Ecco l’audio della serata “Tolkien l’antinazista”, tenutasi a Roma il 19 febbraio 2011 a cura di RASH / Avanguardia, con la partecipazione di Wu Ming 4 e di Roberto Arduini dell’Associazione Romana di Studi Tolkieniani.
[WM4:] La serata organizzata dalla RASH (Red and Anarchist Skin Heads) ai Magazzini Popolari Casalbertone è stata un’occasione importante. Io e Roberto Arduini abbiamo parlato per quasi due ore delle strategie d’appropriazione che nel corso degli anni la destra ha messo in atto su un autore come Tolkien.
Nonostante non siano stati due interventi sistematici, ma appunto soprattutto esemplificativi e narrativi (nel mio caso perfino un po’ “rough”), ci pare che siano riusciti a toccare i punti salienti della questione. Molto utile anche la presentazione di Valerio Gentili della RASH [tra le altre cose, autore dei libri Roma combattente, La legione romana degli Arditi del Popolo e, di imminente pubblicazione, Bastardi senza storia ], che ha spazzato via con poche efficaci frasi le polemiche che la locandina della serata e la scelta dell’argomento avevano destato da parte di alcuni.
Un’ultima nota personale: non avrei mai creduto che un giorno avrei parlato di Tolkien con alle spalle un busto di Lenin e le bandiere rosse fuori dalla porta. Anche per questo risulta ancora più significativo che tutti i presenti – a partire dagli organizzatori – abbiano tenuto a ribadire il totale disinteresse a imporre a Tolkien qualsivoglia cappello ideologico (men che meno a inserirlo nel “pantheon” della sinistra).
L’impressione è che, alla buon’ora, the times are changing…
1. INTRODUZIONE DI VALERIO GENTILI (6’38”)
1. INTRODUZIONE DI VALERIO GENTILI – 6′ 38″
2. INTERVENTO DI WU MING 4 (49’45”)
2. INTERVENTO DI WU MING 4 – 49′ 45″
Julius Evola, le “idee senza parole” e i simboli “riposanti in se stessi”. “Anche Zorro ha la spada”. Le grinfie fasciste su Tolkien alla luce di Cultura di destra di Furio Jesi.
3. INTERVENTO DI ROBERTO ARDUINI (38’42”)
3. INTERVENTO DI ROBERTO ARDUINI – 38′ 42″
In quest’intervento, Arduini individua ed elenca i tratti distintivi della cultura di destra e neofascista (vittimismo, sconfittismo, esclusivismo, maledettismo, culto della nicchia, fascino del proibito) e spiega come questi elementi siano all’opera nella strumentalizzazione “evoliana” di J.R.R. Tolkien.
4. CODA (6’04”)
4. CODA – 6′ 04″
WM4 su Alemanno che cita Tolkien a cazzo di cane, con effetto di ironia involontaria. Intervento di Norbert a proposito di Éowyn e Beregond. Arduini sul modello della “donna di destra”: la valkiria casalinga (!)
N.B.1 I file n.2 e 3 li abbiamo ottenuti montando due diverse registrazioni della serata: una via web (la serata è stata trasmessa in streaming sulla web-radio Trapped In Society), a cui mancavano alcune parti, e una fatta in sala con un registratore, integrale ma in alcuni passaggi disturbata da rumori di sottofondo. Il file n.1 viene dalla registrazione in sala, il file n.4 dalla registrazione via web.
N.B.2 Le frasi in rosso sono “suggerimenti” di Wu Ming 5 dalla platea.
***
E ORA QUALCOSA DI COMPLETAMENTE DIVERSO, OVVERO: BONUS TRACK (22’30”)
E ORA QUALCOSA DI COMPLETAMENTE DIVERSO, OVVERO: BONUS TRACK – 22′ 30″
Sempre Wu Ming 4, sempre Roma: intervista a Radio Onda Rossa su Anatra all’arancia meccanica. La trasmissione è “Tabula Rasa”, la puntata è quella di lunedì 7 marzo 2011. Ce sta pure ‘n pezzetto de “Benvenuti a ‘sti frocioni 3” letto da ‘n autoctono, quindi con la giusta cadenza. Uno dei due intervistatori ha anche recensito il libro qui.
P.S. Giacché siamo in ambito sonoro, segnaliamo una “recensione musicologica” di AaAM, o forse una “lettura sinfonica”, un’interpretazione del libro come partitura per orchestra. In parole povere: nell’intro, Tommaso De Lorenzis consigliava di leggere il libro ascoltando la 9a sinfonia di Beethoven. Qui lo hanno preso alla lettera, e ne sono venuti fuori (si parva licet componere magnis!) intriganti parallelismi.
Ho ascoltato per ora solo l’intervento di WM4. Mi ha spinto a lasciare qui un commento per la prima volta.
Le riflessione sulle appropriazioni indebite di scrittori e apparati simbolici è, per me, ineccepibile. Condivido anche la riflessione sulla plurivalenza dei simboli, anche se non mi sento di sottoscrivere che se ne possano trarre valenze “infinite” (termine un poco… impegnativo). Molte, sì. Anche opposte tra loro, talvolta. Ma ciascun simbolo, secondo me, è “orientato”, per così dire, e non può significare proprio qualsiasi cosa.
Vorrei chiedere a WM4 se è disposto ad aprire qui quella parentesi su Guénon che non ha aperto nell’intervento. Personalmente, ritengo che anche nel suo caso si tratti di “appropriazione indebita” (da parte di Evola e seguaci).
Trovo anche molto giusta l’osservazione che la Tradizione (con la T maiuscola) sia a-storica. E questo perché, a mia avviso, è il “segreto” presente dentro ai simboli ad essere altrettanto a-storico.
Di conseguenza, chi attualizza il simbolo per trarne un uso ad hoc, spesso organico a proprie parzialissime visioni o ideologie, non può che perdere di vista la Tradizione, creando a proprio uso una parzialissima tradizione (con la t minuscola).
Se ho capito bene. :)
Nei tardi anni Settanta Arcana Editrice (per cui a quei tempi pubblicavo cose sulla musica), fece un libro intitolato “Lambro/Hobbit”, su cui c’era un sacco di materiale interessante (Campi Hobbit, fascistizzazione dell’epica ecc.).
L’ho ancora in giro, me lo vado a cercare.
@ Symbolo
in realtà questa fantomatica “Tradizione” a cui si richiama la destra “esoterica” è costituzionalmente “persa di vista”, perché… non c’è proprio nulla da vedere.
Non c’è nulla da vedere perché la “Tradizione” è un bluff, uno spazio vuoto da riempire con qualunque vagheggiamento di antichissimi, mai ben precisati “bei tempi” in cui i carri da guerra arrivavano in orario.
La Tradizione dev’essere data per ancestrale e dipinta come ineffabile, indicibile, così non c’è bisogno di alcun rigore nel definirla: basta un bric-à-brac di simboli, di immagini “epiche”/marziali e di parole con la maiuscola reverenziale, e il gioco è fatto.
L’escamotage è sempre lo stesso: “Noi non siamo più all’altezza della Tradizione. Dall’abisso di questo mondo decaduto e smemorato, noi non possiamo più afferrare la Tradizione, l’abbiamo smarrita, tradita, dimenticata.”
La Tradizione è pura supercazzola premeditata con scappellamento all’estrema destra come se si fosse ariani.
@ Symbolo
Le valenze dei simboli diventano “infinite” solo se si suppone che essi abbiano un cuore segreto e inesprimibile, perché appunto quel segreto può essere qualsiasi cosa. Se invece collochiamo i simboli nel contesto storico, mitico, narrativo, etc. allora si delinea il loro orientamento. Non esiste alcuna Tradizione, bensì molte tradizioni, le quali rimangono mobili, malleabili, di volta in volta ricostruite a partire dalle esigenze presenti. Tolkien ad esempio, da studioso serio del materiale mitico-leggendario nordico, non cadde mai nella trappola dei vari revivalismi e riscoperte/invenzioni della tradizione che caratterizzavano la sua epoca e soprattutto quella immediatamente precedente. Non solo attaccò a modo suo, con le armi della filologia, il revival pagano-germanico dei tecnicizzatori nazisti, ma non mostrò mai alcun interesse nemmeno per quello pagano-celtico. E non certo per scarso interesse nei confronti della letteratura celtica, come ha ricordato Arduini nel suo intervento. E’ pur vero che Tolkien stesso dichiara di avere avuto una pulsione iniziale a creare una mitologia per l’Inghilterra, che aveva perso la propria sotto le varie ondate d’invasione (o forse non aveva avuto il tempo di svilupparne una autoctona). Ma nel corso dei decenni l’intento iniziale si trasformò in qualcos’altro e produsse uno scenario ben più vasto: la Terra di Mezzo corrisponde più o meno all’Europa Occidentale.
Riguardo a Guénon purtroppo non ho ancora potuto approfondire a sufficienza, ma l’impressione che ho tratto è che anche in quel caso ci sarebbero molte scorie e detriti da rimuovere. Ad ogni modo ritengo di avere letto troppo poco per affrontare l’argomento in profondità, mentre probabilmente in questo caso potrebbe essere più utile Wu Ming 5.
@Wu Ming1
La Tradizione usata in quel senso che dici è pura archeologia del senso perduto, irrimediabilmente raggelante (Guenon, per l’appunto, tra altri). Sarebbe diverso se venisse interpretata in senso teleologico: nessuna scena primaria da restaurare (sotto la quale troveremmo probabilmente i soliti panni cacati di edipo) ma il divenir Sè di un processo eternamente creativo, che contiene tutto il proprio passato eppure non ne è determinato, esaurito, perchè questo passato deve ancora misteriosamente adempiersi.
Ma attenzione: è dura farsi passare il testimone (da un passato che non vuol morire) ma è anche dura cederlo a sua volta, senza pretendere di aver decifrato tutti i segni.
E’ qui che, dopo la giovinezza futurista, la mezza età ci aspetta al varco.
@WM1 e WM4
Grazie per le vostre risposte. Sfortunatamente, allora, avevo capito male. Poiché personalmente do un senso compiuto all’idea (e alla realtà) della Tradizione, una volta purgata dai personalismi di ogni epoca e di ogni ideologia, temo che sul terreno della negazione assoluta della stessa (vedi supercazzola) non ci accordiamo. Pazienza. La Tradizione, per me, è perfettamente dicibile, e persino in modo rigoroso, nessun escamotage. Ma è certamente ricerca in divenire, percorso, “quest”… non qualcosa che sta scritta da qualche parte pronta per l’uso. I minestroni simbolico/mitici li fa chi ha interesse a intorbidire le acque per proprio tornaconto, ma non è che mi faccio molto impressionare da costoro…
Comunque questo è un terreno scivolosissimo, facilmente colonizzabile con affermazioni perentorie e altrettanto perentorie risposte del tipo “e tu che cazzo ne sai?”. Quindi è prudente fermarsi qui, almeno per me.
Grazie ancora e alla prossima.
[…] il vostro tempo, ascoltate l’audio della serata con Wu Ming 4 e Roberto Arduini. Si trova su Giap. Utile per chi legge e per chi […]
Anch’io negli ultimi anni mi sto appassionando di simboli, tradizioni e Tradizione e penso che l’idea che se ne è fatto Symbolo sia interessante. Personalmente rimango affascinato dal parallelismo di simboli e idee che esiste tra le varie correnti spirituali e religiose.
Su Guenon penso anch’io che ci sia stata un’appropriazione indebita. Certo, era profondamente antidemocratico, credeva nelle gerarchie (anche se spirituali), nelle caste, e via dicendo. Ma non era assolutamente razzista ed era poco tenero con i nazisti che chiamava in modo dispregiativo “i razzisti tedeschi”. Di questi disprezzava anche i significati errati attribuiti ai vari simboli e miti di cui si erano appropriati, primo fra tutti la svastica.
ma a proposito di temi lasciati colpevolmente alla destra
vorrei parlare del 17 marzo
personalmente non condivido nè la retorica nazionalista nè le posizioni della lega nord
ma un paese che non riesce nemmeno a ricordare che 150 anni fa era diviso, che non riesce a fermarsi per un giorno (tanto più che 25 aprile e 1° maggio cadono in altre festività) per celebrarlo degnamente, lo trovo quantomeno triste
Ho molto letto Guenon. Credo di anzi aver letto quasi tutto quel che è stato tradotto.
Guenon si convertì all’islamismo perchè lo riteneva forma tradizionale perfetta, nel senso di “più adatta” alla fase ciclica in cui ci troveremmo. Per Guenon il tempo è un ciclo, non ha una direzione, non va da nessuna parte. C’è un’età del mondo, quella finale, il Kali Yuga, in cui la Verità non può più essere accolta nè capita, anche se viene detta chiaramente, ad alta voce. La Tradizione di Guenon è definita dallo stesso G. utilizzando una formula hindu: la tradizione è non-umana. Il cardine del pensiero di Guenon è la geometria eterna dei simboli. Interessanti le pagine sulla croce, di cui sarebbe l’esoterismo islamico, in tempi attuali, a detenere il “vero” significato.
Il pensiero di Guenon può essere recepito dall’estrema destra attuale solo in parte, perchè lontano da ogni forma di razzismo biologico (per Guenon è l’occidente a essere “degenerato”), perchè presenta un certo grado di complessità, perchè sono molte le pagine in cui Guenon attacca i movimenti fascisti dell’Europa pre-secondo conflitto modiale, movimenti che giudicava populisti, tecnicisti, plebei. Ma il suo pensiero è quello attorno a cui gravitano tutti gli sproloqui correnti sulla Tradizione, semplicemente perchè è il più articolato e gravido di conseguenze. Partendo dall’idea di tradizione di Guenon, gli approdi sono obbligati: iniziazione, verità detenuta da pochi, per via della degenerazione della gran massa degli uomini, rigide gerarchie intellettuali, necessità delle forme religiose, almeno ad uso del popolo, almeno qui in occidente. Un pensiero antidemocratico (usiamo il termine democrazia nella sua accezione migliore, pregnante, quella che naturalmente è associata all’idea di uguaglianza) e in fondo quindi antiumano.
