, alla fine degli anni 0, accade questo movimento che, proprio perchè sorto come un fiore in un terreno disseccato, invelenito, ci chiama ancora una volta in causa.
La situazione ha qualcosa di ottocentesco, ma non ci sono idee guida a illuminare il cammino.
Ora il problema, più radicale di quello politico, è quale sia il gesto etico che il momento ci chiede, in questo paese che è l’avanguardia del divenire-mafia del Capitale.
Dimenticavo, Giacomo:
“Simbolicamente convergere a Roma può significare l’unità di tutte le lotte sparse sul territorio su un unico terreno e verso un unico obiettivo. Se il significato che si dà all’invasione della Capitale diventa questo, io penso che sia positivo.”
Sì, ma hai trascurato un piccolo dettaglio: se c’è un significato che oggi è stato sacrificato, è proprio “l’unità di tutte le lotte sparse sul territorio”.
@ Wu Ming 1
del comunicato condivido l’obiettivo ultimo della lotta – il capitale – e la solidarietà ai compagni “sul campo”, contro ogni falsa morale su violenza e non-violenza.
Non bisogna cercare l’unità a tutti costi: io penso anzi che prima il movimento si libera delle zavorre filo-istituzionali – quelli che vogliono tutti con le mani alzate di fronte ai manganelli – prima riuscirà a interloquire con chi oggi paga il prezzo più alto della crisi (lavoratori, cassintegrati, precari, ecc.) e che non piange certo per la vetrina di una banca infranta o un cellulare in fiamme.
Cosa c’è da aspettarsi dai pennivendoli del sistema? “Ecco, i teppisti, i black bloc…”
Ma un giovane proletario senza futuro forse sorriderà, di fronte al levarsi di quelle fiamme, che gettano un po’ di luce in questi fiacchi anni di riflusso e apatia.
Gli operai di Pomigliano, i No Tav, i terremotati dell’Aquila… per tutti loro i manganelli della celere non sono certo una novità. Non credo che i fatti di oggi li allontaneranno dalle piazze.
@ Wu Ming 5
io credo che oggi serva tutto, proprio perché il terreno è così arido e avvelenato: gesti etici, gesti simbolici, ma soprattutto organizzazione politica! Il rischio è di arrivare, ancora una volta, alla “grande mareggiata” senza una guida. E senza una guida, senza un programma, ogni rivolta si esaurisce nel sistema.
Giacomo, mi sembra che il tuo discorso tiri in troppe direzioni e cerchi di tenere insieme troppe cose… o troppo poche. Se servono organizzazione e programma, allora non serve lo spontaneismo, e viceversa. E rifiutarsi di stare al giochino della dicotomia violenza/non-violenza e della depoliticizzazione del conflitto (“teppisti”) non significa rinunciare a esercitare la ragione critica, accogliendo tutto senza discernere. O si pensa che le questioni strategiche siano importanti, o si pensa che non lo siano. Tertium non datur. Non mi bastano frasi come “un giovane proletario senza futuro forse sorriderà”, intanto perché presentato così mi sembra un proletario più mitico che reale, da cartolina ideologica, e poi perché è un “forse”, un vago ipotizzare. Anche gli “anni di apatia” mi sembrano un cliché, una generalizzazione che serve a poco.
Il problema non sono certo le manganellate o gli scontri con la polizia, quelli c’erano già prima di ieri, anche nelle manifestazioni studentesche, e andava bene così, nessuno ha avuto granché da ridire.
Il problema è quando un’unica prassi, un’unica dinamica viene *imposta* con arbitrio a una realtà di lotta eterogenea e composita, e oscura tutto il resto. Una dinamica che, per i motivi che dicevo sopra, è escludente.
Inoltre, certo operai e terremotati non si spaventeranno per la repressione, ma non ho alcun elemento per pensare che apprezzino chi brucia senza motivo bar o furgoni della nettezza urbana, lancia cubetti di porfido su chiunque passi dall’alto di una collina, o devasta auto in sosta di gente che non c’entra niente. E poi, io a Genova l’ho vista, una banca incendiata. Ai piani di sopra ci abitava della gente. Anche questa idea della Banca-come-obiettivo è astratta e ideologica (nell’accezione deteriore del termine): le banche stanno ai pianterreni di palazzi che contengono anche altro (appartamenti, uffici etc.) E ad Atene, pochi mesi fa, questa storia dell’incendiare banche ha causato una strage. Una strage di lavoratori.
Tra l’altro, il potere bancario non sta fisicamente nelle filiali delle banche, ma nell’astrattezza di azioni e obbligazioni. E le filiali sono assicurate contro incendi e vandalismi. Incendiandole non si fa che mettere in circolazione altro denaro, procurare profitti all’impresa edile che ricostruirà (magari impiegando rumeni in nero) e, in definitiva, contribuire all’aumento del PIL. Quanto al capitale finanziario, non ne riceve alcun danno. Nemmeno simbolico.
E ribadisco – semmai ce ne fosse bisogno – che il mio è l’interrogarsi critico (e non si creda che non sia lacerante) di un militante che a suo tempo non seppe fare meglio, anzi: sbagliò clamorosamente. Ed è un interrogarsi comunque dalla parte di chi era in piazza oggi (ormai già ieri).
Due post interessanti, che riporto per conoscenza:
Mazzetta su Black Bloc, Black Block e Black Blok
http://mazzetta.splinder.com/post/23739061/black-bloc-e-giornalismo-ignorante
Leonardo, “Uno cento mille Kossiga”
http://leonardo.blogspot.com/2010/12/uno-cento-mille-cossiga.html
… ho letto questo post ieri, tornato da Roma, lo rileggo ora e voglio riportare alcune impressioni da chi l’ha vissuto da dentro e quindi con i limiti indicati da WM1.
– Ieri, da subito, ho avuto la sensazione che il corteo (sono partito dalla Sapienza) volesse andare lì, al centro non del potere ma dell’immondezaio istituzionale si…
– Erano tante e tanti ventenni, tanti veramente, non era un corteo per tutti, era il corteo di una generazione, noi altri eravamo ospiti – e tra parentesi, lì in mezzo, nella pancia del corteo, “mi sono sentito a casa”.
– Alla fine in via Del Corso ci sono andati veramente in tanti, la via era strapiena. La mia sensazione è che la polizia ha reagito volendo sgomberare la piazza, volendo la fine della manifestazione ad ogni costo, soprattutto con quell’esito del voto. Fuori dal centro non ho avuto la percezione di “caccia all’uomo”.
– Perché a Roma (avendone previsto +/- l’andamento)? Sinceramente una risposta chiara non ce l’ho, forse un gesto di solidarietà nei miei confronti, forse la volontà di esprimergli la mia vicinanza anche e, soprattutto, nei passaggi difficili e complicati
@ WM1 (anche)
A proposito della possibilità che l’esperienza ‘del 2001’ possa essere utile e del (cito WM1):
“Come chi tornò da Genova dieci anni fa, chi torna da Roma oggi è un/a “reduce”, e ogni reduce, tornando dal fronte, trova incomprensioni. A ben vedere, questa verrà agitata come la “separazione primaria”: tra chi non c’era (e quindi “non può capire” o, peggio, non vuole) e chi c’era (e quindi “ha sbagliato”, si è lasciato trascinare etc.) Come si può impostare, nei prossimi giorni, un discorso che eviti questa contrapposizione, che per me sarà quasi automatica?”
Dal mio punto di vista uno dei modi in cui nel post genova, secondo la mia esperienza, scivolammo gradualmente in qualcosa di simile alla sindrome del reduce, fu disperdendo troppe energie nel discutere sulle ‘nostre’ procedure per reagire e apprendere dagli errori (cosa che volevamo fortissimamente); gruppi estremamente vitali, e già consapevoli, se mi è concesso, della necessità di ‘resistere’ un minuto in più, si sono però estenuati a elucubrare sul ‘come’, non accorgendosi però che stavano perdendo ohime’ devo ammetterlo un po’ ‘ridicolmente’ di vista la lepre, che nel frattempo scorrazzava allegramente pei campi e forsennatamente figliava a ritmi di topo. Ecco: anche questo sarebbe bene evitare.
Ma ancora una cosa sulla solidarietà: la esprimo incoraggiando: guardate; completamente d’accordo sull’esizialità della metafora dell’assedio, della battaglia campale, ecc., però dal punto di vista della diffusione delle idee e oserei dire del ‘paradigma’ proposto, il movimento che ‘culminò’ a Genova ha registrato delle vittorie non da poco: ciò che intendemmo allora porre all’attenzione è riuscito a fecondare le ‘narrazioni’ (in questo caso mi pare che il termine abusato si possa impiegare a proposito) in ambiti impensati, e che ‘prima’ guardavano al nostro paradigma con sufficienza e senso di superiorità. (lassa staa gli esiti concreti in materia di rapporti di forza nelle società: ho detto che volevo incoraggiare…).
Ebbene: io credo che le ‘idee’ oggi al centro (un po’ tipo: occhio che gli esclusi siamo noi? Occhio che ‘we’re claiming our right to suffer’ (Huxley)) stiano cominciando non a sfondare (cambiamo metafora, no?), ma a ‘colare’ al di fuori come un bel saporito brodo primordiale risvegliante e fecondante ambiti concentrici (ma anche tangenziali, ma anche ora non tocchi) sempre più ampi.
Io non sono andato in strada, ma non mi sento escluso dalla pasta in fermento. Anzi! … e grazie a chi ci è andato, grazie a chiunque si sbatte, nel modo che gli vien meglio, soprattutto: nel modo che gli vien meglio.
Un abbraccio a tutt*; fraternité,
Stefano Dop.
[…] perché devono farsi i fatti loro. Beghe di palazzo. E fuori c’è la guerra, o meglio la guerriglia. Quella che ci vuole. Quella che non è violenza, ma esasperazione. Quella che dovremmo stupirci […]
@ WM1
riprendo le fila del nostro discutere di paura dopo circa una ventina di post (loso, la comunicazione cosi’ é affaticata alquanto); sulla potenza evocativa delle immagini, volevo solo ricordare che ogni immagine, anche la più suggestiva, denuncia una ambiguità nella sua lettura; personalmente non vorrei mai dover vedere immagini-simbolo.
Qualche mese fa ero in piazza, qui in Francia, a protestare contro la riforma del sistema pensionistico, e devo dire (nonostante la Francia sia un paese dall’anima più “nera” dell’Italia) di non aver provato paura, neppure al lancio dei lacrimogeni, alle barricate improvvisate, etc. etc.
In piazza erano comunque presenti persone, dai settanta ai quindici anni, e nessuno ha mai pensato che la protesta dovesse terminare in guerriglia (ripeto, questo anche durante gli scontri in testa al corteo). Ieri, dalle immagini viste, non percepivo una simile partecipazione (ed i miei genitori ed i loro amici non scendono più in piazza; il rischio, dopo che qualcuno ha avuto un’infarto, qualcun altro un’artroprotesi d’anca, chi una meniscoplastica, non vale la candela).
E’ un problema d’età (a vent’anni si é presuntuosi ed immortali, o almeno si crede di esserlo)?
Ti azzardo un’ipotesi; ieri, praticamente tutti i media francesi davano ormai per spacciato il signor B. (rido al pensiero di come spiegare oggi a mensa ai miei colleghi perché, come peraltro avevo predetto, B. sia ancora a Palazzo Chigi).
Forse chi era ieri in piazza, aveva davvero creduto che il senso ed il fine della protesta fossero le dimissioni di Berlusconi, e non che l’essere in piazza fosse solo un momento della lotta, che torna ora di “resistenza”.
Non credo si corra il rischio della “sindrome del reduce”, non come per Genova, ma certo vedo in crisi un certo modello di lotta.
Terzigno funziona, ma poi chi protesta chiede che vengano riscritte le norme su SISTRI e MUD (che non sono parolacce; SIStema di controllo della TRacciabilità dei rifiutI e Modello Unico di Dichiarazione -per rifiuti urbani e assimilati-).
Gli operai Fiat, come quelli di Alitalia prima di loro (ed é significativo che quasi nessuno ne parli più) hanno si’ messo in crisi Marchionne (o meglio, spezzato un suo discorso egemonico), ma adesso vogliono risposte.
Credo che sia importante anche cominciare ad abbozzare quali risposte dare, per poter sopravvivere all’Italia di Berlusconi senza Berlusconi.
…e ritengo anche utile riportare l’analisi della portavoce del movimento degli studenti
http://www.articolo21.org/2252/notizia/nei-tg-i-riflessi-di-una-pessima-giornata-dentro.html
un contributo da spinoza.it:
http://www.facebook.com/album.php?aid=249732&id=30787454425
Per fortuna l’analisi della portavoce del movimento degli studenti Sofia Sabatina sembra andare nella giusta direzione. Per quanto riguarda il comunicato su indymedia mi sembra irrilevante: ho la strana sensazione di averne letti parecchi simili in molte altre occasioni – o forse è sempre lo stesso infiammato grido di vittoria buono per tutte le stagioni.
Non credo sia necessario fare gruppi di auto-analisi su Roma che durino mesi. Né di disquisire su quanto un certo tasso di reazione violenta sia più o meno giustificato da un esercizio politico della violenza nazionale o globale. Così non si va da nessuna parte. E per una ragione molto semplice: questi discorsi che tanto infiammano faranno terra bruciata attorno alle lotte. Altro che inzio di un grande ciclo di lotte.
Credo che nei prossimi giorni si tratterà di capire – e di prendersi la responsabilità di dire chiaramente – che quello che è accaduto a Roma è stato un passo falso. Punto. I passi falsi ci possono stare: l’importante è non esaltarli come una grande marcia, perché allora si finisce subito per impantanarsi in vecchie paludi.
Giusto un appunto. Con tutte le cautele del caso, cito un testimone oculare dell’episodio della (o del?!) pistola. I manifestanti con manganello, radio, manette e quant’altro hanno aggredito il finanziere spogliandolo di tutto. Da quel che si è capito nella concitazione dell’assalto, lui tratteneva la pistola perché non gliela portassero via. Quando il gruppo (chiamiamolo così) si è reso conto che quello aveva in mano l’arma, si è dileguato “senza se e senza ma”. Triste cronaca di una guerriglia urbana che sta alla constestazione come gli Irriducibili ai tifosi.
(prima di scappare a lezione, intervengo qui, sperando di riuscire a scrivere qualcosa di più completo entro stasera sul blog)
La giornata di ieri va digerita (assorbire le sostanze nutritive, cagare il resto). Quello che si sta scrivendo in questi commenti è estremamente necessario. Vi racconto un aneddoto, secondo me significativo:
al ritorno da Roma, sul bus, una ragazza si alza in piedi e inizia un discorso a metà fra la lamentela, lo sfogo liberatorio e la chiamata ad usare un cervello stanco di fumogeni e scene di paura. Ci richiama tutti a pensare che abbiamo fatto un’esperienza insieme, ma che fra di noi non abbiamo avuto comunicazione. In quell’autobus, innanzitutto e poi allargandolo al resto più in generale. Non ricordo precisamente le sue parole, ma suonavano come una richiesta di contenuti e di confronto che lei percepiva carente.
La prima reazione di un ragazzo coinvolto nell’organizzazione è stata “questo non è un pacchetto viaggi”. La mia è stata silenziosa, e suonava più o meno: “la costruzione politica avresti dovuto farla prima di salire qui, trovare i tuoi contenuti, condividerli con chi ti stava affianco nei giorno scorsi… ieri notte eravamo sul bus. Era già finito. Bisognava andare in piazza e fine”. Poi ci ho pensato per tutto il viaggio. Due risposte idiote, entrambe, anche se non lontane da elementi di verità.
Come dice @federica: “E’ necessario un altro modo che spiazzi tutti. Per favore ragioniamoci insieme…”
Ecco, se condo me è questo ragioniamoci insieme che deve prevalere adesso. Simone Regazzoni ha ragione. Non bisogna far terra bruciata intorno alle lotte. Mi chiedo: si può ragionare insieme partendo da wuesto ‘passo falso’ e tornando alle lotte?
Sì, mi rispondo. E vi prego: creiamo spazi per farlo (chi è di base a Bologna, in questi commenti, ad esempio?)
Appunto, come dice Stefano Doponotaro, inutile estenuarsi “a elucubrare sul ‘come’, non accorgendosi però che stavano perdendo ohime’ devo ammetterlo un po’ ‘ridicolmente’ di vista la lepre, che nel frattempo scorrazzava allegramente pei campi e forsennatamente figliava a ritmi di topo. Ecco: anche questo sarebbe bene evitare”.
Io ho vissuto in maniera particolarmente intensa questo autunno di lotte *non ancora finite*, ricevendo un impulso tutto nuovo di contenuti e di speranza. Ho visto intorno a me persone c.d. (banalmente) ‘nuove’. Io stesso ne faccio parte come uno-che-si-era-tirato-indietro ed ora è di nuovo tornato in piazza, nonostante la giovane età.
La metafora della paura funziona bene per ieri, quando le cariche a Piazza del Popolo diventavano panico fino al Tevere e io stesso ho citofonato impaurito per rifugiarmi in un condominio. Adesso la paura che provo è quella di perdere tutta una fetta di persone che ieri ha condiviso con me la piazza, la paura, lo sconforto di vedere quella stabilità di tre voti e lo *spaesamento* di vedere colpiti degli obiettivi il cui significato diventava fumoso… una colonna fumosa che si alza. Ma davvero il fulcro è spaccare una Mercedes?
E perdere lo dico nel senso migliore.
@sportgooffy: Credo che sia importante anche cominciare ad abbozzare quali risposte dare, per poter sopravvivere all’Italia di Berlusconi senza Berlusconi.
Ecco, vi prego. Iniziamo da qui. Ri-lancio l’appello:
1. dove vedersi nei prossimi giorni;
2. evitare che questa discussione sia *solo* “interna” a chi è già strutturato;
3. ricompattiare le fette di cui sopra pensando al passo falso quanto basta per non perdere di vista la lotta.
Non sarà il ’77, ma le parole di un nota canzone del ’75 sono per me ancora attuali…
“chi ha torto o ragione, chi è Napoleone
chi grida “al ladro!”, chi ha l’antifurto
chi ha fatto un bel quadro, chi scrive sui muri
chi reagisce d’istinto, chi ha perso, chi ha vinto
chi mangia una volta, chi vuole l’aumento
chi cambia la barca felice e contento…”.
Riunirsi per poi disperdersi, farsi trovare dove nessuno ci aspetta. Parlare, discutere. Tanto. Sul dopo, non su ieri.
Quanto accaduto ieri è lo scenario perfetto per i flussi speculativi internazionali. Le tv di mezzo mondo, US in testa, assimilavano la giornata in corso non alle proteste inglesi di poco precedenti, ma all’esplosione greca. Non è un caso.
Stamane Moody’s preannuncia l’imminente downgrading della Spagna. Si badi bene: tutte le analisi finanziarie mondiali, tutte tranne quelle che si fanno qui e che non contano un cazzo, dicono che un attacco alla Spagna è già l’attacco all’Italia, il vero anello di rottura dell’euro. Per molti motivi, primo tra i quali la nostra impossibilità di sostenere un eventuale piano di aiuti europei alla penisola iberica nel suo complesso. Per arginare e prevenire tutto questo già da domani la UE ci avviserà della necessità di manovre da non meno di 40-50 miliardi per i prossimi due-tre anni.
Nessuna autorità politica è in grado di imporle e il Paese non è in grado di reggerle.
“E’ in arrivo una tempesta di merda”. (Eldridge Cleaver)
Le cittadine e i cittadini che erano in strada ieri, in particolare i più giovani, devono fare lo sforzo di archiviare in fretta la giornata del 14/12, che è stata importante solo per quei merdoni che stanno inchiavardati alle seggiole di due o tre palazzi nel centro della capitale. E in verità penso che anche molti di loro presto avranno a dolersi delle votazioni che in apparenza li hanno salvati.
Sono certo che c’è un signore che è rimasto molto, molto deluso del voto di Montecitorio. Tremonti. Che infatti sta sempre più muto, e non ride un cazzo.
La Lega non ha alcuna intenzione di accollarsi il massacro economico-sociale necessario quanto impossibile. Da adesso in poi la sua unica retorica possibile è che l’Italia è nella merda e al collasso, ma se la Padania stesse da sola sarebbe meglio della Germania. E’ facile intuire cosa questo comporti.
I ragazzi, gli uomini e le donne in lotta e con l’acqua alla gola, devono provare a respirare, ragionare e guardare avanti. E’ molto difficile, ma necessario. Le cose accadranno più rapide di quanto immaginiamo.
L.
@ luca: tocchi un punto fondamentale di cui occorre tenere conto. Lo scenario di piazza di ieri visto da fuori (Italia) evoca la Grecia. Credo sia responsabilità di tutti evitare di finire in quel tragico vicolo cieco.
A mio modo di vedere la manifestazione di Roma non rispondeva solo al bisogno di assediare il simbolo del potere, ma anche a quello di far percepire (per primi ai partecipanti) l’unità delle varie componenti in lotta. E’ la natura della manifestazione che porta a questo: tanti singoli si trovano insieme ed hanno più voce e più forza, è inevitabile che le tante manifestazioni sparse in tutta Italia delle scorse settimane sentissero l’urgenza di unirsi in un solo posto (e, a quel punto, il posto doveva essere simbolico per forza).
Potrebbe essere interessante, ad esempio, provare a considerare come obiettivo alternativo quello di occupare (pacificamente) tutta l’Italia, come fosse una mappa del Risiko: una manifestazione programmaticamente distribuita, in cui il senso di unità verrebbe dal partecipare al raggiungimento di uno stesso obiettivo, e il cui esito sarebbe ben diverso dal leggere sui giornali “manifestazioni anche a Milano, Torino, …”.
mah.
Sono poco interessato, in questa sede, al dibattito su scenari (geo)politici. Mi pare piu’ importante la discussione sull’approccio adottato dai movimenti (per lo meno dopo Genova).
Questa gioventu’ RESPIRA ormai da anni la *media logic*. Forse pero’ non sta imparando a comprenderla. Si vede da come comprende quali siano le sceneggiature e le immagini che possono colpire l’immaginario mediale (e giornalistico).
E’ per questo che e’ (siamo) IMBRIGLIATI nel frame della Grande Scadenza, che e’ pur sempre la metafora dell’Assalto e della lotta campale. Nel movimento alcuni respirano, altri sanno e scelgono, che nel nostro mediascape l’unica possibilita’ di rendere ogni attivismo efficace e’ quello di ENTRARE NELLA TRAPPOLA dello scontro frontale. Per non restare invisibili si “dove” alzare “il livello” dello scontro fisico-simbolico. Che lo si faccia salendo su un blindato, usando con qualche efficacia i libri come scudo, salendo – in modo geniale – su un monumento o – forse meno – su un tetto (come stiamo facendo).
Purtroppo, seguendo piu’ di un’assemblea mi pare che IL DESTINO SARA’ QUELLO DI RIPETERE questi stessi errori. Le dinamiche della formazione delle decisioni, la forza di ritualita’ che consentono consenso, l’assenza di discussione strategica e molti altri elementi mi paiono rendere impossibile uscire da questo scenario che costringe ogni “ciclo di lotta” a riproporre il gia’ noto.
Spero sia giunto il momento di prendere-e-riprendere questa discussione. Evitando di tecnicizzare miti, ma ritrovando il mito del pragmatismo blissettiano. ;-)
Ciao a tutti,
ammetto di non aver letto tutti i post, d’altronde li leggo solo nel day after e non ho potuto seguire tutto in diretta.
Mi permetto di sollevare due punti, di tempo e di luogo.
Il primo è la voglia di partecipazione: non è scontata. Non è scontato il fatto che siano così tante le persone che prendano parola, anche solamente online, anche solo linkando, taggando, su facebook, non è scontato che si voglia ancora parlare di ieri.
E’ vero, la preoccupazione è che si parli di “ieri” e non di domani. Tuttavia questa precipitazione nel parlare credo sia positiva e che vada convogliata in un domani. Non è facile, non sarà facile prendere la giornata di ieri e inserirla nelle vite e nei messaggi di tutti quelli che erano in piazza, studenti medi e universitari, terzigno, l’aquila, operai fiom, beni comuni… Non sarà facile, ma è un dovere provarci. E’ la sfida di generalizzare le lotte, trovare l’elemento comune, riconoscersi.
Da questo punto di vista repubblica&Co giocano contro: lo scandalo per gli sbirri nascosti fra la folla, la divisione di manifestanti buoni e cattivi (piazza del popolo non la riempi con trecento matti, ma con decine di migliaia di persone che lì sono rimaste per ore), questi due elementi sono la decostruzione della positività politica che caratterizzava la piazza di ieri. Ieri, per la prima volta dopo tanto tempo si marciava insieme, si stava insieme, non è poco ed è un precedente che, personalmente, mi piace.
E’ chiaro che su ieri le motivazioni erano tante e così palesi condivisibili da essere quasi pre-politiche: la presenza di Berlusconi, la compravendita dei voti, il totale scollamento tra sale del potere e ciò che ci succede attorno tutti i giorni. Però questo deve essere la base per tornare a casa e continuare (non ricominciare, anche questo è importante) a fare quello che si stava facendo.
Tornare a casa, appunto. Lo spazio. L’assedio non vince mai, la caduta di tutta la rabbia e la voglia in un unico punto e un unico momento è perdente. Sì, ma, secondo me, in questo momento ce n’era bisogno. Avevo bisogno di vedere tanta gente, diversa, vederla insieme, sentir dire tante cose diverse. avevo bisogno di vedere quella potenza suggestiva, politica, materiale. Credo che la gente che ieri ha manifestato deve rovesciare tutto il portato della giornata a casa e mi auspico che questo succeda. A Genova non c’ero, ma dai commenti che leggo, dai reduci che raccontano, mi sembra che ci sia qualcosa di diverso: esiste un dopo. Non si tratta di scadenze, ma di cose che sono ancora in costruzione. Se pensate a molte soggettività che ieri hanno marciato, molte di queste non sono ancora arrivate al punto di rottura che porta al riflusso, insomma, c’è gente che ha ancora molto da dare. Questo è il dato positivo da cui ripartire ed è ciò che mi dà speranza per pensare ad oggi, a domani, all’anno nuovo.
Pongo una domanda, che è personale, ma che spero che susciti qualche suggestione: Siamo di fronte ad una delle sconfitte più brucianti della storia recente: migliaia di persone scendono in piazza contro l’ordine vigente e in quel momento l’ordine vigente si dimostra ancora forte, resiste. Eppure perché non sono triste? Perché non mi sento sconfitto?
@ plv
forse non sei triste e non ti senti sconfitto perché Roma 2010 potrebbe essere l’inizio, e non la fine di qualcosa.
L’ordine vigente non è più forte perché ieri ha vinto Berlusca contro Fini. Uscire dalle logiche istituzionali è il primo passo da fare nella lotta contro lo stato di cose presenti.
@ plv
No, quella di ieri non è una delle sconfitte più brucianti della storia recente. Ciò che è avvenuto in Parlamento è nell’ordine delle cose presenti, e quello che è avvenuto in strada anche.
Hai ragione a non sentirti triste, e per questo non dovresti sentirti nemmeno sconfitto. Non è mai a caldo che si tirano le somme di un’azione collettiva e bisogna stare attenti, infatti, anche a giudicarla in fretta. Ho già invitato tutti, in questo thread, ad abbandonare qualsivoglia tono prescrittivo. Bisogna fare questo, non bisognava fare quest’altro… Certi dubbi “tattici” erano stati esposti già in previsione della scadenza romana e hanno trovato conferma. Ok. Ma mettiamoci nell’ordine di idee che i tempi che ci aspettano sono davvero cupi, come dice luca, e che da un certo punto di vista c’è da meravigliarsi che lo scenario “greco” si sia manifestato relativamente tardi in Italia, rispetto a una situazione sociale al collasso. Il 2011 sarà l’anno più duro della crisi, in un paese come questo, dove il potere poltico-istituzionale non ha nemmeno più bisogno di salvare l’apparenza della neutralità e fa mercato di se stesso sulla pubblica piazza. Questo distingue l’Italia non solo dal Regno Unito, ma forse già anche dalla Grecia, perché ogni paese ha la sua storia. I casini a Londra hanno spaccato in due il partito Liberal-democratico; quelli a Roma, dove in strada c’era molta più gente, non hanno intaccato il mercato di Montecitorio. Questo dice qualcosa sullo scollamento tra ambito politico-rappresentativo e società reale. Qualcosa di spaventoso, ovviamente. Personalmente sono assai meno preoccupato dai roghi di Roma (che pure ovviamente fanno male, perché dividono quando c’è bisogno di unire le lotte) di quanto non lo sia dal compito immane che ci sta davanti. Nessuna sponda politica. Soltanto gente che cerca di salvare la pelle, mentre il fumo si alza sulla città, nella consapevolezza che soltanto se si unisce e riesce a costruire una narrazione condivisa potrà farcela. Dobbiamo davvero augurarci una buona fortuna, perché ne avremo bisogno.
Io ho studiato per anni correlazioni, lineari e non. Ho studiato sociologia, una specie di passione insana per i numeri, le ricorrenze, le date.
Genova 2001: enorme manifestazione in massima parte pacifica, i black block arrivano e come militari addestrati seminano il panico, la polizia sfonda di mazzate un sacco di gente (il sottoscritto era un teen e per poco non prende sporte di manganellate). Governo Berlusconi.
Restano domande cui io non riesco a rispondere: chi cazzo sono sti black block? se le è fatta un sacco di gente questa domanda, soprattutto perché poi per anni nessuno li ha più visti questi. A Firenze neanche uno.
http://www.youtube.com/watch?v=3-8jfUJdtPE&feature=related
Roma 2010: grande corteo in massima parte pacifico. Poi non troppa gente sbrocca e un sacco di altra gente prende mazzate. Io ero a Torino stavolta, per mille motivi, a manifestare. Definiamoli black block? saranno i giornali che li chiamano così. Però i violenti si sono fatti i cazzi loro per dieci anni e tornano con gli stessi metodi (pochi, organizzati e agiscono con poco disturbo) e la stessa puzza di merda. Di nuovo: chi cazzo sono questi? ah, dimenticavo, governo Berlusconi.
Non è teoria del complotto, wu ming, stanno sul cazzo anche a me i complottisti. Ma non suona come un plot già scritto una decina di anni fa. Vi prego, datemi torto marcio, che ho male allo stomaco.
Dopo questo commento, per un po’ non ne farò altri. I miei dubbi li ho espressi, e al tempo stesso ho espresso la mia solidarietà. Ho detto quali sono, secondo me, le contrapposizioni da evitare, vistose o sfumate che siano. Non voglio fare la parte del “fratello maggiore” reso più saggio dagli anni, il reduce dell’altroieri che consiglia quelli di ieri. Il rischio è grosso. Dio me ne scampi e liberi. Solo un’ultima nota di esperienza.
@ plv
Dopo Genova, nessuno si sentiva sconfitto. Tutti pensavano che fosse l’inizio di qualcosa. Vi furono altre scadenze, il movimento andò avanti ancora un anno e mezzo abbondante, e in alcuni passaggi i numeri furono alti e gli appuntamenti significativi (es. il Forum Sociale di Firenze). Poi, a un certo punto, ci si guardò intorno e ci si accorse di essere molto più “indifferenziati” e monocromatici, molto meno eterogenei di prima. La composizione del movimento non era più quella degli inizi, le linee di frattura tra le “componenti” erano sempre più visibili, le assemblee sempre più mono-genere (tutte maschili o quasi) e “veteranizzate” (c’era quasi solo chi era stato a Genova). Ci si accorse che si era formato un “ceto politico-mediatico di movimento”, un ristretto gruppo di portavoce che più appariva e più contribuiva a stereotipizzare il movimento. Ci si accorse che tutte le espressioni che descrivevano il molteplice (come “movimento dei movimenti”) erano scomparse dal discorso pubblico, e al loro posto si erano radicate, inestirpabili, etichette che ghettizzavano (“i no-global”). Solo a quel punto si capì che Genova non era stata un inizio ma una fine di ciclo, che la metafora dell’assedio aveva funzionato all’inverso (gli assediati eravamo noi, chiusi nel nostro mondo), e che senza nemmeno farci caso avevamo *escluso* sempre più gente, fino a ritrovarci a essere quello che avevamo inteso superare: la solita estrema sinistra.
Questo è quello che accadde nel post-Genova, mentre nessuno era triste.
Io non dico che quel che accadde allora accadrà tale e quale. Non è nemmeno detto che accada. Il presente non ripete mai il passato in tutto e per tutto. Ma se quell’esperienza può servire a qualcosa, allora è meglio raccontarla. Come monito.
A Book Bloc’s genealogy
http://bit.ly/ijsrYi
@ Giorgio1983
Complotto o no, non cambia granché. “Black Bloc” è una sigla aperta. Basta mettersi una felpa nera e organizzarsi con qualche compagno di strada, di curva, o di caserma, per entrare a farne parte. Personalmente sono più interessato a vedere come questo movimento studentesco saprà far fronte alla necessità di non farsi sovradeterminare da pochi, che a indagare su chi ci sia “dentro” o “dietro” i fantomatici uomini in nero.
A me frega un cazzo del complotto. Solo mi sento sempre usato come una buccia di banana, più mi guardo e più mi sembra d’esser giallo.
Il movimento studentesco è per sua natura friabile (le persone si laureano, smettono di studiare) e questa è una mazzata di livelli epocali, insieme sono due componenti del dissesto. Inoltre: stante così le cose, il ddl Gelmini ha il suo comodo spazio per essere applicato, i numeri per sfracellare tutto. Più che il movimento studentesco mi preoccupa la tenuta del sistema scolastico e universitario in toto. A me rimangono amici incredibili, l’aver conosciuto un momento di speranza che ancora non è andato via e una serie di magoni infiniti. Non mi sento sconfitto. Mi sento consapevole, ed è (quasi) peggio.
@ Giorgio1983
Consapevole e non sconfitto non è male. E certamente quello che ora ti resta, ti resterà per sempre. Quanto al disastro a cui andiamo incontro, hai ragione da vendere. Pensa come deve sentirsi uno che abbia dei figli da mandare in quel sistema scolastico e universitario…
Spero mi perdonerete una forse bizzarra digressione sulla Buona Fortuna che wm4, con ragione da vendere nel suo perfetto intervento, invoca come necessaria a tutti/e per il tempo a venire.
Sono stato uno sfigatissimo giocatore d’azzardo. Per questo motivo ho distrutto pressocchè tutto ciò che avevo. Vita, relazioni, progetti, lavoro, amore, sogni, soldi.
La Buona Fortuna, quella buona davvero, non un singolo colpo di culo, è qualcosa che si costruisce con pazienza, tenacia, metodo, lavoro, analisi, riflessione, e infine coraggio quando è il momento di colpire, di agire.
La capacità di un grande giocatore d’azzardo, sì, ne esistono, è quella di Stare Fermo per la stragrande maggioranza del tempo. Di non essere compulsivo. Non voler reagire subito agli inevitabili colpi falliti, ma analizzarli, con calma e a freddo.
E’ una cosa davvero difficile.
Sono stato un giocatore patologico. La Sfortuna non c’entra niente. Ne ho avuta tanta, ma è matematica. E’ la tossicità, la dipendenza, l’inadeguatezza, il non aver lavorato sul sè, l’aver rimosso tutto il rimuovibile. Possono essere le droghe, l’alcool, il gioco, il sesso, lo shopping, internet o sailcazzo. Il problema è lì, ce l’hai dentro. Se non lo affronti, hai perso prima di cominciare. Forse perchè Vuoi perdere tutto, perchè Credi di non meritare niente.
Vi assicuro che la scoperta è devastante, il dolore è terribile. Si rischia davvero di rimanerci sotto.
La Buona Fortuna si costruisce. E quasi mai da soli.
Mi scuso ancora con coloro che trovano incomprensibile e fuori luogo quest’intervento. E’ probabile che abbiano ragione.
L.
Invece è un grande intervento, compadre. Un – grande – intervento. Che toglie un po’ di peso a te, ma (devo dire) anche a me. Anche a noi. La buona fortuna si costruisce insieme. Salvarsi il culo il più collettivamente possibile è la sfida che tutti noi abbiamo di fronte.
@ Luca
capisco benissimo, e anche altri capiranno.
Spezzare le coazioni a ripetere, l’impulso a giocarsi tutto in una botta sola, ma anche l’impulso cattedratico da fratelli maggiori- quelli che han capito tutto subito, anzi da prima che accadesse. Il tuo è un buon modo di dire qualcosa di profondo, sensato, e politico.
Mi infilo rapidamente, toccata e fuga (e un po’ mi scoccia abbeverarmi a scrocco, senza contribuire). Solo per dire: 1) vi sto seguendo e linkando da ieri. 2) Ciao Luca. Take care, bro! Ecco, solo questo.
@ Luca:“La Buona Fortuna si costruisce. E quasi mai da soli.”
Sì, un bellissimo intervento, per nulla fuori luogo. E per ciò che riguarda “ l’inadeguatezza, il non aver lavorato sul sè, l’aver rimosso tutto il rimuovibile”, sappi che non hai l’esclusiva, eh.
Un abbraccio.
P.S. (di alleggerimento)
Anche tutte le “mie amiche” (quelle con il nome doppio e pretenzioso) ti abbracciano…
**,
Appunto etimologico: io sui black bloc ci ho davvero perso dei mesi, a capire chi/cosa cazzo fossero. Ma suppongo a nessuno interessi la mia opinione a riguardo.
Solo, se ho scritto black block, è perché ho idee diverse su chi siano questi e chi fossero quelli di Genova. Somigliano a dei parafulmini comodi per scatenare i manganelli che prudono contro chi un black block (sì, block) non è.
Così come le mie idee sono profondamente diverse verso chi ha inventato il book bloc (io avevo votato il partigiano Johnny, uff).
Per me la storia dei black block (BLOCK) è chiusa qui.
@ wm4,
Il mondo (così pare) avrà sempre – sempre, sempre – bisogno di un pogrom. Di questo sono ormai consapevole. Mentre bloccavo una piazza a Torino, con conseguente caos di auto, un paio di negozianti invocavano i manganelli, le cariche, e gli automobilisti le invocavano, imploranti verso i vigili municipali (!). Perché se vedere un pestaggio per me è come subirlo, per altri è come essere dietro allo scudo.
Di questo sono consapevole, ma non mi sento sconfitto. Solo sconfortato.
Il commento di Luca è incredibile, davvero.
Scusate, vi sto usando come un blog-terapia. Ora la pianto. :)
@ Giorgio1983 e soprattutto @ Luca… oltreché @ me stesso:
“Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni!”, esclamò Frodo.
“Anch’io”, annuì Gandalf, “come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato. E ormai i giorni cominciano ad apparire neri e foschi. […] Dovremo lottare con accanimento. Avremmo dovuto farlo anche senza questo terribile evento.”
(J.R.R.Tolkien – Il Signore degli Anelli)
L’intervento di Luca anche a me pare tutt’altro che fuori luogo, penso che invece contenga una potente verità: non c’è riscatto che non sia collettivo. Jack London un secolo fa lo raccontò benissimo nel suo Martin Eden. Oggi ognuno è pressato a pensare che se uno ce la fa, se si “realizza” (dentro il mondo della scuola e dell’università come del lavoro) è perché è bravo, o meglio, più bravo degli altri… se non ce la fa la colpa è sua. Viene completamente cancellata la violenza capitalistica che dà e toglie quando e come crede… ci ricordiamo come finirono i networkers – anche in italia – quando scoppiò la bolla della New Economy? Fino al giorno prima eri ben pagato e adulato e il giorno dopo, finiti i tempi delle vacche grasse, eri a casa a inviare curriculum.
Questo dobbiamo capire e su questo si deve lavorare: o ci si salva tutti o non è salvo nessuno.
“Salvarsi il culo il più collettivamente possibile”: esatto.
