Mentre alcuni integralisti cattolici, “ex”-fascisti pidiellini e furbetti leghisti vogliono mettere al bando i nostri libri dalle scuole e dalle biblioteche del Veneto, i media ecclesiastici si occupano con serietà del nostro lavoro. In particolare del lavoro sull’eredità e il pensiero di J.R.R. Tolkien.
Sul sito de “La Compagnia del Libro” – trasmissione di TV2000, il canale televisivo della CEI – è uscita un’ottima recensione de Il Ritorno di Beohrtnoth figlio di Beorhthelm, scritta dal vicecaporedattore Saverio Simonelli, germanista e autore di diversi saggi su Tolkien. La riproponiamo qui sotto.
Anche sul quotidiano pontificio, “L’Osservatore Romano”, si è parlato della pubblicazione. Lo ha fatto Claudio Testi, il 19 gennaio scorso, chiamando in causa anche L’Eroe Imperfetto. Clicca qui per leggere il pdf.
Quando si tratta di un grande bistrattato e misinterpretato come Tolkien non c’è da meravigliarsi che in ambiti così diversi nasca interesse per il lavoro che WM4 sta facendo da qualche tempo su questo autore. Evidentemente l’esigenza di liberare l’opera di Tolkien dalle incrostazioni ideologiche fascistoidi coinvolge persone, studiosi e appassionati di varia provenienza. Come è giusto che sia.
Invece, per quel che riguarda la stampa laica, un mese fa è uscita un’intervista a Wu Ming 4 su “l’Unità”, firmata da Roberto Arduini. Riproponiamo pure quella.
PROMEMORIA Per chi si trovasse a Roma e fosse interessato all’unica presentazione del volume curato da WM4, l’appuntamento è il 31 gennaio, alla Feltrinelli di Via del Babuino 40, ore 18.00. Saranno presenti anche Roberto Arduini e Saverio Simonelli. Ovviamente, si parlerà anche della vicenda #rogodilibri.
PROMEMORIA 2 Riguardo a quest’ultima vicenda – finita anche su Le “Monde” e sulla Süddeutsche Zeitung – per giovedì 27 gennaio, h. 17, alcuni cittadini hanno indetto una manifestazione di fronte alla biblioteca comunale di Preganziol (TV), quella da cui erano scomparsi (e, dopo un servizio del TG3, sono “miracolosamente” riapparsi) i libri di Roberto Saviano. Un’occhiata qui per gli sviluppi più recenti. Vi anticipiamo che il livello è molto, molto basso: dita sporche di marmellata, linea di difesa non-siamo-stati-noi, tentativi di ritorsione. Come a livello nazionale, ma con meno riflettori.
PROMEMORIA 3 Qui i prossimi appuntamenti pubblici in cui si parlerà anche del #rogodilibri.
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Tolkien: il ritorno di Beorhtnoth
di Saverio Simonelli
Probabilmente non avrà in Italia (come non ha mai avuto finora) il rutilante successo transmediale de Il Signore degli Anelli, ma la pubblicazione di questo testo di Tolkien – metà dialogo teatrale, metà disquisizione filologico-letteraria – dimostra , se ce ne fosse bisogno e purtroppo ce n’è, che anche da noi finalmente il più grande scrittore di fantasy moderno viene comunicato e si spera recepito anche come narratore versatile, di interessi vasti e variegati e di più registri, un “autore” nel senso classico del termine e che merita pertanto un’edizione come questa dell’editore Bompiani che è un gioiello per i cultori e un’occasione da cogliere al volo per gli appassionati.
Ma cos’è Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm? Il lettore italiano in realtà lo ha già trovato in coda al volume Albero e Foglia edito da Rusconi nel 1983 e che riportava il testo assieme al celebre saggio “Sulle fiabe” e altre opere notevolissime ancorché ritenute minori come “Fabbro di Wooton Major” e lo splendido “Foglia di Niggle”. Ma si trattava, appunto, di un’edizione miscellanea mentre questo volumetto è assolutamente autonomo e come dicevamo magnificamente curato.