Non si può appiattire Guenon su Evola e sull’evolismo, certo. Il pensiero di Guenon è molto meno periferico. Sembra anche molto meno angusto. Però, dichiarazioni feroci a parte, non c’è un Guenon davvero “contro” il nazismo e il fascismo. Alla fine, aristocratico com’era, semplicemente questi gli sembravano dei buzzurri. Le sue posizioni erano “più” coerentemente a destra :-)
Come ho già detto, non entro nel merito del pensiero di Guénon, anche se le cose che scrive WM5 confermano quello che voglio dire.
Proprio in “Cultura di destra”, Furio Jesi afferma che esiste un razzismo biologico, rozzo, nazista in senso lato – che oggi nessuno si azzarderebbe più a riproporre – e un razzismo “spirituale”, che è proprio quello sostenuto da Julius Evola.
Secondo Jesi questo secondo tipo di razzismo, se possibile, è ancora più pernicioso. Ed è vero, perché più del razzismo biologico tende a intercettare un discorso sulle singole culture, viste come monadi inalterabili, con pregi e tare spirituali, ascrivibili appunto ad aree/tradizioni geo-culturali. Questo razzismo è oggi assolutamente attivo, lo vediamo all’opera ogni volta che sentiamo parlare (per lo più a cazzo di cane) di mondo islamico, o di Cina, o anche di semitismo.
Moltissimi razzisti e reazionari degli anni Trenta presero le distanze e criticarono duramente il nazismo, ma appunto da posizioni più aristocratiche, più elitarie, perfino paradossalmente più “razziste” (nel senso suddetto). Evola riconobbe la falsità dei famosi “Protocolli dei Savi di Sion” (che era stata dimostrata già nel 1922), ma spostò l’argomentazione su un altro piano: disse che era vera la sostanza di ciò che era scritto in quel documento, cioè che lì si rivelava una tendenza egemonica reale da parte degli ebrei, che lui non considerava una razza, ma una nazione, rifacendosi appunto a fattori culturali e “spirituali”.
Ecco, ancora una volta mi è d’obbligo rimarcare una differenza abissale tra chi, pur rimanendo lontano dal nazismo, frequentò un certo tipo di pensiero, e chi, come Tolkien, invece no.
Nel 1938, il professore rispondeva così alla casa editrice tedesca Ruetten & Loening Verlag, interessata all’acquisto dei diritti de “Lo Hobbit”, che chiedeva alcune notizie sul suo autore:
“Cari Signori,
grazie per la vostra lettera. […] Temo di non aver capito chiaramente che cosa intendete per ‘arisch’. Io non sono di origine ariana, cioè indo-iraniana; per quanto ne so, nessuno dei miei antenati parlava indostano, persiano, gitano o altri dialetti derivati. Ma se Voi volevate scoprire se sono di origine ebrea, posso solo rispondere che purtroppo non sembra che tra i miei antenati ci siano membri di quel popolo così dotato. Il mio bis-bis-nonno venne in Inghilterra dalla Germania nel diciottesimo secolo: la gran parte dei miei avi è quindi squisitamente inglese e io sono assolutamente inglese, il che dovrebbe bastare. Sono sempre stato solito, tuttavia, considerare il mio nome germanico con orgoglio e ho continuato a farlo anche durante il periodo dell’ultima deplorevole guerra, durante la quale ho servito nell’esercito inglese. Non posso, tuttavia, trattenermi dall’osservare che se indagini così impertinenti e irrilevanti dovessero diventare la regola nelle questioni della letteratura, allora manca poco al giorno in cui un nome germanico non sarà più motivo di orgoglio.
La Vostra indagine è sicuramente dovuta all’obbligo di adeguarsi alla legge del Vostro paese, ma che questa debba anche essere applicata alle persone di un altro stato è scorretto anche se avesse (ma non ce l’ha) a che fare con i meriti del mio lavoro o con la sua idoneità alla pubblicazione, lavoro del quale sembravate soddisfatti anche senza saper nulla della mia ‘Abstammung’ [discendenza].
Confidando che troverete soddisfacente questa risposta,
rimango il Vostro fedele,
J.R.R.Tolkien”
Ancora una volta bisogna dare atto a Jesi della sua lucidità di analisi!
Ben più modestamente, nel mio piccolo osservo la perniciosità del razzismo “spirituale” evoliano che continua ad alimentarsi e coinvolge un’ala di “intellettuali” di destra, anche giovani (quindi che resteranno ancora anni con penna e tastiera a portata di mano), che, per il loro atteggiamento calmo e pacato, appaiono ‘ragionevoli’. E dunque anche il loro pensiero si mostra ‘ragionevole’, mentre è, appunto, antidemocratico, antiumano, aristocratico nel senso più deteriore del termine.
Alemanno, che “gnaa fa” (accidenti Guzzanti-Funari! la trascrizione non rende l’accento romano), insomma che, pur con tutti gli sforzi, intellettuale non è, mastica e risputa citazioni ma, inevitabilmente, a caso (WM4 è stato più efficace di me su questo punto…!). Da romana, non mi stupisco.
Insomma, il tema della Tradizione lasciamolo alla destra. A noi dovrebbe interessare la tradizione del movimento operaio, del pensiero egualitario. Quello che ti dice che gli uomini “superiori” sono tali finchè qualcun altro ci crede :-)
@Tutti
quando diciamo “Tradizione” non stiamo usando un termine a caso, più o meno “neutro”; stiamo adottando un vocabolo-cardine del pensiero reazionario, vocabolo che ha una sua storicità e una sua connotazione. Non lo si può proporre alla discussione con leggerezza.
La parola “Tradizione” è già ideologica. Non può esisterne un utilizzo “scevro da ideologie”, perchè è già ideologica la scelta di declinare il termine al singolare e con la maiuscola reverenziale.
La parola “Tradizione” esprime già un preciso punto di vista. La Tradizione è sempre – e non può che esserlo, anche quando ciò viene negato e si fanno dei distinguo – confusa nostalgia di un passato (europeo) monarchico o oligarchico, fatto di gerarchie assolute, differenze castali, segregazione o comunque rigida divisione delle razze e dei generi, culto aristocratico della forza e della guerra etc.
Non a caso, “Tradizione” è una condizione vagheggiata *sempre* da maschi bianchi occidentali. Perché è la parola-sintomo della perdita (parziale) di un primato sugli altri (e soprattutto le altre), perdita di un vantaggio riconosciuto, di una posizione da cui era possibile imporre il proprio volere.
Chiaramente, chi vagheggia la “Tradizione” si immagina sempre nel ruolo di chi ne trarrebbe vantaggio (l’infimo 1% della popolazione), mai nel ruolo – statisticamente ben più probabile – di chi ne verrebbe schiacciato (tutti gli altri). Ci si immagina sempre spartiati, mai iloti. Ma quella degli iloti era una condizione molto più comune.
Inoltre: la “Tradizione” non esiste, esistono tante tradizioni che ogni generazione ha reinventato in base alle urgenze sociali e culturali del suo presente (in Braveheart i guerrieri scozzesi portano il kilt, ma qualunque storico minimamente serio vi dirà che il kilt è un’invenzione ottocentesca).
Tutto il nostro passato è contaminato, frutto di incroci, ibridazioni, invasioni, influenze, appropriazioni, modifiche, risistemazioni.
Chi parla di “Tradizione”, al singolare e con la maiuscola, pensa di poter rintracciare *un* unico filone di Autenticità, l’albero genealogico della nostra Kultur e delle nostre Virtù. Ma proprio come l’albero genealogico di chiunque di noi, anche quello della Kultur è costitutivamente incasinato, ingarbugliato, molteplice, plurale.
Ciascuno di noi ha trentadue bis-bisnonni, e se andiamo a ritroso il numero degli antenati raddoppia a ogni generazione. Andando abbastanza indietro, ci accorgeremmo che *tutti* gli umani viventi a quell’epoca erano nostri antenati per via diretta. Diventa impossibile trovare *una* continuità che non sia illusoria. Di fatto, il cognome del padre non vuol dir nulla, è solo la certificazione dell’esclusione femminile.
La “Tradizione” è un po’ come il cognome del padre, è un phylum immaginario, frutto di convenzioni ed esclusioni, che si pretende di individuare nel groviglio di influenze e rintracciare fin nel passato più antico, mentre è proprio la risalita in quel passato a dimostrarne l’inesistenza.
Ehi, stiamo scrivendo tutti in contemporanea! :-) Se c’è qualche sovrapposizione e ripetizione, è involontaria.
quella T maiuscola che dà inizio a Tradizione mi dà l’idea di un enorme masso che sta per rotolarci addosso: qualcosa da evitare, insomma, non un tetto sotto cui ripararsi.
Mi piace, @WM1, il tuo riferimento ai “maschi bianchi occidentali” che hanno vagheggiato (e tuttora vagheggiano) la Tradizione. Come è già emerso altrove, tutto quanto è Legge, Tradizione, Autorità sta in un qualche posto lontano dal femminile (sebbene i termini siano in italiano di genere femminile). Quindi, anche in questo senso vale la pena percorrere la strada del cammino comune, uomini e donne…
L’etimologia ovviamente non dimostra nulla, però, a dispetto dell’uso distorto che ne fanno certi filosofi, può essere di rinforzo nel sostenere una particolare interpretazione del concetto che si sta proponendo.
“Tradizione” deriva dal latino “tradere”, ossia “trasmettere”, “porgere”, ma anche, fra i molti significati, “vendere” (da cui immagino derivi l’inglese “trade”).
Insomma, secondo me il termine evoca un processo molto concreto, fatto di parole, immagini, scritti che circolano incessantemente attraverso i secoli e le frontiere geografiche.
“Spiritualizzare” la tradizione, renderla astorica, equivale a negare questa concretezza: a nascondere il processo – con tutte le sue strozzature, i suoi ritardi, le sue diversioni “imbarazzanti” – dietro la cortina fumogena dell’ineffabile.
Perdonerete il parallelismo un po’ audace, ma Marx diceva qualcosa di simile sulla merce: la sua rappresentazione in termini di valore monetario sul mercato occulta il processo (con annesso sfruttamento) che l’ha prodotta; feticismo delle merci, cancellazione di ogni traccia del processo produttivo e del lavoro che lo anima.
Il feticismo della Tradizione non è, in fondo, la stessa cosa?
@ Don Cave
paragone azzeccatissimo.
eh, danae, temo che non siano solo occidentali e bianchi, quei maschi. purtroppo ieri a piazza tahrir se n’e’ avuta una dimostrazione.
ma non bisogna essere tristi, consoliamoci pensando ai nostri “Tradizionalisti”. per esempio a silvia valerio e a sua sorella anna k.. roba da “vogliamo i colonnelli”.
@ WM1
In realtà nella visione della destra anche gli iloti dovrebbero essere felici. Servire i superiori infatti dovrebbe essere motivo sufficiente di soddisfazione e realizzazione. Sono i due livelli di cui parla Jesi: quello esoterico, che riguarda l’elite dominante, e quello essoterico, che coinvolge la cerchia esterna degli adepti, la bassa manovalanza, i picchiatori, i soldati semplici, che non devono capire, ma obbedire fedelmente.
Nell’opera di Tolkien i fascisti infatti hanno voluto ritrovare anche questo. Ma in realtà l’idea di un’obbedienza cieca e indiscussa alla gerarchia è proprio ciò che Tolkien mette in discussione. Basta collegare un testo come “Il Ritorno di Beorhtnoth” al suo compendio logico, cioè l’enunciazione da parte di Gandalf del diritto di disobbedienza al capo (cap. VII della terza parte del Signore degli Anelli) e l’episodio di Beregond (ricordato da Norbert durante la conferenza), il soldato che sceglie di disobbedire agli ordini del suo capo per salvare la vita di Faramir (cap. IV). Tolkien racconta che c’è un momento per obbedire, per stare nei ranghi, fare fronte comune, e un momento in cui devi ribellarti agli ordini assurdi e folli, ma sempre ragionando con la tua testa.
E questo vale anche per la dialettica servo-padrone che si esplicita chiaramente nel legame tra Frodo e Sam. Legame che però nel corso della storia diventa via via sempre più paritetico, fino al ribaltamento totale: nell’ultimo tratto di strada Sam diventa la guida della Compagnia (di ciò che ne rimane), prende letteralmente sulle spalle la responsabilità di portarla a destinazione, infine resta nella Contea a ricostruire il futuro, mentre Frodo se ne va sconfitto.
@ Don Cave
Per Tolkien l’etimologia dimostrava tutto! ;-)
Certo, gli iloti dovrebbero essere felici di obbedire e servire. Nella società organica, ordinata e armoniosa lo schiavo è felice, perché sa di essere al proprio posto.
Ma nessuno dei “teorici” che sostengono questo preferirebbe essere ilota anziché ai posti di comando.
[Guardacaso, tra i pensatori della destra tradizionalista c’è un sacco di nobiltà avvilita e/o decaduta, da De Maistre a Evola.]
E’ sempre la storia (e sempre absit iniuria!) del “fare i froci col culo degli altri”.
Ed è un po’ come la scena dell’attribuzione degli pseudonimi in Reservoir Dogs di Tarantino: tutti vogliono essere “Mr. Black”, tanto che tocca escludere il nome dalla rosa delle scelte, mentre a nessuno piace essere “Mr. Pink”:
http://www.youtube.com/watch?v=e_5mM9b0B3w
E chi sia “Mr. Pink” lo decide il capo, perché “questo non è un consiglio comunale del cazzo!”
A me nel sentire parlare di Tradizione viene subito e automatico il collegamento con un’altra categoria: Cultura. Mi sembra che in entrambe i casi, oltre a esserci un evidente nesso, vi sia una lettura statica e astorica, come se la Cultura o la Tradizione fossero un archivio da cui attingere in primo luogo in termini identitari. Se questa è la lettura va da sé che la cultura e la tradizione possono essere “inventate” di sana pianta, così come dimostra il caso della lega nord e di tutta la retorica sulla padania, le origini e le tradizioni celtiche.