Io, sinceramente, sono un pò triste. Lo sono perchè le scene che si sono viste ieri (ma anche quelle che si sono viste nelle settimane precedenti tipo: andiamo in stazione anche se ci sono cinquanta poliziotti davanti all’ingresso, così ci picchiamo un pò e domani possiamo andare in giro con i cerotti) puzzano del virilismo di sempre, della solita mentalità maschia per cui lanciare sedie contro un blindato è un modo sano di impiegare le proprie energie, perché dà qualcosa, fa sentire camerati e forti. A me tutto questo ha rotto e non credo di essere l’unica. Invece sembra non si possa prescindere da discorsi come “eh ma se tuttI quellI dietro avessero partecipato agli scontri invece di darsela a gambe…”. E non è un discorso di genere, la virilità è qualcosa che piace a tutti e tutte, solo che le donne sono più abituate a sognarla e, al massimo, a goderne per osmosi dai loro compagni, piuttosto che a ricercarla di persona.
Il problema non è la violenza in sé, come hanno detto benissimo in tanti, ma il fatto che escluda, che crei gerarchie, che non generi nulla, nessun significato, niente di niente.
Quando nel thread su Foucault in Iran ho scritto che era stata la guerra a uccidere la rivoluzione, intendevo questo. Nessun’idea sopravvive alla logica dello scontro frontale, perché quest’ultimo è un fatto che non riguarda tutti (ci saranno sempre avanguardie e retrovie) e che può generare solo paura e dolore.
Durante il lungo periodo che precedette la caduta dello Scià, gli iraniani salivano sui tetti di casa e cantavano ed urlavano insieme. Per le strade c’erano i carri armati, ma nonostante questo intere città, ogni notte, tuonavano per l’energia di tutte quelle voci. Poi, certo, si scendeva anche in strada e ci si faceva anche ammazzare, ma non era quello il momento in cui ci si contava. Ci si contava sui tetti, di notte. E la violenza di quelle voci non faceva dormire nessuno.
“La buona fortuna si costruisce insieme”
Ci sono occasioni in cui mi rammento perchè passo tanto tempo a leggervi.
Grazie.
@Adrianaaaa
Non sono d’accordo, anche perché, al di là di discorsi fatti a posteriori, non bisogna dimenticare la forza che si sprigiona durante una manifestazione. E Canetti lo ha descritto bene: non è per tirare fuori i soliti argomenti stampati su carta, ma sono cose con le quali bisogna fare i conti.
E poi una cosa che mi ha assai colpito è vedere nel giro di pochissimo tempo due tentativi (anche “internazionali”) di arrivare ai luoghi: al Senato, nel caso dell’Italia. Questo, oltre al fatto che ieri alla manifestazione c’erano altre categorie di persone (non solo studenti, non solo “aquilani”, non solo precari ecc), mi fa molto riflettere.
@beppe
Adrianaaaa fa un discorso piuttosto complesso, non certo moralistico sulla violenza: “Il problema non è la violenza in sé, come hanno detto benissimo in tanti, ma il fatto che escluda, che crei gerarchie, che non generi nulla, nessun significato, niente di niente”. Su questo secondo me è giusto insistere a proporre una riflessione… la “forza che si scatena in una manifestazione” non mi convince come argomento giustificativo, quella forza andrebbe incanalata se no si rischia di scottarsi. E ci sono precedenti che dimostrano che si può riuscire a farlo.
Sui tentativi di arrivare ai luoghi che simboleggiano il potere, anche a me fa molto riflettere… ma riesco solo – al momento e probabilmente per limiti miei – a leggerla come una personificazione o materializzazione del potere che mi sembra ci porti indietro, alla ricerca fuori tempo massimo del palazzo d’inverno o del suo corrispettivo simbolico.
Mi chiedo quale sia il fine. Riprendo alcuni concetti letti qui. La violenza ha il problema di escludere, e c’è bisogno di unità e di non rischiare tragedie come ad Atene; un assedio al potere non serve, perché non é radunato in un punto, ed é quasi impalpabile; successi periferici ne sono stati ottenuti (Terzigno, Pomigliano). La cosa bella di queste proteste é vari gruppi, studenti-fiom-terremotati, ad esempio, si siano uniti (come se non sbaglio diceva WM, non ricordo se qui o su twitter). Tuttavia unendosi, é stato inevitabile incappare in una logica d’assedio; la violenza é arrivata, forse non era inevitabile, ma era probabile.
Mi chiedo quindi quale sia il fine di queste proteste, come intenderle, in che quadro inserirle, per visualizzare meglio cosa sta accadendo.
È la costanza, la ripetizione di questo tipo di protesta, il logoramento l’approccio migliore (dubito che il potere vero ne sia anche simbolicamente scalfito), o esiste un qualche livello successivo verso cui indirizzare la protesta, tenendo conto di tutto quello scritto da WM sul 2001?
Le mie non sono domande retoriche, sono domande sincere. È tutto molto interessante quello che leggo qui, quello che personalmente mi manca, mi sfugge, mi interessa, é vedere il tutto da una prospettiva più ampia. :)
Si, l’intervento di Luca è la narrazione del perchè siamo qui.
Grazie.
Anche a WM1 per la risposta a Luca, subito dopo.
Ringrazio davvero tutti quelli che hanno manifestato empatia per l’intervento sopra, e ne approfitto per ricambiare l’abbraccio ad Anna Luisa e tutte le “girls”, e cazzo! Dee Mo, stiamo scherzando, Dee Mo, che chi non lo conosce non può avere idea di quello che ha seminato, prodotto, con la testa, con la voce, con le mani, con i colori…che non lo vedo da un millennio ma gli voglio bene da un’eternità.
Cazzo, Dee Mo.
Poi, solo una piccola cosa sui ‘black’ per giorgio1983: tieni conto di una cosa, per dire una buona bugia ci vuole il 70% di verità. Gli infiltrati, le guardie, ci sono eccome, che quel “beige” delle foto fa puzzare di merda anche lo schermo del pc, per non dire di quell’altro che ‘abbraccia’ il finanziere, ma pure quelli che lo fanno aggratis, per l’estetica del bancomat che brucia e altre cazzate simili. Infine, non bisogna dimenticare, e sottovalutare, che c’è una rabbia che cresce, e se non ha sbocchi non tutti sanno gestirla per il meglio. Mi pare di aver letto che tutti i fermati abbiano tra i 16 e i 24 anni.
I pezzi di merda come è ovvio adesso se ne stanno tranquilli davanti alla tv.
L.
Beh, è un bel tuffo nel passato questo… ricordo la prima volta che la sentii per radio, mi colpì molto. E’ attualissima.
@luca 16-24 la componente principale della giornata di ieri.
Se le azioni contro le banche e le macchine lungo Tevere non mi sono sembrate in sintonia con il corteo (dalle reazioni di chi avevo a fianco), le forzature nei 3 punti: palazzo Grazioli, Senato, via Del Corso, invece lo erano con quella componente…. Non esprimo giudizi, non sono titolato e forse neanche sufficentemente lucido ma quel pezzo di corteo è stato in sintonia con quelle azioni, soprattutto dopo l’esito delle votazioni…
Con questa volontà dobbiamo fare i conti e non attribuire tutto ad un lavoro attivo degli infiltrati o dei gruppi minoritari.
Per i giovinotti e chi all’epoca era altrove: DeeMo è il secondo MC a rappare, quello che attacca con: “Bologna, anche questa volta Bologna…”
http://www.youtube.com/watch?v=zlMFhW9v21w
@mr mills
Oh, sì, di certo non avevo colto alcun moralismo. Mi dispiace, sono stato io un po’ sbrigativo: ma ritengo ci siano due fattori leggermente diversi, da leggere con parametri diversi. È un po’ la questione dei “reduci” cui accennava WM: i motivi per cui, appunto, poi si creano incomprensioni, esclusioni e gerarchie. Quando io sono lì, in mezzo alla bolgia, con i fumogeni eccetera, divento tutt’uno con gli altri, con – appunto – la massa: ed è un fenomeno che non so spiegare, ed è per questo che poi, tornato a casa, mi sento accusare di aver fatto una ca**ata. A maggior ragione (e qui non vorrei assolutamente essere frainteso, ma mi rendo conto di scrivere una cosa “pericolosa”) se non c’è nessuno che possa incanalare la mia forza, e mi ritrovo in mezzo al delirio, magari per la prima o per le prime volte, reagisco esattamente come se fossi tutt’uno col resto.
(Forse sono nuovamente sbrigativo, spero si riesca a cogliere il senso.)
Per quanto riguarda il tentativo di violare i luoghi di potere, concordo anche io sul fatto che possa essere un passo indietro, ma mi fa riflettere la coincidenza: vedi quello che è successo a Londra, vedi quello che è successo oggi ad Atene (dove addirittura un ex ministro si è preso dei cazzotti in testa: e se non è un’eresia questa! Un rappresentante del potere, che entra in diretto contatto, fisico, con i sudditi inferociti!)
@ giangi & beppe
In effetti qui si sta cercando di tenersi alla larga da manicheismi spiccioli. Ci siamo passati tutti e sappiamo che – infiltrati o no – le situazioni come quelle di ieri difficilmente sono “nette”. Per di più, le cose viste (e vissute) dall’esterno o da dentro un corteo sono sempre molto diverse. Mi sembra che la riflessione qui sia su un altro livello, più generale. Io non ho consigli da dare. So soltanto che lo schema di un corteo numeroso con le prime file protette e determinate a impattare con le forze dell’ordine senza farsi troppo male e senza incendiare tutto funziona solo se tutti sono disposti a fare la loro parte (sbirri inclusi), e può bastare davvero poco a farlo saltare e mandare tutto in vacca, con rischi molto alti. So anche che la sensazione espressa da Adrianaaaa non è affatto isolata e che non tenerne conto significa costruire uno steccato. Il punto è porsi tutto questo come un problema a cui tattica e strategia dovranno trovare soluzione, oppure no.
Detto questo, criticare chi era ieri a Roma non mi interessa, e se lo facessi da qui, dalla sedia di casa mia da dove ho seguito le cronache in tempo reale, mi renderei soltanto ridicolo.
[…] una parte del movimento ha deciso che andassero così? Giusto o sbagliato che sia (se ne discute qui)? Che non è che i “cattivi” siano sempre gli […]
Solo di volata, solo per ringraziare.
Luca, *davvero*, e in maniera tanto diffusa da sembrare banale e precotta, tutti i partecipanti. Davvero, in genere me ne resto in disparte e zittino a leggere (o ascoltare)… timidezza, pigrizia, paura di dire banalità, consapevolezza di non poter aggiungere niente, quel che sia.
E quando cerco di fare il punto e non perdermi, finisco sempre da queste parti :-)
Ma stavolta, anche se non aggiunge niente e anche se arriva dopo tanti altri commenti simili: Grazie!
“quel pezzo di corteo è stato in sintonia con quelle azioni, soprattutto dopo l’esito delle votazioni…”
e’ quel “soprattutto dopo l’ esito delle votazioni” che mi lascia perplesso. si e’ detto molte volte, nelle ultime settimane, che il problema non e’ il cavaliere ma il cavallo, che il post-berlusconismo fara’ schifo come il berlusconismo, che dopo berlusconi verranno i montezemolo, i marchionne…
a scanso di equivoci: per me berlusconi e’ un cancro e prima se ne va e meglio e’. ma l’ aver trasformato il voto di ieri in un Evento mi e’ sembrato una dimostrazione di debolezza da parte del movimento. tanto piu’ che il voto nasceva da una diatriba tutta interna alla destra. e’ come se persino il movimento, (come il pd, absit iniuria) avesse proiettato inconsapevolmente le sue speranze di cambiamento su fini e i suoi killer klowns from outer space.
da questo punto di vista, forse e’ un bene che ieri in parlamento le cose siano andate cosi’. fini non merita il ruolo di “salvatore della patria” che, sfiduciando berlusconi, si sarebbe ritagliato presso il rintronato “popolo della sinistra”. adesso e’ chiaro che non ci sono scorciatoie, che bisogna farsi il culo per sconfiggere berlusconi nella testa della gente.
sono anni che mi ripeto la frase “mi piacciono i tipi grossi come te, perche’ quando cadono fanno tanto rumore”. mi sa che pero’ non avro’ la soddisfazione di dire “ne hai fatto di rumore”. quando cadra’, lo fara’ con un suono come di diarrea.
Capisco molto bene le notazioni di giangi circa le azioni in sintonia e quelle meno rispetto a come era composta la manifestazione. E mi rendo anche conto, questo lo dico a tuco, che quel “dopo l’esito del voto” era inevitabile. E’ sacrosanto fare riflessioni ex post, e sono pure giuste, ma teniamo presente che le piazze hanno una forte emotività, e più di mezza italia era a guardare o a sperare che questo qui si levasse dai coglioni, tanto più i ragazzi, che in questo modo avrebbero visto cadere non solo lui ma anche la Gelmini, e non mi sembra un dettaglio da poco.
Sempre a tuco, invece sono assai d’accordo che Fini salvatore della patria era un’altra iattura, verissimo, e pure sul rumore della fine. Un grande squek.
L.
Solo per augurare a Luca di ricostruire al più presto la sua fortuna.
In bocca al lupo.
E già, credo proprio questione di chi sia sconfitto e cosa significhi essere sconfitto.
La fortuna di quel “popolo di Seattle” che portò a Genova, fu proprio quello di venire da una (insperata) vittoria. L’immagine di una piazza che impediva il normale svolgersi di nientemeno che un vertice internazionale porto al riemergere di un movimento, al ricongiungersi di diversità (http://wp.me/pEhZY-4a). Ma presto ci si accorse, e troppo duramente a Genova, che questo miracolo non si stava ripetendo.
Ora non resta nemmeno questa speranza, rimane la (metafora della) piazza non come speranza di vittoria, ma come sfida mediaticamente efficace. Perché certo nessun movimento è mai del tutto sconfitto. Lascia sempre qualche traccia, qualche legame, qualche conoscenza. Come minimo quella sensazione di comunanza del non sentirsi soli o, a quanto pare, almeno la soddisfazione di infrangere qualcosa (finalmente di concreto).
Ed è proprio senza moralismo e senza l’atteggiamento del reduce che insegna o di chi critica da casa, che questo mi sembra non essere sufficiente.
Semplicemente bisognerebbe prendere atto che queste tante piazze piene, come d’altro canto quelle dell’Onda, non raggiungono l’obiettivo. Il punto non è la critica, ma la speranza che in questo “collettivo pensante” si riformi la voglia di esperimenti e di immaginazione, di altre strade, altri riti. Altri miti.
Sono indietro con la lettura dei commenti e non ho al momento niente di particolare da aggiungere. Volevo proporvi questo video: http://www.youtube.com/watch?v=yDJ-ssKn4
Ecco io vorrei vedere questo nelle piazze italiane! E’ chiedere troppo? A un certo punto c’è un poliziotto che annuisce con la testa.
@uomoinpolvere
Youtube mi risponde così:
The URL contained a malformed video ID.
Sulla manifestazione del 14 mi permetto di segnalare questa mia breve riflessione qua:
http://scrittoriprecari.wordpress.com/2010/12/16/la-marcia-dei-libri-contro-la-politica-dellevasione/
@alexpardi
questo è l’indirizzo corretto:
http://www.youtube.com/watch?v=yDJ-ssKn4_0
@ Luca,
grazie… come sempre… :-)
A proposito delle differenze da paese a paese, il video greco sembra venire da un altro pianeta. Evidentemente lì i poliziotti vengono percepiti ancora come – mi si passi il termine pasolineggiante – “figli del popolo”. E nonostante questo i manifestanti greci non vanno certo per il sottile (ieri sono volate molotov ad Atene, l’abbiamo visto). Quel modo di rivolgersi ai poliziotti, di tenere quasi un comizio collettivo a loro uso e consumo, sarebbe pensabile in Italia, dove manifestante e agente di pubblica sicurezza si percepiscono reciprocamente come alieni e nemici da abbattere? Boh.
Nei giorni precedenti al 14, a chi mi chiedeva “secondo te come va a finire? cade?” io ho risposto: in tutta franchezza, non me ne potrebbe fregare meno. Poi cercavo di articolare considerazioni del tipo: se un 75enne va in galera perché perde la copertura politica, e le sue leggi su lavoro (vedi il Collegato al lavoro di Sacconi, che nessuno sembra aver letto) e scuola restano su, cosa cambia? Se il blocco sociale che lo ha sostenuto lo molla e si rivolge a Montezemolo, o anche a Bersani, cosa cambia? E soprattutto: m avoi credete che l’opposizione si facci acontando i voti in parlamento? Che l’opposizione si faccia leggendo gli editoriali di Scalfari e Travaglio? E, in tutta coerenza, il 14 alle 14, mentre i miei colleghi erano incollati al computer per seguire “lo spoglio in diretta”, io ero al bar a prendermi una pausa, viste le 2 ore di riunione obbligatoria che mi aspettavano prima della manifestazione in piazza. Oltretutto, ero (e sono) convinto che se Bersani capisse qualcosa di strategia politica, la cosa migliore per lui (a sapela volgere a proprio favore) era, ed è, che questo governo resti in carica a macerarsi per due voti di differenza (che in realtà non ha: i sudtirolesi hanno fatto un’astensione ad hoc in cambio del parco dello Stelvio).
Rispetto a questo, vedere la concentrazione delle opinioni sulla fiducia/sfiducia, sul Roma-14-parlamento mi imbarazza molto. Avessi avuto voce in capitolo, avrei disertato Roma all’ultimo momento e bloccato altre 10 città; avrei proclamato la manifestazione non il 14, ma il 15, cioè il giorno in cui, comunque fosse andata, bisognava decidere che fare (ad esempio, la calendarizzazione del voto al senato sulla riforma dell’università). Così come mi imbarazza vedere una cosa mediaticamente geniale come il book bloc sprecato in un assalto che ri-territorializza i libri in scudi, plexiglass o meno, che vanifica la valenza simbolica e richiama Genova, che nell’immaginario del paese significa black bloc e devastazione.
Condivido quello che ha scritto oggi Saviano su “Repubblica”. E apprezzo il coraggio di chi non si sottrae, in questo momento, a una presa di posizione etica e politica chiara – al di là dell’analisi delle complesse dinamiche di piazza. Anche a costo di essere accusato di ingenuità, paternalismo, ecc.
Per parte mia, fin dal primo intervento, sono stato prescrittivo, perché credo che in certi frangenti la sospensione del giudizio o della critica sia poco utile. O peggio pericolosa. Poi si può discutere nel merito: nessuno ha la verità in tasca. Ma credo che anche in vista dei prossimi appuntamenti occorra dire con forza che se quella dinamica di piazza si ripete, se un altro gruppo più o meno consistente decide di scatenare nuovamente la guerriglia dell’imbecillità non solo non ci sarà futuro per le lotte ma gruppi di manifestanti pacifici verranno esposti al rischio di pestaggi come a Genova.
E’ vero: quando si è in piazza non sempre si è lucidi. Ma bisogna sforzarsi di esserlo. A Genova sono stato tre giorni in piazza. Il secondo giorno ero in via Tolemaide, e sono rimasto lì fino al pomeriggio, fino alle cariche con i blindati. Ma il giorno dopo insieme ad altri ero a fare servizio d’ordine contro gli imbecilli incappucciati, infiltrati o meno.
Ma il servizio d’ordine non basta. O al limite è ancora figlio di una vecchia logica. La prima battaglia da fare è culturale e di idee: va detto che chi si prepara alla guerriglia intossica la narrazione di queste lotte.
Concordo in toto con girolamo. Mi piacerebbe vedere una guerra di doni nelle prossime manifestazioni, in cui vengano regalati a polizia e passanti valanghe di libri.
@Simone R.: Saviano usa toni paternalistici e prescrittivi perché non ha la possibilità di confrontarsi col movimento: infatti se ne rammarica, e lo dice esplicitamente. Invece, avere toni prescrittivi nel commentarium di un blog, cioè in un luogo di confronto, mi sembra una scelta maldestra e inefficace.
@redmambazo
Grazie per il link corretto.
Mi associo al commento di @wm4 sul video. Aggiungo che non so come avrebbero reagito i poliziotti italiani in una situazione analoga, ma aggiungo anche che a chi abbia vissuto Genova anche solo attraverso i media (è il mio caso) molto difficilmente verrebbe in mente di starsene inerme a un metro dai celerini e dire cose del genere…
@ Wu Ming 2: può essere. Io credo che certe cose chiare, al di là di ogni analisi, vadano detto oggi “in tutti” i luoghi di confronto. Tutti. Altrimenti c’è il rischio che passino altri messaggi.
Il confronto politico è fatto anche di prese di posizione. Essere prescrittivi contro la guerriglia in questa fase delle lotte è prendere parte al confronto con una posizione ben precisa.
L’errore di fondo di Saviano, che quindi vanifica tutto il suo discorso, è credere che lo scontro sia stato opera di pochi facinorosi che hanno “traviato” chi protestava. Tutte le testimonianze dirette dicono che, al contrario, a un certo punto quel terreno è stato fatto proprio, condiviso, portato avanti da una vasta massa di manifestanti. Diverse migliaia, come minimo. Il problema non è quello dei pochi violenti vs. i molti pacifici, quella è una storiella consolatoria. La questione interessante da porre (e che qui è stata posta, e Girolamo ha puntualizzato ulteriormente) è la cornice in cui si inscrive una mobilitazione, è la differenza tra policentrismo e accentramento (il Grande Appuntamento Nazionale), è l’alternativa tra un uso della forza diversificato (come il 30 novembre) e una modalità unica che oscura le altre, etc. etc.
Simone, un discorso prescrittivo (o una predica come quella di Saviano) manca clamorosamente il bersaglio, perché non fa che irrigidire la posizione criticata e “polarizzare” ulteriormente. Davvero, l’impressione di parlare ex cathedra è da evitare come la peste nera.
@ Wu Ming 1: capisco benissimo, ti assicuro che capisco dannatamente bene, e avrei potutto scrivere quello che hai scritto tu. D’altra parte, come ti ho detto, la tua analisi la condivido.
Ma, forse sbagliando, credo che in questo momento sia opportuno, anzi necessario proprio irrigidire la posizione criticata, polarizzarla e espungerla. Prima che produca metastasi. Anche a costo di una lacerazione interna. Ecco perché il tono prescrittivo.
So benissimo che è una descrizione ingenua quella dei pochi cattivi vs buoni: ma non deve funzionare come descrizione, ma per mettere nell’angolo una parte che rischia davvero, se lasciata nuotare liberamente, di portare al suicidio la lotta.
Purtroppo dopo aver letto articoli e commenti in rete dal 14, l’articolo di Saviano oggi su Repubblica non aggiunge nulla alla discussione. Anzi, rimane indietro nell’analisi. :(
@alexpardi
il 4 marzo 2001, a Gorizia, durante una manifestazione contro la frontiera Schengen, che (allora) tagliava in due la città, le tute bianche arrivarono a un centimetro dai poliziotti, si arrampicarono sui cellulari e ci ballarono sopra, per salutare i manifestanti sloveni dall’altra parte della recinzione. Vidi con i miei occhi un paio di ragazzi in divisa blu, schierati in assetto antisommossa, canticchiare “Curre curre guaglio'”, accompagnando il ritmo con piccoli ancheggiamenti.
L’episodio è raccontato qui:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/giap31.html
Questo per dire che uno scenario simile non è più concepibile. Chi lo insegue, insegue un miraggio. Io allora ero ingenuamente convinto che le forze dell’ordine non ci massacrassero per motivi d’immagine: spaccare la faccia a uno che regge soltanto uno scudo protettivo è controproducente. Genova mi ha dimostrato che ero un coglione, e l’ho scritto subito (http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/giap1ns.html). Tra l’altro, si cita sempre Genova, ma in realtà il gioco delle parti tra guardie & ladri era già saltato in altre circostanze (a Brescia e a Napoli, le prime due che mi vengono in mente). Chi allora ci accusava di fare spettacolo e di metterci “d’accordo con gli sbirri” aveva ragione su un punto: certe pratiche sono possibili solo se è possibile una mediazione, il famigerato “gruppo di contatto”, la Digos, eccetera. Ma quando la risposta, in piazza, non è più politica, ma solo militare, allora lo scontro campale non ha senso, è sconfitta certa.
Di quel marzo triestino, l’unico elemento che vorrei riproporre è la creatività: in due giorni ci inventammo un modo di salutare (pugno chiuso e mignolo alzato) che divenne contagioso, tenne banco sui giornali, attirò l’attenzione. Ancora una volta la sfida è fatta di narrativa e fantasia, non di muscoli.
@wuming2
non c’entra niente ma lo voglio raccontare lo stesso. io a gorizia ci sono nato e ci ho vissuto fino a 20 anni. negli anni ottanta attraversare quel confine e trovarsi immersi in un altro mondo era una via di fuga fantastica, per un adolescente.
poi e’ arrivato l’ ’89, e davanti a quella stazione guarda un po’ cosa e’ successo, in un giorno di fine novembre. il “salvatore della patria”, il “compagno fini”….
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/11/23/gorizia-all-italia-eia-eia-alala.html
Vero, il tono ex cathedra è da evitare. Del resto, qualunque cosa dica Saviano, in qualunque modo lo dica, suonerà sempre ex cathedra – è un fatto (purtroppo, aggiungo). Però, pur nei limiti di chi non poteva essere là dentro e certe dinamiche non poteva coglierle, la parte finale del suo discorso è validissima. Capire che anche se ti fermi davanti a una camionetta a 1 Km da Montecitorio le tue parole d’ordine, le tue immagini, i titoli dei tuoi libri arrivano in tutto il mondo in tempo reale; che se la città la blocchi con i sit in e le occupazioni mordi e fuggi, come nei giorni scorsi, l’effetto è identico alla camionetta bruciata, è la semplicità che è difficile a farsi. Sulle mobilitazioni dei giorni scorsi la stampa non è riuscita a cucire il discorso del provocatore violento: perché era evidente persino ai servi dei servi che l’esplosione di protesta degli universitari era “empatizzata” da una vasta parte della popolazione. Su questo dato bisognava riflettere, e rilanciare azioni che ottenessero lo stesso effetto, non “alzare il livello di scontro”.
Ultimo dato: la dinamica romanocentrica (anzi, se devo credere a quel che leggo altrove: piazzadelpopolocentrica) sta creando il piccolo mito del Poliziotto-severo-ma-buono: Manganelli, il capo della polizia, che riceve gli elogi di Maroni, ma anche di chi dice che in fondo non ha avuto bisogno di ammazzare nessuno. Con l’aria di governi di emergenza, solidarietà nazionale, tecnici e via dicendo, la figura del buon poliziotto (come il De Gennaro antimafia o il buon carabiniere Dalla Chiesa a loro tempo) rischia di essere un papabile ministro degli interni. Davvero un bel risultato!
@Simone Regazzoni: Condivido quello che ha scritto oggi Saviano su “Repubblica”
Io no. Basta leggere [basta a chi non era lì, intendo] *qualunque* articolo o commento su blog, twitter ecc. per rendersi conto che le cose non sono andate come dice lui: fornisce una versione dei fatti inesistente. Basta un giro su Carmillaonline, per dire. La mia reazione davanti all’articolo è: no prediche, grazie.
E poi non c’è solo Roma. A Cagliari quasi quattromila persone hanno paralizzato la città, le facoltà sono occupate. Non è successo nulla degno di finire nelle gallery di Repubblica.it, ma non vuol dire che non possa succedere se si dovesse radicalizzare il livello dello scontro.
Ultima cosa: trattare da piagnoni e infami i fermati non fa onore a nessuno, anche se ha scritto Gomorra.
I miei 2 cents.
ciao,
fab.
Ah, dimenticavo:
si scrive “book bloc” e non book block, senza la K finale, o sbaglio? :-) [vedi predicozzo su repubblica.it]
Ah, i bei tempi dei correttori di bozze. O forse sono i tempi dettati da Espresso/Repubblica [tempi da cronaca] che mal si conciliano coi tempi della narrazione meditata. Chissà.
[…] prevalenti nella discussione che come sempre dilaga in centinaia di commenti su Giap, dove anche Wu Ming dice la sua su Roma. Se devo scegliere una frase, quella che si è appiccicata subito alla testa è: Non si esce dalla […]
@ Girolamo e noi tutti
boh, mi sembra che tutti noi si pretenda lucidità da una movimento in cui le componenti organizzate erano e sono minoritarie. Forse il livello su cui interrogarsi per ora è davvero “sociologico”, più che politico – e il richiamo all”efficacia” mediatica rientra, nel nostro tempo, pienamente in quest’ultima categoria.
Ora una prefigurazione. Ritengo ogni voce e braccio che si leva contro questo stato-di-cose in ultima analisi positivo. Allargando la prospettiva, anche se tutti i passaggi tattici vengono mancati, ciò che conta ora è l’indicazione generale che alzare la testa è possibile. Se il movimento continuerà, alzare la testa diverrà doveroso. Se il movimento continuerà, inevitabilmente dovrà dotarsi di un pensiero e di una prospettiva politica. Allora forse i passaggi tattici non verranno fraintesi e le occasioni non verranno sprecate. Il nostro compito di quasi-vecchi implicati in svariate stagioni di lotta è solo trasmettere esperienza, nel modo più orizzontale possibile, ogni volta che ci verrà chiesto.
@ John Grady
Quindi, sulla lettera di Saviano, sono d’accordo con te.
Una domanda rivolta ai Wu Ming. Discutendo del video su polizia e popolo greco, passando per l’esempio goriziano, non ho capito cosa ci si auguri e cosa invece si pensi non possibile.
Io capisco una cosa: quando un finanziere, a ridosso degli scontri, dopo essere stato picchiato da 20 persone, con la giacca bruciata da un fumogeno, parlando con una giornalista si lamenta dicendo come sia possibile fare quella vita per due lire, con la consapevolezza che un’altra uniforme gli verrà data in almeno 3 o 4 anni, bene, lì in quel momento capisco che forse si può lavorare ad altro, che forse è giunto il momento di cercare di rivivere certe stagioni che vedevano i fascisti lamentarsi della presenza eccessiva dei comunisti nell’esercito.
Forse sono ingenuo, ma io in piazza a Roma ho visto molto ACAB e poco altro.
Scusate, lo dico senza spocchia e col pudore che dovrebbe avere chi a Roma l’altro ieri non c’era.
@ mimmo e in seconda battuta ad altri
Grazie per l’assenza di spocchia da uno che l’altro ieri a Roma non c’era. E’ la stessa che pretendo da me stesso (e che suggerivo, inutilmente, a tutti).
Giustamente tu fai riferimento a un passato italiano in cui era più facile – pasolinianamente – vedere nel celerino o nel carabiniere un proletario in divisa. Oggi mi sembra assai più complicato. Primo, perché l’identificazione di classe è venuta meno perfino tra gli stessi spossessati, figuriamoci tra chi milita in opposti schieramenti in piazza. Secondo, perché l’odio reciproco rispecchia e concentra in sé quello che l’intera società respira. Noi siamo le “zecche”, loro sono “all bastards”, in piazza come allo stadio. Come ricorda WM2, la disobbedienza civile protetta ha funzionato per una breve stagione, dieci anni fa, quando – complice un governo di centro-sinistra – era ancora possibile trattare sulla piazza con la Digos e contenere il livello degli scontri cercando di evitare che degenerassero in guerriglia aperta, con tutti i rischi che sappiamo. Quello schema saltò definitivamente a Genova nel luglio del 2001. Alla rappresentazione del conflitto (cioè a un conflitto a “bassa intensità”) venne sostituito il conflitto militare vero, al quale nessuno di noi era preparato. Furono i Carabinieri a gestire quel passaggio, con il placet dell’attuale eroe nazionale mancato Gianfranco Fini e la complicità della Polizia. Sono quindi d’accordo con chi dice che quella modalità oggi è irriproponibile, ma… posso essere io a giudicare dall’alto del mio fottuto senno di poi?
Se lo facessi sarei due volte pretenzioso.
Primo, perché giudicare dall’esterno e pretendere di fare distinzioni nette in eventi complicati e caotici come quelli del 14 a Roma è gratuito. Da fuori sono buoni tutti.
Secondo, perché come scrive il mio socio WM5, pretendere un elevato grado di consapevolezza e autocontrollo da un movimento appena nato e composto da ventenni è un atteggiamento inutile quanto ogni paternalismo.
E’ evidente che io che ero a Genova, in via Tolemaide, nove anni fa, so quali sono i rischi immediati e prossimi conseguenti a certi eventi. Li ho corsi tutti quei rischi, e non sono stato capace di arginare né il peggio “sul campo” né la dissoluzione del movimento “dopo”. Dunque quale cazzo di saggezza potrei cercare di spacciare a uno studente di oggi? Quali medaglie posso affiggermi al petto? Ho l’esperienza dalla mia, certo. Se crede di potersene fare qualcosa verrà a chiedere il mio parere, ma certo non sarò io a fare la figura del coglione, qui o in altra sede, sputando sentenze su ciò che lui/lei avrebbe o non avrebbe dovuto fare.
Saviano scrive che la rabbia vera è “una caldaia che ti fa andare avanti, che ti tiene desto, che non ti fa fare stupidaggini ma ti spinge a fare cose serie, scelte importanti.” Considero Saviano un amico. Per questo quando scrive una cazzata posso dirglielo direttamente, senza essere scambiato per uno che abbia secondi fini. Ecco, quella che ha scritto è una cazzata. Nel migliore dei mondi possibili forse la rabbia è quella cosa lì, ma nella storia e nella nostra vita è ben diverso. Se gli operai licenziati e gli immigrati non sono ancora in rivolta come gli studenti, ma si limitano a salire sui tetti delle fabbriche e sulle gru, è perché sono ricattati dalla necessità di pagare un mutuo, di crescere i figli, di tenersi stretto un permesso di soggiorno. Ai giovani ai quali viene tolto il futuro, viene tolto semplicemente tutto in partenza e da perdere non hanno un cazzo, in Italia come in Inghilterra e in Grecia.
E’ evidente a chiunque il rischio di una jacquerie in deriva distruttiva e che il problema è quello di immaginare altro. E’ stato scritto qui e altrove a chiare lettere. Ed è altrettanto evidente che ognuno di noi deve trovare la forza e la lucidità di reagire diversamente alla disperazione, che è la minaccia incombente su tutti. Ma certo negarla in quanto rabbia “sbagliata” o pensare di stigmatizzarne le manifestazioni fragorose lascia il tempo che trova. Quello che ci serve è capire come uscirne, come recuperare e costruire insieme una visione in grado di superare la disperazione dilagante. Personalmente se proprio dovessi prescrivere qualcosa a un novello reduce dagli scontri romani non troverei di meglio delle parole del vecchio Gandalf, che valgono per lui quanto per me: “Hai il dovere di adoperare tutta la forza, l’intelligenza e il coraggio di cui puoi disporre”.
Tutto il resto fa parte della buona fortuna che dobbiamo trovare insieme.
Per me la lettera di Saviano agli studenti è pessima. Ancora la favola dei black bloc, ancora il falso mito dei cattivi che rovinano tutto.
Ma ha visto chi sono gli arrestati? Ma lo sa che Roma 2010 non è Genova 2001?
La rabbia che monta si esprime anche in modo scomposto, ma dare degli idioti a chi subisce la repressione di un ordine costituito osceno come il nostro, non mi sembra affatto un buon contributo alla lotta e all’analisi della situazione.
Tutto il contrario.
la rabbia, questa rabbia, è sana, è vitale, è persino necessaria.
La protesta controllata perde di efficacia, si riduce a un lezioso balletto: vedete come siamo bravi? governiamo (un paese, un’azienda, un’attività commerciale, una compagnia aerea…) da far schifo, ma vi lasciamo protestare. Fin qui, però, mi raccomando! E voi, oh come siete bravi a protestare! tutti belli in ordine, vi fate questa bella passeggiata in centro e via! sì, bè, quel cartello… forse un po’ eccessivo… sì, bè, fate una giornata di sciopero, che bravi però! magari nei giorni seguenti recuperate le ore perse…
Ecco, la magica parola: condivisione.
La parola peggiore di questi ultimi anni di lotta, la panacea dei rapporti di lavoro. La condivisione. Ti sdereno, riduco a zero i tuoi diritti, ma te lo dico. Condividiamo.
Ci sto facendo i conti, ci stiamo facendo i conti, in questi mesi, con i miei colleghi di lavoro, senza riuscire a venirne a capo. Proprio l’altro giorno abbiamo capito perché. Perché volevamo essere ragionevoli, accomodanti, pazienti con i nostri datori di lavoro. Inutile. E’ inutile.
Magari non troppo muscolarmente, magari non troppo virilmente, ma a un certo punto è troppo impellente l’imperativo categorico (l’unico, grande, vero): basta! Ora, basta!
@Giangi @Wu Ming 1 @Wu Ming 4 @Luca @…
Da 24 Hour Party People
Tony Wilson: “The smaller the attendance the bigger the history. There were 12 people at the last supper. Half a dozen at Kitty Hawk. Archimedes was on his own in the bath”.
Se non c’è Tutto in piazza, c’è la Sua rappresentazione (Dialettica, Desiderio, Frustrazione, Paesaggio, Potere Panteistico…)
Ci hai vent’anni e ormoni incazzati, come sottrarsi?
Ma anche dopo… (Giangi si sentiva a casa!)
Per di più con la data e l’ora… l’appuntamento strombazzato…
È Mezzogiorno di Fuoco a mezzogiorno.
È il matrimonio tra Gemeinwesen e Zeitgeist allo Zenit.
È l’estasi estetizzata nel momento.
Poi è inevitabile perdersi il quadro per l’evento.
Fissare la Singolarità Gravitazionale ignorando il Continuum tutto intorno, nello spazio e nel tempo.
È il bug nella strategia quando la Buona Fortuna di Wm4 e L. si deve costruire «con pazienza, tenacia, metodo, lavoro, analisi, riflessione».
Poi sei sul lato destro del campo – la palla con l’Elastico Invisibile alla caviglia – e decidi di lasciare la tua tre quarti per sessanta–metri–in–dieci–secondi, passo passo, oltre Beardsley, Reid, Butcher, Fenwick e Shilton, nel crescendo tellurico dell’Azteca di Città del Messico.
Poi c’è l’Altra Fortuna? Quella del «momento in cui il talento incontra l’occasione»? Non sembra la stessa, o si? Luca l’ha tirata in mezzo, anche quella, con il giocatore d’azzardo che attende «per la stragrande maggioranza del tempo». Poi una maldestra palla spiovente di Steve Hodge nell’area di rigore presidiata da Peter Un–metro–e–ottantacinque Shilton. O 100 lire in testa ad Alemao.
Sicuro niente paternalismi.
[Ancora più OT. Ciao. Una marginale comparsata. Mi scuso in anticipo per la partecipazione scarsa. Un saluto a Luca (dati i contenuti, questo commento gli è ovviamente dedicato) e agli altri reduci, della guerra fredda e di altre (s)fortune.
Ci si vede poco e mancate]
Anche la cazzata di Saviano (d’accordo con WM 4, e anche per me Saviano è un amico) è il sintomo, non il problema. È così che viene letta la giornata del 15 da chi non c’era. Sul piatto pieno della bilancia c’è un conflitto imprevisto, che forse comincia a fare paura (segnalo questo intervento di un altro amico, Gigi Roggero: http://uninomade.org/il-fuoco-della-conoscenza/); sul piatto vuoto, l’arretramento rispetto alla genialità di un movimento che nelle precedenti giornate aveva “giocato a zona” (ed anche il 14, in altre città: http://www.globalproject.info/it/community/Bari-La-rivolta-gioca-a-zona/6796). Intestardirsi attorno a Montecitorio avendo un’intera città da giocare, sapendo che sui media cmq ci si stava, come quando si erano occupati i monumenti (ed oggi ci si sta con la foto del furgone bruciato) ha significato lo sperpero del patrimonio di rabbia e intelligenza dei giorni scorsi.