L’opera originale apparve per la prima volta in inglese nel 1953 sulla rivista accademica Essays and Studies anche se non si tratta affatto di un lavoro propriamente universitario e si ha modo di ritenere che sia stata concepita vent’anni prima. Tolkien apre questo suo “studio” riportando l’antefatto storico al testo vero e proprio, vale a dire la battaglia combattuta a Maldon nel 991 tra una schiera di invasori danesi e un manipolo di guerrieri dell’Essex fedeli al re di Inghilterra Etelredo II e capitanati dal condottiero Beorhtnoth, il quale per orgoglio e senso di “lealtà” eroica lasciò agli attaccanti la possibilità di salire sulla terra ferma per affrontare la battaglia ad armi pari. Con questo “bel gesto cavalleresco” il Duca non tenne in dovuto conto la distribuzione impari delle forze in campo andando incontro così ad una catastrofica e mortale disfatta. “La Battaglia di Maldon” è peraltro un componimento in Inglese antico che ci è giunto mutilo della prima e dell’ultima parte per un totale di 325 versi considerati comunque una delle più preziose testimonianze della poesia anglosassone.
Tolkien, dicevamo, illustra brevemente ma doviziosamente l’accaduto per introdurre così un dialogo tra due “domestici” del Duca che si trovano sul campo di battaglia, popolato oramai di soli cadaveri e sciacalli, col compito di riportare indietro la salma di Beorhtnoth; ed è un dialogo serrato, scritto da Tolkien seguendo il metodo allitterativo dell’antica poesia anglosassone e che rende conto delle due personalità, dei due universi, quasi, dei protagonisti. Il primo, Torthelm, affamato di miti ma in realtà codardo e millantatore, il secondo, Tidwald, che ne rappresenta il più “realistico” contraltare. Terza e ultima parte dell’opera è l’analisi di un termine cardine de “La battaglia di Maldon” e di tutta una concezione di eroismo nordico che Tolkien critica radicalmente avendo nella mente anche le sue aberrazioni contemporanee manifestatesi nella Seconda Guerra Mondiale allora da poco conclusa. Si tratta del termine antico inglese Ofermod che il nostro rende con “orgoglio smisurato” un sentimento e un atteggiamento sconsiderato che per Tolkien avrebbe portato un manipolo di guerrieri fedeli al proprio condottiero verso un’inutile ancorché eroica mattanza.
Soprattutto nella parte teatrale il lettore non troverà il Tolkien abituale, quel misto di solennità e di tratto epico brillantemente contrappuntato dalla più bonaria estetica hobbit. Qui inversioni e arcaismi sono pensosi e misurati, qui ogni parola affonda in strati “storici” e densi come il fango di Maldon, l’atmosfera è spettrale e dolorosa, anche se il finale con l’evocazione di un coro di monaci sembra rischiarare le nubi su uno spiraglio di pur triste trascendenza assente peraltro dalla cruenta crudezza e desolata del campo di battaglia.
Fin qui dunque Tolkien, ma l’edizione italiana consta anche di introduzione e postfazione: tutt’e due diversamente preziose proprio perché muovono da esperienze di formazione diversa ma puntano ambedue risolutamente verso la chiarificazione definitiva di alcuni tratti di quest’opera e del suo autore. A introdurre è Wu Ming 4, autore del fortunato e pregevole romanzo Stella del mattino, incentrato sulla figura di Lawrence d’Arabia ma che vede anche Tolkien tra i personaggi e che nel recente saggio L’eroe imperfetto si è ampiamente occupato proprio de “La Battaglia di Maldon”. E infatti Wu Ming 4 torna sulla critica all’eroismo operata da Tolkien collegandola alla capacità dell’uomo e del filologo di superare l’idolatria del passato considerando “l’ineluttabilità della trasformazione come parte integrante , ancorché dolorosa, della storia”. Sono parole che cozzano come macigni contro le interpretazioni, – tutte italiane peraltro – di Tolkien in chiave nostalgica o ancora manichea/reazionaria/alchemica e che fanno miseramente franare senza appello tutte le rispettive e velleitarie costruzioni a partire dalla famigerata introduzione al Signore degli Anelli scritta da Elemire Zolla per l’edizione italiana del testo. Wu Ming 4 isola magistralmente nel testo il portato di questa visione antieroica sposandola alla critica all’uso del potere, risalendo così fino alla mens di Tolkien stesso, uomo affascinato ma mai sedotto dallo spirito nordico e costantemente impegnato a depurarlo di quelle scorie che ne avrebbero causato le aberranti riproposizioni del Novecento. Un conflitto interiore che è ben visibile nel modo in cui Tolkien descrive in tutte le sue opere gli amati Elfi, luminosi e provvidenziali ma destinati alla scomparsa dalla terra di Mezzo perché incapaci di andare oltre la conservazione dell’antico. In questo senso, conclude Wu Ming 4 questa sorta di meditazione sulla “nordicità” fa già spazio per l’arrivo dello hobbit: la più straordinaria e anticonvenzionale creazione tolkieniana.