Prendiamo, per arrivare ai simboli, il caso del “sole delle alpi”: simbolo solare, è rappresentato fra l’altro tra le incisioni rupestri della Valcamonica (sito d’importanza mondiale per l’arte rupestre) insieme a svastiche, ma anche stelle (e stelle a cinque punte cerchiate!). La cosa interessante è che se si va a studiare la storia delle ricerche archeologiche in Valcamonica, si scopre come tra gli anni Venti e Trenta del Novecento questi studi erano eterodiretti da fini ideologici tesi a interpretare, in alternativa, le fonti preistoriche alla luce di una supposta superiorità dei popoli indo-germanici (se gli studiosi erano, appunto, germanici) o come la prova della tradizione italiota al servizio del regime mussoliniano e della sua retorica (quando gli studiosi erano italici). Il passato insomma ad uso e consumo del presente, così che adesso il sole delle alpi diventa il simbolo delle origini padane, in un’estrema riduzione della complessità del fenomeno dell’arte rupestre.
Bè, penso che qui tutti siamo più o meno in accordo nel pensare alla cultura come un processo, in cui sono determinanti per la sua formazione i rapporti di forza interni ad una società.
@ WM1
Permettimi di dissentire ma dire che la Tradizione “esprime un preciso punto di vista” è inesatto. Il concetto che hai tu di Tradizione è quello evoliano. Secondo Guenon, che ne ha parlato ben prima di Evola, è già diverso e WM5 l’ha ben spiegato. Evola è un disonesto, piega tutto al suo pensiero (basta vedere le sue traduzioni di Bachofen). Sono appassionato di ermetismo ed alchimia, ho letto un suo libro (La Tradizione Ermetica) e, se pur interessante per diversi aspetti, dimostra come lui spieghi qualsiasi cosa filtrandola con la sua ideologia. E nell’eterna e meravigliosa armonia tra maschile e femminile, il nostro julius vede sempre una certa superiorità dell’elemento virile, dimostrando alla fine di non averci capito un cazzo.
@WM1 – re: post @Tutti
Essendo in grado di comprendere il termine “Tradizione” anche in modi un poco meno deteriori di quelli che tu elenchi (seppur veri, nel loro contesto), ritengo il tuo elenco non definitivo.
Però capisco che partendo dal un punto di vista “questa cosa non esiste”, non si possa che fermarsi lì.
Che poi, in fondo, condivido tutta l’analisi quanto a ibridazioni, contaminazioni e furberie varie ad uso personalistico.
Dico una possibilità di pensare alla Tradizione che mi è affine: è la comprensione delle relazioni analogiche tra simboli.
Da questa prospettiva, lo studio della Tradizione se ne fotte per un bel pezzo di strada di qualsiasi consideraizone sociologica e sociale, primati razziali, ricerca dell’antenato e sovrapposizioni varie (per lo più inefficaci a spiegare alcunché). E già così concepita, la ricerca della Tradizione è un pozzo senza fondo…
@WM4
Grazie per la lettera di Tolkien, che non conoscevo. E’ straordinaria.
@kulma
Sottoscrivo tutto.
@ Symbolo:
Non capisco esattamente cosa intendi quando parli di “comprensione delle relazioni analogiche tra simboli”.
Questo modo di pensare alla Tradizione (dato che usi la maiuscola mi adeguo, anche se non condivido) che cosa implica, quali abilità o pratiche chiama in causa? Libera immaginazione poetica, iniziazione, creazione collettiva, razionalità, studio storico-esegetico…?
In altre parole: come si accede a questa “comprensione delle relazioni analogiche tra simboli”?
@ kulma
Guenon sicuramente è meno cazzone e disonesto di Evola, ma se la rotta di navigazione non è in toto coincidente, l’approdo (non l’approdo personale di Guenon, ma l’approdo logico di un certo pensiero) sarà comunque molto simile, perché in fondo obbligato. E infatti è la metafora usata da WM5:
“Partendo dall’idea di tradizione di Guenon, gli approdi sono obbligati: iniziazione, verità detenuta da pochi per via della degenerazione della gran massa degli uomini, rigide gerarchie intellettuali, necessità delle forme religiose, almeno ad uso del popolo, almeno qui in occidente. Un pensiero antidemocratico (usiamo il termine democrazia nella sua accezione migliore, pregnante, quella che naturalmente è associata all’idea di uguaglianza) e in fondo quindi antiumano.”
@ Symbolo
l’ho capito già dal nickname che t’interessano i simboli :-)
Tuttavia, i simboli non sono *trascendenti* rispetto alle formazioni sociali umane, non arrivano da un mondo “altro”, non sono affatto avulsi dai rapporti di forza vigenti in una società, non sono estranei ai conflitti. I simboli ci “parlano” in modi che si evolvono nel tempo. Sono, insomma, *immanenti* al nostro essere “animali politici”.
E infatti per ogni simbolo si constatano, nel corso della storia, evoluzioni e conflitti di interpretazioni, utilizzi contrapposti etc.
Se si pretende di leggere i simboli *a prescindere* da tutto questo, di fatto li si pone in una dimensione extra-umana, li si colloca a un piano “superiore” della comprensione etc.
Da lì si giunge molto in fretta a pensare che a questo piano “superiore” possano accedere solo pochi illuminati, sapienti, depositari del segreto del simbolo.
E da qui a pensare che costoro dovrebbero tenere le redini dell’umanità, il passo è breve. Ecco che parte il “c’era una volta” di un mondo in cui questo avveniva. Se ciò non avviene (più), allora vuol dire che l’umanità ha preso la strada sbagliata, allontanandosi dalla Tradizione basata sui simboli. Il passo è brevissimo.
Riassumendo, ecco come la penso io:
maneggiare/interpretare i simboli ponendoli come trascendenti, pensando che in essi vi sia un “segreto”, un significato ultimo a-storico, magari non porta immediatamente a rimpiangere una società ultra-gerarchica, ma certo rende moooolto vulnerabili a quel tipo di mito tecnicizzato.
@ Kulma
dimenticavo: nel mio commento, il “preciso punto di vista” non era riferito a Evola, ma al punto di vista maschio bianco europeo. Se provi a descrivere la cosiddetta “Tradizione” – cioè: la “Tradizione” del pensiero sapienziale/reazionario/esoterico – a un ex-colonizzato, o a un afro-americano, è probabile che ne coglierà subito la fortissima carica ideologica, molto prima di quanto possa fare un europeo. Perché quella è la presunta “Tradizione” del mondo che lo ha schiacciato. E’ mito tecnicizzato della società che produsse il colonialismo.
Non c’è “Tradizione”, esistono solo “materiali mitologici” che tutti noi ricombiniamo incessantemente. A questi materiali va impedito di *rapprendersi* e diventare Mito. Giocare il molteplice contro l’Uno.
Bisogna lavorare sui materiali mitologici *senza mai occultare che si tratta di un lavoro*, di una re-invenzione, quindi senza mai spacciarsi per esegeti dell’Autentico e del Primevo.
Per questo Jesi torna così utile.
In questo, come si diceva nell’altro thread:
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=3377
il pensiero afro-atlantico (quindi non solo afro-statunitense) può risultare molto ispirante, perché quel filone re-inventa una tradizione – plurale e con la minuscola – dichiarando e mai nascondendo che si tratta di una re-invenzione.
Poeti afro-britannici come Linton Kwesi Johnson e Benjamin Zephaniah, secondo me, sono molto più interessanti di qualunque pensatore sapienziale.
“Certo, gli iloti dovrebbero essere felici di obbedire e servire. Nella società organica, ordinata e armoniosa lo schiavo è felice, perché sa di essere al proprio posto.”
Tutta la politica estera spartana (basata sulla possibilità o meno di impegnarsi in territori lontani dal Peloponneso e spedizioni d’oltremare) fu condizionata dal timore dello scoppio di rivolte fomentate dagli iloti sottomessi (ribellioni che puntualmente si verificarono…). Insomma, Sparta fu sempre molto prudente nell’intraprendere iniziative militari in luoghi distanti dalla Laconia/Messenia.
Sì, sì erano proprio contenti gli iloti di servire gli Spartani…
@ Anna Luisa
infatti! La condicio sine qua non per poter spacciare mito tecnicizzato, è che il destinatario NON conosca la storia :-)
Ma su quello che dici sulla Tradizione “del pensiero sapienziale/reazionario/esoterico” (che per me rimane sempre evoliana, ad esempio proprio perché esclusivamente bianca ed europea) sono d’accordo.
Però vorrei chiederti in merito alla tua risposta a Symbolo:
perché vedere questa inaccessibilità a molti di un “piano superiore”? Molte dottrine hanno un approccio meno rigido (mi viene in mente il buddhismo, ma ammetto di non conoscerlo in modo approfondito). Il percorso alchemico ad esempio, è accessibile a tutti. O meglio, è selettivo (come lo può essere l’illuminazione), ma questa selezione non dipende certo dal diritto di nascita, dalla razza, o fregnacce simili. E poi, un “piano” esoterico non ce l’ha in fondo anche il comunismo quando parla di élite, intellighenzia o partito che prima guida le masse alla rivoluzione e poi di fatto detiene il potere (insomma tiene “le redini”)?
@WM1
Ok, adesso mi è più chiaro perché non possiamo intederci. Io credo infatti che il simbolo sia di per sé “trascendente”. Non fosse altro perché non è “generato” da alcuna specifica mente umana, né lo è mai stato (una croce non è un costrutto mentale, una croce c’è anche se non sappiamo ancora pensarla). La sua “immanenza” avviene in virtù delle corrispondenze analogiche con il “reale” (il che è una parziale risposta a Don Cave, con il quale mi scuso ma non riesco a produrre ora uno scritto più articolato: magari ci provo stasera, se sempre interessato).
Quindi io ho imparato piuttosto a partire dal simbolo, che “è”, e ricavare da esso ciò che ne consegue. Altrimenti sì che corriamo il rischio di prendere abbrivi arbitrari (con tutti i patatrac che anche tu evidenziavi).
E’ un percorso pericoloso? Sì, lo è. Perché fa meno “distinguo”. Infatti molti sbarellano, anche quelli con le migliori intenzioni, e ne ho conosciuti parecchi. Forse sono sbarellato anch’io e non lo so ancora… :-) Però, come fa quello che si tocca per vedere se è ancora tutto intero dopo una ruzzolata… pure a me sembra di non aver perso la mia integrità per strada. Almeno per ora.
@Wu ming 1:“La condicio sine qua non per poter spacciare mito tecnicizzato, è che il destinatario NON conosca la storia”
Eeeh… ho pensato la stessa cosa l’altra sera, mentre guardavo la puntata dell’Infedele di Lerner (tema: il Risorgimento italiano). Il povero Sergio Luzzatto ( mente raffinata e sottile) costretto ad ascoltare le cazzate pseudo storiche di un paio di esponenti della Lega. Una tristezza…
@ kulma
La selezione elitaria in effetti non dipende necessariamente dalla nascita. L’aristocrazia non è soltanto di sangue. Si parlava prima, ad esempio, di razzismo spirituale contrapposto a quello biologico. Allo stesso modo l’elitarismo può essere appunto “spirituale”, fondato su un cammino iniziatico. Chi stabilisce quali sono le tappe e quali i traguardi di tale cammino?
@ Symbolo
Dici che “una croce non è un costrutto mentale, una croce c’è anche se non sappiamo pensarla”. Sì, ma se non la vediamo e non le attribuiamo un significato, quindi se non troviamo delle “corrispondenze analogiche con il reale”, appunto, possono semplicemente essere due legnetti caduti uno sull’altro. Non sto capendo cosa significa che il simbolo “è”. Come può essere a priori di un qualunque punto d’osservazione?
@WM4
Della tua risposta a kulma: povero l’essere umano che, in un cammino di ricerca, ha bisogno di qualcuno che ne stabilisca tappe e traguardi. E’ precisamente questa dipendenza una delle cause dell’insorgere di parodie della Tradizione. Secondo me.
Quanto alla domanda che mi rivolgi: se anche cadessero due legnetti a formare una croce senza che nessuno li veda e li “interpreti”, essi indicheranno comunque che, nella relatà di cui facciamo esperienza esistono dimensioni spaziali che dipartono da un centro d’intersezione. Se lo dimostrano due legnetti caduti per caso, pensa quanto potentemente questa relazione analogica (solo una delle tante, trattandosi della croce) possa essere veicolata da un uso consapevole, e non casuale, del simbolo.
In altre parole: chi iniziò a usare il simbolo della croce lo fece perché lo “inventò”, scoprendo poi che due legnetti incrociati dicevano la stessa cosa, oppure il simbolo viene riconosciuto significare analogicamente qualcosa perché esso è stato osservato e compreso? Il mio intendimento della questione propende per la seconda ipotesi.
@ kulma
il punto è che questo “piano superiore” è totalmente inesistente. Tu, certamente, sei libero di credere in una “trascendenza” dei simboli, all’esistenza di significati pre-esistenti alla storia, alla cultura e all’esistenza umana. Io su quel piano non ti seguo, perché per me i simboli sono costruzioni culturali. Quanto al percorso alchemico, io ritengo che non porti assolutamente da nessuna parte, ma ciascuno può dedicarsi ai propri hobby.
Il problema però è che nella storia d’Europa, nella storia reale, concreta, la Tradizione è stata mito tecnicizzato e la fede nel “segreto” dei simboli ha prodotto pensiero aristocratico e anti-egualitario, con le conseguenze che sappiamo. Parto dalla semplice constatazione di questo dato di fatto. Il resto sono ipotesi controfattuali, “what if”. Da una parte, ci sono trappole concretamente esistite in cui siamo già caduti; dall’altra, io vedo solo astrazioni.
Quanto alla tua descrizione del “comunismo”: il comunismo è il contrario di quel che dici tu, è il fine di un movimento reale che non si ferma mai, movimento reale che mira a costruire comunità di eguali in cui le risorse siano condivise tra tutti, la logica del mercato non sia quella centrale e non esista divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale: in diverse fasi della vita o addirittura della giornata, chiunque potrà passare da attività oggi associate al primo ad attività oggi associate al secondo. Nella storia di quel phylum, il comunismo è sempre stato descritto così (vedi ad esempio L’ideologia tedesca di Marx ed Engels), e da nessuna parte troverai un utilizzo positivo di parole come “élite” o “intellighenzia”, come non troverai mai l’apologia di un qualsivoglia livello “esoterico”.
Quello che descrivi tu è invece il “socialismo reale” tipico dei regimi che c’erano all’Est. Nonostante in Occidente si dica spesso “regimi comunisti”, in realtà nessuno di quei regimi si è mai definito “comunista”. URSS voleva dire “Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”. Si diceva che quello era il “socialismo”, presentato come uno stadio iniziale della costruzione del comunismo. Questo perché “comunismo” era il fine ultimo (in quei casi millantato). Nel comunismo, non esiste nemmeno più lo Stato.