Resta che, se trovo geniale scendere in piazza con lo scudo-book bloc, non posso che pensare male della mazza da baseball; se penso che il movimento-monumento sia geniale perché apre al resto del mondo che vede la Torre di Pisa e il Colosseo occupati, non posso che pensar male dell’assedio in piazza del Popolo che chiude il globale dentro il locale, e ripropone il conflitto claustrofobico. La scelta non è sul momento, ma prima di scendere in strada: scelgo io il terreno, o gioco sul terreno del nemico? Chi ha visto la splendida Olanda del 1974 assediare a testa bassa il fortino tedesco, permettendo alla migliore difesa del mondo di fare catenaccione mentre mancavano gli spazi per i lanci di van Hanegem e i guizzi di Cruijff, sa la risposta.
@ danae
quel che dici sull’ inganno della “condivisione” e’ vero, ma non e’ una questione di “uso della forza- si’-no”. il problema e’ quello di individuare bene la controparte. io faccio il ricercatore, e negli ultimi anni, a partire dalla mobilitazione contro moratti, tutte le proteste (almeno in questa landa desolata, alla periferia di qualsiasi cosa) hanno sempre mirato ad ottenere il pronunciamento di qualche organo accademico contro le proposte governative. io non sono mai stato d’ accordo con questa impostazione, perche’ ho sempre avuto ben chiaro che la vera controparte non stava a roma, ma nell’ ufficio accanto al mio. e allo stesso tempo ho sempre pensato che la lotta contro moratti allora e contro gelmini adesso *fosse la stessa lotta* dei metalmeccanici che scioperavano per l’ articolo 18 allora, e dei precari che chiedono contratti decenti adesso. ma spiegare queste cose e’ “la semplicita’ che e’ difficile a farsi”.
Tanti spunti interessanti, per cui mi permetto di aggiungere un elemento.
Due anni fa a Roma (il 14 novembre 2008), all’apice del movimento dell’Onda, ci fu una manifestazione studentesca che vide la partecipazione di decine di migliaia di persone (forse addirittura più di martedì). Quel momento arrivava dopo settimane di intensa lotta, cortei, blocchi metropolitani, in un contesto assolutamente nuovo per l’eterogeneità della composizione e dei metodi di lotta.
Il corteo si riversò nelle vie del centro, passò di fronte a Montecitorio e tornò alla Sapienza dove iniziarono 3 giorni di assemblee molto partecipate. Si discusse di welfare, università, capitalismo cognitivo, e di tanto altro.
Bene, Roma per l’Onda fu la fine del movimento. La famigerata legge 133 (o meglio, gli articoli contro i quali si protestava) non venne abrogata, e gli studenti tornarono ai loro studi delusi e frustrati.
Quel 14 novembre 2008 si volse un corteo che in tanti, a partire da Saviano, avrebbero voluto rivedere martedì, ignorando il tema centrale della vittoria della lotta. Due anni fa 200 mila studenti pacifici non ottennero nulla, e il movimento (l’Onda, non il precipitato dell’Onda!) morì, dunque spiegateci, come si raggiunge la vittoria?
Non ho risposte a questa domanda, ma bisogna tenere a mente la storia recente (anzi, recentissima) dei movimenti (e, ahimè, delle loro sconfitte) per cercare una risposta.
Ho finito adesso di leggervi e ancora non ho niente di particolare da aggiungere. Mi dichiaro ignorante sul presente e sul futuro, sto cercando di capire come voi.
Riguardo al video
( http://www.youtube.com/watch?v=yDJ-ssKn4_0 ) sulla protesta greca che ho postato, anche io ho dei dubbi sulla fattibilità in Italia di una simile modalità. Perché si abbia il quadro completo è utile però sapere che la Grecia è anche questo: http://www.youtube.com/watch?v=AuJZdWTiaJM .
Quindi queste due modalità “convivono”, certo in momenti, situazioni e con partecipanti diversi, sullo stesso territorio. Quindi perché in Italia no? Anche sul mio tumblr tutti hanno sollevato obiezioni sulla fattibilità di un dialogo con i cellerini. Secondo me però anche i cittadini greci non si aspettano tutto questo dialogo: da bravi greci sono andati in scena. Anche io trovo assurdo pensare all’eventualità di un dialogo con i poliziotti in Italia. Ma proprio il tentarlo comunque non svelerebbe forse agli occhi di tutti le intenzioni e le posizioni vere delle forze in campo?
La mia domanda non è retorica, e non è rivolta al passato, al ciò-che-è-stato o al ciò-che-poteva-essere, ma al futuro. Lo ripeto: mi dichiaro ignorante, rifiuto i pacifismi da divano, i paternalismi di ogni tipo, e dico GRAZIE a tutti quelli che comunque sono andati a Roma e altrove a protestare e a voi che ne parlate.
Volevo segnalare la (a mio parere) molto bella risposta di Valerio Evangelisti alla (a mio parere) molto brutta lettera di Saviano agli studenti:
http://www.infoaut.org/articolo/il-telepredicatore/
A me non pare che Saviano dica cazzate, pur essendo d’accordo sul fatto che il tono che usa è inefficace.
Mi pare del resto chiaro che gli eventi di Roma (se non direttamente i cinquanta o cento “idioti”, o mille, o quanti erano) abbiano “egemonizzato” la comunicazione della piazza romana. I giornali e le tv parlano di scontri e mostrano le camionette incendiate non perché appartengano alle Forze Oscure Della Reazione in Agguato, ma perché quelle immagini soddisfano l’estetica e il voyeurismo di noi lettori e veicolano adrenalina: tra l’ennesima rassegna di cartelli fatti in casa, striscioni e “volti della protesta” e una camionetta della finanza che brucia, cosa sceglierei per la mia prima pagina, se lavorassi per Repubblica? Su quale immagine clicchiamo tutti per prima? Saviano sta dicendo semplicemente che il movimento corre il rischio di essere marginalizzato e ridotto a fenomeno di folklore e ordine pubblico se il movimento stesso non chiarisce – prima di tutto al proprio interno – che gli esercizi ginnici di flessione dei bicipiti con lo stalin in mano e i calci in testa al finanziere, entrambi ad uso dei fotografi AP, riducono le possibilità di vittoria nella storia individuale di ognuno dei suoi componenti. Proprio il fatto che gli imbecilli non fossero “solo” 100 ma siano stati seguiti da altre migliaia di persone è preoccupante. E non per ragioni etiche o di strategia, ma ragioni tattiche di brevissimo periodo. E’ già dalla prossima manifestazione che si avvertiranno gli effetti esclusivi di Roma. Il movimento ha il pieno diritto, oggettivo, di fare cio’ che crede: compreso sbagliare come abbiamo sbagliato noi scambiando il potere coi luoghi della sua rappresentazione. Ma non fa torto a nessuno chi prova a insinuare il dubbio che la colpa non sia sempre degli altri né gli errori eterni, ricorrenti e irrimediabili. Penso che Saviano non stia dicendo “non fatevi fregare”, ma piuttosto che non è necessario ogni volta arrovellarsi per trovare la giustificazione sociologica a un perenne errore tattico.
Thread spettacolare, zemaniano, come il post di christo, altro fratello da abbracciare, o il goal di cavani a partita finita e gente a casa da un pezzo.
Molto dura la lettera di Evangelisti, ma purtroppo ci sta.
Ci sta.
Non si può, non si deve, usare armamentari logori e semplificazioni che non hanno mai portato bene e tantomeno capito qualcosa. La storia dei 50-100 idioti o teppisti o infiltrati o… non funziona. No.
Qua c’è in ballo una generazione, forse due. E credo che loro sono i primi che lo stanno capendo. Per forza.
Quelli dai sedici ai trenta.
Bisogna che ci rendiamo conto che per un ragazzo di diciotto anni, nel suo vocabolario, la parola berlusconi significa Sempre. Io nemmeno riesco a immaginare cosa significhi questo, cosa comporti. Però mi sembra di sapere che è un grosso, grosso casino. Non si tratta di difendere, di esaltare, giustificare, condannare, prescrivere, consigliare.
PUT-TA-NA-TE.
Chi si immagina la rivoluzione ben educata, compostina e coi capelli a posto mi sa che si deve mettere l’anima in pace.
Se ne faccia una ragione e prenda in fretta una tessera del pd. Almeno così si rende utile a quelli lì, che ne hanno tanto bisogno.
Succederà un po’ di tutto, si vedranno cose esaltanti e contraddittorie, faranno anche tanti errori. Ma qualcosa la devono fare, perchè li stanno accoppando. E non ci devono chiedere il permesso.
Infine, una piccola cosa sulla violenza: se per caso nel corso del prossimo anno ci dovessero essere dei problemi col finanziamento della cassa integrazione, bè allora dovremo riaggiornare molto in fretta i nostri ragionamenti.
Complimenti a tutti.
L.
@ Beppe: senza alcuna polemica, cos’è che ci trovi di bello nella risposta di Valerio Evangelisti a Saviano? A me pare che se ci cambi tre o quattro frasi e tre o quattro parole è la stessa data da Libero quando Saviano attacca la Lega o il Governo. Le stesse allusioni ai soldi, la stessa accusa di vittimismo, il “pensa ai cazzi tuoi”, poi un vago accenno all’eventualità che sia pure filoisraeliano (quindi che gli piacca stare coi più forti, no?), e per finire ancora la giustificazione sociologica, c’ho rabbia, spacco tutto. O bravo bischero, e ora che hai spaccato tutto, lo dici pure?
“Saviano, è noto, deve muoversi sotto scorta. Prima di lanciarsi in ulteriori predicozzi farebbe meglio a chiedersi se non si stia amalgamando alla scorta stessa, facendone propria la visione del mondo”.
Il pezzo di Evangelisti mi lascia senza parole. Solo profondissima amarezza.
Analizzare i comportamenti e le loro conseguenze è doveroso. Andare a spiegare, anche con le migliori intenzioni e modalità, i risultati delle proprie analisi – specie se fatte dalla poltrona del salotto – ai ragazzi che erano in piazza è certamente controproducente.
Credo che il senso di questo thread e delle altre discussioni analoghe di questi giorni sia proprio quello di provare a cercare strade diverse dallo scontro frontale, senza imporre niente a nessuno. Le idee circolano…
Più leggo e discuto dei fatti di martedì, più colgo un pensiero che mi pare condiviso da moltissimi e al quale a questo punto sento di dovermi adeguare: la violenza di quel genere c’è, ci sarà sempre ed è un dato di fatto. Anzi andrà peggio. Non puoi farci nulla.
Questo lo accetto. Quello che non accetto è il compiacimento nel vedere le camionette bruciare, un compiacimento che si taglia con il coltello da tanto è spesso. Sembra non si capisca che una camionetta bruciata significa una cosa sola: che hai perso. Non perché bruciare una camionetta ti condanni all’immoralità e al biasimo di Saviano, ma perché, banalmente, per una che ne bruci dieci ne arriveranno. E’ sempre successo così. Quando mai la strategia dell’assalto e dello scontro frontale ha dato qualche frutto? Però sembra sia una cosa che non si può dire.
Siccome non siamo in Colombia o nei Territori Occupati, si possono benissimo fare delle azioni di lotta che non prevedano uno scontro frontale con la polizia, che comunque è destinato ad essere sconfitto (non solo per l’evidente disparità delle forze, ma anche perché una città in cui il fumo dei lacrimogeni e dei cassonetti bruciati riempie le strade non ha nulla di bello). La celere non piace a nessuno, allora non sarebbe meglio, quando è possibile (e si può fare, come hanno dimostrato una marea di azioni nelle settimane scorse) evitarla? Io, se le camionette non le vedo proprio o le vedo piccoline in lontananza sto proprio meglio.
@ emanuele
Sì, senza polemiche -per carità! :-)
Inizio col dire che non credo Evangelisti appartenga a quella fetta di popolazione che a priori critica Saviano (vedi qui, per esempio: http://www.carmillaonline.com/archives/2010/06/003522.html#003522 – firmato dalla Redazione tutta, senza “dissociati” come invece è accaduto altre volte).
È vero che alcune insinuazioni sono un po’ povere: e non mi riferisco a quella su Israele, ma a quella sulla scorta. Detto ciò, tutto il resto funziona: Saviano (del quale non sono amico, al quale non ho mai parlato, ma che vivo come una personalità pubblica, come un intellettuale che ogni tanto commenta i fatti del giorno su un quotidiano, e a volte compare in tv) ha scritto delle cose stupide, a parere mio, leggere e anche un po’ nazional-popolari. Condivido con Evangelisti la tempistica della lettera: oggi, contemporanea al processo (e quando? i fatti sono già accaduti due giorni fa! Saviano non se la sente di rispondere “va bene, ma la lettera la pubblicate domani?”). Condivido: i cinquanta o cento imbecilli erano molti di più; e questo meccanismo dialettico, e questa espressione, mi hanno ricordato quel “giornalista” che è Emilio Fede. Gli imbecilli che si sono trascinati dietro degli ingenui: perché se le cose accadono a Londra o ad Atene, sono espressione di libertà, mentre da noi sono imbecilli che si fanno fregare da infiltrati e black bloc (scriveva qualcuno, oggi)? È vero: se Saviano avesse anche solo guardato le immagini, avrebbe visto che in quella folla non c’erano “ultrà del caos” che comandavano, mentre altri ragazzi “urlavano di smettere”: questa scena se l’è immaginata. C’erano ragazzi a centinaia, e nessuno urlava di smettere. C’era un po’ di voyeurismo, è vero, ma nessuno urlava a nessuno di smettere. E questo lo posso testimoniare.
Infine: chissà per quale motivo, alla prima lettura della “lettera ai giovani”, mi è subito tornata alla mente “Il PCI ai giovani” di PPP, figura alla quale Saviano si richiama sovente: non voglio pronunciarmi sulla distanza tra i due personaggi.
Ultima cosa: se la stessa lettera che ha scritto Saviano, l’avesse scritta un altro, che so: Umberto Eco o Massimo Giannini o Bersani o Moretti o Vendola: quali sarebbero state le reazioni?
@ Luca
La luce ferisce gli occhi del feto appena espulso dal ventre materno e anche solo respirare lacera, mentre tutto è freddo; ma è lì che la vita può cominciare, con la luce che ferisce.
Non temere, se sei arrivato qui puoi andare oltre, il resto del cammino è accidentato, ma in discesa. Parola di lupetta. <3
leggo ora l’articolo linkato da Beppe. Incredibile… L’ O bravo bischero (di emanuele) ci sta tutto. Non è l’attacco a Saviano che dà fastidio, è proprio la sua visione dei fatti e delle loro conseguenze.
2 cose su Saviano e i maestri predicatori:
Più che una “lettera aperta” a me pare proprio invettiva piena di insulti, perdipiù fatta nel giorno in cui i ragazzi fermati sono sottoposti al giudizio per direttissima.
E non bisogna certo frequentare i tribunali x capire il peso che certi editoriali possono avere sulle future sentenze.
Insultare gratuitamente chi ha avuto la dignità di scendere in piazza è una pratica che mi fa ribrezzo.
WTJ
Perdonatemi, ma segnalo anche un appunto di Sandrone Dazieri:
http://sandronedazieri.nova100.ilsole24ore.com/2010/12/a-proposito-di-cortei-e-buoni-maestri.html
@ Adrianaaaaa
La penso come te. L’estetica muscolare mi fa cagare. Le camionette come obiettivo su cui sfogare la propria incazzatura sono come i sacchi da box, nemici inanimati, con l’inconveniente che alle volte dall’interno può partire un colpo di pistola. La sconfitta non sta nella camionetta bruciata, ma a monte, nel darsi quella come obiettivo. Ovvero – l’abbiamo ripetuto ad nauseam – nel frame del Grande Assedio che ha già troppe volte mostrato la corda.
Ma… c’è un “ma” grande come una casa centrato da Luca nel suo ultimo commento. Io non sono nato negli anni Ottanta o Novanta. Non ho raggiunto la maggiore età nell’era berlusconiana. Sono cresciuto con storie e memorie di uno spazio politico praticabile, fosse il Parlamento o il luogo di lavoro, le sottoculture giovanili o i centri sociali, i collettivi autonomi o il milieu delle culture antagoniste. Sono cresciuto con un’idea di futuro possibile.
Non solo. Io non sono un operaio cassaintegrato o licenziato, né un lavoratore immigrato, né uno studente che vede smantellare la scuola pubblica e l’università.
Ho i miei buoni motivi di incazzo e certo non me la passo alla grande (tutt’altro! Potrei raccontarvi di cosa significherà il rincaro degli asili nido e delle materne o la riduzione dell’orario scolastico dopo i tagli di Tremonti…), ma ho il privilegio di vedere le cose da un’angolazione particolare per i motivi suddetti.
Capisci cosa intendo? C’è gente là fuori le cui prospettive sono molto diverse dalle mie e che vive nella propria percezione diretta e forzatamente ristretta la devastazione sociale che avanza, senza intravedere all’orizzonte alcuna possibilità di riscatto, di inversione di tendenza (basta vedere cosa succedeva a Montecitorio il 14, mentre fuori c’era il finimondo).
Dopo le giornate londinesi Nick Clegg, il segretario del partito Liberal-Democratico inglese si è rammaricato di non potere più andare al lavoro in bicicletta, lui che della mobilità ecologica aveva fatto bandiera. Adesso ha bisogno di spostarsi in auto con la scorta, perché se lo vedono gli tirano le pietre. Tirare le pietre alle persone è una bella cosa? No, per niente. Ma c’è da meravigliarsi che accada? Nick Clegg ha votato una legge che di fatto impedirà a una fetta consistente di una generazione di frequentare l’università. Ha cambiato le prospettive di vita a un sacco di gente. Non è un’enorme violenza questa? Posso dire a un ragazzo inglese che tirargli le pietre non serve a niente, che è un gesto di rabbia disperata, certo, e lui potrebbe rispondermi: “Sì, cazzo, è un gesto di rabbia disperata. E’ tutto ciò che mi resta”. Sbaglia, si fa del male, certo. Ma posso limitarmi a dire che è un facinoroso, un imbecille, un violento, un nemico del movimento? E’ qui che Saviano e tutti quelli che oggi puntano l’indice dall’alto delle proprie testate o tastiere sbagliano di brutto.
Quando il capitalismo si incattivisce raccoglie tempesta sociale. E’ sempre stato così. La cosa in cui noi che possiamo concederci il lusso della lucidità dobbiamo impegnarci non è la condanna, il rigetto, ma il tentativo di ragionare con chi è disponibile a farlo su come evitare che resti soltanto la jacquerie, l’esplosione di rabbia fine a se stessa. Su come trasformare la rabbia in qualcosa di finalizzato e di aggregante. Ma sia chiaro che, per quanto riguarda il movimento studentesco, questa esigenza deve partire dall’interno. Non posso essere io a pretendere di dire loro cosa dovrebbero “voler fare” (ha ragione da vendere Sandrone Dazieri nel commento linkato qui sopra da Beppe). Con i se e con i ma la storia non si fa. Detto da un autore di romanzi storici può suonare paradossale, ma tant’è.
Anche io ho seguito il corteo dalla mia scrivania, felice di vedere tanti studenti in piazza e angosciata pensando a mio fratello che era da qualche parte lì in mezzo. Forse se partecipassi oggi a qualche assemblea universitaria direi, ragazzi non ci conviene andare in contro a questi scontri, era più bello salire sulla Basilica di San Marco.
Ma non ero lì, e credo che siano gli studenti a dover trarre le loro conclusioni.
Saviano dice “Ridurre tutto a scontro vuol dire permettere che la complessità di quelle manifestazioni e così le idee, le scelte, i progetti che ci sono dietro vengano raccontate ancora una volta con manganelli, fiamme, pietre e lacrimogeni.” Ma qualcosa non mi torna. Insomma, non è lui per primo a fare così? Da editorialista di un grande quotidiano, di cosa parla? Degli scontri. E inoltre mi sembra un po’ ipocrita questo suo rivolgersi agli studenti. Chi scrive su repubblica non si rivolge agli studenti, si rivolge a quegli italiani che potrebbero condividere le ragioni della protesta, ma anche no.
@Wu Ming 4: io sono nata negli anni ’80, diplomata nel 2003. Ho dei grandissimi motivi di incazzo, dato che mi sono laureata un anno fa col massimo dei voti, non ho un lavoro, vivo sulle spalle dei miei. Quando mi sono iscritta all’ufficio di collocamento le uniche strade che mi hanno detto possibili erano un eventuale impiego da segretaria (per cui non mi hanno mai chiamata) o un tirocinio come maestra d’asilo (e io sono laureata in lingue, a malapena so come si tiene in braccio un bambino). E questo è solo un esempio delle umiliazioni che ho subito da quando cerco lavoro. Sto iniziando a pensare di cambiare il curriculum con cui mi presento, togliendo la laurea, mentre la necessità di allegare una foto a figura intera, pensate un pò, sono persino quasi riuscita a digerirla.
Scusate lo sfogo, anch’io ogni tanto uso questo forum come terapia :)
Il punto è: se la necessità è quella di restituire la violenza che si subisce (e dio se c’è questa necessità!), non vedo quale sia l’efficacia di dare fuoco ad una camionetta. Se davvero si riuscisse a prendere a sassate la macchina di Berlusconi, o meglio di Marchionne, avrebbe un qualche senso. Almeno gli farebbe fare qualche sobbalzo sul sedile. Ma visto che il massimo che si riesce a prendere a sassate è un blindato dei Carabinieri, dovremmo lasciar perdere e passare oltre. Trovo stupido che si finisca per percorrere sempre quella strada, e non è questione di essere cresciuti sotto Berlusconi. Perdonate il pippone, ma io credo che prima di voler liberare l’Italia o il mondo o il proprio condominio si dovrebbe almeno tentare di liberare se stessi. Invece ci si rinchiude in questi schemi rassicuranti, per cui se si lancia un bidone insieme ci si sente amici e ci si fa forza a vicenda (la semplificazione di cui hai splendidamente parlato tu in Stella del mattino).
Se non può andare diversamente me al metterò via, però che tristezza.
@ Adriana
… diplomata nel 2002, io ho 2 curriculum. Uno per cercare un inesistente lavoro da laureata, uno per cercare qualsiasi altra cosa.
Invidio chi è ancora studente e almeno ci può provare, insieme agli altri, a non rassegnarsi.
@ Adrianaaaaaa
A Londra in effetti hanno fatto di più che prendere a sassate l’auto del premier… hanno preso a sassate quella dell’erede al trono!
Io non credo che non possa andare diversamente, e quanto al lavoro su se stessi, be’…. manco apriamolo questo capitolo, che altrimenti finiamo domani notte. Ma anche su questo concordo. Detto questo, io non lo so se i tuoi coetanei che l’altro ieri erano a Roma sono solo (in)utili idioti, affascinanti dalla violenza. Non credo. Anche se conosco i rischi “del mestiere”, passami il termine, sono uno che preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno.
mi associo ad adrianaaa, completamente. Si chiede tra l’altro che senso abbia attaccare una camionetta della polizia, ecc. La risposta gliela dà Evangelisti, nel suo pezzo linkato sopra, di cui incollo la conclusione:
“Prima di lanciarsi in ulteriori predicozzi farebbe meglio a chiedersi se non si stia amalgamando alla scorta stessa, facendone propria la visione del mondo.”
Uh! Pasolini è passato invano.
Il sedicenne del Caetani (liceo di un quartiere ultra-bene di Roma, Prati) con la pala e il manganello, esprime la ‘dignità di scendere in piazza’? Be’, come la esprimono gli ultras tutte le domeniche dentro e fuori dallo stadio, sì.
Quanto ai ‘maestri predicatori’ contro cui se la prende Evangelisti, Grillo è compreso? Spero di sì. I suoi happening sembrano usciti dal film “A Leap of Faith”, con Steve Martin.
Adriana e Laura, quando leggo queste cose mi prende un morso feroce allo stomaco. Dato che sono nata nel ’64 per fortuna sono riuscita a entrare nel mercato del lavoro quando ancora c’era, e tenermelo fino ad oggi (finché dura fa verdura). Ma quando vedo la vostra generazione mi rendo conto che se i vostri genitori non stessero ancora godendo dei frutti del benessere degli anni ’50 e ’60 dei loro genitori che gli consentono di fare da ammortizzatori qui ci sarebbe un’intera generazione – la vostra – pronta a un’emigrazione di massa come quella della carestia della patata in Irlanda… il problema è che la frontiera del West è finita, la terra coltivabile è finita e siamo arrivati al Pacifico: la verità è che non ci sono più posti dove andare a cercare fortuna. Bisogna trovarla drammaticamente qui. “Che fare?”
Sono tornato ieri da Roma. Mi sono bevuto al volo tutti i commenti, qua su Giap e altrove. Le lettere, le controlettere. Le analisi.
Sono uno di quelli nati durante Berlusconi, uno di quelli che è andato a Roma, uno di quelli che… etc.
[tra l’altro: si diceva di cercare di evitare la frattura “presenti-assenti”… siamo già oltre!]
@WM2 e altri:
Sono d’accordo che la giornata romana non si possa ridurre alla dinamica raccontata da Saviano; credo però che non si possa neanche rappresentarla come “rivolta generazionale”, perchè non vi era nulla del genere; nè come le “moltitudini” che partecipano agli scontri, perchè non è stato così.
E’ però vero che il riot non è stato accolto da sprezzo e condanna da parte del corteo. Vi era una rabbia per strada palpabile, un pò per via della scenografia caschettosa-bastonosa adottata già alla partenza da alcuni; ma soprattutto, a causa del vuoto totale di prospettive che sentiva ognuno di noi. E’ disperazione, come diceva prima WM2. Ed è figlia di ciò che sta uscendo in questi ultimi post: per la mia generazione, Berlusconi è davvero una categoria apocalittica. Vi è una risonanza con il riot di Roma, anch’esso “apocalittico”, che ti mette di fronte al fatidico “e adesso che ca**o facciamo?!” (il DDL Gelmini verrà approvato il 22, probabilmente).
Per questo il rischio è che tale disperazione diventi (o rimanga) cieca. Allora si avremo perso, quando non avremo saputo interpretare un disegno, costruire un racconto, uscire dalla logica che permette a ceppi più o meno organizzati del movimento – ma tutto sommato esterni ad esso – di proliferare.
ps: di proliferare al suo—> interno. All’esterno, ognuno è liberissimo di fare ciò che vuole, con le proprie modalità. Ma che non rompa i maroni a me, almeno.
@ … per chi cita PPP in risposta a Evangelisti
Posso dire che la frase sulla scorta, citata dal pezzo di Evangelisti, non mi sembra così scandalosa?
Diciamo che non è la più incisiva dell’articolo, ma credo che nel pezzo vi sia molto altro, e citare Pasolini mi pare proprio fuori luogo…
Dei “proletari in divisa” se ne parla in altri commenti (@Wu Ming 4 per esempio) quindi non aggiungo altro alla banale considerazione che i tempi sono assai diversi. Cito però una delle frasi della lettera di Saviano che stamattina mi hanno innervosito parecchio:
[si parla della rabbia] “La riducono a un calcio, al gioco per alcuni divertente di poter distruggere la città coperti da una sciarpa che li rende irriconoscibili e piagnucolando quando vengono fermati, implorando di chiamare a casa la madre e chiedendo subito scusa.”
Non mi pare che la frase rappresenti la situazione che si è creata a Roma o altrove negli ultimi anni (che le manganellate piovono spesso, non dimentichiamolo).
Se devo scegliere da che parte stare, non ho il minimo dubbio.
Ho appena finito di vedere il videoforum con Saviano su repubblica. Quanta rabbia… o meglio quanto ASTIO, contro i “vecchi” del movimento… Mi è sembrato molto nervoso, diverso dal solito. Mi pare si senta attaccato personalmente. E poi in fondo è lui per primo che pone l’accento sui violenti, sugli scontri, che non parla d’altro, per poi asserire che i giornali parlano solo di quello!
La frase sullo “spinellino” poi… Mah, sono perplessa. Certo con la legalizzazione staremmo tutti meglio (a parte i mafiosi) però mi pare che si sia un po’ perso il filo…
@johngrady – perché fuori luogo citare pasolini? Evangelisti non rimprovera, in pratica, a Saviano di fraternizzare col nemico (la scorta, la polizia)?
“La rivolta non ha progetto, non si proietta
nel tempo futuro. Come ha sostenuto
uno dei suoi teorici, il germanista
e mitologo Furio Jesi, morto
giusto trent’anni fa, in «Spartakus.
Simbologia della rivolta», testo apparso
postumo, «prima della rivolta
e dopo di essa si stendono la terra
di nessuno e la durata della vita
di ognuno, nelle quali si compiono
ininterrotte battaglie individuali».
Evocando Rimbaud e la Comune di
Parigi, Jesi affermava: «Solo nella
rivolta la città è sentita come l’hautlieu
e al tempo stesso come la propria
città»; nell’ora della rivolta
non si è più soli, ma si è nel flusso
cangiante del Noi, entità provvisoria
e labile, estatica e violenta.”
La Stampa di Oggi, 16/12/2010, p. 13
Rileggo con amarezza. Io sono diplomato nel 2003, darò la tesi a marzo (se non hai chi paga per la tua laurea, ti tocca fare anche lo smantellatore in tangenziale).
Tempi bui a venire, e checché ne dica Saviano, ogni volta che vedo dieci poliziotti assieme a me sale l’agitazione.
@diana
Idiosincrasia mia, probabilmente, il fatto è che ogni volta che si parla male delle forze dell’ordine, o si fa presente che qualcuno fa una scelta di campo quando si appiattisce sulle loro posizioni, arriva qualcuno che cita Pasolini.
Per questo dico che Pasolini parlava a un paese diverso da questo, in un contesto diverso da questo, e che citarlo sempre porta a concludere le discussioni. [Reductio ad Hitlerum, presente?]
ok.
@jg – ripensandoci: in che senso il fatto che questo sia un paese diverso modificherebbe i termini della questione posta da Pasolini? Li modificherebbe solo se oggi la polizia rappresentasse effettivamente il nemico, e quindi avesse un senso assaltare le camionette a vangate (oltretutto, una strategia suicida, come notava adrianaa).
Il testo che segue è la lettera che Paolo La Valle, di Bartleby
http://www.bartleby.info/ ha indirizzato a Roberto Saviano.
“Caro Roberto,
a scriverti è un ragazzo di ventisei anni, uscito da pochi mesi dall’università. Non ho scritto Gomorra, non scrivo su Repubblica, non ho fatto trasmissioni. Ma non è solo al passato che posso parlare: non scriverò un libro di successo, non scriverò su un grande giornale, non dominerò l’auditel in una trasmissione Rai.
Ti scrivo per la stima che il tuo libro mi ha portato ad avere nei tuoi confronti e per la disillusione che questa tua lettera ha causato in me.
Vorrei essere franco e parlare al di fuori delle parole d’ordine che un movimento (qualsiasi movimento) impone, per essere schietto e provare a fare un passo oltre il 14 dicembre, altrimenti si guarda sempre al passato e non è il passato a preoccuparmi adesso.
E’ proprio dalle parole d’ordine che vorrei iniziare. Scrivi che le nostre parole sono nuove, che non ci sono più le vecchie direttive: grazie. Non sai quanto possa essere grande questo complimento, proprio da te, che sei diventato una figura di riferimento rompendo un ordine costituito di parole. Le cose che scrivevi in Gomorra c’erano da tempo, andava trovato un modo per dirlo e tu l’hai fatto. Non è poco.
D’altro canto vedo in te il peccato originale da cui ci metti in guardia. Vedo nella tua lettera l’utilizzo di quelle parole d’ordine, di quelle direttive che sono vecchie che sono scollegate dal mondo.
Cos’è questo continuo richiamo agli autonomi del ’77 che si legge in molti articoli e anche nel tuo? E’ il dogma con cui si finisce per sdoganare ogni protesta. Ma non li vedi i movimenti in Francia, a Londra ad Atene? Non ci pensa mai nessuno che sono molto più vicine a noi quelle cose, piuttosto che le immagini in bianco e nero di quarant’anni fa?
Io non sono nessuno per spiegarti cose che sai meglio di me, però guarda le foto: guarda quanta gente c’è in Piazza del Popolo, quanta gente ha resistito agli scontri. E non sotto l’impulso di una rabbia improvvisa, la gente in piazza c’è rimasta per due ore, tutto il tempo per fare sbollire un’emozione e, se voleva, andarsene. Succede che i cortei si distacchino da azioni che non condividono, l’altro giorno non è successo.
“Non usate i caschi, siate riconoscibili”: belle parole, ma parole d’ordine. Vecchie, stantìe. La gente che in queste settimane è stata denunciata per avere occupato i binari, le strade, era riconoscibile. La gente che è venuta a contatto con la polizia perché veniva impedito l’accesso a una zona della città, era riconoscibile. Siamo sempre stati tutti riconoscibili. E siamo stati e saremo denunciati. E siamo stati tutti menati, abbiamo ancora i cerotti. Anche i Book Block, quelli che tu chiami “buoni” hanno i caschi. Caro Roberto, quelli sono manganelli, fanno male. Questo è quello che fa il governo, che fanno le questure. Dici che quando scendiamo in piazza ci troviamo di fronte poliziotti che sono uomini, ebbene perché questo discorso è sempre unilaterale? Anche noi siamo uomini, donne, perché nessuno ci difende?
Quando bisogna difendere le forze dell’ordine si fa a grandi parole, grossi titoli. Quando si devono difendere i manifestanti si fa con piccoli accenni fumosi. Difendeteci, difendete le nostre proteste, questa deve essere la prima cosa. Capite le nostre ragioni, altrimenti, mi dispiace, fra di noi non ci capiremo mai, ci perderemo.
Con questo non voglio dire che il mondo intero deve bruciare. Il mondo deve essere sempre più bello, Piazza del Popolo deve accogliere feste, le piazze delle singole città devono riempirsi di gioia, ma questo va costruito. E’ una posta in palio che si può mettere in piedi tra chi si riconosce, tra chi lotta insieme.
La testa va usata per pensare, lo scrivi tu. Hai perfettamente ragione ed è grazie al ragionamento, al cervello che possiamo capire che ogni momento è diverso dal precedente, ogni momento ha il suo modo di essere vissuto, i contesti sono fluidi, non sono bianchi o neri. La rabbia e i caschi di un giorno possono diventare l’abbraccio collettivo del giorno dopo, la salita sui tetti. Dobbiamo avere l’intelligenza per farlo, per cambiare noi stessi, essere diversi ogni giorno, lottare con armi ogni giorno diverse, ogni giorno spiazzanti.
Altro dogma: quello dei buoni e cattivi, c’è ovunque sui giornali. Giornalisti che dicono di non aver peli sulla lingua e di dire cose fuori dallo schema, che condannano una parte e assolvono l’altra. Ma è proprio questo lo schema. Buoni e cattivi non esistono, ma non lo dico io, lo dici tu, nel tuo libro, quando mostri che nel sistema camorristico ci sta dentro chiunque, anche suo malgrado. Ma non esistono nemmeno in Dostoevskij (quando mai!), in Pirandello, in Melville, in Flaubert, in Stendhal, non esistono nell’Orlando Furioso e nemmeno nella Divina Commedia: Ulisse, che per l’ansia di viaggiare abbandona la famiglia e fa morire i suoi compagni, è buono o cattivo? Quando vediamo il diavolo che piange, proviamo ribrezzo o pietà? Dio, che non fa entrare Virgilio in paradiso, è buono o cattivo? Solo gli ignavi sono beceri, quelli che seguono la bandierina, che seguono le parole già dette, solo loro sono beceri per definizione. Se guardi a chi si è dissociato dai fatti di piazza, ritroverai in loro gli ignavi, si tratta di rappresentanze che contano quanto i cosiddetti traditori del parlamento: non fanno niente, non hanno mai fatto niente, hanno solo promesso e guardato a se stessi. Non mi curo di loro, guardo e passo avanti.
Per il resto la vita è molto più complicata del rapporto bene o male. E molto più variegata. Pensaci un attimo, sono due mesi che la gente scende in piazza e questo movimento non ha ancora un nome, come nei romanzi di Saramago. Siamo sempre “quelli che hanno fatto questo” oppure ci dicono che siamo di un luogo “quelli dell’Aquila, di Terzigno”. E’ una forza, non credi? Vuol dire che siamo indefinibili: siamo quello che facciamo.
L’altro giorno avevamo i caschi. Domani magari porteremo delle girandole in questura, l’indomani Book Bloc, il giorno dopo ruberemo in libreria i volumi che ci piacciono e che costano diciotto euro e che non possiamo permetterci (ci difenderai?), parleremo con gente di altre generazioni, staremo con loro, cammineremo. Ci difenderai o ci attaccherai? In ogni caso sappi che saremo sempre le stesse persone.
Altri nemici non ne voglio, caro Roberto, ti ho scritto quello che pensavo, ti ho descritto la situazione reale che c’è stata in Piazza del Popolo, ti ho descritto la situazione quotidiana. Sta a te decidere cosa vuoi leggere nelle proteste. Vuoi leggere un rigurgito del ’77? Va bene. Ti diremo che siamo più vicini alle proteste di Londra e Parigi. Vuoi leggere una violenza di gruppi sparuti? Ti diremo che Piazza del Popolo non la riempiono cento persone. Vuoi leggere la violenza solo come un voto in più a Berlusconi? Va bene, leggeremo nelle tue una semplicità di analisi disarmante che si basa su un sistema binario, Zero Uno, Zero Uno. C’è un’infinità di numeri tra cui scegliere e te ne dico un altro: Centomila, sono le persone che l’altro giorno stavano in piazza insieme, al di là di ogni rappresentanza.”
io ho diciannove anni, e per me l’uomo nero sotto il letto e’ sempre stato l’uomo di Arcore.
vorrei davvero credere di poter avere una vita normale[borghese?] con la ragazza che amo(etc.etc); vorrei davvero un’alternativa all’andarmene; vorrei tanto aver una fede/fiducia consolatrice.
ma la mia bis-nonna che ha subito due guerre, m’ha insegnato da piccolo a non credere alle televendite.
e quindi sono qua, spaesato e iners; non so cosa posso avere, cosa devo esigere, per cosa devo lottare.
se fossi stato a Roma, sarei andato a farmele dare, giusto per dicotomizzare le prospettive.
la complessita’ e’ affascinante e l’ho sempre ricercata ma da un po’ mi accorgo che non so come muovermi. e intanto il fiume del tempo scorre. e io continuo a subire un’altra guerra.
anche se so che la Resistenza era nel giusto.
@Ale, ho passato il pomeriggio a cercare di strutturare bene ciò che tu sei riuscito a dire con quattro parole. Per noi la situazione è molto diversa rispetto a chi ha visto muoversi la storia, e sa che questa si muove, che è dinamica, e non la volgare ripetizione di una foto istantanea.
Ma questo non è tutto. Il movimento attuale ha già perso. Ha perso perchè ancora non c’è una via che superi il veccchio sistema dello scontro frontale, con di fronte un sistema che tende a portare inevitabilmente a questo. Ho sentito una volta, parlando della Pantera una frase di questo tipo: “Perchè se lanci un sasso, quelli ti riempiono di manganellate, ma se gli fai una domanda, se gli poni delle questioni…eh, quelle ti devono rispondere”. 20 anni dopo, hanno capito che possono tranquillamente non rispondere, ignorare e zittire.
Per noi, che abbiamo appena iniziato, indipendentemente da questo movimento, il compito di tutta la nostra vita sarà di creare una via di superamento forte che non comprenda la violenza e lo scontro frontale. Sarà lungo e difficile, perchè noi usciamo completamente rincoglioniti da un’infanzia di mediaset e rai. Ma è meglio lavorar piano piano, camminare lentamente, e creare qualcosa che i nostri figli (quando noi oramai saremo di nuovo polvere) potranno prendere, migliorare e portare avanti. E camminando, tener presente di non essere soli. Siamo in tanti ma non ci conosciamo (io fino a tre giorni fa neanche sapevo che esistesse Wu Ming, fino a settimana scorsa pensavo che il g8 di genova fosse stata una manifestazione prevalentemente violenta in cui era inevitabilmente finito il morto -la versione per così dire ufficiale e che pervade tutti i miei coetanei- e fino a 8 mesi fa non sapevo che fosse esistita la pantera). E se dovessimo riuscire a trovarci, quando i tempi saranno maturi, e ognuno col proprio apporto contribuirà a costruire una parte, riusciremo laddove una sola persona o un solo movimento non è in grado: creare una frattura insolubile nel sistema e scorrere all’interno come linfa vitale.