Se quindi la prefazione muove dal testo per trovare punti di vista nuovi e convincenti su poetica e mentalità dell’autore la postfazione ad opera di Tom Shippey è l’ennesimo sovrano e trionfale uso della chiave filologica per entrare se possibile ancora più profondamente nelle viscere del linguaggio. Shippey che è stato docente di filologia germanica a Oxford e Leeds, sedendo su due cattedre “tolkieniane” è autore, lo ricordiamo, de La via per la terra di mezzo l’indispensabile studio sull’autore de Il Signore degli Anelli e che basta da solo per garantirgli la reputazione di maggiore studioso vivente del nostro. Anche la sua postfazione, in realtà la traduzione italiana realizzata da Roberto Arduini di un testo destinato ad un convegno, ragiona sul superamento da parte di Tolkien dell’ideale eroico nordico. Per Shippey il Ritorno di Beorhtnoth è assieme la “creazione di un’accettabile immagine di eorismo e un atto di parricidio”. Parricidio nei confronti di una cultura perpetrato a colpi di filologia. Non è un caso spiega Shippey che gli unici versi del Beowulf che Tolkien mette in bocca a uno dei due ragazzotti siano quelli da lui considerati spuri in quanto riferiscono a degli uomini il termine “pagani” che nel poema è usato solo per definire il mostro Grendel e sua madre. La voglia di contestare la mentalità eroica è poi così forte per Tolkien da fargli usare i termini cavalieri e cavalleria che sono un chiaro arcaismo se si pensa che fino all’invasione normanna dell’XI secolo il concetto è totalmente assente dai testi e dal modo di combattere degli anglosassoni. E Tolkien, dice Shippey, con una punta di perdonabilissimo orgoglio personale “sapeva quanto me che si tratta di arcaismi.”
Troviamo dunque un Tolkien che combatte la propria passione usando le sue stesse armi e che a colpi di citazioni interne al testo dimostra quanto quel concetto di eroismo fosse già in stato di erosione in pieno medioevo. Forse è un azzardo ci spiega Shippey, ma per Tolkien le cose stavano proprio così: ecco allora che quegli anni subito dopo la seconda guerra mondiale sembrano sempre più stagliarsi come il periodo in cui il filologo e appassionato Tolkien cercava di costruirsi un alibi per la sua coscienza di studioso alla ricerca com’era di una nuova forma di eroismo per la quale in realtà aveva già pronta la fisionomia: era quella di un essere alto poco più di un metro con i piedi pelosi e tanta voglia di mangiare e poca propensione all’eroismo al quale avrebbe fatto percorrere senza draghi o cavallerie la sua Terra di mezzo. Di lì a poche stagioni con la pubblicazione del primo volume della trilogia il Signore degli Anelli sarebbe entrato nella realtà della letteratura.
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«Tolkien? Altro che reazionario»
Wu Ming e Il ritorno di Beorhtnoth
di Roberto Arduini | tutti gli articoli dell’autore
Un romanzo, una antologia di saggi e ora una riedizione di un testo dell’autore del Signore degli Anelli. Da cosa è nato il suo interesse per J.R.R. Tolkien?