Ma anche in quei casi i burocrati al potere avevano la necessità di descrivere la società che amministravano come “egualitaria”. Se avessero ammesso che si era re-introdotta una divisione di classe, tutto l’edificio ideologico (tutto il mito tecnicizzato del socialismo) sarebbe crollato.
Nessun autoproclamato “comunista” dirà mai che ci vuole un livello esoterico e che al governo debba esserci un’élite. Magari “si fa”, ma certo “non si dice”.
Questa resta la differenza principale tra movimenti fascisti e movimenti comunisti: la dichiarazione dell’uguaglianza come valore. Da lì si può sempre ripartire, anche dopo le degenerazioni più atroci, anche dopo i tradimenti più nefandi e nefasti. Al nocciolo di quel pensiero e di quell’ipotesi sul futuro – l’ipotesi comunista – rimane l’idea che non esistano uomini “superiori” e “inferiori”, e che nulla giustifichi il potere dei pochi sui molti.
@ Symbolo
L’affermazione della trascendenza del simbolo rappresenta un elemento di enorme criticità, secondo me.
Se si ritiene che le condizioni d’uso e interpretazione di simboli e materiali mitologici sono storicamente determinate, il problema diventa quello di indagare questo “processo di determinazione”, tenendo sempre presente che un’indagine di questo tipo difficilmente potrà originare “verità” oggettive o metafisiche, e produrrà invece delle narrazioni (sistematiche, magari, ma pur sempre narrazioni).
Insomma, la consapevolezza del fatto che il significato ha carattere storico, ci pone di fronte ad una responsabilità ben precisa: riconoscere il nostro ruolo di soggetti storicamente collocati e “aver cura” del materiale che ereditiamo e re-interpretiamo, senza farci illusioni su noi stessi e senza abusare di quel retaggio.
Ma se il simbolo rimanda ad una dimensione trascendente, che ne è di questa “responsabilità”? Se il contatto con il materiale mitologico, la tradizione, la cultura, non si gioca sulla dimensione storica, ma chiama in causa un rapporto diretto e privilegiato fra colui che pone la domanda e il “qualcosa” che risponde (mi vengono in mente le riflessioni di Heidegger sul Linguaggio…), la responsabilità non coinvolge più una collettività di esseri umani chiamati a partecipare di questo processo, ma eleva automaticamente qualcuno ad un ruolo di privilegio e di esclusiva.
Insomma… la tecnicizzazione è servita!
@ Symbolo
Sarò lento, ma continua a sfuggirmi il punto.
Non capisco la distinzione tra invenzione del simbolo e osservazione: è chiaro che un significato al simbolo (nell’esempio della croce, l’intersezione tra due linee rette) lo diamo noi osservatori. Per questo tale significato simbolico muta nel corso del tempo, subisce smottamenti, ricontestualizzazioni, etc. etc. Se invece mi stai dicendo che il simbolo ha un’essenza propria, che trascende l’esperienza umana, cioè la nostra osservazione, ok, siamo in disaccordo totale. Io non sono mai stato trascendentalista.
@WM4 & Don Cave
Se il termine “trascendente” = Dio, ok, leviamo di mezzo il termine, perché non è quello il punto.
Riformulo: per me il simbolo ha significati “autonomi” da noi osservatori.
Chiaro che non ci accordiamo. Però non mi pare che la tua risposta , WM4, indirizzi il mio esempio sul fatto che una croce rappresenti il simbolo di un’estensione spaziale, che c’è anche se non ci siamo noi che la osserviamo. C’è poco da ricontestualizzare nel tempo o nello sviluppo delle società degli uomini, mi pare.
Comunque non voglio davvero menare troppo il torrone. Il tema è in ogni caso interessante. Grazie per la discussione.
@ Symbolo
due legnetti che cadono per caso uno sull’altro senza che nessuno li veda non sono un simbolo, non richiamano un simbolo, non hanno nulla a che vedere coi simboli. Sono due pezzetti di albero, a cui forse un colpo di vento cambierà disposizione un secondo dopo. Non coinvolgono l’umano, non hanno alcun ruolo culturale.
Il simbolo della croce nasce nel momento in cui uno disegna intenzionalmente due tratti che s’incrociano in perpendicolare, e con quel disegno vuole dire/raffigurare qualcosa. Il simbolo nasce come ideogramma. Si disegna un pentacolo per dire “stella”, anche se le stelle non sono fatte così.
Ritengo plausibile che il segno grafico che chiamiamo “croce” sia la stilizzazione di immagini della vita concreta. La più plausibile di queste? Un essere umano con le braccia aperte. Ho studiacchiato il cinese, so che anche gli ideogrammi più complessi e polisemici sono l’evoluzione di disegni molto terra-terra.
Tant’è che oggi la croce, almeno presso di noi, richiama proprio quella postura e sovente la reca impressa o scolpita: Gesù inchiodato a braccia aperte.
Come tutti i simboli, la croce non pre-esiste alla cultura, intesa come rapporto tra umani mediato da segni. Senza questo rapporto, non c’è simbolo.
Un essere umano che ne guarda un altro a braccia aperte e decide di raffigurarlo è già cultura.
Un essere umano che guarda un punto luminoso nel cielo notturno, da cui partono piccoli raggi, e decide di disegnarlo in forma di pentacolo è già cultura.
@ Symbolo
Non mi sembra che tu stia affermando che i simboli hanno significati “autonomi” rispetto agli osservatori. Questo si può affermare. Mi semba piuttosto che tu stia dicendo che c’è un significato che inerisce ai simboli, che li sostanzia come tali. Appunto, una specie di geometria simbolica, una pura scienza intellettuale dei simboli. E’ questo che mi vede in disaccordo.
@ Symbolo
“una croce c’è anche se non sappiamo ancora pensarla”
No. “Croce” è un concetto. Sono io a vedere quella particolare disposizione spaziale, a *individuarla* come elemento distinto che si “staglia” sullo sfondo di tutto il resto, e a ritenerla meritevole di classificazione tramite l’assegnazione di un nome. Solo da quel momento può diventare un simbolo. Prima, è solo un’indistricabile porzione di essere, priva di un’individuazione.
@WM1
Io son d’accordo con quello che dici, ne lcontesto in cui lo dici. Ma aggiungo due cosa: 1) il vento che scompiglia i legnetti è anch’esso simbolo, quindi non se ne esce; 2) certo che la croce stilizza un uomo a braccia aperte, perché le due entità sono in relazione analogica, e una cosa “informa” l’altra agli occhi dell’osservatore. A questo servono i simboli!
@WM5
“pura scienza intellettuale dei simboli”
Sì, è precisamente quello che ne derivo dalla lettura di “Simboli della Scienza Sacra” di Guénon.
Grazie a entrambi.
“Se ne esce” semplicemente non entrandoci. Il vento non è un simbolo se un intervento umano, culturale, sociale, non lo rende tale. La croce è in relazione analogica con l’uomo a braccia aperte solo se c’è un uomo che ne guarda (e disegna) un altro.
Comunque, grazie anche a te. Ora davvero smettiamola di menare il torrone, questa digressione è già troppo lunga, e rischia di tenere lontane persone che hanno ascoltato l’audio e magari avrebbero cose da dire (su Tolkien, ad esempio).
@ Symbolo
Ecco, appunto. Anche io derivo la stessa cosa da Guenon. E’ per questo che sono in disaccordo con lui e con te :-)
Avete notato che nel Signore degli Anelli i simboli “buoni” sono in relazione al mondo animale e naturale, mentre quelli “cattivi” richiamano l’Uomo?
Il simbolo di Rohan è il Cavallo, quello di Gondor l’Albero.
Il simbolo di Sauron è l’Occhio (anche se è un occhio un po’ mostruoso), quello di Saruman la Mano.
Forse non è un caso. Come dire: la Natura, opera di Dio, è sempre “buona”. E’ l’Uomo che, dotato di libero arbitrio, fa le cazzate.
In questo ci vedo sia la radice cristiana del pensiero di Tolkien (che ha anche altre radici), sia l’ennesima traccia della sua durissima critica alla civiltà industriale che deturpa il Mondo.
A proposito di simboli contesi, è interessante la storia del Martello di Thor (ce ne sono tante versioni, eccone una: http://farm3.static.flickr.com/2403/2219154015_bd6a622e4b_z.jpg)
Nei paesi scandinavi, infatti, lo porta al collo molta gente come segno di appartenenza culturale (un po’ come la catenella d’oro con la croce nell’Italia del Sud), mentre nel resto del mondo la portano molti metallari che seguono il viking metal: Come me, ad esempio : ).
In alcuni paesi, però, e soprattutto in Germania, è il ciondolo prediletto dai neonazisti insieme al simbolo dell’Irminsul, l’albero sacro dei Sassoni abbattuto da Carlo Magno: http://www.lrbcg.com/heathen/irminmarkus.jpg
Non solo, ma visto che il Martello di Thor stilizzato richiama anche l’immagine di una croce rovesciata, lo usano volentieri anche alcuni gruppi black metal più o meno satanisti…
In Italia, ahimé, lo usarono quei bastardi di Orion e di Terza Posizione (http://www.francocenerelli.com/antologia/tp.gif) ma anche i GLP (http://files.splinder.com/e15d3466ff7918e26dbe9db303b9e60a_medium.png).
D’altronde, durante la Seconda Guerra Mondiale, in Norvegia “anche le forze della Resistenza fecero proprio il ricordo dei vichinghi e della loro cultura, e gli invasori nazisti, in codice, vennero chiamati ‘Lupo Fenrir’ e ‘Serpe di Midgard’, coi nomi dei nemici cosmici dell’Edda, destinati a uccidere Odino e Thor e a ingoiare il sole e le terre al Crepuscolo degli dèi, nell’imminenza della nascita di un mondo nuovo.” (Adele Cipolla)
Sulla Tradizione e su Celine
per mettere un punto alla discussione sulla vacuità della parola (T/t)radizione credo basterebbe pensare che in nessun epoca una cultura riconosca come tradizione l’ideologia o i riferimenti culturali del periodo in cui vive. Per esistere la tradizione necessita di un passato, che in realtà non si è mai realizzato come presente, mai, ed è in questo corto-circuito che nasce la menzogna.
In merito alla citazione di Celine mi piacerebbe invece approfondiste la questione, soprattutto sui contenuti del “Viaggio” e sulla possibilità questa volta di poter scindere l’opera dall’autore.
@ Giacomo
Molto interessante quello che racconti sulla battaglia simbolica legata alla mitologia norrena. Dalle nostre parti, tra l’altro si sa poco della Resistenza norvegese. Mi viene da aggiungere che un altro tentativo di ricontestualizzazione, del tutto provocatoria, è l’ostentazione dell’iconografia nazista da parte dei punk, che associavano la svastica a uno stile esteticamente anarchico, da “marci, sporchi e imbecilli”. Non si trattava ovviamente di una risemantizzazione, dato che il messaggio era proprio: “I nazisti in realtà hanno vinto la guerra, non l’hanno persa”.
Devo invece rettificare quello che dici a proposito della Natura nell’opera di Tolkien. Perché in Tolkien la Natura non è affatto “buona”. Direi anzi tutto il contrario. Pensa a Mirkwood (Bosco Atro); pensa alla Vecchia Foresta; pensa agli animali pericolosi (lupi, ragni) che popolano foreste e montagne; pensa alla stessa foresta di Fangorn, che è un luogo tutt’altro che accogliente per gli estranei.
E’ stata una certa lettura hippie degli anni Sessanta a fornire una lettura buonista/naturista della narrativa tolkieniana, ma io credo che quella lettura si fondasse su un equivoco.
Come molti intellettuali della sua generazione e di quella immediatamente precedente, Tolkien reagiva alla trasformazione massiccia del paesaggio inglese in cui era cresciuto. Un paesaggio in cui la comprensenza tra uomo e natura era ancora possibile, ma che non era affatto un paesaggio “naturale”. Era anzi assolutamente antropizzato, nel senso che era il risultato di una precisa ideologia paesaggistica o visione estetica affermatasi tra Settecento e Ottocento (fatta di pascoli ben curati, campi arati, pecore, footpaths, laghi, etc.). La fine di quel paesaggio colpì tutta la cultura inglese: pensa ai quadri di Turner; pensa ai Pre-raffaeliti, all’Arts and Crafts, al fabianesimo più radicale. L’avversione all’industrializzazione e all’avvento dell’era delle macchine è senz’altro un tema tolkieniano, ma non già in nome della natura pura e selvaggia, quanto piuttosto di un mondo maggiormente armonico, in cui esseri umani e natura potessero convivere invece di combattersi, ovvero in cui gli uomini potessero modificare la natura addolcendo i suoi aspetti ferini, senza deturparla e violentarla. La Contea, in un certo senso, corrisponde perfettamente a quell’idea.
arrivo fuori tempo, ma vorrei aggiungere una considerazione sulla questione dei simboli. penso che oggi, nel 2011, il discorso sui simboli non possa prescindere dalle scoperte delle neuroscienze. non sono uno studioso di neuroscienze, anzi non ne so praticamente nulla. riporto solo alcune cose che mi sono state raccontate, per cui cio’ che scrivo potrebbe anche contenere delle cazzate. negli ultimi decenni si e’ capito che il pensiero consiste in una sorta di assemblaggio e manipolazione di simboli secondo certe regole. i simboli sono il modo in cui il nostro cervello codifica le informazioni che riceve dal mondo esterno attraverso la percezione sensoriale. secondo lakoff e la “teoria della mente incorporata”, le stesse “regole di assemblaggio e manipolazione” sarebbero impresse nel cervello dal mondo esterno, ma questa teoria e’ oggetto di dibattito. inoltre, se e’ vero che popoli diversi ed epoche diverse hanno prodotto simboli diversi, e’ anche vero che quando questi simboli si riferiscono allo stesso tipo di esperienze sensoriali e’ possibile “tradurre” un simbolismo nell’ altro. quello che sicuramente cambia da popolo a popolo e da epoca ad epoca e’ il prodotto dell’ assemblaggio. le regole di assemblaggio invece sembrano essere abbastanza universali.
va da se’ che, per quanto riguarda la disccussione qui sopra, sono completamente d’ accordo coi compagni wuminghi.