Ora è senz’altro il momento più duro. Ma più che farsi schiacciare dal dolore di non trovare una via, facendosi manganellare e magari accoppare, è meglio studiare le Nostre 36 Strategie. E credo che questa piattaforma, sotto ogni profilo, sia già un’ottimo punto di partenza.
ps: chiedo scusa se ho vandalizzato un articolo così bello in questo modo, ma penso che al di la di tutte le ostiate che ci possono essere scritte, il parere di chi lucido non può essere (dopo aver visto la russa non si può essere lucidi) possa essere di qualche spunto per altri. Soprattutto per chi come me non ha visto alcunchè della recente storia italiana.
@ WM4
Considero la lettera di Paolo La Valle importantissima. Tersa, lucida. Complimenti davvero.
Mi limito a dire che tutta questa faccenda sta agendo come una cartina di tornasole. Questo movimento (ri)mette in campo questioni che non si possono più schivare o aggirare con automatismi stile “ritorno del ’77” eccetera.
“L’altro giorno avevamo i caschi. Domani magari porteremo delle girandole in questura, l’indomani Book Bloc, il giorno dopo ruberemo in libreria i volumi che ci piacciono e che costano diciotto euro e che non possiamo permetterci (ci difenderai?), parleremo con gente di altre generazioni, staremo con loro, cammineremo. Ci difenderai o ci attaccherai? In ogni caso sappi che saremo sempre le stesse persone.”
Questa parte della lettera mi commuove e aspetto con impazienza il momento di vero incontro tra la mia generazione (anni ’70) e tutte le altre. Domani al Bartleby mi piacerebbe dire che le generazioni tutte devono almeno tentare l’ incontro, che i vecchi codardi come me scappano al primo sasso e poi si incazzano perchè si sentono esclusi, ma martedì nel vedere quei bei visi convinti di poter persino bloccare la fiducia hanno provato gioia. Magari se si trovano vari spunti di lotta, i vecchietti come me li mettiamo a fare altro. Un pò come in tutte le lotte di resistenza, c’erano i combattenti, chi li nutriva, chi li accoglieva e faceva riposare…
Rimango del parere che lo scontro faccia a faccia con le forze dell’ordine sia ormai un trabocchetto da evitare, ma io in fondo son due giorni che ci ragiono e non trovo il filo, dico solo ovvietà.
Il peso di questo dibattito è incalcolabile: da nessuna parte si può trovare questa vastità di spunti e punti di vista; e la cosa che mi sembra emerga in maniera più netta, è l’impossibilità di esprimere un giudizio radicale e definitivo, sia a proposito dei “puri fatti” di martedì, si ìa a proposito delle posizioni etiche da assumere in merito ai fatti stessi. La complessità dell’evento di piazza in genere, e di questo evento in particolare è tale che è inutile qualsiasi posizione “senza se e senza ma”. Ho letto commenti di molti che , ragionevolmente, consideravano inutile o deleterio lo scontro frontale (io stesso la penso così); però posso garantire per esperienza personale che questo tipo di scontro ha ottenuto grandissimi risultati alla rotonda di Terzigno, per altro producendosi attraverso una dinamica che mi sembra simile (anche se dimensionalmente diversa) a quella di Roma (a proposito delle relazioni facinorosi/non facinorosi). L’evento veramente drammatico è che la protesta (sia nella sua fase pacifico-creativa, che in quella “violenta”) non riesce ad incidere realmente a livello politico: se in un primo momento rimaneva semplicemente inascoltata, adesso viene stigmatizzata e neutralizzata. Questo è un nodo centrale attorno al quale deve muoversi la riflessione: è “vincente” una protesta che non produce effetti? E’ possibile pensare una forma di lotta che dia per scontata l’inefficacia politica affidandosi esclusivamente al consenso “sociale”? Non sarebbe necessario armarsi di un progetto che riesca ad essere performante anche a livello mediatico-politico?
@Antonio
Servirà tempo, e molto, per capire se questo tipo di protesta darà gli effetti sperati.
Soprattutto per un processo che dura e si alimenta da un ventennio.
Non sottovaluterei così tanto il consenso sociale, perchè se aspettiamo che la classe politica e gli altri oligarchi che le ruotano intorno (o la fanno ruotare) cambino prospettiva, stiamo freschi.
Il consenso sociale è un effetto.
Porta al confronto, a maggiore consapevolezza/conoscenza (uno dei punti più belli di “La scuola è di tutti” è proprio la considerazione che per una popolazione lasciata nell’ignoranza, nella povertà di mezzi cognitivo/sociali non si può parlare di democrazia). Senza una base solida è dura scalzare i soliti noti dalle poltrone e non metterne dei cloni.
Oltre a questo per ora non so. Sono giorni che o la testa zeppa di idee e pensieri ma dargli un vero e proprio ordine non è facile. Luoghi come questo aiutano. Non poco.
Il futuro non è più quello di una volta.
Quello che scrivono ale o cammello è parte del racconto a più voci di una tragedia immane.
Sulla Strada spiazzati, nati derubati.
1. Spiazzati.
Che tracotante spocchia esigergli la lucidità dell’analisi.
«e quindi sono qua, spaesato e iners; non so cosa posso avere, cosa devo esigere, per cosa devo lottare. se fossi stato a Roma, sarei andato a farmele dare…»
«fino a tre giorni fa neanche sapevo che esistesse Wu Ming… e fino a 8 mesi fa non sapevo che fosse esistita la pantera». Quando invece per ale e cammello – come Luca ci ha ricordato – Berlusconi-uguale-sempre, “a vita”, un ergastolo.
2. Derubati.
Solo dieci anni fa i New Order:
I don’t wanna be like other people are
Don’t wanna own a key, don’t wanna wash my car
Don’t wanna have to work like other people do…
(certo non senza ironia)
Ma questi scrivono «vorrei davvero credere di poter avere una vita normale[borghese?] con la ragazza che amo».
Noi percepivamo la censura per l’alterità e la sottrazione della diversità.
Questi si sentono derubati della “vita normale con la ragazza che amo”.
Occazzo. Il futuro non è più quello di una volta.
Ah, devo dire che al contempo mi piace molto il pezzo di Paolo La Valle.
Lì invece un rigore e una sicurezza “spiazzanti”.
Come si dice, “Portiere da una parte, palla dall’altra”.
Ma nessuno ha visto il videoforum con Saviano sul repubblica.it? Mi pare che aggiunga qualcosa alla lettera, chiarifichi la sua posizione. Che oltre al tono paternalistico della lettera emerga anche un certo astio verso parte del movimento… Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate.
@ laura
Personalmente ho soltanto un presentimento, che in quanto tale vale davvero poco. Intravedo da parte di Roberto la tentazione di saldare i conti con chi in questi ultimi tempi lo ha attaccato da sinistra. Su Israele, sulle forze dell’ordine, sul nazional-popolarismo, etc. Se ho ragione, allora ha scelto la maniera più goffa e controproducente per farlo, cioè aizzare e alimentare ulteriormente quelle critiche. Quello che forse Saviano non ha capito – e che invece la lettera di Paolo La Valle gli spiega perfettamente – è che nell’ultrasinistra le persone intelligenti hanno sempre saputo fare una distinzione tra le doverose critiche su certe sue prese di posizione e l’apprezzamento per l’anomalia della sua figura nel contesto che si è trovato ritagliato attorno. Dopo la sua lettera agli studenti (non richiesta e gratuita) le cose in questo senso peggioreranno. A me la sua sembra una colossale zappata sui piedi.
Vediamo se ho capito qualcosa. In molti/e siamo d’accordo nel pensare che “questa soluzione” di piazza, e per lo meno in questa situazione, non sia, diciamo così, la best option.
Più o meno le stesse persone sono d’accordo che non sia l’atteggiamento corretto quello di proporre fantomatiche esperienze vincenti, paternali o divisioni manichee. Cosa ci rimane allora?
Riflettere e confrontarci, certo.
Personalmente, come ricercatore, mi sento parte di questo movimento (per quel poco che posso e vale). E per questo sento la partecipazione e la tristezza dell’incapacità di articolare diverse soluzioni. Cosa provo a fare? Cosa posso proporre di fare?
Continuare a costruire e riproporre *strumenti*. Ognuno fa quello che può, c’e’ chi sa scrivere storie, chi prova a fare analisi, chi e’ bravo formare organizzazioni… Il punto è di contribuire, *solo* contribuire, a trovare alternative ad un panorama che vede l’appello alla manifestazione o allo scontro campale come *ultima alternativa rimasta*, il minimo comune.
Provo a fare due esempi banali. Siamo ancora certi che l’assemblea sia ancora lo strumento migliore per favorire l’emergere di idee creative e il formarsi di “collettivi pensanti”? Siamo certe che i commenti di un blog (il corrispettivo della lista di interventi in un’assemblea) siano il modo migliore di confrontare opinioni ed opzioni?
Nella gravità della situazione e nell’immensa risonanza che la giornata di Roma ha avuto in ogni spazio di discussione vorrei fare una banalissima domanda.
Ma quanto oggi è davvero utile lo “scontro frontale”, la battaglia campale, come le proteste di piazza?
A vedere il venefico tamtam mediatico sembra risolto in un boomerang. Prendendo spunto dal titolo di questo post, sarebbe meglio materializzare il dissenso per altre strade, altre vie?
Ho letto velocemente la lettera aperta di Saviano. Per carità le cose che dice non fanno una piega. Ma dove sono le alternative concrete?
Ps: prima ho scritto ‘le proteste di piazza’; voglio precisare che mi riferisco a quelle normali e pacifiche. Le ho definitescontro frontale e battaglia campale in senso retorico, sono comunque eventi che evocano l’immagine della contrapposizione. Concordo nello stigmatizzare la violenza dei sassi e dei bastoni come inutile e controproducente. Ciao a tutti
@ ilMasa
Scusa, ma forse ti sei perso qualche puntata di questa discussione. Si è partiti dicendo che la logica dello “scontro frontale” non paga, che il problema è appunto praticare molte altre strade e vie per materializzare il dissenso, per costruire una cornice includente, e che però questo non può significare criminalizzare chi ha preso parte agli scontri, perché le dinamiche sociali e di piazza sono sempre più complesse di qualunque distinzione manichea. Suvvia, siamo quasi a duecento commenti…
Laura, capisco molto bene ciò che avverti, e che chiedi.
Ma te lo giuro, non è importante. Davvero, te lo giuro.
Le parole importanti, qui e altrove, non vengono fuori dagli ‘osservatori’ di qualsiasi grado e livello, ma da te Adrianaa Ale Cammello dalla pazzesca lettera di Paolo e tutti gli altri.
Guarda, se ne accorgono tutti quelli che stanno provando a capire, a sintonizzarsi. Ci fate emozionare, fino alle lacrime, perchè il compito che attende è enorme, e fa tremare i polsi, ed è solo su quello che bisogna concentrarsi.
E’ un Dopoguerra senza guerra quello che sta davanti.
O meglio, un Dopoguerra del tutto inedito, perchè la guerra c’è stata, c’è, ma nella sua forma nuova, asimmetrica, nemmeno ancora codificata. E’ la guerra che l’occidente fa a se stesso, sperando di salvare le proprie oligarchie per un anno, un mese, un giorno ancora, buttando in discariche abusive i propri figli, rendendoli rifiuti tossici.
Ha ragione christiano, abbiamo tutti nostalgia del futuro, ma solo voi potete darvene uno. E in questo modo darlo anche a noi.
Questo non significa deresponsabilizzare tutti gli altri, credo che federica, ad esempio, centri bene sia lo sguardo sia il contributo possibile.
Questa discussione è troppo importante, DEVE andare avanti, in tutte le forme e con tutti gli strumenti possibili.
Mi sembra che finalmente qualcuno abbia aperto le finestre, che ricominci a circolare aria.
Cazzo, era ora.
Le Brigate Monicelli sapranno trovare il cammino, e le domande giuste, che contano assai più delle risposte. Ai ‘vecchi’ solidali tocca solo dare fiducia, e nel caso fornire un riparo, se e quando sarà necessario.
Non si prosegua l’azione secondo un piano.
L.
Leggo l’intervento di Luca, che mi colpisce e commuove.
Mi sono venuti in mente i “Maestri Scalpellini”: artigiani, o artisti che fanno cose stupende dando *nuova* forma alla pietra. Mi spiegava un amico che stanno anche ore a picchiettare, spesso insieme, pezzi di pietra, fino ad assestare il colpo giusto per aprire, dividere un blocco senza frantumarlo e senza distruggerlo. Tanti piccoli colpi per *conoscere*, *ascoltare*, *sentire* il blocco, e poi un colpo unico, solo, assestato nel punto giusto e con la forza giusta, per ottenere la nuova forma. se sbagli, si spacca tutto, se ci prendi vai avanti col lavoro.
Un’arte che si apprende e si raffina lavorando insieme, con altri Maestri, e che di questa collegialità si alimenta.
“il problema è appunto praticare molte altre strade e vie per materializzare il dissenso, per costruire una cornice includente”
Mi chiedo, sinceramente, quali possano essere queste strade. :)
@ Luca
Le “Brigate Monicelli” :-)
Ben tornato, compadre.
@WM4
Si, effettivamente l’espressione “saldare i conti” mi sembra rispondere perfettamente a ciò che ho potuto ascoltare da lui: parole piene di un rancore molto individuale, per cui rispondeva continuamente agli attacchi – personali – da parte di fantomatici (almeno per uno spettatore medio) “vecchi del movimento”.
Credo che non solo la lettera di Paolo La Valle, ma tutta la nostra discussione in merito dimostri il rispetto che abbiamo per lui. Se quelle cose le avesse scritte qualcun altro, non staremmo nemmeno qui a parlarne.
Infine non posso togliermi dalla testa l’idea che questa lettera, a parole rivolta agli studenti, in realtà sia stata pubblicata su repubblica e quindi per essere letta dai lettori del giornale.
Purtroppo mi sono laureata 3 anni fa, e mi rendo conto che in qualche modo è già troppo tardi. Sono gli studenti che riescono ad “aprire le finestre” come dice Luca, perchè per loro il futuro non c’è, ma è il futuro a mancare. A noi, già laureati da un po’ e ora precari e disoccupati, manca il presente. In un certo senso, dovremmo combattere ciò che ci impedisce di combattere. Se sei a casa, non ti confronti con la rabbia di chi è come te, ma con la tua solitudine e con l’assenza di un tuo posto nel mondo.
Nelle ultime 24 ore e più sono stato assente da questa discussione, perché sono in trasferta a Roma, in giro per l’Urbe tra riunioni, incontri e iniziative, con scarse possibilità di collegarmi se non in ritagli di tempo (come del resto ora, ma è un ritaglio un po’ più largo).
Vorrei anch’io dire due cose sul rapporto tra Saviano e alcuni settori del “movimento” (“l’ultrasinistra”, come a volte dice lui). Il mio compadre WM4 ha già inquadrato perfettamente la questione e gettato una prima luce sul fenomeno. Io integro con qualche dato storico e qualche link.
Il fenomeno è quello della “profezia che si autoavvera”.
Saviano ha creduto che l’operazione Eroi di carta di Dal Lago (già stroncata in modo minuzioso dalla redazione di Carmilla, quindi inutile tornarci sopra), certe prese di posizione uscite su “Il Manifesto”, la canzonaccia di Daniele Sepe fossero derive profondamente condivise, accettate da una maggioranza di persone nell’ambiente da cui lui stesso proveniva.
[Sì, perché non dimentichiamo che Saviano viene dai centri sociali campani e dalla redazione campana de “Il Manifesto”.]
Questo è stato un doppio errore di valutazione, perché:
1) in realtà il dibattito sul Manifesto fu variegato (non c’è solo Bascetta a questo mondo), e quella di Carmilla non fu certo l’unica voce a denunciare il pressapochismo e la raffazzonaggine del libro di Dal Lago;
2) un conto è criticare, anche duramente, le posizioni di Saviano in “politica estera” (non c’è solo la questione israeliana, ma anche giudizi superficiali espressi su quel che accade in America latina), tutt’altra faccenda è dire che Saviano è un finto, un manovrato, uno che non rischia davvero la vita etc. etc. Nel movimento, la maggior parte delle persone è stata perfettamente in grado di distinguere i due piani, anche di recente, a situazione ormai inaspritasi. Consiglio a tutti la lettura di questo pezzo di Desmond, uscito su Aut*Aut Pisa:
http://www.autautpisa.it/modules/news/article.php?storyid=730
In base a quest’errore di valutazione (che ha avuto molteplici cause, tra cui il fatto che Saviano gira poco in rete, o meglio: gira in rete ma non nei posti dove troverebbe le info adeguate), Saviano ha cominciato a sparare nel mucchio, ad attaccare l’intera “ultrasinistra” in interviste e interventi, a lanciare frecciate etc.
Questo ha messo in una situazione sempre più difficile chi (come noi o Girolamo De Michele o la redazione di Carmilla o il sopracitato Desmond) da sempre, con tenacia e pazienza, si sforza di *distinguere i piani*, di discernere tra Gomorra e Saviano, Tra Gomorra-libro e Gomorra-“fenomeno”, tra Saviano autore e Saviano personaggio, tra Saviano personaggio e Saviano persona etc.
Ora la sua presa di posizione sui fatti del 14 dicembre, aggravata dall’approccio che ha adottato nel video-forum su Repubblica-TV (l’ho visto stamattina sul digitale terrestre, sul televisore del B&B dove ho dormito) crea ulteriori lacerazioni, anche in seno a chi finora lo ha difeso. Discernere sarà sempre più difficile, e l’effetto pavloviano è già percepibile: “Allora era nel giusto il libro di Dal Lago!” “Allora aveva ragione Sepe!”
No. Sepe aveva torto perché confondeva tutti i piani confondibili (e anche alcuni non confondibili), e il libro di Dal Lago era una robetta rabberciata, frettolosa, indegna di uno che ha una cattedra, scritta con la penna intinta nella bile della sub-accademia.
Il fatto che Saviano abbia torto su alcune questioni (sempre più numerose, purtroppo) convive col fatto che abbiano torto, e pure marcio, anche certi suoi detrattori.
C’è chi, in questo thread, si è chiesto che sarebbe successo se la lettera di Saviano l’avesse scritta qualcun altro.
La mia risposta è semplice, anzi, banale:
Saviano non è qualcun altro. Saviano è un’anomalia, la sua presenza in qualsivoglia dibattito “curva lo spazio”, distorce immediatamente la percezione, rende ogni parola dieci volte più pesante. Se una lettera così l’avesse scritta Bersani, o Veltroni, semplicemente, *non avrebbe avuto alcun peso*.
E invece l’ha scritta Saviano, e quindi un peso ce l’ha. Ed è proprio questo il problema.
Grazie a WM4 per avere segnalato la lettera di Paolo La Valle… è giusto che a rispondere siano quelli che in questi mesi hanno costruito questo movimento, che siano loro a prendere la parola su quello che è successo a Roma e su quello che si può immaginare succederà ora. In primo luogo è giusto perché da prese di parola come questa di Paolo noi tutti capiamo meglio…
Io sono intervenuto ancora a caldo, poi via via mi sono sono mancate le parole. La cosa più urgente a un certo punto mi è sembrata lo schierarsi dalla parte dei manifestanti. Lo hanno detto in tanti, in primo luogo tutti i Wu Ming, in questo thread, ma è bene ripeterlo… Siamo comunque con voi. Questo potrebbe essere un primo modo di non creare separazioni fra chi c’era e chi non c’era.
@ Mathias
“Mi chiedo, sinceramente, quali possano essere queste strade. :)”
Per fortuna c’è la faccina, Mathias, ad attenuare un minimo. Scusami, eh, ma che domanda è? :-/
Le lotte in Italia sono forse cominciate il 14 dicembre? E Pomigliano, la Ducati Energia, e i No Tav, i terremotati dell’Aquila, i movimenti contro le discariche in Campania, le proteste contro la privatizzazione dell’acqua, le grandi giornate di lotta “policentrica” del 24 e del 30 novembre? Erano mesi che si registrava una lenta ma costante escalation di conflitti, alcuni dei quali hanno effettivamente bloccato o rallentato di molto dei processi di ristrutturazione, mentre molti grilli parlanti (magari gli stessi che oggi dicono: “Non è che l’inizio!”) si lamentavano dicendo “non succede un cazzo, c’è il vuoto” etc. Allo scontro frontale e all’Assedio si è arrivati solo tre giorni fa, dopo settimane in cui il movimento studentesco ha messo in campo pratiche efficacissime, capaci di “forare” l’attenzione e avere influenza anche sul piano internazionale, condivise da tutti anche nei momenti di impatto duro con la repressione, comprensibili a una grande moltitudine di soggetti. Smettiamola di guardare senza vedere, le alternative alla Via Maestra Accentrante ci sono, e il 14 dicembre *NON* è l’inizio, l’inizio c’è stato un bel po’ di tempo prima.
@Wu Ming 1
La mia faccina non doveva attenuare nulla perché la mia era una domanda sincera. Seguo da un po’, e condivido in pieno quello che mi scrivi in risposta, su Pomigliano, terremotati, Assedio, ecc. . Non mi sono svegliato ora. :)
Mi (e vi chiedevo, soprattutto) se le strade intraprese prima del 14/12 siano effettivamente le strade più efficaci da seguire nel prossimo futuro, o se non le più efficaci, quelle che potrebbero essere seguite. Voi avete un’esperienza grossa nel 2001, ne avete spiegato i limiti, e quindi volevo sentire la vostra (e degli altri qui) opinione. La rabbia é venuta fuori perché dopo 2 anni di proteste che hanno più o meno forato, ma dopo le quali *tutti* si sono sentiti ignorati per l’ennesima volta.
Non leggo nella politica italiana un collegamento tra Italia e Inghilterra ad esempio, lo leggo su twitter con #demo2010, ma poi stop. Questo é un limite per me. Non so se la maggior parte dei manifestanti siano altrettanto consapevoli (non lo so veramente, non sono sarcastico/retorico).
Sono perfettamente in sintonia con Laura che, pochi commenti fa, scrive:
“A noi, già laureati da un po’ e ora precari e disoccupati, manca il presente. In un certo senso, dovremmo combattere ciò che ci impedisce di combattere. Se sei a casa, non ti confronti con la rabbia di chi è come te, ma con la tua solitudine e con l’assenza di un tuo posto nel mondo.”
Ed è in questo orizzonte che molti di noi, purtroppo, si trovano incastrati. Trentenni, precari e spesso immobili.
Ho letto tutti i commenti e parecchie delle riflessioni che avete segnalato e anche altre (tra cui l’intervista di Daniele Barbieri a un ragazzo che era in piazza, che consiglio: http://danielebarbieri.wordpress.com/2010/12/15/xyz-%E2%80%9Ci-primi-lacrimogeni-della-mia-vita-ieri%E2%80%9D/). E aggiungo domande, dal mio punto di vista, dalla posizione da cui ho seguito anche le mobilitazioni di questi mesi. Forse svio un po’ dal tema principale, ma qui si lavora per creare narrazioni e comunità. E io sento molto forte questa disconnessione (mia, di tanti come me, da un tessuto più ampio).
Cosa ci è necessario perché questo conflitto veda reagire anche noi e ci coinvolga in prima persona? Dove per “noi” intendo , anche semplificando un po’, quelli che stanno intorno ai trent’anni, che quando va bene mettono insieme lavori mal pagati e senza prospettive, che non sono quasi mai in grado di unirsi nemmeno tra di loro e si limitano a farsi riflettere addosso lo schermo del pc, coltivando disillusioni e lasciando andare a perdersi quelle poche energie rimaste dal tentativo di non soccombere a questa precarietà quotidiana e sfiancante, in cui svoltare il singolo giorno sembra già un orizzonte improbabile.
Credo che queste due frasi siano fondamentali:
“Dobbiamo avere l’intelligenza per farlo, per cambiare noi stessi, essere diversi ogni giorno, lottare con armi ogni giorno diverse, ogni giorno spiazzanti.” dalla lettera del ragazzo di Bartleby.
“E’ un Dopoguerra senza guerra quello che sta davanti.
O meglio, un Dopoguerra del tutto inedito, perchè la guerra c’è stata, c’è, ma nella sua forma nuova, asimmetrica, nemmeno ancora codificata. E’ la guerra che l’occidente fa a se stesso, sperando di salvare le proprie oligarchie per un anno, un mese, un giorno ancora, buttando in discariche abusive i propri figli, rendendoli rifiuti tossici.” di Luca.
Armi ogni giorno diverse. Smantellare tutto, veramente, dalle fondamenta. Distruggere questo sistema basato sul silenzio, sulla rassegnazione e sull’individualismo più cieco e feroce. Organizzare dibattiti pubblici nelle piazze, che tirino dentro i passanti e costringano le persone a confrontarsi tra loro. Ricostruire spazi in cui il mercato non possa entrare. Boicottare i lavori che non sono lavori, perchè non sei pagato o hai uno stipendio con cui paghi a malapena le bollette. Comprare e scambiare in un modo ragionato, che crei benessere in chi produce e chi acquista. Insegnarsi a vicenda ciò che si sa, gratuitamente, che si tratti di letteratura russa o di pasticceria.
Come volevasi dimostrare e come WM1 ha predetto, ecco la cavalcata di Dal Lago a proposito di Saviano.
http://www.libreidee.org/2010/12/giovani-imbecilli-saviano-e-ora-di-scendere-dal-pulpito/
Spaccare anche qualcosa, ben volentieri, ma possibilmente non in modo ottuso. E la celere teniamola lontana, ché puzza.
@ mathias
secondo me la cosa a cui guardare non sono le specifiche azioni compiute nelle settimane scorse, per riproporle tali e quali, ma la *logica* che le ispirava: stare nel territorio, muoversi sincroni ma in punti diversi, tendere a *includere* soggetti diversi, parlare ai più, insidiare senza assediare, essere consapevoli di come la propria prassi verrà incorniciata e interpretata, sapere che lo scontro passa ma le immagini che ha generato rimangono, sapere che ti vedono in tutto il mondo e più sarai ispirante più l’esempio sarà contagioso.
@Wu ming4
Chiedo scusa e recito il mea culpa. in effetti non ho letto tutti i commenti. Mi sono buttato alla cieca. Ma non mi imbarazzo se dico una cazzata. A volte rompe il ghiaccio.
La mia curiosità comunque è sapere se sono state messe a fuoco le altre vie del dissenso, se c’è materiale su cui lavorare. Purtroppo il cammino che mi ha portato fino a qui in questo blog è stato casuale. Da poco vi seguo, ho letto Q soltanto due mesi fa, mi piace il lavoro che avete fatto; oggi sto leggendo Altai, diciamo che mi avete sequestrato per almeno un anno con le altre opere!, e da poco sto misurando sulla mia pelle alcuni dei motivi che portano le proteste in piazza. Sono da circa un anno disoccupato, a 35anni , sono padre, e mi ritengo il frutto della crisi economica che ci ha colpito, ero un commerciante. Ho perso sotto i colpi della restrizione dei consumi e della pressione delle mie esposizioni economiche. E per farla breve ho perso molto del vostro cammino che avete fatto in questi dieci anni. E’ vero, sono un’estraneo al vostro movimento. Sono stato studente però, anche universitario. E serbo un bel ricordo solo delle materie che studiavo. Tuttavia oggi conosco il senso di frustrazione dovuto alla precarietà/assenza di lavoro; sbatto contro contratti di 30 gg e occasionali; evito le ‘facili’ p.iva – sono un tranello pericoloso; non vedo la mia fine del mese, per mia fortuna non sono solo, c’é chi mi da una mano; vedo i limiti del nostro apparato politico, mercificato dalle speculazioni economiche; vedo violenza ed ignoranza, in molti angoli del paese, spesso dove non te o aspetti; vedo la mia società, oberata dal debito personale, che qualcuno, credo, è stato abile a ricamarci addosso. Quando ho visto le immagini delle proteste ho pensato che a 18anni mi sarei buttato anch’io, ma poi ho avuto paura, paura per mia figlia, paura per quella strumentalizzazione. Mi sono chiesto come vengono poi vissuti gli altri giorni della vita di tutte le persone, coinvolte o meno. come spendono il loro tempo, come i loro soldi. Perché alla fine di soldi si tratta. Molte persone che siedono in parlamento nella vita di tutti i giorni che fanno? Sono convinto che quotidianamente a i soldi pensano, al potere, locale o nazionale, al consolidamento della loro posizione, delle loro attività. Il premier è solo un campione, emerge, ma non gioca da solo. Sono in tanti. A queste persone si può legittimamente chiedere il tavolo dell’interlocuzione politica, ma terranno sempre il coltello dalla parte del manico se non si mette in ‘pericolo’ il benessere su cui fondano il loro potere. E se mi guardo indietro alla fine è sempre andata così, al popolo un contentino, ed alla fine la pancia piena: che le rivoluzioni si fanno a stomaco vuoto, o mi sbaglio? In un romanzo, ‘Under the frog’, l’autore, Fisher, parla di ‘nemico oggettivo di classe’. Locuzione che mi è rimasta in testa, l’ho svuotata e riempita di mio. Io personalmente mi sono convinto di vivere da nemico delle classi che comandano, come ‘consumatore disobbediente’. Nel senso che non voglio più sovvenzionare con le mie azioni, spesso involontarie, chi poi alla fine mi trovo costretto a contestare. Togliere i soldi dalle banche, non sottoscrivere polizze assicurative ecc.; tutte utopie, lo so. Ma lo sono diventate, utopie, non lo erano all’inizio. Magari non serve a un c…o, ma se fossimo centinaia o migliaia o milioni, magari qualche brivido alla schiena a chi di dovere è possibile farglielo avere. [Mi prendo la responsabilità di un’altra cazzata].
@wu ming 1
Capisco, e di primo acchito concordo. A lato di quello che scrivi credo ci sia anche la necessità di una rappresentazione in politica.
La consapevolezza che questo sia un problema del capitalismo e che siamo tutti dentro al capitalismo non é ancora condivisa dai più (o perlomeno, io la vedo così :) ). E quindi si pensa che queste proteste siano di alcuni gruppi un po’ sfigati, studenti, terremotati, operai fiom. Uno dei risultati più grossi della logica di cui parli dovrebbe, a mio avviso, essere questa consapevolezza, proprio perché soggetti diversi sono inclusi. E dopo che sei consapevole cosa fai? Se non c’è chi ti ascolta, cosa fai?
A tal proposito, oggi ho letto Vendola intervistato su Repubblica e, dopo gli scempi di Annozero di ieri sera, ho letto parole migliori (non sono un fan di Vendola :P).
@ ilMasa
Scuse accettate, ci mancherebbe. Vorrei precisare che questo non è il “nostro” movimento. Quello di cui si sta parlando è un movimento studentesco e noi altri non siamo più studenti da un pezzo (né ricercatori o simili). Ma gli studenti non sono l’unica entità che si muove in Italia in questo momento. Credo che se leggi la risposta del mio socio WM1 a Mattihas, qui sopra, puoi capire come la vediamo. C’è dell’altro, in altre forme e modi. A questo proposito considera che il rischio di trovarti nelle peste oggi non lo corri soltanto “assediando” il Palazzo. Le manganellate sono volate anche a Terzigno e prima in Val di Susa, dove buona parte del movimento è composto da gente comune, pensionati, padri e madri di famiglia, come siamo noi (ho due anni più di te e un figlio pure io). E’ evidente – l’abbiamo scritto (vai a rileggerti i vecchi commenti di questo thread) – che la questione sul piatto, per noi come per chiunque abbia un minimo di intelligenza, è immaginare delle forme di manifestazione e protesta visibili che non siano escludenti. Ma non facciamoci illusioni sull’incattivimento del clima generale e sui rischi che ciò comporterà. Non possiamo pensare di essere i pompieri della rabbia sociale (con quale acqua poi? La stanno privatizzando…), o gli alleviatori della frustrazione con qualche bella storia o bel romanzo. Quello che possiamo fare è adoperarci per sentirci meno soli e far sentire meno soli gli altri che si muovono o che lo faranno. Cercare cioè di trasformare quella frustrazione e quella rabbia in azione efficace, diffusa e non dispersa. Adesso mi appare come un compito immane e, se vuoi saperlo, io non so nemmeno da che parte cominciare, ma mi piace pensare di stare assistendo a un inizio (anche se i toni trionfalistici dei vari “generali” a riposo portano una sfiga pazzesca!). Non ho molto altro da offrirti, Masa, e tanto per cambiare lascio la conclusione a un altro.
“Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo”.
più vado avanti, più mi sembra che il passo più importante da fare sia restituire il 14 dicembre in una prospettiva più ampia (sono d’accordo con WM1). Quel giorno, è stato necessario (o ci si è trovati costretti a) fare così. Lunedì prossimo, a quanto ho capito, a Roma almeno si starà di nuovo in piazza per lezioni pubbliche. Mercoledì comincerà l’esame al Senato della legge Gelmini e vedremo come si organizzeranno (e si inserirà anche questo nella prospettiva più ampia).
Uno sguardo largo, arioso, per vedere l’orizzonte meglio e lasciar circolare le idee.
Nuove narrazioni, certamente.
Farle insieme, soprattutto. Ieri sera, lì, alle Officine Marconi, con WM1, faceva un freddo bestiale, però, che dire? Si è cominciato imbacuccati, stretti nei piumini, e più si andava avanti, e dalla NY del 67 si planava su martedì scorso per riandare al Brumaio, più un meraviglioso “spettro” cominciava ad aggirarsi su di noi…
Insieme. E’ la parola chiave, è la contro-parola antagonista alla “condivisione” che evocavo ieri. Insieme vuol dire orizzontalità, vuol dire uscire dall’isolamento, vuol dire non temere più. Lo dico a noi, generazione dei nati negli anni 70. Ci hanno chiuso in bolle, microcosmi, partite iva. Però, open-space: bolle che si guardano tra loro, pesci rossi destinati a girare in tondo.
Ma non è questa la narrazione che ci interessa. Un’altra storia vogliamo raccontare, un’altra vogliamo ascoltare. Chiediamola, pretendiamola, scriviamola. Parliamoci, ascoltiamoci. E se non andiamo in piazza, come si diceva, cerchiamo altre strade per esserci. Spiazzanti, anche noi.
Dopo aver letto tutto il 3d mi permetto di intervenire e lo faccio in modo per niente narrativo, me ne scuso in anticipo.
Ho recuperato alcune citazioni di persone per me importanti (e che forse sento più familiari di altre perché non più a questo mondo) appartenenti ad ambiti diversi tra loro, sullo stesso tema che, scremato da narrazioni e contestualizzazioni, mi sembra la fonte (il nucleo o la materia stessa) di questo come di qualunque movimento proiettato verso un’idea di futuro: il cambiamento.
Le riporto in ordine meramente cronologico. Tra parentesi la mia personalissima sintesi di ciò che consegue da ciascun enunciato.
“Deve essere ricordato che nulla è più difficile da pianificare, più dubbio a succedere o più pericoloso da gestire che la creazione di un nuovo sistema.
Per colui che lo propone ciò produce l’inimicizia di coloro i quali hanno profitto a preservare l’antico e soltanto tiepidi sostenitori in coloro che sarebbero avvantaggiati dal nuovo”
Niccolò Machiavelli (il cambiamento non si propone, si attua)
“Non è la specie più forte a sopravvivere, e nemmeno quella più intelligente ma la specie che risponde meglio al cambiamento”
Charles Darwin (non considerare il cambiamento come obiettivo ma come condizione permanente)
“Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta”
Richard Buckminster Fuller (la creatività non ha alternative)
“Le persone che per qualche motivo sono angosciate a volte preferiscono un problema che è loro familiare piuttosto di una soluzione che non lo è per nulla”
Neil Postman (coltivare l’angoscia allontana dalla soluzione del problema che l’ha generata)
Sì, me ne rendo conto, sono prescrizioni, ma almeno galleggiano libere nel tempo astratto della storia, e hanno la leggerezza che appartiene a chi ignora lo specifico a cui io mi azzardo (e che piacere poterlo fare senza conseguenze) ad accostarle.
Ecco, il punto è che condivido moltissime delle considerazioni più disarmate di questa discussione. Le dichiarazioni prudenti, le ipotesi avanzate dal cantuccio di un’opinione personale. Senza alcuna pretesa, ma cariche di buone energie. Quelle che senti arrivare come aria calda mentre ti stavi irrigidendo dal freddo, e ti scopri scosso da un brivido di vitalità.
Io mi sono scaldato leggendo un libretto con pochissime pretese. Tratta di democrazia diretta. Esperienze internazionali, italiane e qualche consiglio pratico nel capitolo 15.
http://www.paolomichelotto.it/blog/wp-content/plugins/download-monitor/download.php?id=37
Mi piace pensare che possiamo cominciare a costruire il futuro prima di aver esaurito le forze nella constatazione analitica (e amarissima) del presente.
@Wu ming4
Non ti preoccupare, ho mai pensato di mettervi a capo di questo o quel ‘movimento’. Lo so bene, voi fate il vostro lavoro di scrivere. Questo è un blog e come tale scrive e commenta. E non mi fraintendere, ho citato il vostro libro (non lo vedo come il libretto rosso di Mao da agitare, ma l’ho apprezzato davvero) per puro piacere ; ma soprattutto per evidenziare il poco tempo che ho speso sia qui, che in genere nelle questioni affrontate. Per esempio gli episodi della Val di Susa o di Genova’01, sono stati per me letture di quotidiano – inteso nella doppia accezione di sostantivo e avverbio. E soprattutto vissute come cornice di una realtà fatta di impegni privati, lavoro la casa, la famiglia. Diciamo il quotidiano che poi alla fine piomba addosso alla maggior parte di tutti quelli che hanno la fortuna di vivere. Altro dai personaggi di un romanzo. Vite molto più normali. Ed è da questo punto di vista che vorrei vivere il dissenso. Dal punto di vista della persona che per mille motivi non scende nelle varie piazze. Motivi che non sono scuse. Ma non per questo non condivide. Non per questo non riflette sui molteplici input informativi che viviamo. Per esempio, ieri hanno dato notizia dell’inchiesta sui presunti crimini contro l’umanità perpetrati dall’attuale premier kosovaro alla fine del suo conflitto. Ci mancava questa… Beh, pensare che i nostri governi hanno sostenuto un criminale di tal fatta – e dall’Italia partivano i bombardieri su Belgrado, la dice lunga su chi ci governa. Questo per dire che io come molta gente è stanca davvero, non ne può più, e spesso si disinteressa per sopravvivere. Finché non viene morsa dalla vita. Allora si riprende coscienza che alla fin fine si appartiene ad una comunità, e tutti i fatti e le notizie, letti magari con leggerezza e distrazione, assumono la forma tangibile della realtà, della quale volente e nolente si condividono tutte le gioie e i dolori. E tutta questa mole informativa spesso è mal gestita da chi la riceve e ancor più manipolata da chi la bypassa. Se il nostro cervello funziona per immagini, allora ce ne sono troppe, davvero troppe.
Ma tornando alla gente comune, essa spesso non entra in azione perché vincolata dall’intreccio di impegni, doveri, responsabilità che sono la vita. C’è bisogno di qualcosa di più concreto da mettere nelle mani di chi sogna un mondo differente.
Ciò che Wu Ming 1 scrive qui sopra è una cosa giusta. E’ necessario coinvolgere tutte le componenti sociali e generazionali. e bisogna essere un po’ dovunque. Ma quali che siano gli strumenti che dobbiamo avere per innescare questo processo di rinnovamento della nostra società, io, come anche tu affermi, ancora non li ho intesi davvero. Ma di una cosa mi sto convincendo: che la semplice protesta – legittima, manifestare il proprio dissenso – pacifico o violento che sia, non è più tanto sufficiente; mi pare che sia diventato ormai parte integrata del sistema, come la cioccolata con il lassativo. Ed è proprio per questo motivo che qui leggo e a volte (pochissime, per la verità) scrivo: per condividere cosa si dovrà o potrà fare nel domani, o per meglio dire, come scoprire assieme quell’ottava strategia.