«Le sue storie mi piacciono fin da quando ero ragazzino. Poi, in età adulta,quando sono diventato un narratore, ho avuto modo di approfondire molti aspetti del suo modo di intendere la letteratura, la sua poetica, l’architettura certosina dell’opera, l’ampio respiro del racconto, e ci ho ritrovato qualcosa di comune. La passione di raccontare ovviamente, di costruire mondi letterari complessi in cui il lettore possa immergersi e anche perdersi, viaggiandoci dentro in lungo e in largo».
Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm è un testo semisconosciuto di Tolkien. Era già stato pubblicato, mi sembra.
«Sì. Ma l’edizione precedente era inclusa in una raccolta di suoi scritti, Albero e Foglia, senza alcuna presentazione e contestualizzazione. Questo rendeva difficile capire l’importanza di questo testo che non è affatto secondario, come si tende a considerarlo. Proprio perché si tratta di un testo molto strano nella produzione tolkieniana era necessario fornire una cornice che consentisse di inquadrarlo per quello che è. Senza Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm non si può capire a fondo il percorso poetico che ha portato Tolkien a concepire il suo capolavoro, Il Signore degli Anelli».
Oltre al testo originale c’è anche una postfazione non sua. Ci può spiegare il senso di un’operazione così composita?
«La postfazione è il testo di una conferenza tenuta dal professor Thomas Shippey sul Ritorno di Beorhtnoth. Si tratta del maggior studioso tolkieniano vivente, capace di ricostruire dall’interno i problemi etici e poetici che Tolkien cercò di affrontare scrivendo questo testo bizzarro, che per metà è una riflessione filologica su un poema breve medievale, La Battaglia di Maldon, e per metà un componimento poetico che funge da epilogo immaginario del poema stesso. In questo lavoro Tolkien compie un’operazione sottile. Mette sotto accusa la poesia anglosassone, il campo di studi di una vita, e lo spirito eroico nordico che essa consacra. Lo fa per potersi affrancare da un certo modello eroico e inaugurarne un altro, quello che appunto troverà compimento nei suoi romanzi. Si tratta di un ponte tra l’ambito di studi accademici di Tolkien e l’approdo alla narrativa, rispecchiato proprio dalla natura ibrida del testo».
Come mai un professore di anglosassone si mette a scrivere una storia invece di fare un saggio su questo frammento?
«La Battaglia di Maldon è un poemetto che esalta il coraggio dei guerrieri inglesi cristiani contro gli invasori vichinghi pagani. Beorhtnoth è il condottiero inglese che, provocato dai nemici, rinuncia al vantaggio del terreno per onore di cavalleria. In questo modo cade sul campo e trascina con sé i suoi fedelissimi, lasciando l’Inghilterra in balia degli invasori. Nel suo testo Tolkien critica duramente l’ideale eroico che antepone alla difesa degli altri quella dell’onore personale. Lo considera un ideale pagano anche se fatto agire in nome di Dio, ispirato dal desiderio di dimostrarsi cavallereschi “per fornire materia ai menestrelli”. Per questo scrive una sorta di pièce teatrale per due soli personaggi, uno dei quali incarna questa critica, mentre l’altro prende le parti della poesia anglosassone ed esce assai malconcio dal confronto. Praticamente Tolkien forza e ribalta l’antico poema per individuare il punto di crisi del sistema di valori guerrieri esaltato dalla poesia epica nordica».
Tolkien non è sempre stato accusato di “escapismo”, fuga dalla realtà? In fondo, mentre l’Europa era dilaniata dalla Seconda Guerra Mondiale, lui scriveva di elfi, nani e hobbit.
«Nella sua narrativa Tolkien affronta temi universali, non certo meno validi per la sua epoca o per la nostra. Il problema del male, del potere, della morte, il tema del coraggio, la funzione della poesia e della narrativa nella nostra vita. Se questo non è parlare della realtà della condizione umana non so cosa lo sia».