@ WM4
sono d’accordo, la lettura “hippie” ecologista dell’opera di Tolkien è senz’altro riduttiva, e lui non era certo un primitivista che voleva tornare alla natura selvaggia. Però la critica al “sogno prometeico” del XX secolo di sottomettere tutta la Natura alla Tecnica (un “sogno” ancora in atto) io ce lo vedo.
Il Bosco diventa “Atro” dopo l’influenza di Dol Guldur, cioè di Sauron, e la Foresta di Fangorn ha tutte le ragioni per essere un luogo poco accogliente, visto che continuano a distruggerla…
E’ anche vero che il Mondo di Tolkien è il prodotto della musica degli Ainur, una musica suonata anche da Melkor, per cui, come dici tu, non tutta la Natura è “buona”… ma ha ragione di esistere, mentre l’Uomo del XX secolo (e del XXI), come le forze del Male in Tolkien, marciano verso la sua totale sottomissione.
@ tuco
di Lakoff ho letto quasi solo i testi politico-divulgativi, dove taglia molto con l’accetta (ed è molto ‘mmericano, non so se mi spiego), ma anche così ci si può fare un’idea generale della sua impostazione. Lakoff è un linguista cognitivo, si occupa delle basi neurali del linguaggio, e il suo “pallino” sono le metafore. Nello specifico, le “metafore primarie”, che sono alla base di tutto il nostro linguaggio figurato (compresi simboli, allegorie etc.).
Le metafore primarie si formano nel nostro cervello grazie al ripetuto collegamento sinaptico tra un’esperienza senso-motoria e un’esperienza affettiva (gratificazione, delusione…).
Da qui nascono tutte le immagini che usiamo per esprimere giudizi morali in senso lato.
Es. il bambino viene applaudito la prima volta che riesce ad alzarsi in piedi, e ancor più la prima volta che cammina: beeello. Quando cade a terra, invece, si fa male: bruuuutto.
Ma ancora prima: il bambino è solo nella culla e piange: bruuuutto. Il genitore lo solleva per abbracciarlo e consolarlo: beeeello.
Il ripetuto collegamento tra l’area del cervello associata al movimento verso l’alto e quella che gode dell’approvazione spiana la strada neurale, finché quel collegamento non diventerà velocissimo, automatico, immediato.
Ragion per cui, in tutta la sua vita quel bambino adotterà la metafora primaria “movimento verso l’alto = miglioramento; movimento verso il basso = peggioramento”. La usiamo tutti i giorni: “Innalzare il tenore di vita”, “come sei caduto in basso!, “Tenere qualcuno in alta considerazione”, “la mia bassa stima per il tal critico”, “sempre più in altoooo con grappa Bocchino!” etc.
Un’altra metafora primaria è: “caldo = affetto, accoglienza, amore; freddo = ostilità, odio”. Deriva ovviamente dal tepore dell’abbraccio materno etc. “I valdesi di Torre Pellice mi hanno sempre accolto con calore”, “Il pubblico era piuttosto freddo ieri sera”, “Quella tipa è un blocco di ghiaccio” etc.
Poiché certe esperienze-base sono comuni a quasi tutti gli umani, i nostri cervelli partono con la stessa “neuroplasticità” e noi siamo animali sociali, le metafore primarie sono le stesse per quasi tutti. Sono, per così dire, degli universali. Le differenze tra singoli e tra gruppi sociali sorgono a un livello successivo, quando su quella base minima, e sotto la pressione dell’ambiente, si costruiscono architetture culturali e morali molto più vaste e complesse. A quel punto le metafore primarie vengono inquadrate in “cornici concettuali”, sistemi metaforici più elaborati.
L’esempio-cardine di Lakoff è la “nazione come famiglia”, e i due modelli ideologici principali che la articolano: quello conservatore (lo stato come “padre severo”) e quello progressista (lo stato come “genitore comprensivo”). E’ una semplificazione molto ‘mmericana, comunque utile per un’intuizione veloce del succo del discorso.
Questo mi sembra abbia molto a che fare con la creazione culturale dei simboli: i simboli non vengono creati a caso, nel vuoto, ma dentro questi schemi. Se un’immagine è troppo estranea alla cornice concettuale condivisa da un gruppo di persone, presso quel gruppo quell’immagine non verrà mai adottata come simbolo. Es. nel “frame” progressista, la cinghia (strumento del “padre severo” d’antan) non può diventare simbolo di buona pedagogia.
Questo è un riassuntino super-profano, leggendo il quale i tuoi amici neuroscienziati si metterebbero le mani nei capelli :-D
E’ interessante anche il filone della cosiddetta “neuroestetica”, che però ha giù prodotto del mostriciattolume riduzionista. Molto utile per evitare un nuovo senso comune di tal fatta è il libro Neuroestetica di Chiara Cappelletto (Laterza), che ho letto un paio di anni fa.
@Wu Ming1
Un giorno ti dirò a cosa rende vulnerabili la tua lettura tutta esclusiva e post-illuministica di espressioni che risalgono a un’antichità pre-pitagorica, il tuo esprimerti per punti che suonano come diktat e martellate e ricordano fin troppo certi ordini del giorno da cui si usciva più oscurati che da quella famosa notte nera dove tutte le vacche sono nere perchè il mondo è fatto solo di sodali o di nemici.
Un giorno, non oggi: ci vorrebbero troppe parole e sono stanco, soprattutto dell’alternativa tra silenzio e propaganda.
P.S – La lettura hippie-ecologista di Tolkien fa il paio con quella dei Campi Hobbit.
@ Valter
che ti devo dire, lo sai quali sono le differenze tra il tuo approccio e il mio. Non mi sembra che questo abbia mai avuto come effetto (figurarsi come intento!) di tapparti la bocca o pregiudicare un confronto tra noi. Anzi, i nodi li abbiamo più volte affrontati, nel reciproco rispetto.
E’ che io sono abituato a procedere con exempla, casi concreti, accadimenti riscontrati, molteplicità esperibili, anziché per vaghezze, astrazioni e maiuscole reverenziali. Non dico che tu ragioni sempre così, eh. A volte sai essere “post-illuminista” anche tu :-) Però che proprio tu, che insegni filosofia, finisca per confondere uno sforzo di chiarezza con un “ordine del giorno” di quelli che ancora sogni la notte, mi fa un pochetto specie.
Sempre con stima, lo sai.
Non sodali e non nemici. Umani.
Se non ora quando?
@ Giacomo,
a proposito della natura e di quanto vi siete detti con WM4, hai letto “Il libro dei bambini” della Byatt (che WM4 ha recensito qualche tempo fa)? Lì ci sono pagine eloquentissime, secondo me, della Natura così come potevano intenderla Tolkien e gli intellettuali inglesi della generazione precedente a lui…
urca, non vorrei aver causato involontariamente questo scazzo.
se e’ cosi’ mi dispiace, davvero. per farmi perdonare linko questo pezzetto di kusturica. mia moglie mi prende sempre per il culo dicendo che assomiglio al padre del ragazzo di “dolly bell”.
http://www.youtube.com/watch?v=Qg9XV_5-3s0#t=0m58s
Ma no, non è mica uno scazzo, e soprattutto non è cosa di oggi. E’ una vecchia querelle. Il compagno Binaghi era un freak, stava in “Re nudo”, frequentava Valcarenghi, Quattrocchi, Claudio Rocchi, quella gente là. Poi, per ipercompensazione, è diventato un simpatico “old fart” :-) Ma non si scappa: semel Hippie semper Hippie. Stephen King, in un suo racconto, dice che un aereo che vola sembra un crocifisso sospeso in aria. La cosa è reversibile: un crocifisso somiglia a un aereo. Fly, Jefferson Airplane!
Da cultrice di Tolkien, sto ascoltando l’intervento ed apprezzando assai (Ma del resto, se ne era parlato già qualche tempo fa, della cosa, se non ricordo male).
Riflettendoci, comunque, secondo me, l’appropriazione di Tolkien e del fantasy in genere da parte delle destre rientra nella più generica appropriazione da parte delle destre (Soprattutto del nazismo) dell’esoterismo, dello spiritismo, del teosofismo.
E, in quest’ottica, la questione dell’Italia, secondo me, è percepibile come puro ritardo culturale: Mussolini (che io sappia, eh!), non si interessò mai di esoterismo, a differenza di Hitler. E nel dopoguerra, mentre nel resto del mondo esoterismo, spiritismo (E la forma letteraria ad essi più vicina, ovvero il fantasy, quindi Tolkien), diventavano pane per cultori del new age, in Italia eravamo ancora allo step precedente, ovvero all’esoterismo di destra.
@Giacomo & WM4
Sulla questione “Natura” concordo in pieno con WM4. Tra l’altro, questa cosa, si vede ancora meglio, più che in Tolkien, in Lewis, nelle Cronache di Narnia, secondo me. (Tralasciando la componente dell’allegoria religiosa delle Cronache!).
Gli esseri umani corrotti (La Strega Bianca per Lewis, Isildur per Tolkien) sono stati fautori della distruzione, ma senza gli esseri umani (I quattro figli di Adamo ed Eva di Narnia, gli Hobbits -che sono quanto più simile c’è agli esseri umani, a quanto dice Tolkien, più di quanto non lo sia lo stesso Aragorn), la salvezza sarebbe stata impossibile, a meno di scegliere la via dell’isolazionismo (Quello che fanno gli elfi quando partono per l’Ovest, e Bombadil in Tolkien, ad esempio). Quindi, il messaggio finale, è di collaborazione tra uomo e natura, di equilibrio e non prevalenza dell’uno o dell’altro. (E in “Il principe Caspian”, Lewis esprime bene questo concetto quando descrive Cair Paravel com’era sotto il regno di Peter, Lucy, Edmund e Susan e com’è secoli dopo oppresso dalla natura selvaggia).
A proposito del significato di due legnetti che cadono:
http://www.youtube.com/watch?v=i7FCwhXdPII
Scusate ma, leggendo lo scambio di opinioni riguardante la croce, mi è venuto in mente Padre Pizarro:-)
@Wu Ming1 – e tutti
Sul simbolo.
Chi leggesse Susan K. Langer, Filosofia in una nuova chiave (vecchia traduzione Armando anni Settanta, mai ripubblicata), troverebbe di che pensare.
E’ un approccio molto innovativo, sempre di origine semiologica ma un po’ meno liquidatorio di quello di Lakoff. Il punto non è tanto che l’immagine si associ a un contenuto emotivo, ma che il sentimento presenti se stesso e si renda in qualche modo visibile proprio nell’immagine, che acquisisce un carattere dinamico e inesauribile (notare che la teoria della Langer nasce in sede estetica, e precisamente di estetica musicale). A differenza del simbolo linguistico, che si collega a un concetto, il simbolo che la Langer chiama “presentazionale” trae la sua universale apprezzabilità dall’empatia. Si può percepire un’immagine solo “indossandola”: ecco perchè, a differenza del concetto, essa induce esperienza, trasforma, modifica.
La metafora estende l’analogia dal sentimento all’immagine a un’altra immagine che presenta una certa omologia di struttura, ma l’origine vitale del processo rimane occultata e ciò che si deposita nel linguaggio diventa moneta corrente. Quel che è interessante in Lakoff, semmai, è il “frame”, l’idea che l’analogia attrae nella propria orbita insiemi complessi, per cui se “il tempo è denaro” allora è qualcosa che si può “investire o sperperare” ecc.
Quanto alla tradizione, essa non è altro che la storia di un simbolo, cioè quella delle sue interpretazioni. Scegliere di scriverla in maiuscolo, per me significa scommettere sull’unità spirituale del genere umano. E’ l’unica cosa che mi lega a Guenon, che per il resto è più un archeologo che un ermeneuta del simbolismo, e con quello sguardo rivolto sempre all’indietro è comunque meno divertente di Peter Kolosimo.
@ Danae
il libro della Byatt non l’ho letto, ma la recensione di WM4 sì: in effetti sembra molto interessante.
Aggiungo una breve riflessione: al di là di cosa ne pensasse Tolkien, io ritengo che un rapporto armonico fra uomo e natura presupponga anche l’esistenza di una natura selvaggia, fuori dal controllo degli esseri umani. Va bene la siepe, va benissimo il giardino, ma ci vuole anche la brughiera e la foresta amazzonica, quando invece il pensiero unico che domina il pianeta ha un solo imperativo: mettere tutto a profitto.
Il fatto è che “l’antropocentrismo è vivo e vegeto, e lotta contro di noi.” (New Italian Epic, pag. 58).
@ Valter
l’importante è che siamo d’accordo sul fatto che i simboli non pre-esistono all’umano, e che la loro storia è immanente a quella del genere umano. E che quindi due legnetti che cadono uno sull’altro senza che nessuno li veda non ci dicono alcunché, almeno non riguardo ai simboli e al loro ruolo nelle nostre vite.
Che Lakoff sia un pochetto “liquidatorio” (ma attenzione, noi qui siamo tutti dei profani, e abbiamo letto solo i suoi scritti super-divulgativi!) è vero, infatti ho parlato di un certo semplicismo “americano”.
Ma quel che dice della metafora primaria è molto, molto vicino a quel che teorizzava Furio Jesi – che di tutto può essere accusato tranne che di essere un sempliciotto o un riduzionista – sulla “connessione archetipica”: a essere “archetipico” non è un singolo elemento (un’immagine), ma la ripetuta connessione che una società stabilisce tra due immagini (es. primavera/vita, autunno/morte, sangue/vita) e questa connessione dipende dalle condizioni materiali in cui quella società vive: dove non cresceva il grano (es. sulla banchisa polare), non poteva nascere la connessione archetipica grano/pane/deità etc.
Ad ogni modo, come sai, noi cerchiamo di “giocare” Lakoff in un contesto più complesso e variegato, cercando analogie e isotopie in letture e percorsi diversi (es. Jesi, Lacan, Deleuze). Molto interessante questa lettura della Langer, che non conoscevo.
Quanto a Kolosimo, per noi era un grandissimo, e per chi non lo sapesse ne abbiamo anche scritto:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/wumingwood_prime5.pdf
Ennesimo esempio dell’anomalia italiana. Dove altro poteva nascere l’ufologia psichedelica stalinista? :-)
@ Giacomo
su questo, da vegetariano e avverso allo “specismo” quale io sono, non posso che essere d’accordo.