@norma e @tutt*
“Mi piace pensare che possiamo cominciare a costruire
il futuro”
Dai, incominciamo a cambiare, a smarcarci da Fli,
chiamiamolo l’avvenire.
Perché noi, più collettivamente possibile, vogliamo che venga e che av-venga.
Tre battute al volo.
1. Scrive oggi sul “Manifesto” il professor Dal Lago: «Io mi ricordo bene Genova, perché c’ero e ho visto, e posso assicurare Saviano che il comportamento pacifico di decine di migliaia di dimostranti non li ha esattamente preservati dalle botte». Se c’era, era davanti alla televisione, perché il 20 sera era sì a concionare di barricate, ma il 21 e 22 nelle strade non lo ha visto nessuno.
2. Claudio Santamaria: http://www.youtube.com/watch?v=yrHgZy1KnWk&feature=player_embedded#!
3. Concordo con chi vede parole diverse nell’intervista di Nichi Vendola, che pure non viene dalla storia dei “vecchi” movimenti. Emblematico il titolo di Repubblica, che sposta il centro dalla critica alla violenza come vicolo cieco (che è solo la premessa, e fa parte della storia di Vendola) al tentativo di comprendere invece di giudicare, e dice cose molto vicine ad alcune che in questa discussione si sono sentite. Si può cercare di capire anche dall’esterno: basta volerlo fare.
Io dico che non c’è più tempo di aspettare il futuro, dobbiamo cambiare il presente, l’adesso. Questa storia dei giovani senza futuro sta diventando un luogo comune caro a tutti, da bersani a fini (sempre che rappresentino ancora due opzioni separate…). E’ molto di moda il problema del precariato, dei 30enni a casa dei genitori, etc. Ma i datori di lavoro ormai ci hanno preso gusto a non pagarci, e vedremo quale governo riuscirà ad invertire la tendenza. E tutto questo sta accadendo ADESSO. Per molti è già troppo tardi. Non si tratta di lavorare per costruire un domani diverso, si tratta di cambiare il presente. Per esempio, abolire stage e contratti a progetto DA OGGI.
@Giovanni Ridolfi
La parola futuro non ha ancora un copyright, a meno che non l’abbia registrata mc donald…
Mentre avvenire è di proprietà della CEI.
E io là voglio andarci, non aspettare che venga.
@laura
Concretamente come fai a farlo oggi? :/ Deve accadere in Parlamento. Oppure tutti i datori di lavoro smettono di loro volontà di utilizzare questi strumenti che hanno (…).
Per come la vedo io, si torna da capo. Mancano consapevolezza e rappresentanza. :S
Posto un bell’intervento del compagno Penthotal :)
http://www.youtube.com/watch?v=yrHgZy1KnWk
Nel mio primo post avevo proposto una questione, non OT, ma, lo ammetto, forse un po’ ‘Trans-Topic’, nient’affatto nuova, ma che mi pare possa essere interessante in questo contesto. E provo ancora una volta a chiedere a tutt* cosa ne pensate.
In realtà la questione sta serpeggiando da un po’ sotto traccia nel thread. Cito sparsamente:
Roberto: “ma qui si lavora per creare narrazioni e comunità. E io sento molto forte questa disconnessione (mia, di tanti come me) da un tessuto più ampio”.
Girolamo: “è la semplicità che è difficile a farsi”.
WM4: “Quello che ci serve è capire come uscirne, come recuperare e costruire insieme una visione in grado di superare la disperazione dilagante”.
Laura: “Saviano dice “Ridurre tutto a scontro vuol dire permettere che la complessità di quelle manifestazioni e così le idee, le scelte, i progetti che ci sono dietro vengano raccontate ancora una volta con manganelli, fiamme, pietre e lacrimogeni.” Ma qualcosa non mi torna. Insomma, non è lui per primo a fare così?”
Ale: “la complessita’ e’ affascinante e l’ho sempre ricercata ma da un po’ mi accorgo che non so come muovermi. e intanto il fiume del tempo scorre. e io continuo a subire un’altra guerra”.
Mathias @WM1: “Capisco, e di primo acchito concordo. A lato di quello che scrivi credo ci sia anche la necessità di una rappresentazione…”
WM4: “Non possiamo pensare di essere i pompieri della rabbia sociale (con quale acqua poi? La stanno privatizzando…), o gli alleviatori della frustrazione con qualche bella storia o bel romanzo. Quello che possiamo fare [come scrittori, interpreto io che posto] è […] cercare di trasformare quella frustrazione e quella rabbia in azione efficace, diffusa e non dispersa”.
Aggiungo una citazione, per provare a spiegare meglio la questione che sto tentando di proporre (il limite è mio, ovvio). Nei thread di Giap ogni tanto compare qualche riferimento a Cormac McCarthy (qui abbiamo pure un JohnGrady?). Il suo “Sunset Limited. Romanzo in forma drammatica”, si conclude con uno dei due personaggi – il Nero – che caduto in ginocchio, invoca Dio, chiedendogli, più o meno [vado a memoria perché il libro l’ho appena prestato]:
– Perché non mi hai dato le parole giuste? Perché? A lui le hai date. Perché a me no?
Il ‘lui’ è l’altro personaggio, il Bianco, coltissimo aspirante suicida da poco salvato dal Nero, ex galeotto convertito e quasi illetterato (il romanzo, brevissimo, è la conversazione tra i due che segue al salvataggio); il Bianco, dopo aver espresso la sua tesi di ‘nichilismo cosmico’ con le ‘parole giuste’, in quanto convincenti, precise, vincenti nel dialogo; di un nitore, di un tagliente e di una ‘presa’ pazzeschi, se ne va, con tutta probabilità verso la ‘volta buona’ (dal suo punto di vista, ovviamente). Ora: questa citazione ci poteva stare anche nel thread di Appunti di visione dedicato a ‘Io sono con te’, ma sono d’accordo coi WM che sparigliare i punti di vista e i contesti può essere fecondo.
E allora: come facciamo a trovare le nostre ‘parole giuste’ anche ‘noi della complessità’ (e noi ‘che non vogliamo mollare’)? [Preciso bene, a scanso: citare qui questo explicit McCarthiano non significa ovviamente proporre il Bianco come emblema di colui che ha perso la fiducia in dio (ovvio che in questo thread non ce ne può fregare di meno e non mi frega nulla neanche a me), ma, al limite, considerarlo ‘correlativo… soggettivo’ di chi, sulla base di una visione radicalmente pessimistica, e convinto dalle ‘parole giuste’, ha magari deciso di ‘mollare’, di arrendersi ‘in toto’.]
E la questione è, anche (ripeto un po’ il mio primo post, scusate): spesso cadiamo vittime della semplificazione. Ma la semplificazione funziona. E non solo a livello mediatico. Funziona anche a livello di arte, letteratura. (spesso il confine tra semplificazione e semplicità, fra l’altro è molto molto sfumato: anche per questo il lavoro dei WM sui nativi americani è importante ). Non si tratta soltanto di reagire con centomila storie alternative alla storia dominante, ma: come facciamo a elaborare una ‘poetica’, una…’estetica’?? (?! bah…) che possa essere altrettanto efficace e riuscire a dissolvere, a depotenziare il paradigma dominante dell’ “è giusto e bello che vinca il più forte. San-gue san-gue!?” (tentativo malriuscito e frettoloso di sintetizzare il pradigma dominante, pardon).
(Mi pare che un post di Cristianfabbi sia un tentativo).
Ciao a tutt*, Stefano Dop.
Da un post di Nicola Lagioia (13 dicembre) su Minima et Moralia, a proposito di Fame di realtà di David Shields:
“I mass media utilizzano la realtà per produrre narrazioni a ciclo continuo. Gli episodi di cronaca nera vengono smontati e rimontati dal giornalismo televisivo con una foga che farebbe sorridere il Queneau degli Esercizi di stile. Questa continua produzione di narrazioni è, oggi, il linguaggio mainstream. Vale a dire la lingua del potere (si pensi alla drammaturgizzazione in progress della vita politica). La lingua del potere è l’antitesi di quella letteraria. L’una è bidimensionale, l’altra restituisce una complessità. La lingua letteraria esercita sulla lingua del potere una funzione di verità: svela cosa c’è dietro”.
“E’ “ l’antitesi. “restituisce” una complessità. “Esercita” una funzione di verità e “svela” cosa c’è dietro.
MAGARI, FOSSE SEMPRE COSI’, CAVOLO! Questo ottimismo filo-pan-letterario di Lagioia mi pare davvero un troppo semplicistico scambiare ciò che è con ciò che si vorrebbe che fosse.
A me interessa:
Come *potrebbe* diventare l’antitesi…?
Come e quando *può* restituire una complessità?
Come e a quali condizioni *può* svelare ed esercitare una funzione di verità?
segnalo questa strana storia:
http://roma.repubblica.it/cronaca/2010/12/17/news/ragazzo_aggredito-10325735/?ref=HRER2-1
Aggiungo anche l’opinione di Bifo dopo la lettera di Saviano:
“Saviano ha scritto un libro meraviglioso, intelligente, straordinario. Quando ho letto Gomorra (appena uscito, prima che lo scoprissero i Fabiofazio) ho detto così dovrebbe scriversi DAS KAPITAL nel nostro tempo. Poi nella sua vita sono successe molte cose.
Belle e brutte. Ed è cambiato (spero di sbagliarmi, vorrei che esistesse ancora il Roberto Saviano che avevo letto con emozione).
Ora Saviano è un coglione. Non c’è niente da fare, chi ha scritto le cose che ho letto su La repubblica, è semplicemente uno che capisce male, scrive male, parla male. Oppure uno che intende compiacere Veltroni Finocchiaro e Calearo.
Chi non capisce la disperazione non può fare lo scrittore. Saviano si cerchi un altro mestiere, oppure faccia lo sforzo di ricominciare a capire. Io spero che farà uno sforzo, e la smetterà di dire sciocchezze ipocrite nelle quali non crede”.
Franco Berardi
Mah. Anche dire che Saviano “è un coglione” è una cosa inutile. Troppi malati di “grilloparlantite”, in giro. Saviano non è certo il solo. Troppi reduci con le idee presuntamente chiare, teorici che hanno già capito tutto, sessantenni forever-young dopati di Viagra insurrezionale. Ci vorrebbe più rispetto. Ci vorrebbe più discrezione. Ci vorrebbe la dignità di non accapigliarsi per prendersi un raggio di luce riflessa. E questo da parte di tutti. Chi è senza peccato etc.
A me semplicemente Saviano oggi appare, quasi fosse un contrappasso per le realtà che a suo tempo efficacemente ci mostrò, distante dalla realtà.
@WuMing1
Concordo in pieno sull’atteggiamento negativo e confusionario nei confronti di Saviano da parte di alcuni personaggi e sulla conseguente convinzione da parte dell’autore di Gomorra nel credere che queste posizioni fossero condivise dalla quasi totalità dei movimenti.
Niente di più errato.
Io personamente ho avuto modo di scontrami con Sepe e con varie realtà napoletane e campane caratterizzate da una certa staticità sia nella mentalità che nei modi di fare attivismo.
A tale proposito e a conferma di quanto affermi, ossia che
“la maggior parte delle persone è stata perfettamente in grado di distinguere i due piani, anche di recente” segnalo il contributo dei 99 posse di oggi
http://www.globalproject.info/it/in_movimento/Il-casco-ti-salva-la-vita/6865
Per quanto riguarda il resto dei bellissimi commenti che ho letto qui devo dire che il livello è davvero notevole, sto divorando in questi giorni centinaia di link (una produzione vastissima in questi 3 giorni )un pò su tutte le piattaforme dove si possa tenere una discussione non viziata dai media di regime e devo dire che per la prima volta nella mia vita non avevo mai visto un’elaborazione del genere, neanche prima o dopo Genova.
Ciò che sta accadendo, ciò che voi ragazzi e ragazze state provocando è incredibile. Il Paese è letteralmente spaccato in due ed era ora che si tentasse un qualunque tipo di pensiero politico e sociale che andasse oltre il mero partitismo o oltre i ben noti scandali di palazzo!
Generazioni a confronto, nuove idee sul tavolo, stati di necessità, cambiamenti epocali. Sembra incredibile ma stiamo ragionando in maniera quasi normale. Perfino chi rifiuta aprioristicamente l’idea dello scontro violento si è posto almeno un paio di domande in questi giorni. E’ una specie di miracolo per come la vedo io.
So che vi attende un compito difficilissimo in questi giorni e nel prossimo futuro, sono felice di non darvi nessun consiglio come fa Dazieri: andate avanti per la vostra strada, nel frattempo noi vecchi/e abbiamo il già difficile compito di far sfogare i repressi dei movimenti e non, talvolta perfino gli amici che credevi simili a te e che nel frattempo si sono tranquillamente appecoronati stupendoti con argomenti a cazzo tipo “sessantotto”, “pasolini”, “gandhi”, democrazia”.
E’ un lavoro sporco il nostro, ma qualcuno le deve pur fare.
Mi rendo conto che la lettera di Saviano ha avuto il grande “merito” di spostare gran parte dell’attenzione, la nostra compresa, sul classico dibattito “violenza” si o no. Insomma mi sembra che il potere catalizzatore della sua lettera sia stato enorme. Molti gli danno ragione, molti “difendono” il movimento, ma in qualche modo sentendo la necessità di trovare delle giustificazioni. Sembra che la questione principale su cui discutere sia come gli studenti debbano reagire di fronte ai blindati.
Mi pare che la posizione di Repubblica sia abbastanza chiara: possiamo condividere in gran parte i motivi della protesta, ma non i modi del 14. Saviano rientra in questo schema. Il problema è l’ambiguità insita nella sua lettera, che non è un editoriale di Ezio Mauro, che non ci avrebbe fatto discutere a lungo, ma nemmeno un post su Uniriot, che avrebbe posto dubbi e interrogativi ALL’INTERNO del movimento.
Invece che star qui a discutere di sanpietrini, mi sembra fosse molto più interessante il discorso fatto più sopra sull’opportunità dell’assedio e della giornata campale. Su questo il movimento puo’ discutere, gli scontri in sé rischiano di diventare inevitabili e imprevedibili (e di fatto secondari) in certe situazioni.
Insomma, anche la lettera della posse, come pure l’intervento che la riporta, mi sembra cogliere diverse questioni importanti e in particolare un pressante invito “a stare bassi” rivolto a tutti noi che, per comodità, e verità, ci chiamiamo ‘vecchi’. E’ il momento di essere solidali, non altro. Di stare in ascolto, non altro. Vicini, uno o più passi indietro, non per l’ennesima volta in posa per la foto.
E chi invece non avverte empatia, non pensa che stia accadendo qualcosa di grosso e importante, che tutto è già visto, è già noto e si sa come andrà a finire, bè, è semplice, può stare zitto, e continuare a fare altro, non è certo un crimine.
Ieri, dopo tempo immemorabile, mi sono affacciato a un incontro, organizzato dagli epigoni di Melville. Era troppa la curiosità di constatare ‘dal vivo’ alcune sensazioni ricevute in questi giorni.
Sì, il livello è alto, c’è una consapevolezza diffusa, nessuna esaltazione ‘a prescindere’ sul 14/12, niente bava alla bocca, molta voglia di ragionare, di trovare modi e forme efficaci per proseguire.
Parlano in tanti, pochi pipponi, molte più domande che risposte, nessun avvitamento, zero recriminazioni o acrimonia verso chi sta mostrando di comprendere poco e male le circostanze. Non è poco, a me sembra tanto.
Questi ragazzi, che poi sbaglio anch’io, basta, sono giovani uomini e donne, possono aiutarci molto, non viceversa.
Gli esiti sono ignoti, fare previsioni è inutile e ridicolo. Il carico che stanno prendendo su di sè è enorme, e mi sembra di capire che sanno di essere “costretti” a farlo, perchè nessuno lo farà per loro.
Le generazioni che li hanno preceduti hanno lottato per un'”altra” vita. Loro lottano per la Vita, e basta. E così, facendolo per se stessi, già lo fanno per tutti. Una cosa già molto, molto grande. Che fa la differenza.
Hanno ragione, è chiaro che c’è in ballo il futuro, che bisogna conquistarselo, ma bisogna cambiare il presente, senza teleologie salvifiche. E provando a interrogarmi anch’io, a sforzarmi un po’, credo che uno dei possibili punti di svolta, qui e ora per loro, possa risiedere nel tentativo di allargare, subito, il rifiuto del lavoro gratuito, neo-schiavismo contemporaneo a molti di noi ignoto, ma non ancora per molto. Sta per diventare una condizione non solo dei cosiddetti ‘cognitivi’, ma ancora più estesa.
Ammantata da una merdosa idea di “meritocrazia” che vorrebbe dire che se, certo, hai fatto lo sguattero a gratis per me per un anno, allora un contratto schifoso di sei mesi te lo sei “meritato”.
Infine, e mi scuso per la lunghezza, un umile consiglio che non serve a un cazzo, giusto per mettere i famosi 2 cents, secondo me non sarebbe male, nei comunicati negli interventi o nelle lettere o altro, quando si parla del governo, dei politici o della classe dirigente, cominciare a declinare i verbi al passato. L’imperfetto o il passato remoto. Credo farebbe un buon effetto. Un effetto di verità.
L.
@Laura: riprendo il tuo finale che mi interessa molto :-P.
Non so cosa è più giusto fare, ma posso dire come, fra amici, ci stiamo muovendo.
Innanzi tutto abbiamo notato che da oggi a domani non si possa fare nulla, perchè il movimento non ha la forza fisica per incidere alcunchè (non ha nemmeno la forza per far capire alla maggioranza degli studenti che il treno sta per finire in fondo al burrone -a tal proposito consiglio di andare a vedere cosa succede quotidianamente nella maggioranza delle università italiane, è il piattume più bieco-). Inoltre la maggior parte delle “armi” che abbiamo sono state lordate dal Sistema, che sa perfettamente come farci fronte -per esempio una qualunque ipotesi violenta può essere strumentalizzata: se si agisce in modo violento contro altri si attiva la risposta “immunitaria” del sistema (i manganelli o varie repressioni generali), se si agisce contro se stessi (fino all’estremo gesto alla Jan Palach) gli organi mediatici ti riducono agilmente a “disperato folle”, rendendo inutile persino l’estremo sacrificio-.
Di conseguenza, prima di tutto riprendiamo e “ripuliamo” a fondo tutta una serie di presupposti e di concetti che ormai sono stati traviati, in modo da capire quali armi usare. Anche perchè se, come crediamo, ciò che non funziona è l’intero Sistema, e non qualche personaggio o qualche situazione politica contingente, ci deve anche essere un’alternativa e un’idea su come superarlo, altrimenti la protesta si svuota di ogni significato. A questo si accompagna a una fitta divulgazione capillare delle questioni e delle idee, e ciò va fatto in modo attivo, ricostruendo il dialogo fra più persone “reali” -internet può trasmettere gli scritti, ma non tutto quello che c’è dietro- e depoliticizzando il messaggio (sostituire la dicotomia “destra-sinistra” a una “progressista-conservatore” può essere uno degli inizi). Infine, lucrezianamente, la proposta è quella di ammantare il tutto di una spinta creativa, giacchè la folle tecnicizzazione della nostra società si scioglie come neve al sole di fronte a un atto creativo “impegnato”.
Sono stato vago, perchè vaga è l’intuizione, è da poco che abbiamo iniziato e stiamo valutando con calma ogni possibilità -quasi indipendentemente da ciò che sta succedendo nel resto d’Italia- nella situazione in cui ci troviamo noi. Al di la delle facili parole, moltissimi nostri coetanei sono preda o di un nichilismo passivo o di una semplice ignoranza voluta e reiterata, che rende necessario scegliere bene i metodi prima di attuarli.
@luca: sull’idea di “boicottaggi” generali sono piuttosto scettico, quella che si muove è una minoranza che, come tale, non è in grado di far grosse pressioni sul mondo del lavoro -senza contare che noi proletari contemporanei senza lavoro possiamo starci 2-3 mesi, il lavoro senza di noi può resistere per almeno un 4-5 anni-. Invece l’idea di parlare al passato mi piace parecchio, anche se va dosata (il rischio è quello, stereotipando, di essere stereotipati).
Spero di aver detto qualcosa di utile nel discorso, buon pomeriggio!
@tutti: mi scuso per le scempiaggini grammaticali XD
Un contributo per uscire dalla questione Saviano e tornare al centro del discorso
http://labottiglieria.noblogs.org/post/2010/12/18/questo-e-stato-distribuito-durante-il-14-a-milano-ovviamente-e-mancante-perche-non-parla-di-roma%E2%80%A6-ma-verra-integrato-a-breve/
Ci tengo a precisare che si tratta di un contributo alla discussione e NON di una presa di posizione.
WTJ
Un altro piccolo passo verso il nocciolo della questione mi sembra fatto. Negli ulti interventi di @cammello e @marcobinotto (que stranamente qui non vedo, eppure mi e’ arrivata la notifica via email) l’accento viene posto sul ruolo di chi sostiene il movimento pur non facendone parte non essendo studente.
Cito l’ultima parte del commento di marcobinotto scomparso che mi sembra cristallina:
“Cosa provo a fare? Cosa posso proporre di fare? Continuare a costruire e riproporre *strumenti*. Ognuno fa quello che può, c’e’ chi sa scrivere storie, chi prova a fare analisi, chi e’ bravo formare organizzazioni… Il punto è di contribuire, *solo* contribuire, a trovare alternative ad un panorama che vede l’appello alla manifestazione o allo scontro campale come *ultima alternativa rimasta*, il minimo comune. Provo a fare due esempi banali. Siamo ancora certi che l’assemblea sia ancora lo strumento migliore per favorire l’emergere di idee creative e il formarsi di “collettivi pensanti”? Siamo certe che i commenti di un blog (il corrispettivo della lista di interventi in un’assemblea) siano il modo migliore di confrontare opinioni ed opzioni?”
E’ esattamente in questa prospettiva, che risulta dalla dialettica tra il voler dare un contributo e l’esigenza di rispettare l’autonomia di un’esperienza, che qualche commento piu’ su avevo suggerito di condividere la conoscenza di strumenti operativi adatti allo scopo (tecniche di democrazia diretta).
Condivido l’idea di cammello che se il punto e’ di cambiare il sistema la prima cosa da cambiare sono i sistemi conosciuti per farlo.
Il contributo di contenuti, riflessioni, intuizioni e’ assolutamente importante, ma sarebbe arrogante pensare che questi contenuti non possano essere espressi dagli studenti stessi e che quindi chi ha piu’ esperienza (o e’ semplicemente piu’ vecchio) debba svolgere il ruolo di compendio. Penso che se il risultato di un processo condiviso tra gli studenti fosse anche incompleto o parzialmente scorretto non farebbe la minima differenza, se le modalita’ operative di questa processo creativo di condivisione fossero realmente innovative dal punto di vista democratico.
Per questo credo che la discussione sarebbe ancora piu’ fruttuosa se orientata ad esaminare (esempi alla mano) metodi e strategie di elaborazione e, perdonate l’inglesismo, di “decision making” piu’ adatti alla bisogna, e comunque interessanti da sperimentare.
Questo movimento finira’ come tutti quelli che l’hanno preceduto, indipendentemente dal raggiungimento o meno delle rivendicazioni che l’hanno messo in moto, ma cio’ che si sara’ imparato durante la sua parabola sara’ un mattone in piu’ nella costruzione di quelli che seguiranno, siano di studenti, di precari o, finalmente, solo di persone non categorizzate.
@ norma
in realtà il commento di Binotto non è sparito: è nella schermata precedente. Hai ricevuto la notifica adesso, ma il commento è “vecchio”. Purtroppo era finito nello spam, ce ne siamo accorti solo ora, e solo ora l’abbiamo sbloccato.
@ luca e cammello
Secondo me il rifiuto del lavoro gratuito puo’ essere un punto di partenza. Si sta diffondendo quest’idea perversa per cui un’azienda ti “forma” e quindi non ti deve pagare. Lavorando si impara sempre qualcosa, Veronesi impara qualcosa da ogni nuovo paziente, Piano da ogni nuovo progetto, Santoro da ogni nuova trasmissione. E allora? Dobbiamo renderci di nuovo consapevoli dell’ovvio assunto che chi produce ricchezza dev’essere pagato.
Detto questo, un punto di partenza potrebbe essere ragionare sui tirocini universitari. In sostanza le università dicono alle imprese “ecco i nostri laureandi, vogliamo che vengano a lavorare da voi e che non siano pagati”. E se un’azienda ha un’intera schiera di studenti quasi laureati pronti a lavorare gratis, perchè dovrebbe assumere un neolaureato? E via dicendo. Ci sono tantissime aziende che sarebbero nelle condizioni di assumere qualcuno e non lo fanno perchè quel posto di lavoro continua ad essere occupato da stagisti.
Chiedere per esempio la certificazione di una retribuzione per il riconoscimento dei tirocini universitari sarebbe un piccolo punto di partenza, ma simbolicamente importante, che aiuterebbe chi è studente e chi non lo è più.
@ laura
La retribuizione per gli stage non mi pare un tema centrale. Vivo in Francia da cinque anni ormai, e ci sono arrivato dopo una laura in economia come stagista a trecento euro al mese in un’azienda del web. Praticamente gli ho “creato” il mercato italiano. Per 300 euro al mese, in cinque o sei mesi. Alla fine dei sei mesi, pero’ – sei mesi nei quali non ho fatto le fotocopie, ma lavorato nove ore al giorno come minimo, imparando tantissimo – hanno ritenuto che avessi fatto il mio dovere e fossi utile all’azienda e mi hanno fatto un contratto a tempo indeterminato, come quadro, a millecinquecento euro (netti) al mese per i primi sei mesi, poi salito a duemila. Dopo tre anni me ne sono andato io perché mi offrivano moltodi più altrove. Il tutto e da sempre con le ferie, la malattia, assicurazione complementare eccetera. Qua è la norma.
Il punto secondo me è porre al centro la questione della mobilità sociale: a me una forte flessibilità e poco reddito nei primi anni in cui lavoro mi sta bene, la trovo lecita: in cambio esigo pero’ il riconoscimento del merito come *unico* elemento valido alla selezione e all’avanzamento sociale – e ovviamente un’assicurazione contro il fallimento e a garanzia della dignità di ciascuno – oltreché per retribuire molti lavori cognitivi: il reddito minimo. Se uno stagista va in azienda per fare delle fotocopie, è un peso per tutti, perché ci deve sempre essere uno che si sbatte a fargli fare qualcosa: non ha senso pretendere che lo si paghi pure. Si deve pretendere che sia messo a fare cose utili, che gli insegnino un lavoro, che lo inseriscano. E poi bisogna chiedere (sempre secondo me) la fine di tutti i contratti del cazzo tipo le varie collaborazioni eccetera: o mi assumi (a tempo indeterminato) oppure no.
Penso.
@ emanuele
“il riconoscimento del merito come *unico* elemento valido alla selezione e all’avanzamento sociale” mi convince poco.
Sarà perché non l’ho visto mai, sarà perché tutte le volte che ho sentito parlare di merito, il *merito* in questione era quello di avere una posizione da difendere… Io da ignorante totale in economia mi son fatto l’idea che questa cosiddetta “crisi” sia una crisi di sovrapproduzione di livello globale. Qual è la tua opinione a riguardo? Per quanto mi riguarda la meritocrazia, anche se ottimamente applicata, rischia di diventare il mascheramento di questa situazione, della *sistematicità* di questa crisi, e di farne pagare il conto a chi proprio *non* se lo merita.
Senza contare che poi, a dirla tutta, la meritocrazia non dovrebbe basarsi su uguali condizioni di partenza, uguali opportunità? E allora perché non chiamarla direttamente comunismo? E’ una domanda sincera da incompetente in materia: io, sinceramente, questa cosa della meritocrazia non mi è mai entrata in testa.
@Emanuele
Però parli della Francia, non vale! :-)
Qui funziona un po’ diversamente. Io lavoravo dal 2007 In un’azienda che non nomino. Prima outsourcing a progetto, poi internalizzato ma da interinale. Mansioni di un certo tipo,qualifica al ribasso. Ora a natale un calcio in culo e via. A 34 anni non fa piacere. Ora al mio posto ci sono stagisti gratis. Per questo sono con @laura e sono contrario a queste forme di lavoro gratuito.
In Francia uno stage deve essere retribuito al minimo al 30% del salario minimo e non è possibile reiterarlo. C’è da interrogarsi su quale ruolo il sindacato italiano abbia mai svolto nella definizione della normativa sugli stage.
Un assenza che ha determinato un passaggio culturale che appare assurdo a chi ha più di quaranta anni e a chi ha immediate esigenze di reddito: per la maggior parte dei giovani è diventato normale quella di prestare la propria opera in cambio di niente.
Paradossale è inoltre che sia proprio nelle aziende della comunicazione che tale sfruttamento del lavoro avvenga in modo più intensivo. E’ paradossale perchè proprio in questo ambito sempre più gli strumenti tecnici consentono a chiunque di provare a fare autoimpresa.
Dedicare 6 mesi della propria vita a sviluppare in autonomia ad es. un blog di contenuti o un’attività commerciale su eBay è un’opzione che dovrebbe essere sempre presa in considerazione come alternativa allo stage.
Oltre a poter essere immediatamente remunerativa è quasi sempre una scelta più qualificante come chiave d’accesso al mondo del lavoro.
Ma c’è un aspetto ulteriore sull’altro lato della barricata dell’economia.
Le aziende che sfruttano in modo intensivo i “contratti” di stage attuano di fatto un operazione di dumping verso le aziende che si muovono in modo etico. Queste ultime risultano di fatto meno competitive nel proprio mercato di riferimento dovendo sostenere, e quindi riversare sui proprio clienti, costi di manodopera le aziende non etiche non hanno.
Si tratta di un circuito perverso che punisce le aziende più serie finedo per alimentare il ricorso allo stage su tutto il mercato del lavoro. Il risultato è che il lavoro non remunerato sta diventando progressivamente una variabile strutturale del “capitalismo” italiano.
@andreanot, @emanuele
Siamo d’accordo sugli effetti perversi della competizione al ribasso, in particolar modo in questo contesto di crisi economica. Tuttavia, anche indipendentemente dalla crisi, il sistema ha comunque svariate assurdità, a partire dal fatto che con il diminuire dell’occupazione (tendenza inevitabile con il progredire di automazione e razionalizzazione nella produzione di beni e servizi – e aggiungo- auspicabile come coronamento di un secolo di lotte per l’emancipazione dai bisogni e dalla schiavitù), pur in presenza di un aumento costante della produzione, le persone debbano faticare il doppio per arrivare alla fantomatica “fine del mese” e che l’ammontare di risorse disponibili per essere investite socialmente diminuisca drammaticamente.
Questo è essenzialmente ascrivibile alla concezione stantia che tuttora equipara il reddito al lavoro. In altri termini il lavoro è un prodotto venduto sul mercato come tutti gli altri. E su questo commercio viene applicata la tassazione più ingiusta (perché grava principalmente sui lavoratori dipendenti a basso reddito) e irrazionale (perché pretende di finanziare una crescente necessità di investimento sociale da una risorsa in calo strutturale, l’occupazione): la tassazione sul reddito da lavoro.
Consiglio caldamente di vedere il film Grundeinkommen (Reddito di base) di Enno Schmidt & Daniel Häni del 2008 (http://dotsub.com/view/26520150-1acc-4fd0-9acd-169d95c9abe1 lingua tedesca con sottotitoli in italiano) in cui, con estrema chiarezza, si analizzano le opportunità di un cambiamento radicale di sistema, combinando gli effetti di un reddito di cittadinanza incondizionato e per tutti, con la tassazione esclusiva dell’acquisto finale di beni e servizi.
Rispondo alla domanda di andreanot con un’altra domanda: c’è da interrogarsi su quale ruolo il sindacato italiano abbia mai svolto nella definizione della natura economica del lavoro subordinato.
Il lavoro non è una merce, è il pricipio dell’economia solidale su cui non può non basarsi una società democratica organizzata nella forma di stato di diritto.
Rileggendo i principi fondamentali della costituzione italiana il termine “lavoro” ha un sapore ambiguo e amarognolo, quasi sottintendesse una dimensione religiosamente e acriticamente devota a un destino di sfruttamento.
Il diritto al lavoro, mah!
Avere diritto a un obbligo, a una necessità, c’è qualcosa che non va…
p.s. Ma il termine contratto di lavoro a tempo indeterminato, non vi dà i brividi lungo la schiena?
c’e’ una cosa che non ho mai capito nella questione del “reddito di cittadinanza”. chi la cittadinanza non ce l’ha, ne rimarrebbe escluso, no? conosco un po’ di gente che sostiene (da sinistra? da destra?) l’idea del reddito di cittadinanza, e contemporaneamente esprime posizioni estremamente xenofobe. certo e’ che la questione del reddito di cittadinanza, fuori dall’ europa, non e’ nemmeno immaginabile. e in europa lo e’ sempre meno, e comunque con il pericolo di derive esclusiviste. io forse sono vetero-tutto, ma per me la questione del rapporto tra capitale e lavoro continua a rimanere centrale.
Avevo vent’anni quando ho cominciato a sentir parlare di “reddito di cittadinanza”. In una certa area politico-teorica diventò subito un mantra, o il titolo di un sutra che però non proseguiva oltre, frase vuota di significato la cui ripetizione sembrava farci star bene, tipo “Nam myōhō renge kyō“, una scorciatoia spirituale. E anche un modo per tagliare corto con ogni discorso.
Col tempo, il vuoto di quello slogan mi è sembrato farsi sempre più vuoto, un vuoto al quadrato, poi al cubo, poi all’ennesima potenza. Mi è sempre più sembrato un infiorettamento, un imbellettamento di concetti molto più terra-terra, tipo “sussidio” o “dividendo”. A conti fatti, l’ammantare di radicalità teorica post-fordisteggiante quella che in realtà era ed è, nelle migliori ipotesi:
– una prosaica richiesta di assistenza minima, assistenza diversa da quelle già esistenti solo per la massimalistica (nel senso di “spariamola alta tanto non costa niente”) applicazione che viene immaginata: poiché oggi al centro della produzione c’è il lavoro mentale, e il lavoro mentale lo facciamo tutti, allora tutti dobbiamo essere remunerati;
– oppure un’idea di “azionariato” il cui dividendo sarebbe il reddito di cittadinanza.
In entrambi i casi mi sembra che si finisca per portare avanti una visione a-classista e non-antagonistica della società, cioè si immagina una produzione capitalistica che avviene nell’interesse di tutti, e un corpo sociale unito da quest’interesse. Ma può esistere una cosa del genere? Dove vanno a finire le contraddizioni? Che fine fa la critica a questo modello di sviluppo? Come mai, in questo frame, sono scomparsi (e quindi deresponsabilizzati) i padroni, e la controparte è solo un’indeterminata istituzione pubblica?
Inoltre: l’universalismo è una cosa che ancora non c’è, perché – molto semplicemente – è incompatibile con il capitalismo reale. L’universalismo è una cosa a venire, per cui lottare, non il basamento già esistente su cui fondare una malcelata teoria dell’armonia sociale. Oggi possiamo essere universalisti solo essendo *parziali*, nel senso che dobbiamo riconoscere che nella società ci sono parti in conflitto l’una con l’altra.
L’universalismo che io vedo in questi discorsi è velleitario, fallace: la duplice premessa è comunque quella dello “sviluppo” (che però è *strutturalmente e ineluttabilmente diseguale* a livello planetario) e della ridistribuzione della ricchezza *com’è prodotta oggi*. In parole povere: la garanzia per poter percepire il reddito di cittadinanza in Europa è che proseguano le razzie di risorse e lo sfruttamento selvaggio altrove.
Infatti, a distanza di vent’anni, il dibattito intorno al “reddito di cittadinanza” è fermo alle sue premesse, le stesse che sentivo vent’anni fa. Siamo sempre alle stesse due-tre domande e alle stesse circonlocuzioni (leggi: elusioni delle risposte).
E’ chiaro che nessuno ci sputerebbe sopra a un reddito sociale garantito a tutti, per l’amor di Dio. E’ solo che non mi sembra la parola d’ordine chiave, non mi sembra la parola d’agitazione adeguata.
Questa la capisce solo Tuco, perché è un modo di dire che c’è solo a Trieste (è gergo da commerciante):
– Mi potrebbe dare il reddito di cittadinanza?
– Volentieri.
@andreanot @norma
Sul lavoro gratuito – stage, praticantato, etc… – vorrei evidenziare il suo aspetto estremamente classista.
La domanda è, chi può permettersi di stare mesi se non di più, in un luogo di lavoro senza retribuzione? Chi ha alle spalle una rete famigliare che se lo può permettere. Difficilmente vedrai la figlia o il figlio di un operaio, piuttosto che di un lavoratore di un’impresa di pulizie, di un inserviente del Mac Donald , di un operatore di call center, del figlio di una “ragazza madre” piuttosto che la figlia di un cassa integrato, etc…. stare in uno studio di Architetto o in un’agenzia di comunicazione 6, 8, 12 mesi a gratis. Non se lo può permettere, semplice – quant’anche fosse riuscita/o riuscito a a laurearsi.
Il meccanismo è feudale. Tu accedi per diritto di nascita e di censo con buona pace della meritocrazia e dell’ “uomo che si fa da se”, puttanate della mitologia capitalistica.
Nei luoghi dove si forma la classe dirigente, dove si ridisegnano le nostre città e i nostri territori, dove si forma l’immaginario collettivo, gli esclusi non devono neanche pensare di potervi accedere.
“Ma il termine contratto di lavoro a tempo indeterminato, non vi dà i brividi lungo la schiena?” … a me i brividi mi vengono quando, devo chiedere in regalo delle ferie non previste o, peggio, all’idea di ammalarmi di qualcosa che leggermente più serio di un raffreddore….
@ WM 1
In effetti se la si pone sul piano unicamente teorico, o di prospettiva, la questione del reddito di cittadinanza è piena di contraddizioni, di inesattezze, di veri e propri errori concettuali. E mi pare che tu dica una cosa giusta quanto banale quando sottolinei che il reddito minimo nasce e si sviluppa in seno a questo capitalismo e ai suoi sfruttamenti. Il problema è che in seno a questo capitalismo e ai suoi sfruttamenti ci siamo nati, e sviluppati, guarda un po’, anche noi e le nostre lotte. E che per quanto ci sforziamo di essere ortodossi o eterodossi nel nostro marxismo facciamo fatica a delineare non solo un progetto di breve e medio periodo, ma anche un’idea di società plausibile nel lungo, senza limitarci alla premessa che si debba andare oltre il capitalismo. Eh già. Una premessa.
D’altro canto mi dico che ci sono da risolvere ora e qui dei problemi che riguardano la dignità delle persone e la loro libertà. E’ un po’ manicheo pensare che una generazione (ma poi perché solo una?) possa sollvarsi solo per un’idea astratta di giustizia, per un progetto di società che ancora non c’è. E’ delirante pensare, con Bifo, che lo stimolo sia la disperazione. La disperazione non produce lotte, la disperazione produce merda. Sono le speranze, anzi i traguardi raggiungibili qui e possibilmente ora, che ti spingono a muoverti. C’è un gran bisogno di rendere possibile e prossima una vittoria. Il reddito di cittadinanza non è un mattone per la costruzione della Futura Umanità, ma una cosa che ti serve a rimettere in moto il conflitto con il capitale, che ti permette di ricominciare a chiedere i soldi (non il lavoro…), che ti dà una chance di vittoria concreta, perché ha senso e perché lo spazio c’è, anche nella politica istituzionale. Poi con la pancia un po’ più piena e il diritto di mandare a fanculo quello che ti sfrutta perché un’alternativa ce l’hai, ci mettiamo seriamente a pensare a come cambiare nel fondo le cose.