Ma lo scrittore inglese non era antimodernista, conservatore, ultracattolico, insomma “di destra”?
«Sì. Ma questo non significa che non sapesse affrontare certe questioni capitali in una chiave problematica e irriducibile a posizioni ideologiche. Il fatto stesso che a metà della sua vita abbia saputo mettere sul banco degli imputati la filologia e la poesia anglosassoni che tanto amava dimostra quanto poco fosse “conservatore” nelle sue scelte e capace di prendere le distanze da una certa assunzione acritica dell’epica e del mito. Così come il fatto che avversasse senza mezzi termini l’autoritarismo, il razzismo e il militarismo fa di lui uno strano tipo di “reazionario” del XX secolo. In generale pretendere di inquadrare l’opera di un autore attraverso la sua biografia o la sua fede è un pessimo esercizio critico. Un atteggiamento che Tolkien stesso non sopportava».
C’è tanto interesse in Italia per un autore come questo, con tutte le sue tematiche così inglesi?
«Ovviamente in Italia l’interesse per Tolkien si concentra sulla sua produzione narrativa. In effetti i lavori filologici di Tolkien sono legati a un ambito apparentemente poco italiano. Ma le questioni che solleva anche nei suoi studi accademici sono da un lato di ordine morale, quindi universali, dall’altro nient’affatto slegate dalla contingenza storica che Tolkien si trovava a vivere. Proprio un testo come Il ritorno di Beorhtnoth è un duro attacco ai capisaldi culturali del nazismo e alla contiguità più o meno inconsapevole di certa filologia britannica. Altro che escapismo…».
Perché un bambino dovrebbe leggersi un tomo di oltre 1000 pagine su un mondo che non esiste?
«Non so perché dovrebbe farlo. So che ragazzini di tutto il mondo lo fanno. Quello che ci trovano suppongo sia l’entusiasmo di avventurarsi in territori sconosciuti insieme ai protagonisti di una grande avventura, che vedono messe alla prova le proprie qualità e devono scoprire in se stessi risorse inaspettate. Pensare che questo sia una cosa di poco conto significa disprezzare il piacere della lettura».
Ha ancora senso oggi leggere Tolkien?
«Non mi sembra che negli ultimi cinquant’anni abbia mai smesso di averlo. Perché oggi dovrebbe essere diverso?».
Salve a tutti, volevo rivolgere un paio di domande a WM4. La mia è una pura curiosità. Non ti sei mai chiesto se la tua “difesa” di Tolkien non possa essere viziata dal fatto che tu sei dichiaratamente di sinistra? Mi viene in mente un pezzo della vostra (mi pare che fosse WM1) ottima critica al film “300”. Cito a memoria: voi criticavate la giustificazione sillogistica di alcuni spettatori che dicevano “io sono di sinistra – mi piace 300 – 300 non è di destra”. Non rischi di cadere in questa sorta di tranello? In fondo è l’errore dei vari fascisti che vogliono cercare ad ogni costo elementi destrorsi nell’opera tolkeniana. So benissimo che per te Tolkien non è di sinistra e che vuoi semplicemente defascistizzarlo. La mia curiosità, più che altro, è legata alla prossima domanda: per gli stessi principi, in fondo, non si potrebbero recuperare autori come Junger, Celine o Pound? Non sono in fondo anch’essi strani tipi di reazionari?
Per la cronaca, Celine e Pound non li conosco, ma di Junger apprezzo molte cose.
Volevo sapere cosa ne pensi.
P.S. La Donazzan cita spesso Junger. Secondo me non l’ha mai letto, e se l’ha fatto non c’ha capito nulla :)
@ kulma
No, sinceramente non credo di correre il rischio “sillogistico” di cui parli.