Curiosità: finora l’intervento di WM4 è stato scaricato/ascoltato 1.010 volte (dato delle prime 24 ore). E’ il più scaricato degli interventi della serata, comunque gli altri seguono a ruota.
mi ero dimenticato di kolosimo… ho letto, e mi e’ tornata in mente la scena finale di “dolly bell”
http://www.youtube.com/watch?v=lv1KjG28HG4#t=3m13s
(e ho pianto di nascosto)
Spero di non far deragliare la discussione con un OT, ma mi sono rimaste due considerazioni su alcuni temi emersi ieri, sia pure marginalmente:
ALCHIMIA
WM1: “Quanto al percorso alchemico, io ritengo che non porti assolutamente da nessuna parte”.
Di alchimia so davvero poco, ma secondo me qualche possibilità di “recupero” di quel materiale c’è. Penso a Marcel Duchamp, la cui produzione (i ready-made, il Grande Vetro ecc.) può essere letta, secondo alcuni, come una specie di riflessione meta-artistica sul processo creativo e artistico tutta basata su metafore alchemiche.
Forse il processo di elaborazione del “materiale simbolico” da parte di Duchamp è più affine ad una sensibilità post-moderna (citazioni sottili e dissimulazione a iosa), ma perché escludere a priori un utilizzo meno “disimpegnato” di quella tradizione (rigorosamente con la “t” minuscola)?
CULTURA AFRO-ATLANTICA ED ESOTERISMO
WM1: “Se provi a descrivere la cosiddetta “Tradizione” – cioè: la “Tradizione” del pensiero sapienziale/reazionario/esoterico – a un ex-colonizzato, o a un afro-americano, è probabile che ne coglierà subito la fortissima carica ideologica, molto prima di quanto possa fare un europeo”.
Un aspetto curioso: tra le “fonti” dichiarate della filosofia di Sun Ra ci sono due figure di riferimento dell’esoterismo europeo come M.me de Blavatsky e Aleister Corwley.
Con questo non voglio dire che l’idea di “Tradizione” possa attecchire nel milieu culturale afro-americano o post-coloniale… però capita che nel processo di re-invenzione di simboli e materiale mitologico di cui è stata capace, con immensa creatività e “ironia”, la cultura afro-atlantica, ci sia spazio anche per personaggi del genere.
E’ un po’ come l’interiorizzazione degli aspetti più superficiali della retorica nazionalista di provenienza europea da parte di Garvey, che arrivò addirittura a citare la canzone razzista “Every race has a flag but the coon” per sostenere la necessità, da parte della “Black Nation” di dotarsi di una bandiera.
Il senso di quello che voglio dire è questo, grosso modo: il rovesciamento della logica “tradizionalista” di provenienza europea si gioca più sulle modalità di re-impiego che sulle fonti utilizzate. Difficile pensare a Sun Ra come ad una specie di tradizionalista (nel senso europeo del termine) afro-americano, e basta guardare una sua performance o ascoltare un suo disco per capirlo… ciò non toglie che nel suo percorso intellettuale compaiano personaggi e idee che, ai nostri occhi, appartengono alla peggior sottocultura esoterica.
Insomma… anche qui il gioco è sempre sul filo del rasoio.
Spero di non aver scritto troppe sciocchezze :-)
* Crowley, non Corwley
@ Don Cave,
è sempre la questione del “mostrare la sutura”, del lavorare su materiali mitologici (la Sapienza, la Nigredo alchemica, l’armonia del cosmo, l’occultismo etc.) facendo capire che li stai rimanipolando. Appunto, come dici tu: creatività, riutilizzo, ricombinazione, ironia etc.
Un artista afroamericano può prendere materiali di una cultura bianca ed eurocentrica, ma lungi dall’accettarli in quanto tali (nel caso specifico: lungi dal prendere sul serio e trattare con deferenza la supposta “Tradizione”), li decontestualizza e li rovescia di segno, anche con molto sarcasmo (tonalità dominante nella produzione pantomimica, iconografica e citazionistica di Sun Ra).
Il presupposto, secondo me, è proprio la comprensione della carica ideologica che quei materiali hanno se vengono presi come un Tutto, come Mito, “nascondendo la sutura” (qui la metafora implicita è che la “macchina mitologica” sia un telaio per parti anatomiche, una macchina tessile delle manifatture Frankenstein). Io credo che un non-europeo, che vede quella cultura da fuori o dai suoi margini, possa comprenderne l’ideologia prima di un europeo. L’europeo deve *pensarci*, straniarsi, il non-europeo può coglierla subito. L’europeo è come il maschio di fronte alla discriminazione di genere: essendo colui che ne trae quotidianamente vantaggio, sovente senza neppure accorgersene, non la riconosce subito, deve fare uno sforzo.
Io, però, devo ammettere che la soluzione espressiva di Sun Ra non è la mia preferita, proprio perché troppo *postmoderna* e neo-barocca, troppo insistita (una barzelletta raccontata cento volte non fa più ridere, dixit Elio) e per certi versi… psicotica. E’ psicotico l’uomo comune che si crede Napoleone, ma ancor più psicotico è Herman Blount che si crede Sun Ra (direbbe Lacan).
Sun Ra non interrompe mai la messinscena, non esce mai dal personaggio, non chiude il circuito, non allenta mai il piede sul pedale dell’ironia. Dall’inizio alla fine, continua ad aggiungere materiali a una costruzione barocca in cui c’è il “tutto-pieno”: ogni spazio rimasto libero viene invaso, ogni fessura è inesorabilmente riempita di poltiglia mitologica (in fondo non dissimile dalla “pappa” di passato di cui parla Jesi in Cultura di destra).
L’intento è ancora riconoscibile, la sutura ancora si vede, ma il risultato ai miei occhi è stancante, estenuante, e quindi, nel complesso, inefficace (non mi riferisco alla musica, sia chiaro).
P.S. è chiaro che quando ho scritto che il percorso alchemico “non porta da nessuna parte”, mi riferivo al percorso intrapreso “con tutti i crismi”, cioè *credendoci*.
@Don Cave
Tornando in Europa, mi pare che Crowley piacesse pure ai Beatles (che lo inserirono tra i volti delle persone che ammiravano nella copertina di Sgt Pepper) e a Jimmy Page, personaggi che certo non sono fautori della Tradizione.
Perdonate l’OT, ma pur restando fieramente scettico, l’occulto mi affascina e mi spaventa (anzi mi affascina proprio perchè mi spaventa) e dal punto di vista antropologico è sicuramente una cosa interessante.
Scusate ancora
@WM1
Azzardo una lettura leggermente diversa di Sun Ra: tu dici che “non esce mai dal personaggio”. Secondo me, ciò accade perché il “personaggio”, in questo caso, coincide con la “sutura”, che rimane visibile proprio perché c’è chi se l’è caricata sulle spalle per tutta una vita arrivando, alla fine, ad identificarsi con essa.
Il “personaggio” Sun Ra sarebbe quindi la sutura, visibile e quasi esibita, del processo mitopoietico che sta alla base della sua Astro-Black Mythology.
Sono d’accordo che un comportamento del genere sia sulla soglia della psicosi… sono d’accordo anche sul fatto che il risultato possa risultare talvolta estenuante – e mi riferisco anche alla musica, che in alcuni casi raggiunge delle vette di saturazione un po’ eccessive.
Però “incarnare” fino in fondo la sutura secondo me ha come rischio pressoché inevitabile un esito del genere. Per altri artisti afroamericani – per non parlare di decine di migliaia di individui comuni – il fatto di vivere una vita da “inesistenti” o “invisibili” (è questo il senso della negazione, da parte di Sun Ra, di essere un “terrestrial being” o addirittura di essere mai nato), ha significato schiavitù, droga, alcolismo, marginalità sociale…
Per Herman Blount la reazione a tutto questo ha significato, fra le tante cose, crearsi una nuova identità (ossia farsi carico fino in fondo della propria “inesistenza”), praticare l’obiezione di coscienza durante la II Guerra Mondiale (con tutte le conseguenze che una scelta del genere implicava all’epoca), elaborare una visione mitico-cosmologica “rovesciata” facendo bricolage con elementi tra i più disparati ed eterogenei… e, last but not least, tenere in piedi per trent’anni (!) una big band, che per giunta gli è sopravvissuta.
Per questo, non me la sento di sottoscrivere la tua sostanziale stroncatura della sua soluzione espressiva. Secondo me il caso di Sun Ra può insegnare qualcosa sui rischi e le dinamiche concrete del lavoro sul materiale mitologico in condizioni “critiche”, quali potevano essere quelle di un nero americano cresciuto a Birmingham, Alabama (la città più segregata degli USA) nel periodo fra le due guerre, costretto per tutta la vita a “inventarsi” un’identità nuova e a difenderla contro i continui tentativi di ridicolizzazione da parte della critica.
@ WM1
Mi ero azzittito dopo il tuo richiamo, ma noto che si continua. Allora mi permetto di chiederti: perché il percorso alchemico non porta a nulla credendoci? So che è una tua semplice opinione e che sei un materialista convinto, ma lo dici perché non credi in genere nei percorsi spirituali o c’è qualcos’altro?
Il percorso alchemico non ha nulla di così diverso dai tanti percorsi di conoscenza del micro- e del macrocosmo. Tagliando con l’accetta: si entra in se stessi, si trova la propria essenza separandola dal corpo e poi, importantissimo, la si ricollega al corpo, altrimenti saresti un mistico totalmente scollegato dalla realtà terrena. Quello che a me ha stupito è che non si discosta neanche da ciò che io facevo da sempre, dandomi qualche indicazione ulteriore e confortandomi sul fatto che evidentemente sono sempre stato sulla buona strada, su una di quelle strade che l’uomo percorre da secoli.
So che rischio di aver banalizzato, la mia dialettica non è così raffinata. Prova a fare uno sforzo e capire ciò che dico.
A proposito dell’altra faccia dell'”alchimia”, conoscete lo scrittore Luciano Parinetto?
Vi segnalo “FAUST E MARX. Metafore alchemiche e critica dell’economia politica. Satura inconclusiva non scientifica” (Pellicani 1989)
Un alchimista perseguitato dalla Chiesa, citato anche da Engels in “Il socialismo dall’utopia alla scienza” come precursore della dialettica materialista, è il tedesco Jacob Bohme.
“La vita consiste nella lotta: così si fa manifesta e sensibile, così la saggezza viene distinta e conosciuta” (J. Bohme, “La vita sovrasensibile”)
@ Giacomo,
sulla natura son d’accordo con te (tanto che sono vegetariana)!
[Sul diktat a “soggiogare” la natura che certa parte di cristianesimo fa discendere dritto dritto dalla Creazione, invece, ci sarebbe da aprire un OT infinito]
@ danae, giacomo e wm1
buñuel su cristianesimo e vegetariani :-)
http://www.youtube.com/watch?v=mPjlxVsAngU#t=2m05s
(io pero’, da balkanisches schwein, alla carne non riesco proprio a rinunciare)
Anch’io da buon abruzzese alla carne d’agnello e agli arrosticini non rinuncio.
@WM1: mi chiedo come fai a non toccare più un piatto bolognese! cavolo, mettete lo strutto anche nel pane!!
@ Don Cave
se dici che è utile anche come monito, perché indica i rischi oltre alle possibilità, allora sono d’accordo. Più in generale, l’Artista-che-diventa-egli-stesso-la-“sutura” mi sembra un percorso troppo rischioso, e potenzialmente ri-feticizzante. La mia comunque non era in assoluto una stroncatura, ho riconosciuto a Sun Ra la piena riconoscibilità dell’intento.
@ Kulma
Per le mie convinzioni e la mia sensibilità, una frase come “si trova la propria essenza separandola dal corpo” è inaccettabile e al 100% non-sense, ma insomma, che vuoi che ti dica? Buon pro ti faccia. Se è una cosa che ti aiuta in qualche modo…
@ Giacomo
Parinetto usa l’alchimia in senso figurato, come metafora e come metonimia. In soldoni, ricorre a essa per nominare una “parte rimasta fuori” (cioè: fuori dalla sistemazione scientifica), che a sua volta sta per la parte di mondo non riducibile alla logica del capitale. L’alchimia sarebbe allora il nome di comodo della “cattiva coscienza” della scienza asservita al capitale. “Alchimia” indicherebbe un’attenzione per il qualitativo che è stato rimosso a favore del quantitativo. Da qui il parallelismo tra Marx e gli alchimisti, entrambi produttori di teorie che hanno una parte “eccedente” rispetto al sapere capitalistico. Parallelismo che risulterebbe rafforzato dal reperimento di metafore alchemiche negli scritti di Marx.
Mah. Una proposta a suo modo interessante, benché per me non esattamente imprescindibile. E comunque, Parinetto mica vuole farci intraprendere un percorso iniziatico interno all’alchimia.
E che alcuni alchimisti abbiano avuto alcune intuizioni poi confermate dalla scienza a venire, e formulazioni filosofiche in cui possiamo riconoscere pròdromi di ciò che si sarebbe pensato in seguito, beh, sì, anche loro si collocano nel percorso dell’evoluzione della conoscenza. Si procede a tentoni.
@ Kulma
basta mangiare “pane comune” :-)
Dato che ormai il tema sta spopolando… anche Sun Ra era vegetariano, e sottolineava ad ogni pie’ sospinto l’importanza di mangiare “purple food” :-D
@ Giacomo, @ WM1, @ EveB., @ danae
Difficile in questo thread capire cosa sia OT :-). Si sta spaziando in lungo e in largo: simbolismo, jazz, vegetarianesimo, ent,… E va benissimo così.
Provo allora a riprendere le fila sulla natura in Tolkien e a fissare un punto.
La Terra di Mezzo è precisamente un luogo in cui convivono una natura selvaggia e aree più antropizzate (come ad esempio la Contea). E non è un mondo antropocentrico, bensì in via di antropocentrizzazione. Quella di Tolkien è una natura vivente che esprime una propria molteplice soggettività, non necessariamente buona o cattiva: gli Ent, le foreste vive, gli animali intelligenti (aquile, corvi, cavalli, ma anche ragni, lupi, Warg), l’uomo-orso Beorn, etc.