@ emanuele,
guarda, qui non è questione di marxismo ortodosso o eterodosso, o di un’idea di Uomo Nuovo: è proprio che questa storia del reddito sociale non mi sembra stare in piedi nelle sue premesse, e quindi come si fa a farne il pilastro di un programma di lotte? E’ un pilastro che non regge, un pour parler.
E ce ne siamo accorti o no che questo discorso ha nello stato (o comunque nell’istituzione pubblica) l’unico referente/controparte, e come per incanto svaniscono il padronato (so che alcuni considerano questa una parola “vecchia”, ma sarebbe il caso di tornare a utilizzarla), i dirigenti delle multinazionali, i CEO, i Marchionne, il potere finanziario e bancario etc.? A me sembra che l’insistenza sul reddito di cittadinanza abbia contribuito, ovviamente nel suo piccolo, a sviare l’attenzione e ad attenuare le responsabilità delle vere controparti di chi è sfruttato.
Praticamente ci si concentra solo su un’ipotetica ridistribuzione, senza pensare a come cambiare i rapporti di produzione.
A Napoli il così detto reddito di cittadinanza è stato un elemento regressivo per i movimenti. 500 euro al mese (dati in maniera assurda) è un incentivo al lavoro nero perchè nessuno può vivere con 500 euro al mese, quindi deve avere un altro lavoro. Questo lavoro ovviamente non può essere “regolarizzato” pena la perdita del reddito di cittadinanza. Qualcuno potrebbe obbiettare che se una persona lavora non dovrebbe ricevere il reddito di cittadinanza. Dovrebbe essere così, ma con il lavoro nero endemico ed i salari molto al di sotto dei 1000 euro, non puoi rinunciare a 500 euro. Tanto meno lo si può fare per una lavoro “regolare” a tempo determinato che non ti basta nemmeno per pagare le bollette.
Condivido la critica di “interclassismo” sul concetto di reddito di cittadinanza. Io da parte mia preferisco che mi si dia un salario sociale. Un salario e non altro. Un salario dignitoso, che non mi costringa a lavorare in nero, nè mi costringa ad accettare qualsiasi salario mi venga proposto, e che mi identifichi per quello che sono: un cittadino salariato.
@ Emanuele, dimenticavo: pienamente d’accordo su Bifo, la disperazione etc.
Il termine “contratto a tempo indeterminato” per me significa semplicemente “me ne vado quando decido io”.
Ora, poniamo che dopo un periodo di stage le persone vengano regolarmente assunte. Significa che per qualche mese lavorano gratis, o quasi gratis. E perchè? Se Emanule nei primi mesi era utile all’azienda, perchè non doveva essere pagato? Sta passando l’idea che un posto di lavoro bisogna “meritarselo”, prima si lavora gratis, poi SE SI E’ STATI BRAVI, l’azienda è cosi buona che ti regala un lavoro vero. E se invece l’azienda decide che non si è stati bravi? Se si rimane incinte? Se ci si trasferisce? Peggio per noi di quel lavoro il frutto non lo vedremo mai.
Ma la realtà è ancora peggio: gran parte delle aziende, almeno in Italia, lo stage lo usano AL POSTO di un contratto di lavoro, non PRIMA. E tutti, ripetendo questo ridicolo mantra “fa curriculum” collezionano una serie di stage… certo, chi se lo puo’ permettere, come ha giustamente osservato Giangi.
Provate a cercare lavoro in rete, metà delle offerte di “lavoro” per laureati sono stage. Ho trovato un’offerta di stage per un mese come promoter di offerte natalizie nelle profumerie.
La mia sensazione è che l’idea del lavoro gratuito si stia diffonendo pericolosamente.
@ Laura
C”è stato un lungo lavoro preparatorio, che è passato quasi inavvertito, un lavoro di stampo propriamente “ideologico”, basato sul discorso “filosofico” del management. Oggi l’idea che la realizzazione delle potenzialità umane avviene attraverso il lavoro, del lavoro salariato, cosi com’è, è diffusissima. Lavorando gratuitamente, accedi eventualmente, se riuscirai ada vere un contratto, alla possibilità di “realizzarti”, non solo di sopravvivere. Questo, a mio modo di vedere le cose, è un grave inganno.
Accanto alle ristrutturazioni cicliche che hanno cambiato il modo di produrre oggetti e idee, c’è stato questo pervasivo bombardamento di concetti manageriali, che ormai vengono usati da tutti, in modo ubiquitario, l’ “aziendificazione” dell’esistente e del vivente. E’ così che è nata la possibilità di far lavorare la gente senza pagarla.
Più in generale, oggi si esige l’introiezione completa delle motivazioni dell’azienda, la cosiddetta “filosofia aziendale”. Nel frattempo si esige dinamismo, indipendenza di giudizio, intraprendenza, ecc… A ben guardare è un doppio legame. E’ proprio un discorso fallace. Se gli obiettivi aziendali introiettati non vengono raggiunti, è il fallimento, l’inadeguatezza. Da quel momento sei materiale di scarto.
L’ideologia della fase mafiosa del capitale è potente, perchè è ripetuta da milioni di bocche e di speaker, anche “di sinistra”. Difficile uscirne, ma è l’unica possibilità che abbiamo.
@laura
Il capitale (la cultura capitalista) per sua natura tende ad essere assolutamente autoreferenziale: chi possiede un capitale può essere partecipe del “Mondo Capitalista”, chi non lo possiede deve pagare per farne parte. Lavorare gratis è solo uno dei tanti modi per effettuare questo pagamento.
Giustamente WM5 sottolinea come uscire da questa ideologia sia l’unica possibilità. Per sopravvivere, non solo per vivere, aggiungo io.
Personalmente, anche se non mi permetto di dare consigli a nessuno, credo che l’unico modo per uscire da questa logica sia smettere di applicarla: non lavorare gratis (gratuitamente si può fare ben di meglio che arricchire i capitalisti) e non incentivare il consumo che è figlio e padre del capitale.
Non parlo da un mondo ideale: ho fatto mio questo percorso (con famiglia a carico) e nonostante grandi difficoltà l’ho valutato come percorribile.
Il grande problema, oggi, è che il “lavoro preparatorio” di cui parlava WM5 ha soprattutto insistito sull’incentivare le divisioni (economiche, geografiche, culturali, politiche) ben conscio che solo una società unita può essere libera. E in una società libera le logiche del capitale non trovano cittadinanza.
@ wuming 1 delle 12:48
hai espresso perfettamente il concetto :D
@ WM1: Io sono d’accordo con te sul fatto che il reddito di cittadinanza é una cosa che chiedi allo Stato invece che al padrone e che questo è un bel limite. D’altra parte oggi i padroni si sono fatti Stato, nel senso che alla politica ovunque si sostituisce un’idea tecnocratica (soprattutto in ambito economico) secondo la quale quelle di finanza e d’investimento, anche se son soldi di tutti, sono scelte che non competono alla collettività, ma a una ristretta cerchia di sacerdoti che parlano una lingua incomprensibile ai più e ridicolizzano ogni proposta alternativa alla loro con un gergo fatto di cifre e acronimi. Prendi Tremonti: appartiene più all’ambito dello Stato o al padronato tout court? Anche perché poi la questione è dove trovi le risorse per il reddito minimo, e anche quella è una questione molto interessante.
@ laura : non ho dati sufficienti per dire se in Italia lo stage sia utilizzato al posto del lavoro tradizionale. Mi pare pero’ un po’ difficile che un’impresa, specie una piccola impresa, possa attribuire a uno sbarbo funzioni che normalmente dovrebbe pagare molto di più a gente qualificata per ricoprirle. Perché anche se costi poco o niente, se fai male una cosa che un altro farebbe bene, mi fai un danno maggiore del beneficio che ho nel risparmiare un salario (che con le collaborazioni sarebbe comunque un salario ridicolo e senza oneri sociali). Cosa diversa sono i contratti di collaborazione fatti per centinaia di lavoratori di call center che svolgono un lavoro assolutamente e strutturalmente subordinato.
@ WM5: temo che l’ideologia del lavoro e dell’affermazione dell’individuo tramite il lavoro sia un po’ antecedente alle dottrine manageriali contemporanee. I partiti di sinistra nel 900 erano tutti culturalmente laburisti, mica solo perché volevano rappresentare i lavoratori. Quanto alla filosofia aziendale, non so come la vivano gli operai. I colletti bianchi, che qua in Francia o a Berlino frequento abitualmente, se ne fottono. Mi pare che il capitalismo faccia leva su istinti più facili da controllare: consumo e relative frustrazioni indotte in chi non puo’ accedere a livelli di consumo crescenti e propagandati come necessari per essere felici. Se pensi alla tv italiana, per fare un esempio misero, non mi pare che si promuova il valore del lavoro come strumento per accedere alla ricchezza. Pensa al Grande fratello e roba simile. Ti dicono che la tua chance ti viene dalle minchiate, non dal lavoro.
@ Emanuele
Io invece ritengo che l’assalto alle classi subalterne partito con le elezioni di Reagan e della Thatcher e non ancora terminato abbia avuto bisogno di un discorso generale reltivo al ruolo dell’uomo del mondo, e secondo me questo discorso è appunto quello manageriale.
La glorificazione del lavoro di stampo “laburista” o Secondo-internazionalista era di tutt’altro segno. La concezione del Ruolo Storico del proletariato includeva anche l’idea che il mondo, nella sua materialità, fosse edificato, “fatto” dagli operai. Ma nessuno si è mai sognato di affermare che il lavoro salariato non fosse una forma di schiavitù, nemmeno i socialdemocratici, o che so, nemmeno Kautsky :-)
Temo poi che tu stia prendendo un abbaglio. Quando lavori in una fabbrica toyotista, l’introiezione della filosofia aziendale è inevitabile. La filosofia di “zero errori, zero scarti”, ad esempio, rende ogni operaio potenzialmente controllore e guardiano dell’altro. Il modo in cui si producono le cose è mutato, e temo che ogni discorso che prescinde da questo dato fondamentale manchi il bersaglio.
Tra i motivi per i quali la sinistra e le sue organizzazioni hanno perso terreno nelle fabbriche c’è anche questo dato: la solidarietà tra operai, oggi, può benissimo non esserci, è anzi un’ostacolo potenziale alla sopravvivenza nella fabbrica come ambiente. Il ruolo di interfaccia e di repressione dell’antico “capoofficina” è segmentato e disperso tra tutti i lavoratori.
Quanti di noi ormai si considerano “imprenditori” di una “piccola azienda” che coincide con la nostra vita biologica, emotiva, relazionale, spirituale? E’ questo il dato, credimi. Non l’accesso ai consumi, o il Grande Fratello
@ Emanuele
Un’altra cosa: i padroni si sono fatti Stato non da oggi. La democrazia liberale può essere vista coerentemente come una forma di dittatura della borghesia- è una dinamica che prende l’abbrivio nel secolo XIX.
@ Emanuele
“laburismo” e “aziendalismo” (o managerialismo, chiamiamolo come ci fa più comodo per capirci) non sono la stessa cosa. Anzi, direi che il secondo si è affermato con il declino delle condizioni che rendevano possibile il primo. Non credo che WM5 parlasse dell’etica del lavoro dei vecchi partiti operai, che comunque era legata a un’idea di riscatto, di dignità etc. Parlava del dominio senza contrappesi di quello che Marcuse chiama il “principio di performance” (o “principio di prestazione”, nelle traduzioni italiane classiche). In Italia questo dominio, nella sua forma attuale, si afferma negli anni ’80 dello yuppismo. Prima l’aziendalismo c’era, ma non poteva spadroneggiare perché nel conflitto incontrava dei limiti, delle resistenze.
Da questo punto di vista, i reality che citi non sfuggono affatto al “principio di performance”. Anzi, lì vediamo il darwinismo sociale nella sua espressione più pura. In essi quel che conta non è (come nella vecchia etica del lavoro) dimostrare che si vale facendosi il mazzo, ma arrivare al risultato con qualunque mezzo, trucco e scorciatoia. E’ questa la prestazione richiesta: vale chi è lupo per l’altro uomo.
Sull’altra questione: ma non rimaniamo sempre dentro il discorso capitalistico del “privatizzare i profitti, socializzare le perdite”? Il grande capitale fa quel cazzo che gli pare, combina guai sapendo che resterà impunito, tanto (al limite) a rattoppare ci penserà qualche settore dello stato, a spese di quei fessacchiotti che pagano le tasse. Siccome non riusciamo più a contrastare i padroni e i banchieri, non riusciamo a opporci alle loro strategie di rapina e immiserimento, allora ci rivolgiamo al welfare, ai contribuenti, e chiediamo allo stato di erogare sussidi, che però “incorniciamo” con un po’ di lessico post-fordista, in modo che suonino come conquiste radicali. Non è una rinuncia, questa? Non somiglia alla morte delle lotte? Ci tagliano una gamba e noi cerchiamo un cerotto.
Io e WM5 ci siamo incrociati, dicendo – com’è normale – più o meno le stesse cose :-)
Non sono brava come i WM a storicizzare il significato del lavoro, però ho purtroppo le idee chiare su cosa significa cercare un lavoro oggi. In realtà, lo stage dal punto di vista normativo NON è un rapporto di lavoro. Infatti non si ha nessuno dei diritti (pochi) ancora accordati ai lavoratori. Di fatto l’azienda non ti dice “tu mi produci per me e io ti pago” ma “io ti sto formando (…) e non ho motivo di pagarti”. E’ PROFONDAMENTE diverso, e credo non possa non influire sulla percezione che abbiamo del nostro lavoro e quindi di noi stessi. In qualche modo accettiamo l’idea che il nostro lavoro non valga nulla. Credo sia molto svalutante psicologicamente, e che faccia sentire i “lavoratori” in una posizione ancora più subordinata.
Purtroppo non ci vedo niente di strano negli stage gratuiti. Il lavoratore lavora gratis, é tutto tempo regalato al padrone, che dalla sua quindi non spende una lira per il suo lavoratore. A questo ci aggiungi che c’é abbondanza di gente che, sperando di essere premiati per il loro merito, é disponibile per uno stage, e quindi eccoci qui.
Fossi un capitalista offrirei anche io stage gratuiti di 6 mesi! :/
Come diceva Graio, uno si deve rifiutare. Non é facile, immagino. Non sono certamente qui a dare consigli dato che non ci sono mai passato in una situazione simile. Mi viene in mente la recente protesta della giornalista del Corriere, il suo sciopero della fame. Spesso in quei giorni ho letto commenti in cui veniva sfottuta e ridicolizzata perché comunque lei era da anni che un lavoro ce l’aveva, tutto ciò senza che chi commentava si rendesse conto che, più o meno, siamo tutti immersi in questa logica di precarietà e lavoro gratis.
@Emanuele:
“Mi pare pero’ un po’ difficile che un’impresa, specie una piccola impresa, possa attribuire a uno sbarbo funzioni che normalmente dovrebbe pagare molto di più a gente qualificata per ricoprirle. Perché anche se costi poco o niente, se fai male una cosa che un altro farebbe bene, mi fai un danno maggiore del beneficio che ho nel risparmiare un salario”
Ti assicuro che in certi ambiti è la norma, le aziende funzionano così. Vedi: editoria, tv, radio, organizzazione eventi, comunicazione…Ed è un’abitudine che si sta estendendo anche altrove. A mia sorella hanno proposto uno stage a vendere collant da Calzedonia.
Viste le ultime notizie e le proposte di certi ministri, è chiaro quello che stanno cercando di fare: vogliono creare un precedente, così da poter prendere gli stessi provvedimenti quando in piazza ci saranno gli operai senza più cassintegrazione e i disoccupati. E’ indispensabile evitare di cascarci.
wuming5 scrive:
“Tra i motivi per i quali la sinistra e le sue organizzazioni hanno perso terreno nelle fabbriche c’è anche questo dato: la solidarietà tra operai, oggi, può benissimo non esserci, è anzi un’ostacolo potenziale alla sopravvivenza nella fabbrica come ambiente. Il ruolo di interfaccia e di repressione dell’antico “capoofficina” è segmentato e disperso tra tutti i lavoratori.”
questo e’ *il problema*. provo a fare un esempio. a monfalcone ci sono dei grandi cantieri navali, leader nella costruzione di navi da crociera. non e’ una fabbrica qualsiasi. tanto per dire: l’ 8 settembre del ’43 da quella fabbrica gli operai uscirono in massa e si aprirono la strada a mani nude fino a gorizia, per unirsi ai partigiani jugolslavi. oggi la classe operaia della bisiaccheria e’ totalmente frantumata. meta’ delle maestranze provengono dal bangladesh, e lavorano come dipendenti di microimprese. il sistema dei subappalti e’ gestito in modo paramafioso da intermediari che seguono gli immigrati fin dalla loro partenza dal bangladesh. potete immaginare facilmente il tipo di dinamiche distruttive che si sono innescate con gli operai “autoctoni”, i quali, pur tenendosi ben stretta la tessera della fiom, un po’ alla volta hanno cominciato a votare per la lega. e’ difficilissimo far capire loro che il motivo per cui i bengalesi accettano di lavorare a salari piu’ bassi e senza diritti e’ proprio la politica repressiva messa in atto dalla lega. per me questo e’ un esempio tipico di una situazione in cui bisognerebbe spiegare che tutte le lotte sono la stessa lotta.
@ Tuco
quello di Monfalcone è un caso da manuale.
[Sulla questione degli operai del nord che sono sì iscritti alla FIOM ma votano Lega, mi ha sorpreso il rovesciamento della questione che facevano tempo fa quelli di Militant in un loro post: gli operai del nord votano sì Lega, ma sono iscritti alla FIOM. Invertendo la sintassi e spostando l’accento, forse si può ragionare in un altro modo. Qui “la FIOM”, ovviamente, non sta solo per la FIOM, ma per un’appartenenza legata al conflitto. Ecco il post di Militant:
http://www.militant-blog.org/?p=3526 ]
@ wu ming 1
non so se si possa dare una lettura unica che valga da torino a trieste. quel che si vede da queste parti e’ letteralmente uno spostamento del voto popolare dalla sinistra verso la lega, dovuto alla competizione al ribasso tra operai autoctoni e immigrati. altro caso emblematico (ma non vorrei andare ot) e’ quello della comunita’ slovena. negli anni ’80 in alcune borgate il pci arrivava al 75% (come nella canzone degli offlaga:)). dopo il ’90, rifondazione portava ancora a casa il 40%. un po’ alla volta pero’ i voti degli sloveni si sono spostati sulla slovenska skupnost, il partito etnico di ispirazione cattolica. questo e’ dovuto in parte alla borghesizzazione della comunita’ slovena, e in parte, anche qui, all’ arrivo degli immigrati, soprattutto balcanici, che hanno messo in crisi il rapporto della comunita’ slovena storica con la citta’. nell’ ultimo anno ho notato un ulteriore spostamento proprio verso la lega, la quale evidentemente ha fiutato il terreno favorevole della chiusura identitaria e si e’ infilata abilmente in quello spiraglio.
buonasera
Chiedo consigli di lettura su questo tema su questo tema postato un po’ sopra da wuming5 : “La democrazia liberale può essere vista coerentemente come una forma di dittatura della borghesia- è una dinamica che prende l’abbrivio nel secolo XIX”;
Per quanto riguarda la bella discussione che sta proseguendo su questo post vorrei far notare un elemento che aggiunge poco ma a mio parere interessante;in particolare,mi sono chiesto quanto la logica dell’assedio riprodottasi a roma martedì scorso,sia debitrice del nostro immaginario collettivo europeo,specialmente con le immagini potenti della rivoluzione francese del popolo che abbatte la bastiglia e decapita il re.
Tanto per mettere qualche puntino sulle i.
1
Il reddito di cittadinanza non è un sussidio, cioè non è una forma di integrazione del reddito. Se viene stabilito in misura inferiore alla quantità necessaria a condurre una vita dignitosa indipendentemente dal lavoro non ha senso, anzi è gravemente controproducente perché obbliga a trovare una fonte integrativa di reddito (preferibilmente in nero) aumentando la ricattabilità del lavoratore (l’esempio della regione Campania è fuorviante). Deve dunque attestarsi su una soglia sensata. Per fare un esempio, in italia potrebbe essere attorno ai 1000 euro.
Non è neanche un dividendo in senso aziendale, perché non è vincolato né alla produttività né alla speculazione. E’ un diritto, e come tale si configura gratuito e universale.
2
Il RDC (abbrevio) è, per sua natura un diritto di cittadinanza, dunque individuale. Questo aspetto da solo porterebbe a un completo ribaltamento delle dinamiche sociali ed economiche legate alla famiglia e più in generale alle convivenze forzate dalla necessità. Essendoci il prerequisito di autonomia personale al di là della scelta del lavoro, i vincoli di convenienza e la ricattabilità dei soggetti deboli all’interno delle relazioni sociali cadono. Evviva! (n.b. i bambini avrebbero diritto a metà del reddito di cittadinanza degli adulti)
3
Un grande vantaggio prodotto dallo scenario di cui sopra sarebbe l’aumento esponenziale della mobilità sociale (per chi e quando la desidera), conseguenza di una posizione più forte nella contrattazione con il datore di lavoro, che a sua volta vedrebbe il proprio ruolo allinearsi progressivamente a quello di partner. Più tempo e tranquillità emotiva per lo studio, la ricerca, la cura di sé e per attività non immediatamente riconducibili al principio dell’utile, sono la condizione base per aumentare il tasso di creatività circolante in ogni aspetto della vita sociale e personale. Chi obietta che ci sarebbe un calo di motivazioni generalizzato parla la stessa lingua del critico che spinge l’artista verso il tormento dell’anima, per poter attingere al sublime nell’arte (mi affido a Mario Monicelli come testimonial della mia avversione verso questo atteggiamento).
Ora, Wu Ming 1 può ancora ribadire che queste (secondo me enormi) conquiste nel campo dei diritti sarebbero solo dei pannicelli caldi per confortarci dal vuoto della mancata rivoluzione; quella che necessita di nemici da sconfiggere, caschi integrali, clandestinità, fuoco e fiamme.
In attesa che ciò avvenga (e con quale nuovo sistema di organizzazione della società a seguire poi? -questo rimane un tema intoccato-) i nemici saranno morti, la nuova generazione di parassiti dominanti avrà di fronte la solita equivalente armata brancaleone, ancor più sfiduciata, disorientata e frustrata, e nessun progresso si sarà compiuto per creare un modello di convivenza sociale più equo e soddisfacente per tutti.
La rivoluzione, dal mio punto di vista, consiste nell’allontanarsi quanto più possibile dalla condizione di appartenenza, dal conosciuto, per sperimentare i possibili esiti di intuizioni non consequenziali a ciò che già ci è familiare.
E dire che la parte che mi interessava di più era quella relativa all’abolizione della tassazione sul reddito come leva per sganciare il lavoro dal reddito di sussistenza…
Tassare esclusivamente l’acquisto di beni e servizi (un iva omnicomprensiva) creerebbe tra l’altro un’infrastruttura economica infinitamente meno burocratica e in controtendenza al principio della crescita obbligatoria. In caso di decrescita, e quindi di minor gettito fiscale, a calare non sarebbe il reddito di cittadinanza (per definizione ancorato al costo reale della vita) e nemmeno i servizi erogati dallo stato (le cui risorse potrebbero essere integrate con valute complementari con funzioni anticicliche come il Wir svizzero o con formule analoghe a quelle già sperimentate nelle transition towns), ma la distanza tra il reddito base e i redditi più elevati, cioè il profitto.
Questa non è scienza, va da sé, ma su cosa dovremmo sperimentare se non su nuove pratiche nelle relazioni sociali?
Forse un po’ OT
@WM5
sono d’accordo con te rispetto al *dominio* del discorso manageriale, ad esempio l’ho riscontrato all’inizio del mio percorso nel mondo del teatro (quasi 11 anni fa, ho 34 anni) e la cosa mi lasciò piuttosto sconcertato all’inizio, in seguito divenne lotta quotidiana.
Spesso si lavora a uno spettacolo, perché arriva una *commessa* da un direttore di teatro, perché c’è una ricorrenza (dal giorno della memoria al 150° etc), perché c’è un bando specifico, perché *lì* ci sono i soldi: faccio lo spettacolo, lavoro 1 mese, faccio 1 settimana di repliche e poi si cambia, si lavora al prossimo *progetto*. Marchette.
La logica della prestazione, per non parlare dell’accesso diretto a posizioni di potere (leggi soldi) per diritto di nascita, per appartenenza di classe tutto ciò è norma anche nel teatro. Ed è tutto uno sgomitare.
Per non parlare poi di quanti osano proporre offerte di lavoro per spettacoli non retribuiti: niente paga per le prove, niente cachet. E non sto parlando di compagnie amatoriali.
Ad oggi lavoro come operaio per conto della smat di torino, il contratto scadrà il 22 prossimo, ho moglie e una figlia di 17 anni (per la legge italiana è mia figliastra ma siccome la sto crescendo per me è mia figlia) che ha partecipato all’occupazione della scuola e alle manifestazioni che si sono svolte fino ad oggi; spero mantengano la promessa e mi rinnovino il contratto a gennaio, intanto continuo a lavorare alle mie drammaturgie, alle future regie, cerco ogni giorno di creare qualcosa di buono per me e per chi verrà a vedere i miei spettacoli. Questo è ciò che posso fare oggi, fottendomene della logica aziendale.
@Luca grazie!
@WM1 sono d’accordo con quanto hai scritto in merito al reddito di cittadinanza (mi viene in mente lo scenario di libera baku ora di Pedrini/wm5 ) e: recito Nam myōhō renge kyō :-)
@tutt* grande thread.
@ Norma
scusami, ma davvero, mi viene solo da dire: uff!… La tua è la solita, sempiterna lista di condizionali, di “non è” e di astrattezze che leggo da vent’anni sul tema del reddito di cittadinanza. E’ sempre la stessa solfa: non si capisce chi esattamente dovrebbe erogarlo, come, e soprattutto perché: non si capisce perché lo stato dovrebbe fare una cosa del genere, cioè *abolire il lavoro salariato* (perché se sganci completamente il reddito dal lavoro, di fatto abolisci il lavoro), cioè abolire il capitalismo e quindi… estinguersi in quanto stato. Si chiede allo stato, nientemeno, che di superare la contraddizione primaria che lo ha storicamente plasmato come lo conosciamo. Si chiede allo stato capitalistico, praticamente, di *estinguersi in quanto tale*, e non contenti, allo stesso tempo, gli si chiede un altro miracolo: di estinguersi ma rimanendo esattamente lì dov’è, perché altrimenti chi lo eroga questo reddito a cui ha diritto chiunque? Chi te la procura questa “rendita di esistenza”, somma in moneta che ti spetta perché sei nel novero dei vivi che calpestano il pianeta?
Mah.
*Questa* è purissima utopia, e non tiene conto in alcun modo di cosa sia lo stato, di cosa sia il lavoro e di cosa sia il capitalismo.
Il welfare state è una somma di conquiste ottenute con le lotte, lotte che incidendo su rapporti di forza concreti hanno *inscritto* (a viva forza) dei risultati nel diritto e nella forma-stato. La prassi diventa teoria solo in seguito, si parte dalla prassi.
Invece, la cosa che si continua a chiamare “reddito di cittadinanza” è prefigurata non tenendo conto dei rapporti di forza, è solo parola d’ordine astratta e non è inscrivibile nello stato. E’ una costruzione a priori, un vagheggiamento. Il punto di partenza è nella teoria, come accadeva coi castelli in aria del socialismo utopistico, i “falansteri” di Fourier etc. Tutte cose irrealizzabili, progetti a tavolino, distanti dalle lotte reali.
Il reddito di cittadinanza è quel che dici tu solo nel regno della teoria. Nella pratica, può realizzarsi solo come sussidio o dividendo. E come dicevo qualche commento fa, uno mica ci sputa sopra. Ma è un’altra cosa, e poco centrale.
L’alternativa a questa roba è hic et nunc; non è, come sembri rinfacciare tu, un non far niente in attesa della rivoluzione proletaria.
L’alternativa a questa roba è lottare contro l’impunità di chi sfrutta e devasta, per porre limiti reali al principio del “privatizzare i profitti e socializzare le perdite” (i soldi per salvare i banchieri esigerli per la spesa sociale), “lavorare tutti e lavorare meno” nel quadro di un’economia riconvertita, estendere i diritti dei lavoratori, cercare l’unità di tutti gli sfruttati (“C’è un solo mondo”), inscrivere nel welfare conquiste vere (servizi, pensioni, libertà effettive), ottenute partendo dalla prassi, dalle esigenze e dai rapporti di forza concreti. E’ una strada lunga e difficilissima, ma almeno non è ingegneria futurologica cheap (nel senso che immaginarla costa poco).
@ tiburzi
il virgolettato di WM5 è uno dei f0ndamenti basic della teoria politica di impronta marxista. Se vuoi partire dai classici:
– Marx, “Critica al programma di Gotha”
– Marx, “La guerra civile in Francia”
– Lenin, “Stato e rivoluzione”
Poi, sullo stato keynesiano:
– Claus Offe, “Lo stato nel capitalismo maturo”
– Antonio Negri, “La forma-stato”
E più di recente:
– Antonio Negri e Michael Hardt, “Il lavoro di Dioniso”
Non cito questi libri in quanto “testi sacri”, contengono anche cose oggi datate oppure discutibili, ma appunto, per approfondire il virgolettato di WM5, di lì bisogna passare.
@ WM 1: io non nego che il reddito minimo sia una proposta riformista. E’ la stessa critica che hanno sempre mosso i Cobas, del resto. Per loro era (e penso sia tuttora) una macchia indelebile ed impediente ogni dialogo. Io non ero coi Cobas neanche nel periodo in cui la FIOM non era cosi’ sexy, pero’. Dico che tra le mille cose inutili e anzi controproducenti e loffie che il riformismo ci propina, questa /forse/ funziona (ma forse no, ammetto il dubbio). Penso che possa essere un grimaldello che varrebbe la pena sperimentare. E la prima ragione è che le risorse per farlo, ad oggi, non ci sono, e quindi vanno cercate altrove. Per esempio nella tassazione dei patrimoni. Tassare gli immobili per creare mobilità (sociale). Un po’ vendoliano, ammetto. Ma worth a try? Anche perché il “che fare” nel breve periodo mi pare più rilevante che quello nel lungo (“in the long run we are all dead”).
@ WM 5: ok, ma non stavo dicendo il contrario. Prima della Thatcher e di Reagan i Chicago Boys sperimentarono il loro modello sociale nel Cile del dopo-Allende. Per dire che non hanno neanche fatto finta, di fare i buoni. Ovviamente per far passare le idee della supply-side economics (meno tasse per i ricchi => più ricchezza per tutti) hanno dovuto applicarsi nella mitopoiesi. Il mythos che hanno creato è quello dell’impresa come “intrapresa”. La mia obiezione alla tua obiezione è che questa roba non ha mai realmente funzionato, se non nelle nostre menti ba’ate. Io non riesco a immaginare (né conosco) lavoratore che si identifichi nei “valori” della propria impresa, a parte qualche developer di Google che dopo due anni di brain squeezing se ne va, esausto. Nelle PMI queste cose non hanno senso (stiamo parlando del 99% delle imprese, in Europa). Non so se ti è mai capitato di leggere le carte dei valori di un’impresa: sono delle pippe illeggibili, irreali, innecessarie. Quello che funziona è la voglia di un telefonino ultimo modello, di un’audi s1, di immaginarsi a letto con una velina di “Striscia”. Non provano più a venderti un oggetto, vogliono venderti uno stile di vita, un’emozione, uno status. Una religione? Senza per forza farsi delle pippe con Deleuze & Guattari, mi pare che il piano più pregnante su cui il capitalismo punta a incidere sia quello individuale e istintivo, le frustrazioni terra-terra più che gli orizzonti alti. L’inadeguatezza che vogliono far germinare non è quella della performance valutabile,
@ Adrianaaaa: hai ragione tu. In certi ambiti è vero. Bisognerebbe avere dei dati certi per dire se questa pratica è destinata unicamente ai laureati in lettere, scienze della comunicazione e simili, oppure è diffusa in ogni ambito. Nessuno qua in Francia (né in Germa,nia, né in Inghilterra) prenderebbe un stagista a sei mesi per fare prospezione commerciale. Perché giocarsi un cliente è
@ Emanuele,
“io non nego che il reddito minimo sia una proposta riformista.”
In realtà no, al contrario. Per com’è teorizzato, il “reddito di cittadinanza” è rivoluzione pura e universalismo assoluto. Tu hai un reddito perché esisti. Se esisti, voilà, eccoti un reddito. E questo vale per tutti.
Il problema è che questa rivoluzione universalistica la si pretende incruenta e la si chiede allo stato, contro la sua stessa logica. E’ una cosa irrealizzabile sotto tutti gli aspetti.
Nella pratica, quello che si può ottenere, localmente e non certo universalisticamente, è un pallido riflesso di quello che il frasario evoca, cioè un sussidio.
Le imprese prendono i soldi pubblici, e ci prosperano, ma poi decidono di delocalizzare perché altrove possono sfruttare meglio e pagare ancor meno, quindi cominciano mettendo gli operai in cassa integrazione (altri soldi pubblici) mentre gradualmente dismettono, infine se ne vanno in Serbia o ancora più a est.
Noi, invece di impedire questo, di renderlo impossibile o almeno più difficile, ci concentriamo nel chiedere allo stato un sussidio (altri soldi pubblici). Paga sempre Pantalone, e chi sfrutta e devasta non ci mette un centesimo.
@ Tiburzi
L’altro giorno ho mandato un SMS a Wuming 1 che diceva: non esiste Marx nel reparto filosofia della libreria Feltrinelli più importante della nostra città, nemmeno tra i profili critici.
Noi siamo uomini del secolo scorso, dove per tutti gli anni 90 esisteva una sezione intera su Marx, il marxismo, anche troppi libri, troppe pagine, se vogliamo. Noi quindi tendiamo a dare per scontate troppe cose, in virtù della vetustà della nostra formazione. In realtà la mia considerazione è quasi un locus communis del marxismo.
Sulla natura di dittatura di classe della liberaldemocrazia, si veda ad esempio Stato e Rivoluzione, Lenin, 1917, che traccia un excursus molto chiaro della teoria dello Stato marxista, con puntuali e frequenti citazioni tanto da Marx quanto da Engels. Il saggio è presente in “Opere Scelte”, edizioni Progress, Mosca 1971.
Lo Stato è, in una prospettiva teorico-critica, organizzazione politica del dominio di una classe sulle altre. Non esiste quindi una “neutralità” dello Stato rispetto alle vicende economico-politiche. In realtà non può esistere nessuna società divisa in classi in cui lo Stato non abbia natura fondamentalmente dittatoriale.
E’ per questo ad esempio che il periodo di direzione proletaria della società (che dopo l’abbatimento dello stato borghese condurrebbe all’estinzione dello Stato in quanto tale) è definito “dittatura del proletariato”.
Chiudo con una citazione: “Noi non possiamo concepire una democrazia, sia pure una democrazia proletaria, senza istituzioni rappresentative, ma possiamo e dobbiamo concepirla senza parlamentarismo, se la critica della società borghese non è per noi una parola vuota di senso, se il nostro sforzo per abbattere il dominio della borghesia è uno sforzo serio e sincero e non una frase elettorale destinata a scroccare voti agli operai”
@ Adrianaaaa, segue (tasto ‘invio”partito per conto suo)
… un prezzo troppo alto da pagare in cambio di un risparmio sul salario di un commerciale che in certi posti lo paghi quasi zero (salario fisso praticamente nullo, variabile in proporzione alle vendite, 4, 5 o 10% lordo se ti va bene). Gli stagisti che ho conoscoiuto servivano a fare data-mining tipo rintracciare il nome del tizio responsabile di un certo settore e il suo numero telefonico, perché poi uno più esperto provasse a chiamarlo per vendergli un servizio.
“Stato e rivoluzione” lo pubblicò anche la Feltrinelli, e quello in qualche libreria dell’usato (di quelle librerie dell’usato particolarmente funky) si può ancora trovare. Altrimenti, in una buona biblioteca. E’ un libretto sottile che sta in una tasca delle brache. Le “Opere complete” nell’edizione Progress non sono nemmeno funky, sono oltre, e chi cazzo vuoi che le recuperi?
Quella che descrive WM5 qui sopra è la teoria classica, che fa riferimento allo stato liberale. Nel corso del XX secolo, chi si era formato su di essa non ha potuto non interrogarsi sui mutamenti della forma-stato e la cristallizzazione nel diritto dei risultati di lotte sociali (leggasi: welfare state, riconoscimento di diritti sindacali, statuti dei lavoratori etc.). Lo stato socialdemocratico si è di fatto costituito come un ibrido: resta un “comitato d’affari” della classe al potere, e come tale non è neutrale, ma è stato costretto a incorporare conquiste dal basso. Negli ultimi trent’anni, lo stato fa la guerra a se stesso, conduce una guerra intestina: la parte “comitato d’affari dei padroni” fa di tutto per eliminare la parte “welfare”.
@ Emanuele
Il problema per me è l’orizzonte di senso. Il carattere del manager ascetico, stile direttore megagalattico di fantozziana memoria, è prefigurante.
Se secondo te il management e le sue solenni panzane non è la filosofia del capitalismo contemporaneo, non ho certo intenzione di farti cambiare idea.
Se secondo te il problema riguardo a disagio e infelicità sociale sta solo nell’accesso ai consumi, e non alla percezione di sè, bene. Per me il contrario è evidente, come è evidente che la società non è composta da (immaginari) diciassettenni che sbavano per sempre-nuovi-telefonini.
Sensibilità diverse, si dice così? :-)
@WM1
La teoria classica contiene a ben guardare anche analisi che possono adattarsi alla situazione degli state a welfare e socialdemocratici. Engels parla, credo in Anti-Duhring, di un funzionamento “imparziale” dello stato quando il rapporto di forze tra classi è in sostanziale equilibrio.
@ WM5
oggi questa riflessione di Engels andrebbe spostata dal piano “molare”, macroscopico, dello scontro tra masse, al piano “molecolare”, microscopico, dei conflitti locali e quotidiani. Dalla guerra alla Clausewitz alla guerriglia alla Lawrence d’Arabia. Dalla simmetria all’asimmetria.
Altrimenti non si spiegherebbe come mai, nell’epoca in cui la classe dominante ha non solo il monopolio legale della violenza, ma anche armi fine-di-mondo e mezzi persuasivi quasi magici, in alcune sue articolazioni lo stato funzioni in modo più o meno “imparziale”, e conservi in sé delle conquiste sociali ottenute grazie al conflitto.
Oggi, sul piano macroscopico, non c’è nessun “equilibrio tra le classi”. Nel complesso, i padroni spadroneggiano. Ma questo spadroneggiare non è uguale sempre e dappertutto: ci sono vuoti, ritardi, resistenze locali, inerzie, attriti etc.
Mi sa però che questo thread si è allontanato troppo dalle riflessioni sul movimento degli studenti… Ci stiamo spostando su un piano teorico generale che fa perdere focus.
Giusto. E per tornare a bomba, sarebbe una grande vittoria per il movimento se l’ignobile provocazione di Gasparri cadesse nel vuoto. Meglio, in un concerto di pernacchie assordante
Adesso ci sarà il 22.
Bueno.
Discorsi di Binotto, Wu Ming, Girolamo:
quello che alla fine mi sembra fondamentale è la fondazione del mito.
Ok Foucault: il potere è molteplice, molecolare, no alla battaglia campale.
Però dopo il 22 il rischio è un post-Genova.
Vero che le condizioni sociali sono altre, vero che non ci sarà sovradeterminazione simbolica tipo 11 settembre, vero che il movimento sembra forte.
Ma.
A parte qualche centro sociale, qualche banda, qualche curva, il nostro modello è un carrierismo individuale
all’italiana (chi conosci?).
Difficile andare oltre zone temporaneamente autonome.
Manca un mito più forte della falsa coscienza borghese a cui tutti più o meno aspiriamo. Finito il riot di turno. Se non siamo parte di una di queste comunità che sta lì anche a mostrarci le contraddizioni ma anche la forza di non essere uno.