Io cerco di leggere Tolkien con occhio critico, tenendo conto di tutto quanto, nei limiti delle mie possibilità. E questo mi viene riconosciuto proprio da chi offre letture diverse dalle mie, gli studiosi cattolici, ad esempio, con i quali mi confronto regolarmente (e finisco recensito su l’Osservatore Romano!). Questo approccio, nel corso degli ultimi tre anni, mi ha portato a dibattere con studiosi come Franco Manni, Claudio Antonio Testi, Andrea Monda, Saverio Simonelli, ma anche Tom Shippey e Verlyn Flieger. Ovviamente ci sono aspetti della poetica di Tolkien che mi interessano e altri che mi interessano meno, tuttavia non fingo che alcuni di essi non esistano e soprattutto non trucco le carte, come fanno invece i fascisti.
Elementi “destrorsi” nell’opera di Tolkien ne puoi trovare eccome, se li vai a cercare. L’operazione sporca è isolarli da tutto il resto, invece di accettare e scandagliare la complessità di un autore. Agendo per selezione puoi non solo ignorare ciò che non ti piace, ma addirittura spacciare per esemplarità quella che in realtà nell’opera di Tolkien è una stigmatizzazione (vedi appunto la faccenda dei modelli eroici). Tanto per restare in tema: non è mica un caso che un testo come “Il ritorno di Beorhtnoth” sia stato sistematicamente ignorato dai lettori “tradizionalisti” di Tolkien, dato che da solo basta a smontare la loro tesi. E tanto meno è casuale che costoro rifiutino sistematicamente di confrontarsi con i massimi studiosi mondiali di Tolkien.
Detto questo, anch’io leggo Junger e lo trovo interessante, a tratti davvero potente. E non ci sono dubbi che come gli altri che citi, sia uno strano tipo di reazionario. Ognuno di loro unico nel suo genere, però. E questo è tanto più vero per Tolkien che, ad esempio, al contrario degli altri tre da te menzionati, vide subito l’orrore intorno alla silhouette di Hitler e si pose il problema di come una certa tentazione revivalistica “neo-pagana” non fosse stata sventata per tempo.
Il punto, credo, non è “recuperare” Tizio o Caio, ma leggere ogni autore con sincerità e, per così dire, deontologia critica. Tutto qui.
[…] This post was mentioned on Twitter by Angelo Ricci, Wu Ming Foundation. Wu Ming Foundation said: Aggiornamento sul Ritorno di Beorthtnoth + news #rogodilibri: Mentre alcuni integralisti… http://goo.gl/fb/OEwZl […]
@WM4
Grazie, sei stato molto chiaro. Sottoscrivo pienamente le tue due ultime righe di commento.
In merito ai riferimenti nazisti alla tradizione nordica mi viene in mente Renè Guènon, anch’egli marchiato fascista, che criticava costantemente i “razzisti tedeschi”, il loro concetto di razza ariana (per lui una pura invenzione) e la loro errata interpretazione di simboli e miti nordici.
Sì, anche a Guénon è toccato in sorte un bel trattamento…
Mi pare che in Tolkien sia molto ricorrente la critica al modello “tradizionale” di eroismo, basato più sui codici d’onore dell’aristocrazia che sul conseguimento del “bene”.
Forse ce n’è una traccia (il tono è molto diverso, nulla di paragonabile al giudizio sulla battaglia di Maldon) anche nella poesia/filastrocca “Alla ventura”:
(…)
L’arcipelago perduto
sorpassava, ed oltre il mare
a predare e guerreggiare
tutto solo incominciò.
(…)
Contro gli Elfi, cavalieri
della magica Faerìa,
contro i prodi di Aerìa
a portar la guerra andò.
(…)
Gli tornò a quel punto in mente
del messaggio da portare
il suo incarico oltre il mare
d’improvviso ricordò.
In tenzoni ed in magie
lungo il viaggio avea scordato
– vagabondo smemorato –
l’importante sua mission.
@ Giacomo
Gli esempi di come il codice aristocratico possa essere del tutto insufficiente, o addirittura nocivo, in relazione agli eroi, si rinvengono a iosa nell’opera di Tolkien.
Uno valga su tutti.
C’è un momento preciso nella storia della Terra di Mezzo – un momento topico, di quelli che cambiano il destino collettivo – in cui la consuetudine aristocratica e medievale offre la copertura legale e ideologica per la scelta più disastrosa.