Proprio questo in realtà è, secondo me, il vero elemento pagano a cui Tolkien rimane affezionato.
Da qui l’idea che con l’avvento del dominio degli uomini (moderni) qualcosa andrà perduto per sempre. Non solo la bellezza artistica degli Elfi, ma anche la soggettività della natura con cui gli Elfi erano maggiormente in sintonia, appunto. Gli alberi semoventi della foresta di Fangorn diventeranno alberi fissi, immobili, cioè alberi e basta. La natura si cristallizzerà e diventerà sempre più qualcosa da usare, da cui trarre profitto e basta.
La lettura “green” dell’opera di Tolkien ha quindi più di una ragione di esistere, anche se non ha sempre prodotto testi inattaccabili. A un saggio brillante ma di taglio pesantemente new age come “Defending Middle-Earth – Tolkien: Myth and Modernity” di Patrick Curry fa da contraltare un saggio più serio e strutturato come “Ents, Elves, and Eriador – The Enviromental Vision of J.R.R.Tolkien” di Matthew Dickerson e Jonathan Evans (di prossima traduzione presso Marietti). Tanto per dare due titoli.
Allargando lo sguardo, non si può non ribadire che la nascita e lo sviluppo della narrativa fantastica e di quella per l’infanzia, in Gran Bretagna, sono strettamente connessi con il problema del rapporto uomo-natura. Problema che la rivoluzione industriale poneva in anteprima ai britannici del XIX secolo e della prima metà del XX. Proprio il giardino – un vero topos dell’immaginario inglese, ai limiti dell’ossessione – rimanda all’idea di una natura ordinata dall’uomo, della quale l’uomo deve prendersi cura. Il giardino è il punto d’incontro tra il mondo rigidamente razionalista vittoriano e post-vittoriano e il mondo naturale. Spesso infatti nella letteratura dell’epoca, il giardino è la porta, l’anticamera o anche lo specchio del mondo fatato, del mondo capovolto.
E’ così anche in Tolkien. Quello che si rivela essere il vero protagonista positivo del Signore degli Anelli, Sam Gamgee, è un giardiniere; una delle passioni degli hobbit è quella di curare aiuole e siepi. E proprio un’alta siepe è il confine della Contea, che altro non è se non un grande giardino oltre il quale gli eroi dovranno avventurarsi nelle Terre Selvagge. Il giardino è l’interfaccia tra la casa/tana e la natura allo stato brado, tra il nostro mondo e quello capovolto. E’ il tentativo di razionalizzare la natura, la quale però non potrà mai essere domata una volta per tutte. La cura del giardino infatti è un’attività perenne.
I soldati britannici della Prima Guerra Mondiale costruivano giardini di fango nelle trincee, simulando i fiori con pezzi di filo spinato. Era un modo di mantenere un legame con la propria casa e di mantenersi legati alla vita, prendendosi cura di qualcosa che – almeno nell’immaginazione – cresceva.
Humphrey Carpenter, il biografo di Tolkien, scomparso qualche anno fa, ha scritto un saggio molto interessante sul rapporto tra la nascita del libro dei bambini e il giardino: “Secret Gardens – A Study on the Golden Age of Children’s Literature”, dove prende in esame tutto quel filone letterario: “Phantastes”, “Alice nel paese delle meraviglie”, “Winnie the Pooh”, “Peter Rabbit”, “Il vento nei salici”, “Peter Pan”, etc. etc. Carpenter sostiene che in quelle opere emerge una critica implicita alla società contemporanea, ai suoi valori politici, etici, religiosi, che si concretizza nella ricerca di paesaggi immaginari: giardini segreti, foreste viventi, animali antropomorfi, regni incantati.
Di fronte a quella meravigliosa ondata letteraria erano possibili due atteggiamenti opposti. Esaltarne l’aspetto “escapista” o individuarne la potenzialità di critica e alternativa al dato. Il romanzo della Byatt, infatti, parla proprio di questo doppio binario.
E’ evidente che a me personalmente interessa indagare soprattutto il secondo aspetto, perché trovo che in quella critica così precoce fossero contenuti alcuni elementi e intuizioni che tornano utili oggi.
stavo pensando che un esempio molto interessante di come lo stesso oggetto materiale abbia prodotto simbolismi diversi nelle varie culture e’ il treno (che sicuramente non appartiene a un mondo ancestrale :-)). e il treno, nella cultura afroamericana, ha un ruolo centrale.
@ tuco
verissimo! In Europa, in certi contesti discorsivi, il treno è simbolo della deportazione nei lager. Nella cultura afro-atlantica, quel ruolo lo ricopre la nave (la nave negriera della “tratta”). Invece, nei testi blues il treno è una ricchissima allegoria aperta: è la vita stessa (con le sue fatiche, le sue tribolazioni, i suoi stravizi), è il viaggio o la possibilità del viaggio, è l’amore che se ne va (Love In Vain di Robert Johnson), è la conquista della gnocca (Train Fare Home di Muddy Waters)…
@WM4
l’attività perenne sulla natura può avere anche una chiave di lettura estetico-cristiana? cioè il giardino, oltre che domare la natura selvaggia (e quindi ostile) armonizzandola, può essere anche inteso come abbellimento della Creazione? i giardini degli hobbits, a mio modo di vedere, sono una similitudine delle Terre Imperiture
@tuco @WM1
anche nella musica reggae o dub e nel suo riflesso europeo, sia nel nome di alcuni gruppi (es. Zion Train) o di alcune canzoni.
Il treno diventa, in alcuni casi, addirittura metafora della globalizzazione come negli italianissimi 99 Posse.
Tra i primi gruppi early reggae/ska negli anni sessanta uno dei singoli più famosi era “Train to Skaville” dei The Ethiopians . Senza contare quanto è stato usato il treno nel cinema…
@ Dubmilitant
Suppongo di sì. Il giardino ha senz’altro anche un richiamo cristiano. Non saprei esprimermi però sulla similitudine tra i giardini hobbit e il Reame Beato. I custodi dell’armonica bellezza del mondo originario sono piuttosto gli Elfi. Il giardino hobbit è un giardino molto borghese, forse anche vagamente agricolo, dato che subito oltre l’aiuola iniziano i campi coltivati. Ha una sua utile bellezza. E questo è dannatamente inglese, tra l’altro.
Un legame “vegetale” con Valinor è invece immediatamente offerto dall’albero di Gondor, ovvero dal virgulto discendente dal Più Antico degli alberi che alla fine Aragorn trapianta nella Cittadella.
Sul treno bisogna ricordare che in origine fu soprattutto un mito di progresso e una metafora dell’inarrestabile sviluppo tecnologico moderno (tant’è che Sergio Leone in “C’era una volta il West” riesce a trasformarlo nella metafora del capitalismo che avanza a conquistare le terre brade).
Giosuè Carducci, Ode a Satana, 1863
vv.169-184
Un bello e orribile
Mostro si sferra,
Corre gli oceani,
Corre la terra:
Corusco e fumido
Come i vulcani,
I monti supera,
Divora i piani;
Sorvola i baratri;
Poi si nasconde
Per antri incogniti,
Per vie profonde;
Ed esce; e indomito
Di lido in lido
Come di turbine
Manda il suo grido
Vent’anni prima, 1844, J.M.W. Turner: “Rain, Steam and Speed – The Great Western Railway” (oggi alla National Gallery di Londra).
questi invece sono woody guthrie e sonny terry
http://www.youtube.com/watch?v=A4ldxb0iGHc
du-dùm du-dùm. da qualche parte ho letto che viene dall’ africa, e probabilmente e’ vero. io pero’ fin da piccolo ci ho sempre sentito il rumore del treno (negli anni ’70 c’erano ancora le rotaie corte, con la giuntura che faceva proprio quel rumore li’, quando le ruote ci passavano sopra)
E comunque… è tempo d’azione!
http://www.guerrillagardening.it/idee.htm
Per chi fosse interessato all’aggiornamento o volesse usare le cifre tipo Smorfia: nelle prime 48 ore l’intervento di WM4 è stato scaricato/ascoltato 2.222 volte.
Complimenti davvero per le relazioni a entrambi. Riguardo ai contenuti, mi trovate sostanzialmente d’accordo. Avrei solo una riflessione da fare sul concetto di Tradizione: premetto anche che
sul tema non ho fatto particolari ricerche quindi potrei dire inesattezze.
Io ho l’impressione che l’idea di Tradizione che qui si critica sia un
prodotto della modernità, che nasce come negazione del mito del Progresso e
del Progressismo. Entrambi sono figli di un pensiero che vede nella storia
un prima (migliore/peggiore) e un dopo (peggiore/migliore). Questa idea così
netta è sostanzialmente assente nel pensiero greco e medievale (ovvio che in
entrambi c’è il tema della caduta e dell’età dell’oro, ma sono epoche
astoriche). Insomma, per parafrasare Wu Ming 1 “Il Progresso è pura
supercazzola premeditata con scappellamento all’estrema sinistra”.
Io personalmente penso che il vero “iato” nella cultura occidentale sia
nella radicale diversità tra gli Antichi e i Moderni: la modernità è davvero
qualcosa che rompe alla radice gli schemi del passato sia in filosofia
(dualismo cartesiamo anti-realistico) che in politica (nascita dello Stato
moderno) ecc…. Ma qui il discorso si fa lungo.
Volevo però aggiungere che
esiste un altro concetto di tradizione che grosso modo ci dice: il passato
non è necessariamente inferiore al presente e non è tutto da buttare
(modernità/progresso) ma contiene elementi ancora validi. Questa idea si
declina in filosofia nel concetto di auctoritas (che nulla ha a che vedere
con l’idea corrente di “dogmatismo” con la quale gli illuministi hanno
oscurato buona parte della storia medievale) e in teologia con l’idea del depositum
fidei, ovvero che per il cattolicesimo le due fonti della rivelazione sono
Sacra scrittura E Tradizione (Per i protestanti c’è solo la prima).
Claudio
@ Wu Ming 4 : “Proprio il giardino, un vero topos dell’immaginario inglese, ai limiti dell’ossessione…”
All’inizio degli anni ’90 fui ospitata a Cambridge da alcuni amici. La loro casa, arredata e dipinta con uno stile tipicamente inglese, era abbellita da un delizioso giardino interno delimitato da muri in mattone. Tutte le case di quel quartiere presentavano un giardino simile. Ricordo che il padrone di casa, ad un certo punto, mi disse:” Nessuno comprerebbe una casa senza giardino qui da noi, ma soprattutto… abitazioni del genere non vengono proprio costruite!”. Hai ragione, si tratta di un vero e proprio topos.
P.S.
Suppongo che tu conosca a memoria il romanzo per ragazzi *Il giardino segreto* della scrittrice americana, ma inglese di nascita, Frances H. Burnett.
Buongiorno a tutti.
Secondo me se uno vuole dedicarsi alla mistica islamica, al valentinismo, al pantheon norreno o a qualche altro bizzarro settore del trascendente può farlo (io lo faccio con gusto e profitto). Se proprio ci tiene può anche pensare che tutte queste cose rimandino a una fantomatica Tradizione con T maiuscola.
Quello che mi chiedo è se questa Tradizione debba per forza aver qualcosa a che fare con (o entrare a far parte di, o influire su) il pensiero politico della sinistra (anzi dai, con la Sinistra!). Mi par di no. Una delle nostre conquiste è una politica immanente, e non è cosa che vada svenduta. Questo non significa che non ci sia spazio a sinistra ANCHE per un ragionamento spirituale: ma in questo senso mi sembra sia meglio indagare nella direzione indicata da Tronti (in un intervento linkato da Wm1 qualche tempo fa) piuttosto che inseguire i fasci sul terreno a loro caro dell’esoterismo da strapazzo.
Ps
A proposito di alchimia, avete mai notato che le ricette di Benedetta Parodi sembrano uscite da un testo alchemico settecentesco?
Pps
@Tuco: el mio intervento trasposto nele poste de Trieste. “Signora, no se podessi usar la Tradizion nel nostro pensiero politico?”. “No, no se pol”.
Allora ri-linko Tronti sulla spiritualità, per i molti che certamente non conoscono quell’intervento:
http://www.cdbchieri.it/rassegna_stampa_2007/tronti_spiritualita.htm
Si, il giardino per gli inglesi è stato anche un buon mezzo per dimostrare una certa idea di dominio dell’uomo sulla natura… il suolo e il clima inglese producevano ben poco a livello botanico e quel che si vede ora è frutto di una manipolazione incessante, dell’introduzione massiccia di specie importate, della creazione di modelli ‘mitici’ come il pratino e le bordure. E credo anche che l’infanzia sia stata considerata spesso alla stregua di un giardino ‘da coltivare’, ridurre alla ragione, ecc. In fondo la parola ‘nursery’ indica sia il posto dei bambini che un vivaio! Un messaggio ambiguo quindi: la natura da addomesticare e la natura selvaggia minacciata dall’industrializzazione?
@Wm1. Grazie! :)
@ zimisce
a s. sergio: “coss’ te disi ciano, no se podessi usar la Tradizion nel nostro pensiero politico?” “m’ ‘oss t’son mona?”
@ Claudio Testi
pardon, nel marasma non mi ero accorto del tuo commento.
Punti di accordo, di perplessità e di disaccordo:
Accordo: che la cesura fondamentale sia rappresentata dalla modernità, non ci sono dubbi (anche se non tutti sono d’accordo sul dove farla iniziare esattamente, ma è un dettaglio).
Perplessità: da dove siamo collocati noi moderni, mi appare come minimo riduttivo dire – ehm, relativisticamente? – che gli “antichi” o la gente del “Medioevo” stessero soltanto diversamente da noialtri.
Noi possiamo studiare i dati di quelle esistenze e gli accadimenti di quelle epoche, possiamo studiare le opere scritte e figurative prodotte in quelle società, ma non possiamo immedesimarci in toto con quelle persone. Non possiamo esperire davvero quelle mentalità. Noi possiamo solo ragionare *da moderni*, perché quello è il nostro dato ambientale, siamo creature della “cesura”.