Come si fa a dire comunismo senza essere guardati male?
Questo è un problema.
Lenin Mao Tito Pol Pot Stalin Luxemburg
Personaggi che rileggiamo con piacere alcuni e con orrore altri. Gli altri sono quelli che non ci appartengono.
Io penso che purtroppo ci appartengono tutti.
Dobbiamo prenderci la responsabilità e ricominciare dagli errori.
Il mito è vetero.
Ma è l’unico in grado di andare alla radice del problema.
@Wu Ming 1
Le ultime righe e poi chiudo con questo OT.
Quello che dici non farebbe una piega se si riferisse a un capitalismo in espansione o in una dinamica ciclica, ma questo capitalismo, definito maturo dai suoi stessi spin doctors, mi ricorda tanto la…”vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili” descritta da Pirandello ne L’umorismo, che “soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s’inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei”.
Il tempo fugge e la vecchiazza arranca.
Questo capitalismo non ha più la minima traccia di glamour, è un oggetto del desiderio obsoleto e ingombrante per i suoi stessi beneficiari.
A ben guardare ha la data di scadenza stampata sulla superficie (che disgraziatamente coincide ormai con quella del pianeta) come le uova degli allevamenti avicoli intensivi.
E’ una data mutevole ma sempre declinata entro i prossimi 30/60 anni a seconda che si percorrano i grafici delle riserve petrolifere, del riscaldamento globale, dei raggi UV, del consumo di territorio, della popolazione mondiale, ecc. ecc., nonché degli scenari geopolitici conseguenti agli equilibri economici in rapidissima evoluzione.
Qualche anno fa Giulietto Chiesa definiva il ponte di comando (Superclan) di questo colabrodo galleggiante: “L’attuale crisi del capitalismo è l’effetto della falsa coscienza che le nuove classi dominanti hanno di sé e del mondo che li circonda. Perché non lo vedono più.”…”I portatori di questa ideologia li abbiamo chiamati bolscevichi. E l’analogia è stringente, seppur parziale. I bolscevichi ai tempi di Lenin avevano comunque un progetto sociale nobile, perfino generoso se non fossero convinti di poterlo realizzare con la violenza, mentre questi nuovi bolscevichi sono privi di qualsiasi progetto.”
Forse in questo modo riesco a rendere un po’ meno cheap l’idea che dotarci rapidamente di un sistema di riferimento, per quanto teorico (ma cos’altro potrebbe essere in uno scenario difficilmente prevedibile), sulla base del quale avviare una sperimentazione che permetta di affrontare con qualche attrezzatura una transizione non catastrofica verso un modello di società concretamente e razionalmente sostenibile, sia un’opzione da non ridicolizzare come si fece quando qualcuno ipotizzò, tra i lazzi e gli improperi, di estendere il voto alle donne.
con tutto il rispetto per giulietto chiesa, veramente non capisco che cacchio c’entrino gli ideologi del turbocapitalismo con lenin e i bolscevichi. come diceva quel tale: “il basket è uno sport logico per gente intelligente: se non ci arrivi, lascia perdere”.
torniamo a parlare di studenti, che e’ meglio. la questione del lavoro non pagato (e dell’ ideologia che lo sottende) e’ assolutamente vera, e nelle universita’ se ne ha una rappresentazione perfetta. chiunque abbia accarezzato l’ idea della carriera accademica, prima o poi si sara’ sentito fare piu’ o meno questo discorso: “non ci sono automatismi, i concorsi sono aperti per definizione, e non c’e’ spazio per giochetti mafiosi. pero’ devi capire che se ti comporti bene, se ti mostri disponibile, se dai una mano, se dimostri di avere a cuore questa struttura scientifica, un po’ alla volta si forma intorno a te un certo sentire, un’ idea di rispettabilita’. chi conta comincia a pensare che quel posto, a cui tieni tanto, te lo *meriti*. e a quel punto sara’ inevitabile che tu lo ottenga”. [a livello di metacomunicazione: “tieni sempre presente che basta una parola fuori posto, un piccolo atto di insubordinazione, e va tutto a puttane”]. carota e bastone. ha funzionato finche’ c’erano carote da distribuire. ora le carote sono finite, e questo non e’ un dettaglio da poco.
@ Norma
lo scenario da te descritto, lungi dal rendere plausibile l’idea che lo stato conceda un reddito *a tutti*, sganciato dalla divisione del lavoro, mi sembra renderlo più implausibile.
La premessa va esattamente rovesciata: se il capitalismo fosse in fase di lungo boom e in qualche modo ancora “affascinante”, allora potrebbe permettersi di riconoscere più diritti e tagliare più fette di torta (ma nemmeno in quel caso un reddito universale!); siccome è in fase di crisi strutturale e ripiegamento terroristico, non riconoscerà niente senza rotture traumatiche. Non necessariamente La Grande Rottura Traumatica, l’Evento degli Eventi, ma sicuramente un conflitto sociale durissimo. Che è una dimensione molto lontana dai laboratori dove, tra provette e alambicchi, si cerca di ottenere “buone idee che funzionino”, senza impurità. Chiare, fresche, dolci soluzioni omogenee…
Va poi aggiunta un’altra cosa, che ha fatto notare più volte Mario Tronti:
scomparsa dall’orizzonte la rivoluzione (da te ridicolizzata in questo scambio), è finito anche il riformismo.
Non può esistere un riformismo che ottenga successi se non c’è, dietro l’angolo o dietro la collina, un’alternativa che i padroni reputino peggiore. Se non sono turbati da quell’alternativa, non concedono nulla.
Dal Seicento in avanti la rivoluzione, agendo per alcuni come spauracchio, male da evitare, degenerazione da scongiurare; agendo per altri come speranza, fine da realizzare, ipotesi su cui lavorare; in ogni caso agendo per tutti come mito sociale (positivo o negativo che fosse), ha dato forma alla filosofia politica (in gran parte tesa a interrogarsi su come *evitare* la rivoluzione), ha creato arte e immaginario, ha fatto emergere l’idea stessa di società (la “questione sociale” è un portato della rivoluzione), ha costretto a riconoscere diritti, ha permesso al riformismo di esistere.
Chi applaude la morte del mito della rivoluzione, e prende per i fondelli chiunque non rida al funerale, sta applaudendo la fine di ciò che rendeva e renderebbe possibili le riforme.
Personalmente non ritengo che il dibattito sia uscito dal tema ma che ne stia cogliendo la molteplice applicazione politica e reale. Anche per questo apprezzo particolarmente, pur condividendoli parzialmente, gli interventi “teorici”.
Parlare di lavoro, di studenti, di reddito di cittadinanza, di asili/scuole sono argomenti diversi?
Non lo credo: i generali e i soldati al soldo del capitale (come ideologia unica e ultima) applicano la stessa logica in tutti questi contesti.
La logica è: sei X? Questa è la norma condivisa, devi accettarla in funzione di un investimento in un futuro migliore.
Ad X sostituire liberamente i termini studente, lavoratore, lavoratore autonomo, cittadino, padre/madre, acquirente: il risultato non cambia, tutto viene delegato ad un ipotetico “futuro migliore”.
Purtroppo questa norma è assolutamente anormale ma viene ricondotta a norma ad esclusivo vantaggio di chi detiene il controllo sulla distribuzione della ricchezza, non solo economica.
Gli strumenti con cui questo passaggio da anomalia diviene norma son quelli ben noti della propaganda, della gerarchia verticale nell’informazione, della comunicazione pubblicitaria sempre più spregiudicata nel ricondurre la realtà a simboli per manipolarla a sua discrezione.
Per questo scrivevo, e ribadisco, che l’unico modo per sconfiggere questo approccio logico è smettere di crederci.
Come il capitale si basa sul concetto di “moneta” (simbolo senza valore che rappresenta un valore -reale o virtuale-) così il “mercato” di studio, lavoro, società si concretizza grazie ad una falsa convinzione del suo valore.
Ma se questo mercato in sé non esiste, ben reale è la “merce” trattata: la conoscenza prodotta dallo studio, il risultato del lavoro, le relazioni sociali.
Definirli “merce” è attitudine del capitale che così ne svaluta il valore: la cultura non riempie la pancia, il lavoro non è competitivo (in tempi di crisi. Perenne), le relazioni sociali vanno ostacolate (suscitando il panico parlando di terrorismo, violenza -vedi ultima uscita di Gasparri- o enfatizzando una cronaca nera alla perenne ricerca di orchi). Queste sono le convinzioni sulle quali continuamente insistono politici, imprenditori, sindacati (sic!).
Credo sia fondamentale uscire da quest’ottica di mercato per ritornare ai beni primari: cultura, autonomia economica, relazioni sociali.
Che non necessitano né di un mercato né di una legittimazione (anzi!) per essere tanto concreti quanto liberi.
Concludo comunque qui il discorso, anch’io preferisco tornare a parlare contestualmente del movimento studentesco alla luce dei recenti fatti.
@norma
Parli di tassare solo l’acquisto (consumo), cosa che teoricamente potrei condividere se contribuisse a limitarlo.
Ma come si valuta l’entità di questa tassa? E’ uguale per tutti (come l’attuale IVA)? Oppure viene calcolata in funzione del reddito?
Nel primo caso: perché un disoccupato dovrebbe pagare un prodotto quanto un milionario?
Nel secondo caso: calcolare la tassa in funzione del reddito non riporta all’attuale burocrazia e diseguaglianza sociale?
Se esiste una terza opzione purtroppo non riesco a vederla…
@ WM5:
“Se secondo te il problema riguardo a disagio e infelicità sociale sta solo nell’accesso ai consumi, e non alla percezione di sè, bene.”
Non lo penso. Penso che il capitalismo, specie questo capitalismo in crisi da sovrapproduzione, implichi per forza l’instaurazione della “civiltà dei consumi”, che banalmente ha nel consumo il mito portante. Poi di corollari all’ideologia consumista ne possiamo trovare altri quaranta, a seconda che si guardi un paese calvinista, o un paese cattolico, o altro. Quello che tu dici sulla cultura del manager come prototipo sociale, per esempio, funziona molto bene negli Stati Uniti e in Inghilterra, piuttosto male in Francia e in Germania. L’identificazione con l’azienda funziona bene per aziende tipo Google o Apple, non ha senso in aziende (non meno evocative sulla carta) tipo GM o Telecom Italia. Dipende.
Quello che secondo me non dipende, il minimo comune denominatore di ogni forma di controllo sociale, biopotere o lavaggio del cervello che dir si voglia, è la necessità di indurre negli individui una frustrazione, generare una nevrosi sociale, che li spinga a comprare cose tendenzialmente inutili che pero’ ormai abbiamo prodotto, stiamo producendo. Questa cosa mi convince perché non necessita una superiore intelligenza per svilupparsi: è una risposta meccanica dell’offerta a un calo della domanda. Gli altri miti, tra cui quello dello yuppie, del manager, del piccolo imprenditore, del commerciale che fa il 120% del suo target e si compra un rolex o una vacanza a sharm el sheikh con la quota variabile dello stipendio, sono tutti miti veri e rilevanti, ma – credo – subordinati al primo, il consumo inteso in senso lato (consumo di uno stile di vita, di un’idea di benessere, più che del bene sottostante), che è tanto rilevante da superare persino un controllo millenario delle coscienze come quello della Chiesa. La commercializzazione del sesso, la pornografia a fini pubblicitari o di potere (ad esempio quella imperante sulle tv di B.), ha spazzato via duemila anni di sessuofobia cattolica in una trentina d’anni.
Vi racconto un semplice episodio che forse dà un’idea di quel che sta accadendo.
Corsi della Regione per cassaintegrati. C’è un cassaintegrato, 40enne, 2 figli, moglie disoccupata. Lavorava in una piccola azienda del nord-est. Dice che lui e i suoi colleghi CI TENEVANO talmente, all’azienda, che quando sono finiti i soldi sono andati a lavorare gratis. Se la prende con chi lavora nel pubblico e quando ci sono le elezioni fa lo scrutatore, perchè questo significa non aver voglia di lavorare. Se la prende con gli operai di Pomigliano, che nemmeno loro hanno voglia di lavorare, mentre invece lui in 20 anni di lavoro NON SI E’ MAI PERMESSO di fare uno sciopero. Alle mie timide obiezioni risponde che “questo è il solito populismo di dare la colpa ai padroni”.
Insomma mi viene in mente una vignetta di Altan: “Non si puo’ dare la colpa ai padroni, loro fanno il loro mestiere” “E allora diamocela ai disoccupati, che non fanno un’ostia dalla mattina alla sera”.
Credo che quando i WM hanno parlato della cultura del management, un po’ intendessero questo: hai 40 anni, tu e tua moglie non avete un lavoro, dovete mantenere 2 figli. Ma la colpa non è di chi un lavoro te l’ha tolto e ora ha investito da un’altra parte, e sta certamente meglio di te. Quelli sono furbi e se lo MERITANO il loro successo.
Discussione interessantissima come sempre, ma vorrei rientrare sul tema della violenza sì violenza no con questo al solito ironico e intelligente articolo di Alessandra Daniele su Carmilla:
http://www.carmillaonline.com/archives/2010/12/003722.html#003722
@ laura
E’ più esteso di così. Quello che citi è un fenomeno sempre esistito: è la gente del popolo più realista del re, i potenziali futuri vandeani, quelli che accettano l’ordine simbolico e vi si identificano perchè lo hanno inghiottito per così tanto tempo che non riescono a pensare altro. Oggi c’è dell’altro. Quanti pensano che esistano “ricette” per la felicità? Per quanti il corpo è ormai l’unico rifugio sicuro? Quanti parlano -senza rendersi conto dell’ossimoro- di “risorse umane?” Realizzazione, eccellenza. Impegno. Fedeltà e autonomia di giudizio, contemporaneamente. Passione, nientemeno. Appassionarsi al modo di produrre, smerciare, abbellire oggetti inutili.
Persino nell’approccio al buddhismo ormai si parla di “realizzazione” più che di “illuminazione”. Questa è ideologia allo stato puro, ed è pervasiva. Il consumismo è una prassi, l’ideologia “del” consumismo secondo me è questa. Il prezzo è l’eliminazione del frattempo, dell’ozio, dello spazio di analisi e riflessione.
Il consumo è un meccanismo pavloviano, o ha senso, come gesto simbolico, solo all’interno della cornice ideologica che ho tratteggiato? Il consumo non dice agli altri che siamo tra chi “ce l’ha fatta?” Il consumo è di per se soddisfacente? Tutti i consumatori compulsivi sanno che non è così.
Il nodo è complesso. Secondo me limitarsi a dire che il capitalismo ha bisogno di indurre la fotta del consumo è tautologico.
Anch’io come Graio penso che il dibattito non sia così fuori tema ma si stia facendo strada per risalire “all’origine” della questione. Condivido ogni singola parola del commento di WM1 sulla rivoluzione e il riformismo.
Vorrei sapere se secondo voi c’è quindi bisogno di uno “spazio” anche non geograficamente delimitato, un’ *area* “autonoma dal capitale” che abbia la doppia funzione di liberare le energie dalla cappa di disperazione che impedisce ogni tipo di risposta minimamente lucida e appunto la funzione-spauracchio che costringeva il capitalismo a costruire il welfare che ora si sta smantellando.
Mi sembra di cogliere questa direzione nel vostro discorso, che mi sembra sempre più riallacciarsi al threaddone sul potere pappone. In particolare è sempre più chiaro che non si può accettare nessuna subalterneità, nessuna “figlità” nei confronti del sistema capitalistico, verso il quale non si possono avanzare pretese o protestare “da figli” perché appunto “non è il padre”, e se a volte qualcosa ha concesso era non solo per le lotte ma appunto per blandirci dal ricongiuncerci con “la nostra vera famiglia” della quale ora siamo orfani.
Qualcosa è cambiato se a Bologna, ad esempio, si convoca una grande assemblea in sala borsa piuttosto che andare a Roma. il problema sarà ora se qualcuno si presenterà mercoledì a Roma in stile “brigate della morte” del movimento. Erano trecento, erano giovani e forti, e sono morti (e il movimento con loro). E’ possibile, la cosa ritornerà semplicemente un problema di ordine pubblico e spazzerà via, mediaticamente parlando, qualsiasi iniziativa locale. Però non bisogna lasciare solo nessuno, perché da soli, si sà, si sbaglia molto di più.
@Paolo 1984: mi piacerebbe sapere, secondo questo illustre personaggio, dove si andrebbe a parare con una proposta del genere. E’ piacevole proclamarsi rivoluzionari e guerriglieri, ma se l’obiettivo è quello di migliorare (o quantomeno mutare radicalmente) la situazione mi pare che la storia abbia sufficientemente dimostrato che la via “sistematicamente violenta” porti per direttissima al baratro.
@WM5: non sono sicuro di aver inteso il tuo commento. Quale sarebbe la differenza fra il riflesso condizionato e l’aver senso “come gesto simbolico, solo all’interno della cornice ideologica” nel momento in cui “la cornice ideologica” è diviene omnipervasiva?
Credo che il nodo sia complesso proprio in quanto il consumismo condiziona (potremmo dire aliena) l’intero essere umano, che essendo dinamico, prova a sopperire in modi più o meno fantasiosi “personalizzando” la propria situazione. Non vedo una radicale differenza fra i consumatori compulsivi e l’operaio che ha lavorato per 30 anni senza mai alzare la testa, vedo modi differenti di affrontare dei “vuoti” sentiti tenendo buono il sistema di riferimento generale. Poi, ripeto, non son molto sicuro di aver compreso le vostre istanze XD.
@uomoinpolvere: gli “spazi” (anche geograficamente delimitati) ho avuto l’impressione che esistano, ma non mi paiono estendibili su un piano globale in tempi medio-brevi (15-50 anni). Ci sono un’infinità di piccole iniziative (l’ultima puntata di Report ne ha espresse alcune particolarmente interessanti) sulle quali si può lavorare, ma in un discorso generale perdono gran parte del loro valore. Non perchè siano inadeguate, ma perchè siamo inadeguati noi (è inadeguato l’intero sistema di riferimento nel quale comunque ci muoviamo). Un’idea potrebbe essere sia quella di muoversi su più fronti: incentivare direttamente queste iniziative (imitandole o immaginandone altre) e al contempo testimoniare la possibilità e la necessità di ristrutturazioni profonde che il sistema di per se non può/vuole fare in quanto sono in contraddizioni con se stesso. Più che rifiutare di essere figli, cosa assurda visto che tutti siamo “figli” di questo sistema, comprendere di essere dei figli bastardi, che nulla erediteranno dal “padre” (e meno male) e che pertanto da un lato pretendono rispetto e dall’altro si preparano a essere genitori.
In breve è necessario un Esodo, che comincii con il rifiuto dell’autorità unica del faraone, ma prosegua con 40 anni nel deserto e una bella purga nei rapporti umani prima di fondare “Canaan”. E nella dinamicità di questi tempi (e data l’omnipervasività del sistema, anche e soprattutto nella concezioni del 99% delle persone) questi aspetti si possono sviluppare parallelamente.
Questo come idea, poi bisogna parlare con qualcuno che conosca nei dettagli il sistema economico, qualcuno che conosca il sistema giuridico, qualcun altro che abbia un sostrato filosofico, qualcuno che leghi il tutto e qualcun altro che porti le birre XD. Nel mare di stupidaggini che saltano fuori, partono anche delle idee buone. Questa è la più grande fiducia che, da universitario, ripongo negli universitari. O meglio, nelle piccole frange di persone che non stanno bene e vogliono capire perchè.
@ Cammello
mi sa che non hai capito il senso dell’articolo linkato…
@ Cammello
Sono certo che esistano coazioni a ripetere, ce ne accorgiamo tutti, e sono personali, sociali, politiche… sono molto meno certo che esistano riflessi condizionati tipo: vedo un oggetto pubblicizzato-sbavo-compro. Compro e sbavo perchè l’oggetto e il gesto del comprare sono simbolici, e ideologici. Il consumo è l’ultimo anello della catena, l’origine è ciò che si muove nel campo di aspettative, paure, frustrazioni e desideri che è colonizzato e condizionato dall’ideologia. Di questa ideologia, il discorso del management è una pietra angolare.
Secondo me il consumismo è una pratica, e al massimo un elemento del prisma discorsivo dell’ideologia dominante. Ci sono discorsi più originari, profondi, che a quanto vedo passano davvero inosservati, a sostenere la pratica sociale del consumo complusivo-coatto di oggetti.
Tutto qui.
@WM1: Perfettamente vero, mi sono perso questa frase qua:
“Cari ragazzi, bruciare e distruggere può essere un’attività estremamente redditizia, se saputa esercitare professionalmente, su vasta scala, e con l’adeguata premeditazione.
Sfasciare un bancomat farà di voi un teppista, sfasciare un sistema bancario farà di voi un finanziere, sfasciare un sistema economico farà di voi un ministro dell’Economia e delle Finanze”, il che ha reso completamente distorta la mia interpretazione. Grazie!
@WM1: *grazie di avermelo fatto notare. Chiedo scusa a Paolo per il commento a sproposito.
@WM5: Ora mi è molto più chiaro. E’ quello che ho notato anch’io nella mia esperienza quotidiana, tuttavia non mi sono chiari bene quali sono i meccanismi originari. O meglio, mi pare che i problemi che conducono nel nostro caso al consumismo -inteso in senso lato- siano gli stessi che l’Uomo si è sempre trovato ad affrontare, ma mi sfuggono sia i meccanismi attraverso i quali si è declinata la nostra situazione che la loro origine, e quel poco che non mi sfugge è estremamente confuso. Di conseguenza dire qualcosa di sensato in merito al momento mi è difficile.
Parli di tassare solo l’acquisto (consumo), cosa che teoricamente potrei condividere se contribuisse a limitarlo.
Ma come si valuta l’entità di questa tassa? E’ uguale per tutti (come l’attuale IVA)? Oppure viene calcolata in funzione del reddito?
Nel primo caso: perché un disoccupato dovrebbe pagare un prodotto quanto un milionario?
L’iva omnicomprensiva dovrebbe necessariamente essere uguale per tutti. La sua entità va calcolata sulla base delle necessità finanziarie dello stato per fornire i servizi pubblici in modo adeguato e per coprire il reddito di base ) erogato indistintamente a tutti i cittadini (reddito di cittadinanza). Schematicamente si può allineare con l’attuale livello di prelievo fiscale e costituirebbe una percentuale di circa il 100% sul prezzo finale esentasse di beni e servizi, raddoppiandolo.
Il reddito di base è dunque il rimborso dell’iva erogato dallo stato come quota esentasse a copertura dei bisogni essenziali.
L’incidenza della tassazione sul reddito effettivo di una persona (reddito di base + salario) o meglio, sull’ammontare delle sue spese, varierebbe dunque in modo molto semplice dal – 50% (bonus fiscale o tassazione negativa decrescente fino al doppio del reddito di base) per chi nell’arco di un mese spende una somma pari al reddito di base (1000 euro al mese) verso un limite massimo del 50% tendenziale con l’aumentare significativo delle spese procapite (su base mensile: 2000 euro = 0%, 3000 euro = 17%, 5000 euro =30%, 9000 euro = 39%, e così via).
Il prezzo finale del bene o del servizio acquistato sarà dunque così approssimativamente ripartito: 1/3 per produzione-distribuzione-vendita (settore privato), 1/3 per il reddito di base (cittadini) e 1/3 per tutte le restanti prestazioni statali (settore pubblico).
Mi fermo qui e chiudo. Il link per accedere alle informazioni in forma semplice l’ho dato in un commento precedente. In rete sono facilmente reperibili numerosi lavori sui vari aspetti legati all’introduzione del reddito di base.
La cosa che però voglio sottolineare, a proposito dell’ultima parte della discussione, è che in questo scenario il costo del lavoro passa dall’attuale 46,50% a una realistica forbice tra il 15 e il 20%. Un taglio così netto rende certamente meno appetibili o necessari i licenziamenti, favorendo al contempo nuove assunzioni e ampliando di molto il margine di sperimentazione negli assetti aziendali.
Il reddito di base inoltre cambia completamente le basi per la contrattazione salariale, rendendo meno ricattabile il prestatore d’opera.
E’ evidente che anche lo studente (e chiunque non impegnato in attività direttamente lucrative) trarrebbe enormi benefici da questa ipotesi di riorganizzazione del welfare.
Wu Ming 1 ha ragione da vendere quando sottolinea che il capitalismo non potrebbe mai accettare di sottoscrivere il proprio declino, o quantomeno una sostanziosa diminuzione dei margini di profitto basati su speculazione e sfruttamento, ma è proprio per questo che precedentemente ho citato quegli aspetti congiunturali critici (per usare un eufemismo). Tra questi, anzi, da questi potenziata e con un ruolo fondamentale, annovero anche la pressione diretta delle persone incazzate su istituzioni pubbliche e gruppi di interesse privati, che però non considero come le prove o la minaccia di una rivoluzione sanguinosa, bensì la normale dinamica del conflitto sociale a cui chi si sente sfruttato, deriso e violentato di certo non si sottrae. Io non l’ho mai fatto. C’ero nell’80 davanti al mio liceo occupato a presidiare l’ingresso per le scorribande quasi quotidiane di fascistelli infighettati e pieni di testosterone, c’ero nell’85 a milano davanti al politecnico a prendere le manganellate e fare aerosol con i lacrimogeni, nel ’90 a occupare per tre mesi di fila l’accademia di brera e in sciopero della fame, c’ero a genova nel 2001, dal giovedì al lunedì, venerdì ero in via tolemaide e sabato a scappare dai celerini impasticcati sul lungomare di corso italia. Non c’ero il 14 a roma per tante ragioni tra cui un bambino che prima non c’era.
Ciò detto, il fuoco e le fiamme di tanto in tanto si accendono, fa parte delle cose, ma sono solo una conseguenza difficilmente gestibile e mai potranno essere uno strumento di contrattazione pianificato o teorizzato a priori. Dove e quando questo è avvenuto gli esiti sono stati tragici e infruttuosi.
Sorry, l’incipit del commento precedente è un refuso, un copia e incolla rimasto lì per sbaglio della domanda che mi aveva posto Graio…
@ WM 5:
E’ ovvio che il consumo non è quello di singoli beni, degli oggetti in sé. Il consumatore brama di accedere alle “paid-for experiences” di cui parla Rifkin: la roba non la compri per accumulare roba in sé, ma perché comprandola acquisisci un’esperienza. Quando io – che pure come tutti possono rilevare sono un fulgido esempio di resistenza comunarda – spendo 50 euro più del necessario e mi compro una fred perry non lo faccio solo perché mi piacciono le due righine sul bordo del colletto, ma perché compro una polo che se ci avvicini l’orecchio senti le cover dei cockney rejects (con questo dovrei aver vinto il sostegno di WM1, altrimenti mi arrendo).
Che poi quello che ho appena scritto è un altro modo per dire quello che dici tu sopra.
Il mio mettere l’accento sul consumo non è l’errore di chi non capisce che il mero trasferimento di un bene dal soggetto “a” al soggetto “b” non descrive tutta la storia: è il voler precisare la natura meccanica del fenomeno. Il capitalismo è un insieme di fenomeni e di interessi confliggenti: tra questi ci sono le vendite, che hanno bisogno del marketing, che ha bisogno di un mito, e cosi’ via, fino allo sfruttamento della forza lavoro, alle delocalizzazioni e a tutto il resto: se il fine ultimo non è quello di venderti qualcosa, qual è il fine del capitalismo, dei capitalisti, e la ragione per la quale essi generano e diffondono ideologie?
@ Emanuele
“con questo dovrei aver vinto il sostegno di WM1, altrimenti mi arrendo”
che bisogno hai di coinvolgere me, su questo? Stai battibeccando da ore con uno dei Nabat! :-D
le considerazioni sulla natura ultima del consumismo sono interessanti, pero’ il punto e’ capire perche’ molti accettino di lavorare senza stipendio. su questo ho avuto discussioni accese con molte persone, e non ne sono venuto a capo. al netto di chi e’ sotto ricatto (penso ad esempio a un immigrato col permesso di soggiorno in scadenza), ci sono delle questioni psicologiche profonde. c’e’ il confronto con i propri genitori, c’e’ l’ idea del decoro borghese, c’e’ la dipendenza psicologica dal “capo”. una volta gli operai dicevano: “a salario di merda, lavoro di merda”. io lo trovo un atteggiamento molto sano, anche dal punto di vista dell’ autostima.
Tornando on-topic, leggo su Repubblica il racconto dell’avvocato del ragazzo che ha mandato all’ospedale il quindicenne con un colpo di casco in faccia:
“Mi ha raccontato che in quel momento gli studenti stavano attaccando le camionette della polizia, perché volevano raggiungere il Senato in corteo. Fra questi c’era anche Cristiano. Manuel ha detto di essersi lanciato contro di loro per evitare lo scontro con le forze dell’ordine. E per questo motivo lo avrebbe colpito, rispondendo a un impulso: ma non voleva certo provocare quello che ha provocato” dice il legale.
Praticamente, il primo caso di servizio d’ordine istintivo vocazionale…
No comment. Anzi, mozione d’ordine: invito tutti a non discutere qui di questa squallida vicenda. E’ un terreno melmoso e, soprattutto, sovradeterminato. Una volta asserito che costui è un mezzo pazzoide e che la prassi che stava seguendo appare in tutto e per tutto demenziale (o fai il servizio d’ordine o non lo fai, le vie di mezzo sono solo pantomima o arbitrio o entrambe le cose), qualunque “esterno” dovrebbe evitare di aggiungere altro. Ammesso e non concesso che vi siano precise responsabilità collettive, non credo che discuterle in rete (come sta avvenendo, tanto per cambiare, su Indymedia) sia una cosa saggia o responsabile: rischia di ridursi tutto al solito spettacolino avvilente di rese dei conti incrociati, e comunque si entra in un gioco per niente chiaro, con giornalisti e altri personaggi che occhieggiano compiaciuti e prendono appunti. Che le anime del movimento romano affrontino la questione negli spazi preposti e in piena autonomia. In ogni caso, almeno su Giap evitiamo questi frame deleteri.
@ Emanuele
gran buon segno se in questo thread fanno la loro comparsa i cockney rejects
@ WM 1 : hai ragione tu. Non avevo approfondito la questione, ma effettivamente facendo un paio di giri qua e là convengo che meno se ne parla a vanvera, meglio è.
http://www.youtube.com/watch?v=qUHz26Sp7oo&feature=related
ma anche:
http://www.youtube.com/watch?v=qUHz26Sp7oo&feature=related
@tuco: il problema è che siamo spesso tutti sotto ricatto, chi in maniera violenta (il migrante senza documenti) chi meno. Dover prendere lavori pagati una miseria è già un ricatto.
Poi, vista la condizione di subalternità da cui si parte, sei sotto ricatto quando hai bisogno di continuare a lavorare e ti pagano meno del previsto: se ti lamenti o ti incazzi il lavoro salta, tanto dietro di te c’è la fila di persone che lo prenderebbero su, anche per meno.
Il motto “a salario di merda, lavoro di merda” lo trovo anch’io molto sano. Ma non siamo operai (parlo ovviamente dal mio punto di vista), siamo contratti a progetto, somministrati, interinali, partite iva, isolati ognuno nel suo tentativo di sopravvivenza in cui gli spazi sono pochissimi, se tu molli subentro io, non c’è solidarietà. Guerra tra poveri? Sì. Come se ne esce? Non lo so.
@ roberto
ok, probabilmente mi sono spiegato male. tutta la mia solidarieta’ a chi e’ sotto ricatto, e so che sono moltissimi. io avevo in mente, in quel che scrivevo, una condizione psicolologica molto particolare, che posso osservare quotidianamente nel mio ambiente di lavoro, cioe’ l’ universita’. e’ la condizione di chi accetta di lavorare gratis (esiste persino l’ istituto del “contratto gratuito”!) sapendo benissimo che oramai in italia non c’e’ piu’ nessuna possibilita’ di ottenere una posizione, nemmeno a tempo determinato. non sto parlando dei ricercatori di ruolo che fanno supplenze non retribuite (noi ricercatori di ruolo portiamo comunque a casa una buona paga). sto parlando di studenti che, dopo aver ottenuto il dottorato, tengono corsi senza essere pagati, anche per anni. magari alla sera lavorano in pizzeria per mantenersi, e sopportano tutto questo per non perdere l’ “onore” di lavorare nell’ universita’. queste persone non vogliono rassegnarsi all’ idea di rimanere escluse da cio’ su cui avevano fatto un grosso investimento anche emotivo. in questo comportamento c’e’ qualcosa che mi commuove e mi fa incazzare al tempo stesso, perche’ queste persone potrebbero giocarsela, e anche bene, in qualche altro modo, e invece spesso finiscono per diventare preda di una vera e propria nevrosi, oltre a contribuire (involontariamente) al mantenimento dello status quo.
Io ho insegnato italiano agli stranieri (per lo più migranti richiedenti asilo politico) gratis per un anno, presso un ente che collaborava con il Comune e la Procura. Avevano soltanto alluso alla possibilità di un qualche tipo di assunzione e mi era bastato per illudermi. Io stavo facendo la tesi proprio sull’insegnamento della lingua italiana agli stranieri (alfabetizzazione degli adulti). La sera lavoravo a un call center per pagarmi l’affitto. Dopo un anno di lavoro si sono complimentati con me e mi hanno proposto un altro anno di volontariato. Ho detto no, e non solo per i soldi. Ad esempio anche per il fatto che da un giorno all’altro i miei studenti fossero costretti a sparire perché la loro richiesta di asilo era stata rigettata.
Insegnare mi è piaciuto molto e penso di essere stato un discreto insegnante. La maggiorparte dei “miei” studenti non si perdeva una lezione e alcuni di loro studiavano molto assiduamente, quasi tutti per la prima volta nella loro vita. Quando li incontro per strada si ricordano ancora tutti di me.
Ora ho scoperto che cercano volontari per un progetto simile presso un circolo di sinistra a cui mi sono interessato ultimamente. Mi piacerebbe molto farlo e sono quasi “tentato”.
Ora le parole di Tuco mi hanno riportato tutto questo alla mente. Io rientravo perfettamente nel caso da lui descritto: lavoro ignobile per sopravvivere + volontariato/stage umanamente gratificante.
E mi chiedo: quanto conflitto sociale è arginato da migliaia di volontari o stagisti o comunque sfruttati che lavorano per l’integrazione e l’assistenza? E quale può essere una soluzione? E’ etico “abbandonare il campo”? Di sicuro per me non è più etico un volontariato che non si pone questo problema e che agisce senza consapevolezza del proprio ruolo politico.
Nel commento precedente ho fatto abbastanza errori da aggiungere un’altra ragione contro un futuro da insegnante di italiano XD
@norma
In passato ho già affrontato l’argomento, da diversi punti di vista.
Purtroppo non ho fiducia nello “stato” (ancor meno nei governi che pretendono di rappresentarlo) e quindi incontro serie difficoltà a prendere come valide le sue indicazioni di necessità, dirette o meno.
Prendo comunque atto e condivido il tuo invito a chiudere qui, ringraziandoti per il chiarimento.
@tuco
Capire le motivazioni per cui molti accettano lavori a condizioni allucinanti non è semplice né banale.
Posso solo basarmi sulle mie esperienze personali che, lavorando in un settore “intellettuale” (informatica/matematica) sempre più soggetto al precariato (anticipo: quale non lo è?), sono soggettive ma quantitativamente consistenti.
Per usare l’approccio ad elenco dei fabiofazi, lavoro perché:
– se sto a casa i miei (/gli amici /i conoscenti) mi considerano un fannullone;
– a casa devo tenere i bimbi e non mi son laureato per fare la baby sitter (e il padre?);
– (variazione della precedente) preferisco guadagnare come la baby sitter e non dover stare a casa;
– sono abituato agli orari dell’ufficio e a casa non combino niente;
– qui (in ufficio) ho i miei spazi e le mie cose, a casa non so dove sistemarmi;
– non mi sono laureato per fare l’imbianchino, piuttosto lavoro gratis;
– dopo dieci (venti) anni di lavoro e studio ora me ne sto a casa a guardare la TV?
– qualsiasi lavoro pesa sul C.V.;
– (variazione della precedente) se non lavori poi non ti assumono più perché pensano che non hai voglia di fare un tubo;
– finché sto a casa i ragazzini neolaureati mi fregano gli ultimi posti rimasti.
Tutte affermazioni che ho sentito fare e cito con quanta più precisione possibile, almeno concettuale.
Credo sia inutile aggiungere che non le condivido e che in alcuni casi le considero tremende.
@paolo1984
La “scheggia” di Alessandra è come sempre ottima e credo sia un buon punto di partenza per capire il ruolo e l’efficacia della violenza in situazioni come l’attuale.
Di fronte alla violenza continua, estesa e istituzionale ha senso replicare con eguale (o paragonabile) violenza?
Ho molto apprezzato il post di @Adrianaaaa del 15: la violenza può solo distruggere, non genera nulla. Solo gerarchie. Ed autorità, aggiungo.
La violenza, storicamente, trova un sua efficacia solo ed esclusivamente quando è inamovibile e inarrestabile: chi possiede strumenti per applicare una violenza che distrugga completamente il “nemico” (categoria concettuale, umanamente povera e limitante) o gli impedisca di reagire può permettersela. Trascurando ogni considerazione morale nonché sulle modalità della narrazione storica.
Mi chiedo quindi: se esiste chi possiede questi strumenti come verificare che li impieghi secondo i nostri canoni etici? Sempre che esista la possibilità di possedere questi strumenti senza avere alle spalle un intero sistema economico, industriale, politico autoreferenziale.
IMO chi applica invece la non violenza può agire in autonomia, senza necessità di ottenere l’approvazione di un sistema di potere, seguendo i propri principi etici e orientamento morale.
E’ vero che di fronte alle violenze dell’attuale (non solo) “sistema stato” sembrano non esistere alternative ma sta alle capacità di chi si oppone trovarne: se ai metodi di uno stato palesemente fallimentare non si sanno opporre che metodi uguali e simmetrici, come si può auspicare di raggiungere risultati diversi?
Il conflitto non va misurato in funzione degli obiettivi: scuola e sanità pubbliche o private, lavoro a vantaggio dei cittadini o delle aziende, giustizia sociale o individuale, ambiente come bene comune o come risorsa di pochi, investimenti nel settore X piuttosto che Y. Queste sono solo conseguenze.
Il conflitto deve innanzitutto essere culturale: accettare e stimolare la pluralità, la differenza, la conoscenza, l’autonomia. Il resto consegue.
In questa società distorta la pluralità è considerata ipocrisia, la differenza anormalità, la cultura un vizio, l’autonomia un reato. Solo sconfiggendo le cause di questa visione distorta si potranno modificarne gli effetti. Sconfitta che può essere attuata tramite una lenta e costante rivoluzione del pensiero per la quale sono oggi disponibili gli strumenti concettuali e pratici.
Purtroppo riesco ad affrontare solo superficialmente (al limite della banalità) l’argomento: spazi e tempi sono comprensibilmente limitati. Me ne scuso.
@uomoinpolvere
Apprezzo la tua narrazione di un’esperienza concreta e le tue scelte ma attenzione a non confondere volontariato, frutto di una scelta, con sfruttamento, per definizione imposto.
Aggiungo poi che secondo la mia esperienza di solito il volontariato rientra in due categorie: uno più politico che si propone di cambiare lo stato delle cose e un altro più consolatorio (spesso legato all’ambiente clericale/religioso).
Mi sono posto più volte la tua stessa domanda: ignorare e quindi esacerbare il conflitto o lavorare per arginarlo?
Credo che la teoria debba sapere dove/quando fermarsi e lasciare il posto alla concretezza dei rapporti umani: se posso aiutare chi è in difficoltà cerco di farlo, pur conscio di come questo contribuisca a perpetrare lo stato delle cose.