E’ quando, dopo avere mozzato il dito di Sauron e preso l’Anello, l’eroico principe Isildur rifiuta di distruggerlo e decide di tenerselo, riaprendo così una partita che in quel momento poteva già essere chiusa. [Per i non conoscitori dell’universo tolkieniano: questo episodio si colloca circa tremila anni prima degli eventi narrati nel Signore degli Anelli].
In quel momento Isildur dice che terrà l’anello come “guidrigildo” per suo padre e per suo fratello, caduti in battaglia.
[N.B. Nell’originale inglese il termine “weregild” riferito a questo episodio compare sia nel Silmarillion sia nel SdA, ma nella traduzione italiana del SdA è stato reso con “ricordo” (sic!)].
In base al diritto germanico, in caso di perdita violenta di un parente, ai famigliari spettava un indennizzo di qualche valore.
Diritto germanico nel tempo mitico della Terra di Mezzo? Un principe numenoreano che cita l’editto di Rotari? Sì, è uno di quegli strani anacronismi, o inserti lessicali incoerenti, che Tolkien ogni tanto usa. E possiamo star certi che non lo fa mai a caso. Ogni parola è una chiave. Come secondo lui era “ofermod” ne La Battaglia di Maldon, del resto. Ragionava così.
Ecco quindi che prima di diventare “il Flagello di Isildur”, l’Anello è stato “il guidrigildo di Isildur”. Il diritto germanico ha offerto a Isildur il pretesto per non distruggere l’Anello e per ignorare il buon senso di chi gli intimava di gettarlo subito nella voragine di Monte Fato (cioè il saggio Elrond).
Buon senso versus diritto germanico.
A proposito di quanto Tolkien vagheggiasse il Medioevo… ;-)
Ciao a tutti, volevo fare una domanda in particolare a Wu Ming 4. Non possiamo ammirare Tolkien e le sue opere, Il Signore degli Anelli su tutte, proprio per la caratteristica propriamente “fantasy”? Perchè permette di staccare la spina con la nostra realtà e immergerci in un mondo fantastico nel quale ci si può perdere?
Personalmente son rimasto affascinato da come T. abbia ‘creato un mondo’ facendo attenzione ai minimi particolari, sia gli aspetti geografici da un punto di vista naturale che umano, delle popolazioni che quei luoghi abitano a cui ha assegnato una propria cultura; per non parlare poi del lavoro che forse si può dire “filologico” nel realizzare la lingua degli elfi e dei nani. Voglio dire, stante il fatto che inevitabilmente le sue opere sono il frutto delle sue esperienze umane di vita, del suo modo di pensare, il suo pregio più alto non è proprio quello di saperti trasporatre in un universo magico e in esso farti perdere?
@ Filippo
La risposta alla tua domanda è sì, senz’altro. Anzi, credo che la grandezza di Tolkien stia soprattutto in questo, nella capacità creativa (o “subcreativa”, avrebbe detto lui). Ho già ricordato altre volte che nessuno scrittore singolo ha mai tentato un’impresa della stessa portata, cioè la creazione di un universo letterario ex novo, curandolo meticolosamente in ogni suo aspetto: cosmogonico, geografico, storico, linguistico, mitologico, antropologico, letterario, etc. Il piacere della lettura di Tolkien nasce precisamente dall’immersione in un mondo complesso e articolato. Tolkien lo definiva “Incantesimo” e lo distingueva dalla “magia”, cioè dall’artificio mimetico.
Il meccanismo retorico che va disinnescato è piuttosto quello di chi vede in questo “farti perdere” nell’altrove letterario una sorta di fuga dalla realtà. Perché i conflitti e i temi che percorrono la Terra di Mezzo non sono diversi da quelli che noi tutti affrontiamo nella nostra vita o che la storia di volta in volta ci presenta.