Segnalo, molto interessante, da MicroMega:
Violenza e letteratura. Risposta a Roberto Saviano
http://temi.repubblica.it/micromega-online/violenza-e-letteratura-risposta-a-roberto-saviano/
@ Graio
Se devo essere sincero non vedo molta differenza tra quel “volontariato” e lo sfruttamento. Non l’ho fatto per altruismo ma perché mi piaceva, mi “realizzava” e soprattutto perché speravo in uno sbocco professionale. Per me è stato anche (auto?)sfruttamento. Non sono sicuro di saper tracciare così bene il confine tra scelta di fare gratis una cosa che mi piace e speranza di essere assunto e, come dice tuco, incapacità di immaginare un’alternativa al “lavorare gratis”.
Quanto alla domanda che mi sono posto e che ti poni (ignorare e quindi esacerbare il conflitto o lavorare per arginarlo?) mi chiedo ora se sia in effetti veramente quello il nodo, alla luce anche di quanto detto da emanuele prima, per cui con la disperazione non si costruisce niente di buono.
Forse invece il problema è la mancanza di una strategia politica per cambiare concretamente proprio “lo stato delle cose”, dopodiché le varie scelte volontariato / assistenza vengono di conseguenza. Secondo me poi c’è anche spazio per un volontariato o comunque per un consapevole “sfruttamento di sé” che lavori contro lo stato delle cose.
Prima però bisogna emanciparsi da tante illusioni, e non è indolore.
Ho seguito interessato lo scambio tra Wu Ming 1, Wu Ming 5 e Norma.
Qualche pensiero a riguardo.
Proprio questa sera stavo leggendo Marx e Harvey sulla giornata lavorativa e sulle lotte per ridurla nel XIX secolo. Ad un certo punto si arriva alla conclusione che la lotta di classe che alla fine ha portato effettivamente ad una riduzione della giornata lavorativa, abbia, in qualche modo, giovato ai capitalisti: 15 ore di lavoro producevano tanto plusvalore, ma distruggevano i lavoratori e creavano quindi problemi alla sostenibilità della classe operaia. Riducendo la giornata di lavoro a 10 ore, tutti erano più contenti, i lavoratori perché più sani, e i capitalisti perché avevano comprato della forza lavoro che rimaneva più sana ed efficiente. Si porta l’esempio dei paesi scandinavi con il loro walfare state e socialdemocrazia, che spesso hanno retto meglio a crisi anche grazie a questi motivi (=lavoratori felici).
Letto questo, per me si inserisce bene nel discorso sul reddito di cittadinanza. Come dicevano già i Wu Ming, sarebbe questa una conquista che va veramente contro il capitalismo? Non sto qui a ripetere le argomentazioni di Wu Ming.
Tuttavia, Harvey parla anche di una riduzione a, ad esempio, 4 ore della giornata lavorativa. “Lavorare tutti, lavorare meno” citato da Wu Ming 5 mi é subito tornato alla testa. E poi Harvey continua dicendo che anche questa conquista potrebbe essere effimera, in quanto la flessibilità dei capitalisti troverebbe un modo per aumentare l’efficienza della produzione e quindi, alla fine, trovarne giovamento e ancora una volta usare la lotta di classe e le conquiste dei lavoratori come strumento per rafforzarsi e trovare nuove strade.
Se Wu Ming 5 rispondesse a riguardo sarebbe interessante (almeno per me)! :)
[non devo attenuare nulla eh, Wu Ming 1 :P, é solo un sorriso ;)].
@ Mathias
Davvero ho scritto “lavorare meno, lavorare tutti?” Non ricordo.
Comunque teoricamente il capitale fisso (le macchine) e le modalità di produzione vengono ristrutturate e innovate proprio sotto la pressione delle lotte operaie.
Ma è una fase in qualche modo passata, le lotte operaie come le abbiamo conosciute nel secolo scorso non le abbiamo più. Tagliato con l’accetta: le lotte attuali sono difensive. Verso la metà dei ’70, invece, la pressione in avanti del movimento operaio, che era durata circa 150 anni era giunta a alterare decisamente i rapporti di forza tra claase dominante e classi subalterne. Ciò determinò la grande reazione che continua fino ai nostri giorni. Il problema era il concentramento degli operai nelle fabbriche, e la modalità di lavoro (il fordismo) che produceva solidarietà e secerneva insubordinazione e sabotaggi. L’automazione e l’informatizzazione, come dato tecnico, il neoliberismo come dato politico, le teorie manageriali, lo stato azienda come ideologia, eccetera eccetera, servivano e servano per porre rimedio a tutto ciò e per disarticolare la classe operaia.
Evito di tratteggiare la tematica marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto, che è in relazione a quanto ho appena scritto, anche perchè è complessa e nemmeno io l’ho capita bene :-),
ma se vai su Wikipedia alla voce Karl Marx c’è un riassunto abbastanza chiaro, nei limiti del possibile.
La classe operaia, si dice, è dunque ormai residuale. Attenzione però: residuale qui da noi, in Europa. Altro discorso per il resto del pianeta, perchè da qualche parte le merci occorre produrle. I teorici marxisti europei tendono, guarda un po’, all’eurocentrismo.
Ogni conquista operaia rischia di essere effimera, se si cessa di pensare a un’alternativa radicale e evocare una rottura possibile, futura, auspicabile. Le conquiste sono frutto di lotte, appunto: non si vede perchè, in assenza di una lotta progressiva e decisa, un padrone dovrebbe garantirle.
Interessante la posizione attuale di Tronti: mantenere il punto di vista operaio, anche in assenza di classe operaia.
ma qui si apre un altro, lunghissimo discorso
la frase l’ha messa wm1
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=2219&cpage=3#comment-3494
commento del 20-12-2010 at 12:38 am di wm1
@uomoinpolvere
Ho un’opinione diversa sulla questione.
Dici di aver scelto il volontariato perché speravi in uno sbocco professionale ma questo è indipendente dalla tua scelta: se invece del volontariato avessi scelto uno stage o un contratto precario, sarebbe cambiato qualcosa?
Presumo (forse sbagliando, come spesso capita con la presunzione) di no. Il tuo obiettivo ultimo era la realizzazione professionale quindi l’hai vissuto come un lavorare gratis (in funzione di…). Da qui la difficoltà che descrivi nel tracciare un confine.
Ovviamente non voglio sindacare le tue scelte che, ribadisco, in gran parte condivido ma ritengo che il volontariato /dovrebbe/ essere una cosa diversa.
Da dire anche che forse, con uno stage o simili, non avresti neanche provato il senso di realizzazione che descrivi.
Non è però improbabile che io affermi ciò solo per il fatto di esser sempre stato fortunato quando ho operato (e continuo a fare) come volontario.
Riguardo al resto:
Perché con la disperazione non si dovrebbe poter costruire nulla di buono?
Convinto che una vera e radicale disperazione non può che portare al suicidio (se non esiste alcuna speranza che senso ha qualsiasi cosa?) penso che, se si decide di procedere oltre, anche nella disperazione si possano trovare spunti costruttivi.
L’importante, come dicevamo, è indirizzare questa volontà verso attività che non sostengano o legittimino la situazione che ha provocato la disperazione.
Quella che tu chiami “strategia politica per cambiare concretamente”, definizione che condivido appieno.
Come anche la tua frase conclusiva: le illusioni (indotte dal sistema a suo vantaggio) sono il principale ostacolo da superare.
@Wu Ming 5
Scusa, ho sbagliato a scrivere, e avevo anche controllato nei commenti vecchi: era Wu Ming 1 con il “lavorare tutti lavorare meno”! Come paperinoramone sottolinea. :(
Grazie comunque della risposta! Sí, quello che scrive Marx nel capitolo sulla giornata lavorativa -quando racconta le condizioni degli operai nelle industrie inglesi ed europee- é assolutamente contemporaneo se invece di Europa si mettono certe regioni dell’Asia o del Sud America.
Scrivi che ogni conquista é effimera “se si cessa di pensare a un’alternativa radicale e evocare una rottura possibile, futura, auspicabile.” Perfetto, sono d’accordo. E, dal mio punto di vista, proprio questa frase spiega perché forse il reddito di cittadinanza sarebbe una conquista effimera, in quanto non evoca una rottura. Oso dire, perdonatemi l’eventuale cavolata, aumenta il feticismo dei rapporti, in quanto chiedi allo stato e non ai padroni, si maschera il tutto ancora di più. :/
La tua interessante frase, però, crea una sottilissima linea tra conquista effimera e conquista reale: la differenza é quindi se questa conquista viene inserita in un discorso più ampio di alternativa e di rottura futura. Anche la giornata di 4 ore potrebbe essere effimera.
Se vado avanti mi contraddico, lo so. :P Sono confuso, é un discorso complesso e ho pochi mezzi. Interessantissimo comunque! Grazie.
@ Tutti
attenzione, perché sono due slogan apparentemente uguali ma in realtà diversissimi, quasi l’uno il contrario dell’altro.
Un conto è dire:
“Lavorare meno, lavorare tutti”. Qui il fine è lavorare tutti. E’ uno slogan lavorista.
Altro conto dire:
“Lavorare tutti, lavorare meno”. Qui il fine è lavorare meno. E’ un discorso di liberazione del tempo.
Giusto per precisare, eh :-)
Stato.
Parola strabordante di significati che si sono aggregati in modo caotico come limature di ferro attorno a un magnete.
Eppure la parola stato è così compatta e diretta nel suo significato. Senza troppe analisi, evoca un atteggiamento contemplativo rivolto al passato o tutt’al più al presente. Participio passato del verbo stare. Interessante la definizione che leggo in wikipedia: “Il participio è un modo verbale molto vicino all’aggettivo e al sostantivo. Deve il suo nome al fatto che partecipa a queste categorie.”
Dunque il concetto, il sentimento associato alla parola stato non è di tipo verbale. Non descrive un’azione in relazione alle sue conseguenze ma piuttosto una condizione, uno stato delle cose, appunto.
Lo stato (o lo Stato) non è un intenzione, né un progetto, né tantomeno uno strumento operativo. E’ una fotografia. Sarei tentato di dire, una natura morta. Questo al netto di tutta la limatura di ferro.
“Lo Stato è il prodotto e la manifestazione dell’antagonismo inconciliabile delle classi…” scrive Lenin.
Engels esplicita gli esiti di questo antagonismo: “Lo Stato è, per principio, lo stato della classe più potente, della classe economicamente e politicamente dominante…”, cioè il risultato di un conflitto tra classi in cui ha prevalso il più forte.
Lo Stato sarebbe dunque la fotografia del campo di battaglia desolato e silenzioso dopo che le armi hanno smesso di tuonare.
Secondo Max Weber invece si tratterebbe di “un’impresa istituzionale di carattere politico in cui l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione della forza legittima in vista dell’attuazione degli ordinamenti”.
Le due tesi sono divergenti, ma hanno un aspetto in comune. Lo Stato è una forma di organizzazione della società a “bocce ferme”. Sarebbe cioè la cristallizazione dei rapporti di forza (politici, economici, carismatici, militari, a seconda del tipo di analisi svolta) in una forma funzionale al mantenimento degli equilibri presenti al momento della sua creazione o, eventualmente, della sua ridefinizione in seguito a una nuova fase di conflitto.
In questo senso lo Stato non è un interlocutore da cui si possano rivendicare cambiamenti sostanziali del suo ordinamento.
Questo vale anche per le sue componenti, il parlamento, il governo, i partiti, le forze dell’ordine e la pubblica amministrazione in generale.
L’equivoco mi sembra che nasca con l’introduzione della formula democratica all’interno del sistema statale. Introduzione del tutto funzionale all’élite dominante per una più efficace gestione dei conflitti che inevitabilmente tendono a riaffiorare in un sistema così rigidamente organizzato sulla base dei rapporti di forza. L’idea stessa di democrazia rappresentativa o parlamentare mi sembra più affine alla filosofia di Rollerball che a una qualunque idea di progresso sociale, essendo quest’ultima categoria completamente generata all’interno del frame di una società divisa in classi (in Rollerball le Corporazioni e i Dirigenti vs la popolazione mondiale).
Forse così riesco a spegare un po’ meglio la mia personale visione dello stato dell’arte.
Lo Stato non è un elemento dialettico con cui confrontarsi o scontrarsi. O meglio, scontrarsi con lo stato e finanche abbatterlo, non dà alcuna garanzia di uscire dal frame concettuale che ne ha determinato la nascita. Gli esiti concreti della parabola socialista nel corso del XX secolo illustrano bene ciò che intendo.
Lo scontro e il confronto devono avvenire all’interno della società a un livello non istituzionale, cioè reale e dinamico, e mai rappresentativo o simbolico (molto significativa la duplice valenza della parola reale, anche se con provenienze etimologiche diverse si è fusa nella pratica linguistica, come se la figura del Re incarnasse il principio di autenticità nella visione dello stato delle cose).
Questo mi induce a cercare forme innovative di organizzazione della convivenza sociale indipendentemente dalla dialettica con le istituzioni. Fare sempre un passo più avanti di quanto lo stato delle cose razionalmente e consequenzialmente suggerirebbe di fare. Non importa se questo atteggiamento porta ad elaborare soprattutto in ambito teorico, anzi. E’ proprio con la libertà offerta dalla creatività astratta dalle contigenze che è possibile creare nuovi frames più allineati alla fluidità, all’irriducibile complessità di ciò che agisce comunque, al di là di ogni rappresentazione o cristallizzazione o volontà di potenza.
Le mie proposte di approfondire schemi più o meno astratti di democrazia diretta o di diritti come il reddito di base rientra in questo atteggiamento.
E’ un invito a prepararsi, a formulare buone idee per il momento in cui la contingenza delle cose aprirà uno spiraglio per una, magari piccola o parziale, rivoluzione concettuale del nostro modo di vivere insieme.
Convengo però con tutti quelli che hanno letto con sconcerto o fastidio le mie proposte di discussione che lo stato delle cose non è indipendente dalle nostre azioni, individuali o colletive che siano.
E’ solo una questione di dove prendere la mira e non di rinunciare ad incidere concretamente nella realtà.
(Intanto le assemblee di preparazione per le iniziative di domani vanno nella direzione auspicata da questa discussione, a dimostrazione che i movimenti meno mentori hanno e più efficacemente e creativamente agiscono. Evviva. Il prossimo passo però devono essere le proposte. Non al governo, ma a chi nell’università vive e lavora.)
@Norma
Stato: rischio l’OT alla grande, però non credo di condividere la descrizione di “stato” che proponi; tu descrivi uno stato cristallizzato, immobile, che si autogenera e che non ha possibilità di evoluzione – o trasformazione. A me non pare che sia esattamente così, fermo restando che sì, lo “Stato” è l’espressione diciamo così delle classi dominanti. Ma è una “entità” (anzi, a mio avviso, un’organizzazione sociale) molto più mutevole, poliforme e in trasformazione di come la disegni. Il fatto che le lotte del novecento hanno immesso proprio dentro le strutture statali delle pratiche di welfare io non la liquiderei come una sorta di “contentino” del capitale verso le classi lavoratrici per farle stare buone. Sono molto d’accordo con WM1 – se non sbaglio a citare – quando dice che scomparsa l’idea di rivoluzione, è scomparsa anche l’idea di riformismo; però dentro quelle pratiche sono passate molte conquiste di diritti per tutti, diritti acquisiti anche dalle forme statali. Insomma, sto andando un po’ con l’accetta, però non mi convince questa formulazione di una Idea di Stato: anche lo stato è un fenomeno “in progress”, da storicizzare. Impossibile pretenderne l’autodissoluzione, ma nemmeno farne una sorta di entità astratta che vive solo di rapporti di forza dati; i rapporti di forza mutano e anche la struttura dello stato: lo stato italiano del 1920 non è lo stesso del 1975. Nemmeno sono del tutto convinta che lo stato non possa o non debba essere un interlocutore: qui e oggi, la possibilità di conquistare e formalizzare per tutti alcuni diritti passa ancora attraverso la struttura dello stato.
Mi sa che oltre ad essere OT non ho centrato neanche l’argomento del commento di Norma.
ho la sensazione che i discorsi troppo astratti non portino a un granche’. le categorie bisogna farle lavorare su questioni concrete, vedere se funzionano, ed eventualmente aggiustarle a colpi di martello. stiamo parlando di universita’, stato, creativita’, capitalismo, ideologia aziendalista…
bene, allora parliamo ad esempio di editoria scientifica. l’ italia e’ praticamente assente dal settore, che in realta’ e’ in mano a poche multinazionali (springer, elsevier, taylor&francis e poche altre). gli studiosi sono pagati dallo stato (oppure dalle fondazioni, nei paesi in cui le universita’ sono private) e non ricevono una lira dalle case editrici che pubblicano i loro lavori scientifici. anzi, in certi settori le case editrici pubblicano a pagamento, anche 15$ a pagina. 15$ che vengono pagati dalle universita’ con i fondi per la ricerca (statali). infine le case editrici vendono gli abbonamenti alle universita’(si parla di 5000$ all’ anno per una sola rivista, che ovviamente vengono sborsati dallo stato). in italia piu’ della meta’ del bilancio di un dipartimento universitario se ne va in abbonamenti.
conclusione: l’ editoria scientifica e’ una enorme rapina perpetrata ai danni delle casse pubbliche ad opera di alcune multinazionali potentissime. qualcuno si chiedera’: perche’ gli studiosi non si ribellano e non autogestiscono la pubblicazione dei loro lavori? il web lo permetterebbe. il problema e’ il rating. ogni rivista ha un rating, che viene calcolato annualmente dall’ azienda privata thomson. per poter essere valutata, una rivista deve pagare una quota alla thomson, e solo le multinazionali sono in grado di sostenere la spesa. inoltre, per avere un buon rating, una rivista deve fare una “politica delle citazioni” che e’ molto costosa. infatti il rating viene calcolato partendo dal numero delle citazioni che ricevono gli articoli pubblicati su una data rivista. ogni rivista quindi cerca di accaparrarsi quante piu’ citazioni possibile. ci sono molti modi per raggiungere questo obiettivo. un modo tipico e’ quello di far viaggiare le riviste in coppia, e di chiedere agli autori che pubblicano sulla rivista A di citare i lavori pubblicati sulla rivista B e viceversa. un altro modo e’ quello di organizzare annualmente un grande congresso, di quelli con 50 sessioni parallele, e di pubblicare un volume di proceedings in cui ogni articolo e’ di fatto un survey che serve per citare i lavori pubblicati sui numeri ordinari della rivista. capite adesso cosa c’e’ dietro alle proposte governative sulla “valutazione”? e soprattutto: capite dove si trova il potere, in questo caso?
ah, dimenticavo. perche’ il rating e’ considerato cosi’ importante? beh, si tratta di aziendalismo applicato alla ricerca. ideologia pura.
aggiungo che in altri paesi, in cui la politica, bene o male, fa il suo mestiere, e’ lo stato a trattare direttamente con le multinazionali dell’ editoria.
Io non so come andranno le cose domani, nessuno lo sa. Ma qualche indizio incoraggiante l’ho tratto dalla giornata di oggi.
Mentre al Senato la solita mezza-rissa ha fermato la discussione, gli studenti battevano un colpo a modo loro: l’unione degli studenti ha annunciato lo slogan di domani (siamo tutti in-daspo-nibili), quindici studenti di Trieste hanno fatto parlare una vecchia gru del porto (il pontone Ursus, a cui hanno appeso uno striscione con scritto: Neanche l’Ursus si fida piu’), fuori da Montecitorio gli studenti regalavano fiori ai passanti.
Intanto Roma si blinda come e più del 14, la polizia è pronta alla battaglia, speriamo che gli studenti non caschino in stupidi tranelli.
I miei saranno indizi poco indicativi, da aruspice che guarda nel fegato degli animali o scruta il volo degli uccelli, ma ho fiducia in questi ragazzi e in quelli meno giovani che da dietro vedono e capiscono, sostengono.
@paola signorino
Lo Stato siamo noi. Quante volte hai letto o hai sentito pronunciare questa frase?
In astratta linea di principio sarei anche d’accordo. Lo Stato-nazione è la forma organizzativa delle società contemporanee, è il luogo in cui viviamo. Lo Stato di diritto poi (tramite la costituzione e l’obbligo di mantenersi all’interno della legalità da questa determinata) sembra coincidere ancora di più con la volontà collettiva dei suoi cittadini che, anche se quasi esclusivamente per delega, contribuiscono a definire i principi del diritto su cui lo Stato si fonda.
Ma nella realtà le cose non stanno propro così. A parte il fatto che le costituzioni sono state scritte dopo eventi fortemente traumatici (avvalorando la tesi della cristallizazione dei rapporti di forza in seguito a un conflitto), va detto che la costituzione non è di fatto l’unica sorgente del diritto, come appare evidente dalla necessità di introdurre il concetto di costituzione materiale per poter analizzare correttamente l’evoluzione del diritto.
Ma stando più terra terra, credo che possiamo convenire sul fatto che i cittadini, durante il corso ordinario della vita democratica, hanno un’influenza che si avvicina di molto allo zero sulle forme e sulle ragioni del diritto. Con una sola eccezione, almeno mi sembra, (parlo dell’italia) che è la legge n. 300 del 20 maggio 1970. Questa è stato conquistata, proprio come dici tu, da quelle lotte che hanno costellato la storia del nostro paese, ancor prima che diventasse repubblica. Conquista epocale, tanto da celebrare la legge con il titolo di Statuto dei lavoratori.
Eppure, dopo poco più di trentanni quella conquista è stata completamente stravolta dall’introduzione della legge 30, di cui il solo Marco Biagi pagò le conseguenze (oltre ai lavoratori, si intende).
Ricordo anche che al referendum per l’estensione dell’articolo 18 alle aziende con meno di 15 dipendenti (dello stesso anno, 2003 – e con la maggioranza dei lavoratori che parteciparono all’autunno caldo ancora in vita) partecipò solo il 25% degli aventi diritto.
Di mezzo, gli anni di piombo, il riflusso, tangentopoli, il leghismo e Berlusconi. Piazza pulita, o quasi.
Allora ti chiedo, quando mai è stato possibile introdurre una modifica significativa all’ordinamento dello Stato senza che il sangue dovesse scorrere? Io, magari per ignoranza, ma non ne ho presente nessuna.
Invece devo notare che quando la pratica diffusa di comportamenti e il consolidarsi di opinioni che riguardano aspetti fondamentali della vita di tutti diventano un dato di fatto, anche se in controtendenza con gli orientamenti della maggioranza politica del paese, quando se ne è presentata l’occasione le persone raramente hanno fatto mancare il loro protagonismo democratico (considerando i referendum: aborto, divorzio, nucleare, droghe leggere, finanziamento pubblico ai partiti, ecc.).
Secondo me i giochi si fanno fuori dalla contrattazione o dal conflitto con le istituzioni, o comunque prima. Le istituzioni prendono solo atto, quando è il caso, di un cambiamento già avvenuto nelle coscienze o nelle pratiche diffuse delle persone che non è più possibile comprimere, pena la messa in discussione della loro stessa esistenza.
Il 3d è partito da considerazioni sulla strategia della comunicazione (cornice/narrazione comune) come premessa fondamentale per l’allargamento del movimento degli studenti al loro interno e agli altri ambiti sociali. Qui, anche quando parliamo di lavoro o di forma dello stato, non facciamo altro che praticare quella narrazione che, in progressivo allineamento, può generare un comune sentire. Faticosamente, ma in modo incruento.
Vedremo come reagiranno le istituzioni al dilagare del disagio e della protesta. Per ora in modo scomposto e puerile mi sembra. Se verremo aggrediti ci difenderemo, questo è certo. Ma è l’unica violenza che avrebbe senso praticare.
gli studenti della Sapienza, lettera al Prefetto:
“Siamo molto lieti di tanta premura nel volerci proteggere, tenendoci lontani dai patetici teatrini e compravendite di parlamentari, che avvengono ormai come consuetudine dentro Montecitorio e Palazzo Madama. Potete stare tranquilli: la politica istituzionale si è già allontanata dai noi e dal resto della società molto tempo fa. Sono proprio i nostri cortei e i nostri blocchi stradali ad aver riportato la politica vera nelle strade e nelle piazze, dall’università a tutta la città”
Più avanti:
“”Il 22 – continua la lettera – lasceremo i palazzi del potere nella solitudine della loro miseria e andremo nella altre zone della città, per parlare con chi come noi è inascoltato da quelli stessi palazzi. ”
Mi piace molto questa lettera.
Protesta diffusa, pericolo diffuso. Le contromisure all’intelligenza tattica degli studenti non si sono fatte attendere.
Dal sito di Repubblica:
-Un ordigno esplosivo è stato ritrovato sulla linea B della metropolitana, alla stazione di Rebibbia. Alle ore 9.50 circa un macchinista dell’Atac ha trovato un oggetto sospetto all’interno del primo vagone di un convoglio fermo su un binario al capolinea. La busta di plastica era stata lasciata sotto un sedile, al suo interno una scatola, con due tubi, polvere pirica, fili elettrici e un comando per farla esplodere a distanza. L’ordigno rudimentale, del tipo ‘pipe bomb’, era privo di innesco. (…) In un primo momento si era temuto il peggio tanto che il sindaco Alemanno ha subito definito la notizia “preoccupante”. Poi, dopo le verifiche e gli accertamenti degli artificieri, si è scoperto che in realtà l’ordigno non poteva esplodere perché mancava l’innesco. E per questo, con un sospiro di sollievo, il sindaco ha potuto annunciare il cessato allarme. “Dopo aver sentito il Prefetto e il Questore – ha aggiunto il sindaco – posso garantire ai cittadini che tutte le stazioni della metropolitana sono state bonificate e quindi non ci sono ulteriori pericoli”. Alemanno ha poi ringraziato l’Atac e le forze dell’ordine per “il pronto intervento e l’immediata individuazione del problema, che dimostra come il nostro sistema di sicurezza abbia funzionato perfettamente”. (…) Nel pomeriggio arrivano i primi commenti dal mondo politico. La presidente della Regione Lazio invita alla prudenza. “Non ho ancora informazioni sufficienti ma poichè in questi giorni molte persone hanno rievocato gli anni ’70, fermiamoci in tempo, perché quegli anni li ricordiamo come anni bui, di cui ancora paghiamo un prezzo molto alto”. “Se dovesse essere così – ha aggiunto la governatrice – forse è il caso di fermarci tutti e riflettere, soprattutto in questo momento natalizio”.-
continuo il mio ragionamento cominciato sopra. avete presente come sono strutturate le trasmissioni televisive che parlano di universita’ (ad esempio quando se ne occupa santoro)? cominciano sempre con qualche “esperto” (di solito giavazzi) che propone un confronto tra le universita’ italiane e quelle americane, o inglesi, o francesi. ora e’ chiaro, a chi ha potuto vedere dal di dentro queste realta’, che il confronto e’ impietoso. ma forse vi sarete domandati come mai quelle trasmissioni finiscono sempre per condurre lo spettatore neutro ad approvare, fondamentalmente, le proposte governative. il motivo e’ che il confronto tra i vari sistemi universitari viene fatto senza mai entrare nel merito delle questioni, e utilizzando esclusivamente “indici di produttivita’” o roba del genere. i numeri, a chi non e’ un matematico, sembrano sempre “oggettivi”. in realta’ non c’e’ niente di piu’ arbitrario degli algoritmi di valutazione. non si tratta di modelli matematici che servono a descrivere fenomeni fisici reali. e non sono nemmeno stati dettati a mose’ sul monte sinai. sono stati pensati da persone in carne ed ossa, che hanno deciso arbitrariamente come distribuire i pesi che devono essere assegnati ai dati, in modo da ottenere un certo risultato. di conseguenza le “riforme”, invece di andare a toccare le magagne reali, puntano esclusivamente a far tornare i conti nelle griglie di valutazione, secondo un algoritmo scelto a priori proprio per giustificare gli interventi che il governo aveva deciso di fare.
cosi’ il frame in cui viene rinchiuso il dibattito pubblico sull’ universita’ porta necessariamente ad accettare come inevitabili le proposte governative. va da se’ che chi non accetta il frame viene immediatamente etichettato come difensore dello status quo, o peggio. cosi’ gelmini puo’ dire che la sua “riforma” serve a combattere il baronato, la gente le crede, e i baroni si fregano le mani.
Lettera degli operai Mirafiori agli studenti in lotta: http://www.leftcom.org/it/articles/2010-12-15/lettera-aperta-degli-operai-ed-operaie-della-fiat-mirafiori
Uso del Book Bloc (ma con refuso) alla Feltrinelli di Torino Porta Nuova:
http://yfrog.com/f/hslo6mij/
a proposito di: post-operaismo, immaterialita’ della produzione, reddito di cittadinanza e genitorialita’:
http://www.repubblica.it/economia/2010/12/27/news/sacconi_e_giovani-10622023/?ref=HREC1-5
@tuco
L’amara ironia del tuo commento mi stimola una risposta in positivo (se non altro per allontanare lo spettro della frustrazione, io non ci sto a dare per scontato il ritorno a una lotta di classe già vista e già persa).
Marino Badiale e Massimo Bontempelli propongono una lettura dell’opera di Marx che tratteggia un nuovo percorso (affatto indolore) alla luce delle esperienze fatte nel corso del novecento.
Marx e la decrescita/Perché la decrescita ha bisogno del pensiero di Marx, Abiblio, 2010.
Il pdf è online (con sottotitolo diverso) a questo indirizzo: https://docs.google.com/fileview?id=0Bwg6osAzBaJZZDgwNWFhYTQtZTAwYy00ZDhkLWE1MjItOThhNjJlODBmYjA5&hl=it
Il saggio si limita, appunto, a tratteggiare. Le forme di una possibile transizione fuori dal sistema capitalistico, però, emergeranno solo dalla natura del conflitto che ci attende, dall’uso creativo delle alternative più o meno praticabili e dal modo in cui sapremo immaginarle e condividerle. Limitarsi ad analizzare il presente fornisce strumenti efficaci soprattutto a chi già detiene la forza per applicarli (come constatato a posteriori da Guy Debord nei Commentari alla società dello spettacolo), raccontare un futuro desiderabile invece può mettere in circolazione energie fondamentali per un concreto cambiamento dei rapporti di forza, specie a fronte -del continuo peggioramento della vita che la crescita capitalistica comporta, e dello spettacolo di degrado materiale e spirituale che il nostro mondo mostra con evidenza a chiunque voglia vedere.-*
In questo senso, anche concetti come post-operaismo, immaterialità della produzione, reddito di cittadinanza e genitorialità potrebbero, al momento debito, dare un contributo importante alla forma del mondo che verrà.
Se e quando mio figlio dovrà ricostruire sulle macerie del neoliberismo, le immagini nate dal nostro desiderio di riscatto lo faranno sentire meno solo, spero.
*Marx e la decrescita, capitolo 10.
avevo gia’ letto gli scritti di badiale. tra l’ altro e’ un mio collega: non lo conosco di persona, ma nella mia attivita’ di ricercatore mi sono imbattuto piu’ volte nei suoi lavori matematici.
quello che non mi convince affatto del badiale politico e’ la sua convinzione che i concetti di destra e sinistra siano superati, e che sia necessaria una convergenza di tutte le correnti anticapitaliste, compresa eventualmente la nuova destra di de benoist. badiale e’ troppo intelligente per rischiare di essere strumentalizzato dai rosso-bruni, pero’, pero’… come ho scritto sopra, io sono vetero-tutto. certa gente non la toccherei nemmeno col cacciavite, come disse quella signora al mercato in quel di bologna.
Perfettamente d’accordo con Tuco. Le convergenze “rosso-brune” (post-“nazimaoiste”) sul terreno della decrescita (ma non solo) sono un sintomo di “sifilide spirituale”, tanto per citare il camerata Pino Rauti. Tutti quelli che le hanno predicate sono col tempo diventati “bruni” e basta, li vedi sbavanti, in preda a paranoie e psicosi del Complotto, li vedi scrivere su giornalacci antisemiti.
[Il più delle volte, infatti, trattasi di Complotto giudaico, ma spesso a sostituire l’epiteto c’è la parola “antifascista”, da costoro ritenuta insulto o comunque emblema di “arretratezza”, mentre essi, nuotanti nella brodazza presuntamente “post-ideologica”, sono davvero à la page.]
Aggiungo che la “decrescita”, in certi ambienti, è semplicemente diventata il cavallo di Troia concettuale per riproporre, appena mascherata, un’idea di società “organica” basata su suolo e sangue.
[In altri casi, invece, non ha fatto che ridislocare in avanti anziché all’indietro il rimpianto per il vecchio mondo contadino, presentato in una versione edulcorata e kitsch, e anche questo presta il fianco a “dirottamenti” reazionari.]
Purtroppo, anche tra persone insospettabili, circolano molti equivoci su questo sozzissimo mondo (quello dei rosso-bruni), che si presenta sempre come “di sinistra” (travisamento tipico dei fascismi, peraltro).
Come si leggeva su “Carta” qualche tempo fa:
«C’è qualche tratto in comune fra Latouche e De Benoist nella critica ma ci sono enormi differenze nelle vie d’uscita delineate. Che persone di destra e di sinistra a volte si ritrovino concordi nel criticare la globalizzazione capitalista non è uno scandalo [né una novità] ma dimenticare che gli esiti di questa critica sono assai diversi è sbagliato. La riscoperta delle storie e tradizioni locali, tanto per fare un solo esempio, può avere come approdo il presentarsi più forti a un dialogo con le altre culture e nel rigettare il pensiero unico. O invece può significare chiudersi in un forte, alzare muri materiali e mentali, disprezzando tutti quelli che ne stanno fuori: arrivando insomma ai deliri leghisti.»
E ricordo che De Benoist ha insegnato alla scuola di partito dei giovani padani.
Sui rosso-bruni, linko questo articolo divulgativo di Valerio Evangelisti:
http://www.carmillaonline.com/archives/2010/07/003561.html
Dopodiché, aggiungo pro domo Normae una noterella sulla lotta di classe.
La lotta di classe non ha pause, non esistono fasi prive di lotta di classe, per il semplice motivo che quando non la portano avanti gli sfruttati, la portano avanti gli sfruttatori. Negli ultimi trent’anni, anche in Italia, la lotta di classe è stata durissima, e l’hanno fatta soprattutto i padroni. Spesso la chiamano “ristrutturazione”, o comunque usano eufemismi. A volte la chiamano, antifrasticamente, “riforme”. Il punto è che la lotta di classe continua, che lo si voglia o no, perché continuano a esserci le classi, e le contraddizioni che derivano dalla divisione della società in classi continuano a operare. Ripeto: che lo si voglia o no.
Sognare un mondo nuovo è imprescindibile, ma farlo non implica rimuovere la realtà. E chi rimuove la divisione della società in classi (e quindi il proseguire della lotta di classe), rimuove la realtà.
[…] ha paura della cultura, si sa. Figuriamoci questo potere fallotematico. Non a caso gli studenti si proteggevano dai manganelli con i libri. Come facevi a non fare il tifo per loro? Certo, quando poi ho capito che avrei dovuto contribuire […]
P.S.
E’ ovviamente indispensabile una critica della “crescita”, dello “sviluppo”, della “produttività”, del “Prodotto interno lordo” e altri concetti/parametri capitalistici che verniciano di “oggettività” la distruzione delle risorse, dell’ambiente e degli umani. Pur non apprezzando il termine, che trovo troppo “reattivo”, anch’io sono per forme di “decrescita”. La mia critica non riguarda questo (vago) assunto di fondo, ma i modi in cui viene portato avanti, le articolazioni del discorso, l’immaginario che viene costruito. Immaginario che, infatti, offre sponde e occasioni a un “dirottamento” reazionario e destrorso. Non resta “decrescita” che valga la pena perseguire se si pretende di aver “superato” il conflitto tra capitale e lavoro. Ogni volta che si rinuncia a questo antagonismo o lo si dipinge come old-fashioned, si apre la porta a chi propone “surrogati” come il complottismo, nemici sostitutivi etc. Perché rimane una “casella vuota” (per usare un’espressione cara a Deleuze, riferita allo strutturalismo), e qualcuno/qualcosa la andrà a occupare.
[…] This post was mentioned on Twitter by Marcello Testi, Simone Bruni. Simone Bruni said: RT @Wu_Ming_Foundt Breve nota sulla "decrescita" come cavallo di Troia per convergenze tra "rossi" e "neri" http://bit.ly/enyHK3 […]
@ wu ming 1
quando frequentavo il liceo (meta’ anni ottanta) mio papa’ mi fece leggere un libro che si intitolava “i limiti dello sviluppo”. era pieno di grafici e formule, e non ci capii un granche’. pero’ quel libro fu uno dei motivi che mi spinsero a iscrivermi a una facolta’ scientifica.
in queste serate natalizie mi sono deliziata a condividere il desco con “neri-bruni”, o non saprei come altro definirli. Gente insomma che ha fatto le sue belle (!) esperienze a destra, persone che si sono sempre sentite escluse dalla gestione(!) della cultura per colpa dell’egemonia della sinistra, bla bla bla, e quando finalmente ha occupato poltrone, o le poltrone sono state occupate da amici e sodali, hanno sgranato gli occhioni: “Oh, ma quello è proprio incapace! Oh, ma quello non ne sa veramente niente di musei! Oh, gli hanno messo in mano un giornale e lo sta mandando a scatafascio”, ecc.
Sì, è vero, ognuno ha le sue perversioni… A me piace un sacco parlare con persone di siffatta natura. Mi piace ascoltare i loro tentativi di convincermi che “tanto ormai destra e sinistra combattono la stessa battaglia” (!?!?), che “sarebbe bello collaborare” (!?!). Li ascolto, però, perché i discorsi che fanno sono molto pericolosi, scivolosi, striscianti, si insinuano nelle crepe, fanno come l’acqua: quando trovano la strada si diffondono e poi vien giù la montagna. Bisogna quindi ascoltarli per benino, per capire come arginarli. La decrescita gli piace un sacco, ma come la declinano? ipotizzando micro (o macro) aree autosufficienti, chiuse… Vi vengono i brividi a sentire l’aggettivo “chiuse”? A me sì. Aree economiche chiuse. Possono stare insieme queste tre parole? Non so, però mi inquietano…
A proposito di lotta di classe e lavoratori sempre sotto ricatto, vorrei citare un passo di un articolo di Emilio Quadrelli (http://bit.ly/gTdFZ7), che parte proprio da alcune riflessioni sui fatti del 14 dicembre:
“Abbastanza velocemente il capitalismo globale, senza rinunciare a invadere le mense con prodotti al limite della decenza, ha mostrato il suo vero volto, quello del mercato globale. Un mercato che, ancor prima che le merci, deve produrre i produttori e le condizioni in cui questi sono messi al lavoro. Si è così drammaticamente “scoperto” che, il capitalismo globale, per essere tale non può far altro che, in tendenza, trovare di fronte a sé una forza – lavoro indifferenziata, malleabile, flessibile e continuamente sotto ricatto. Una condizione che, se nel lavoratore migrante ha trovato la sua migliore esemplificazione, ha finito con il modellare tempo ed esistenza di una parte considerevole delle popolazioni locali ascrivibili al mondo del lavoro subordinato”.
Richiamare la condizione dei migranti ci ricorda che si parte dal più debole per colpire via via le altre categorie. Non capire che la loro battaglia non può che essere la nostra è un errore con conseguenze devastanti. Lo stesso vale per gli studenti in mobilitazione. (E Fassino che voterebbe sì all’accordo di Mirafiori è solo un pezzetto in più del problema da affrontare.)
Oggi WM ha segnalato su Twitter un utile articolo di Revelli su accordo Fiat e suo valore “costituente”, http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/01/articolo/3985/. A me ha ricordato un libro di Revelli del 1989, Lavorare in Fia; e i 35 giorni del 1980 sono molto vicini, in un certo modo, alla situazione dei questi giorni. Che è peggiore, purtroppo. Cerco di motivare l’analogia e i limiti di essa qui http://bit.ly/gebpHi
[…] forma stessa della manifestazione dove sono avvenuti, ossia “Il Grande Assedio” come dicevano i WuMing, quanto sovradeterminati dai soliti cattivissimi e inafferrabili membri del Black […]