@WM4
Grazie per la risposta, mi piace il termine “incantesimo” in riferimento a quanto lui stesso scriveva =)
Ora posso trovarmi d’accordo e condividere l’intero tuo pensiero, sopratutto l’ultima parte del commento.
ci si vede lunedì, allora!
peccato solo che la Feltrinelli di via del Babuino abbia uno spazio per le presentazioni davvero piccolo… il bello però è che per ascoltare chi parla ci si assiepa tra gli scaffali!!
@ WM4
Volevo davvero farvi i complimenti per questa coraggiosa operazione di critica letteraria.Mai ci fu autore più bistrattato di Tolkien dagli intellettuali (intellettualoidi) italiani.Cronologicamente,i primi furono i sinistroidi come Michele Serra e Umberto Eco,che lo bollarono senza appello come “reazionario”.Poi,grazie appunto al rifiuto della sinistra,toccò alla destra più “innovativa”,quella dei Campi Hobbit,tentare una appropriazione ideologica di un’opera letteraria che,per definizione direi,è un colpo di mano e non un serio lavoro critico.
Il vostro lavoro,che debbo ancora leggere ma che da quello che ho letto qui pare ineccepibile,coglie finalmente il punto:Tolkien come letterato,autore con una poetica complessa,estremamente moderna(basti pensare alle riflessioni sul linguaggio ne Il Vizio Segreto e un pò ovunque nella sua opera,magistralmente spiegate da V. Flieger) ,problematico e critico,”antimoderno” sì,ma nè in senso tradizionalista-evoliano,nè eccessivamente cattolico-reazionario.
Leggere criticamente autori come Tolkien mi pare assolutamente essenziale,e voi,a differenza del metodo stantio e sinistroide di “l’Anello che non tiene”,applicate finalmente alla sua opera l’unico metodo possibile e necessario:una “deontologia critica” onesta e rigorosa.
Volevo farvi anche alcune domande:In primo luogo,ho letto che parlate di “lavoro sull’eredità e il pensiero di Tolkien”:avete altro in cantiere?Vedo con estremo piacere che siete al passo con la più moderna critica tolkieniana (Shippey,Flieger,Simonelli ecc. ecc.):mi piacerebbe assai un vosto lavoro sulla centralità della mitopoiesi e del linguaggio-creatore,sulla scia di Schegge di Luce,o qualunque altra cosa pur di svecchiare e dinincrostare le letture fuorvianti sul nostro.
In secondo luogo,volevo chiedervi cosa ne pensate della critica tolkieniana oggi prevalente in Italia,quella di parte cattolica(non per niente la Marietti editrice pubblica la collana “Tolkien e dintorni”):non rischia anche questa di proporre una lettura minimizzante e di parte dell’autore?
Grazie mille,Dige.
@Dige
1) L’intenzione è proseguire il lavoro su Tolkien, soprattutto cercando di tradurre e far conoscere meglio i testi critici degli studiosi stranieri. Già questo, produrre una bibliografia decente in italiano, sarebbe un grosso passo avanti. La Marietti lo fa da alcuni anni, ma è una casa editrice piccola, con forze limitate. Bisognerebbe coinvolgere anche altri soggetti. Io cerco di fare la mia parte. Chissà.
2) Le letture cattoliche hanno un grosso merito e un grosso limite. Il merito è che in Italia tra anni Ottanta e Novanta sono state quasi le uniche a contrapporsi alle baggianate evoliane. Il limite è che esaltando l’applicabilità di certe figure simboliche cristiane alle storie di Tolkien finiscono per produrre una lettura fortemente allegorica, alla quale sfugge l’eccedenza delle storie stesse. Ci sono elementi nell’opera di Tolkien che anche se non entrano necessariamente in contraddizione con la teologia cristiana, tuttavia la eccedono, appunto. In altri casi, l’autore lascia volutamente sospesa la narrazione, e i lettori confessionalisti pretendono di “completare” la storia esercitando la suddetta applicabilità (che però nella fattispecie sfocia in arbitrarietà).
Comunque bisogna poi distinguere caso per caso, perché anche tra i lettori cattolici di Tolkien ce n’è di più e di meno rigorosi.