Ebbene, *da moderno* io dico che quelle erano società brutali ed escludenti in cui pochissime persone avevano accesso al sapere, in cui le donne erano ritenute inferiori e trattate come tali, in cui c’erano ovunque schiavitù e servaggio, in cui si veniva torturati e ammazzati se si avevano idee diverse da quelle conformi al potere (civile o religioso che fosse), in cui si moriva di malattie oggi innocue, in cui la mortalità infantile era la norma e la sopravvivenza era l’eccezione “darwiniana”, in cui la media d’età era bassissima etc. etc.
In questo io – con tutte le critiche feroci che comunque faccio al mondo contemporaneo – difendo la carica emancipatrice della modernità.
Le emancipazioni che oggi sono per noi “dato ambientale” non sono arrivate da sole, calate dall’alto: sono le conquiste di dure lotte. Ecco, per me la modernità è soprattutto questo, un brulicare di lotte. E la distinguo con forza dal capitalismo. Il fatto che modernità e capitalismo siano storicamente, strettamente connessi non significa che vadano appiattiti l’una sull’altro. La modernità *eccede* la sua realizzazione capitalistica, che infatti, se assecondata in toto nella sua logica, restringe le libertà e i diritti che la modernità ha conquistato.
Quindi, nella storia umana un certo miglioramento (relativo, contrastato, parziale, sempre rimesso in gioco, sempre da difendere) secondo me si vede. La lotta paga. Lo vedo in primis nel mio albero genealogico.
Prima della modernità la mia “stirpe” era certamente costituita da infimi servi della gleba e/o “underclass” palustre. Gente analfabeta, che travagliava e tribolava a capo chino, e moriva giovane e consunta.
Grazie alla spinta emancipatrice suscitata dalla modernità, progressivamente la mia famiglia si è liberata di quelle catene: da servi son diventati salariati (braccianti), hanno fatto le lotte e gli scioperi, hanno conquistato piccole fette della torta, e grazie a quelle affermazioni di dignità io sono il primo laureato di quel lignaggio, e oggi sono qui a discutere con te se nella storia esista un “progresso”.
Accordo: la credenza, sub-positivistica, in una storia che si srotola linearmente e coerentemente (insomma il mito del “Progresso” con la p maiuscola) fu una credenza ingenua, una rappresentazione che riduceva la complessità in modo affabulatorio, addirittura ipnotico.
Disaccordo: non si è certo trattato di uno “scappellamento all’estrema sinistra”, a meno di non voler includere nella definizione tutto il pensiero liberale e gran parte della borghesia del XIX e XX secolo. Era un mito condiviso. E oggi, se sopravvive da qualche parte, non è certo “all’estrema sinistra”, dove il marxismo critico e la filosofia radicale hanno concezioni ben più complesse (a volte anche troppo) del rapporto tra essere, tempo ed evento, ed esprimono critiche dello “sviluppo”.
Se quel Mito sopravvive da qualche parte, sopravvive nell’ideologia capitalistica, in quello che qualche anno fa veniva chiamato “pensiero unico” (e che forse, si spera, oggi non è più tanto incontrastato): il Mito del Progresso sopravvive nel feticismo della “produttività”, del PIL, dell’aumento dei consumi. E’ uno “scappellamento” da supercazzola, sì, ma non certo all’estrema sinistra :-)
[…] Il Tolkien immaginario dei fascisti italiani, di Wu […]
Wu Ming 1 ha scritto
>Accordo: che la cesura fondamentale sia >rappresentata dalla modernità, non ci sono >dubbi (anche se non tutti sono d’accordo >sul dove farla iniziare esattamente, ma è >un dettaglio).
Ok.Io però con il io intervento volevo solo dare un piccolo contributo alla discussione che verteva sulla tradizione. E volevo solo dire che la discussione mi pareva completamente dentro un paradigma moderno (Progresso vs/ Tradizione), mentre esiste anche un diverso concetto di tradizione proprio della pre-modernità e che è diverso da quello evoliano, tutto qui.
>Perplessità: da dove siamo collocati noi >moderni, mi appare come minimo riduttivo >dire – ehm, relativisticamente? – che >gli “antichi” o la gente del “Medioevo” >stessero soltanto diversamente da >noialtri.
>Noi possiamo studiare i dati di quelle >esistenze e gli accadimenti di quelle >epoche, possiamo studiare le opere scritte >e figurative prodotte in quelle società, >ma non possiamo immedesimarci in toto con >quelle persone. Non possiamo esperire >davvero quelle mentalità. Noi possiamo >solo ragionare *da moderni*, perché quello >è il nostro dato ambientale, siamo >creature della “cesura”.
Su questo non saprei dire: io credo che il lavoro storico sia appunto cercare di capire come nelle epoche passate si viveva. Quando dici “Non possiamo esperire davvero quelle mentalità”, se col “davvero” intendi che è difficoile capirle, sono daccordo. Se intendi che sia impossibile, meno. Tanto per fare un esempio, Tolkien era uno che “davvero” riusciva a cogliere e ragionare come gli autori medievali, per quanto anche in lui le riflessioni erano ovviamente influenzate dalla modernità. Un altro Inklings con la medesima capacità è Barfield: il suo studio “Salvare le apparenze” è davvero impressionante per come riesca a rendere il diverso concetto di parola e simbolo nell’età pre-moderna.
>Ebbene, *da moderno* io dico che
Qui mi pare che si entri in un discorso più di giudizio storico, che in alcuni punti condivido ma non in tutti. Mi permetto di commentare i vari elementi introducendo alcune “fonti” che a me hanno fatto vedere le cose diversamente, giusto per confrontarsi. Anche se ripeto non era né è mio intento entrare sul tema di un giudizio sulle epoche passate.
> erano società brutali
Codivido punizioni fisiche pesanti erano un pratica normale.
> ed escludenti in
> cui pochissime persone avevano accesso al > sapere
Però c’era grande attenzione nell’educare il popolo (le cattedrali come biblioteche di pietra), i dotti facevano le loro prediche e dispute in pubblico e le università nascono proprio dal basso (e fuori dal clero), da studenti che desideravano contattatre bravi professori per sapere, e cacciavano pure i professori scadenti: Bologna ne è un esempio.
>, in cui le donne erano ritenute inferiori >e trattate come tali,
A me questo non risulta. La condizione della donna peggiorò molto con dal Rinasciemento: su questo la Pernod ha fatto studi importanti. Del resto, sempre per stare dalle nostre parti, Matide di Canosso fu una regina che pianto’ letteralmente il marito per tornare nella sue terre e riuscì a piegare Enrico IV. E questa non è un’eccezione (Maria di Francia in letteratura, Ildegarda di Binghen in teologia sono altri nomi che mi vengono in mente al volo)
> in cui c’erano ovunque schiavitù e >servaggio,
Marc Bloch ha invece dimostrato che nel Medioevo la schiavitù scomparì.
>in cui si veniva torturati e ammazzati se >si avevano idee diverse da quelle conformi >al potere (civile o religioso che fosse)
Verissimo ed esecrabile. Però la cosa non pare esclusiva dell’età di mezzo: vedasi pena di morte in Cina e USA oggi.
>, in cui si moriva di malattie oggi >innocue, in cui la mortalità infantile era >la norma
Vero: Mollat ha dimostrato che proprio per l’arretratezza medica, le epidemie si diffondevano in maniera esponenziale (cfr. la peste del 1348)
>Quindi, nella storia umana un certo >miglioramento (relativo, contrastato, >parziale, sempre rimesso in gioco, sempre >da difendere) secondo me si vede.
Qui il tema è enorme. Ci sono alcuni “fatti” indubbi: i progressi della scienza e della medicina, e i regressi della condizione ambientale. Aggingerei anche il regresso della condizione umana (l’uomo divene “animal laborans” per dirla con la Arendt) ma qui la cosa è ovviamente opinabile.
>da servi son diventati salariati
>(braccianti), hanno fatto le lotte e gli >scioperi, hanno conquistato piccole fette >della torta, e grazie a quelle >affermazioni di dignità io sono il primo >laureato di quel lignaggio, e oggi sono >qui a discutere con te se nella storia >esista un “progresso”.
Anche i miei nonni erano contadini che lavoravano come braccianti: mai tornerei (né riuscirei) a fare la loro vita. Però mi permetto di dire che i “servi della gleba” avevano rispetto ai giovani d’oggi il vantaggio (tra i tanti svantaggi) di non poter di principio essere “precari” perché paradossalmente legati alla terra per sempre.
>Disaccordo: non si è certo trattato di >uno “scappellamento all’estrema sinistra”, >a meno di non voler includere nella >definizione tutto il pensiero liberale e >gran parte della borghesia del XIX e XX >secolo.
Hai ragione. E’ che il riferimento all’estrema sinistra mi veniva bene con la citazione fantozziana ;-) Il progresso è un mito condiviso proprio da quasi tutta la modernità, sia liberale che di sinistra.
>Se quel Mito sopravvive da qualche parte, >sopravvive nell’ideologia capitalistica, >in quello che qualche anno fa veniva >chiamato “pensiero unico” (e che forse, si >spera, oggi non è più tanto >incontrastato): il Mito del Progresso >sopravvive nel feticismo >della “produttività”, del PIL, >dell’aumento dei consumi.
Condivido. Io direi che, a parte pochissime eccezioni (che però si stanno pian piano allargando: dall’econima della descrescita alle nuove propsttive economiche di Sen e in parte anche del nostro Zamagni) il mito dello sviluppo è ben espresso dal culto del PIL.
> E’ uno “scappellamento” da supercazzola, >sì, ma non certo all’estrema sinistra :-)
Hai ragione, come ti ho detto. Ma d’altra parte i narratori siete voi: attendo vostra immagine più efficace ;-).
@ Claudio Testi
E’ vero che Barfield e Tolkien riuscivano a entrare nei meandri della mentalità di certi autori medievali (e perfino a ragionare sull’ipotesi di un linguaggio olistico originario, come nella “teoria dell’unità semantica” di Barfield). Tuttavia non dobbiamo commettere l’errore né di pensare che la condizione medievale possa essere fino in fondo esperita attraverso le opere letterarie e il linguaggio, né che questa capacità degli Inklings non fosse comunque influenzata dalla loro condizione di moderni.
L’esempio che posso fare in questa sede, dove si è discusso del testo da me curato “Il Ritorno di Beorhtnoth”, e che quindi risulterà comprensibile anche ai non tolkieniani che seguono questo blog, è proprio l’interpretazione che Tolkien dà del poema di Maldon. A detta dei germanisti contemporanei, Tolkien sovradimensiona la portata critica contenuta nel termine “ofermod” usato dall’anonimo poeta. Pretendendo di restituire al termine l’accezione originaria medievale, in realtà Tolkien si spinge “too far” (T. Shippey), calca troppo la mano, e quella che era probabilmente un critica implicita, accennata, diventa talmente esplicita nella sua traduzione da cambiare di segno all’intero poema. Questa forzatura è dettata da istanze moderne, oltreché cristiane, ovvero da istanze etiche, politiche e culturali del presente.
Mi permetto di aggiungere qualcosa anche sulla questione passato/presente.
Nel mondo medievale l’accesso all’istruzione era privilegio di pochi. E’ vero che le cattedrali erano incredibili biblioteche di pietra, ma quanti invece sapevano o potevano leggere un libro? E quanto libera era l’interpretazione di quelle storie impresse nel granito?
Idem dicasi per la condizione della donna: non vale portare ad esempio le nobildonne medievali. Non è giudicando la condizione di un’élite di aristocratiche rimaste famose per aver fatto politica o poesia che si può desumere la condizione della donna nel Medioevo. E qui si torna al discorso di cui sopra, cioè al rischio di confondere la parte per il tutto: la “biblioteca di pietra” per l’accesso diffuso al sapere, o peggio, la servitù della gleba, l’essere ceduti o ereditati come alberi insieme ai poderi, con una condizione preferibile alla “precarietà” contemporanea. De Turris & company senz’altro rimpiangono quel bel tempo perduto, ma come si diceva all’inizio di questo thread, possiamo star certi che se avessero la macchina del tempo non si infilerebbero mai nei panni di un servo della gleba, ma sempre di un ispirato e cavalleresco signorotto dedito alla guerra e alla poesia :-).
OT (dato che sto rispondendo a Claudio Testi ne approfitto per fargli una domanda): a me non risulta che nella Terra di Mezzo ci sia servitù della gleba. La parola “servi” è sempre attribuita alla parte di Sauron. O sbaglio?
@WM1 e Claudio Testi (… vabbè anche a tutti gli altri :))
Tre considerazioni:
1 Io non sono un gran fautore della modernità, soprattutto dell’industrializzazione e di tutte le conseguenze che ha portato. Sul fatto di separarla dal Capitalismo ho qualche dubbio. Condivido le risposte di Claudio a WM1. Le società del passato (pre-moderne) di norma vengono presentate come buie, ingiuste, nefaste, dominate dai pochi e subite in modo doloroso dai molti. E’ un’esagerazione, complementare a quella dei “bei tempi andati”, che vede nel passato un eden perduto. Non credo in una linearità e direzionalità della storia. O forse c’è, ma è sicuramente sovrapposta ad un andamento ciclico.
Per quanto riguarda l’igiene mi viene in mente, spero di non sbagliarmi, di aver letto anni fa sulla storia d’Italia di Montanelli che dopo la caduta dell’impero romano le popolazioni “camparono di rendita” grazie alle infrastrutture romane (come le fogne) che tennero botta per un po’ finchè, senza manutenzione, si rovinarono. E da lì ci fu un aumento di malattie e pestilenze. Ciclicità…
2 Non prendetemi per Mengele :) ma i miei sono dei dubbi. Questo “arrestare” o “contratstare” la selezione naturale, cercando in qualche modo di far sopravvivere tutti, non porta con se anche effetti negativi? Se si studia il numero di individui della popolozione negli animali (è lo stesso, mi pare, anche neglia altri regni) si può constatare che ha un andamento sinusoidale: ad un aumento della popolazione corrisponde una diminuzione delle risorse pro capite, che porta morte, malattie, competizione e di consegurenza una diminuzione degli individui della popolazione considerata; diminuendo gli individui, aumentano le risorse pro capite e così ricomincia il ciclo. Interrompendo questa ciclicità a cosa si arriva? La prima cosa che mi viene in mente è un maggiore sfruttamento delle risorse, fino all’estremo. Ma vivendo in un ambiente chiuso e finito, tutto questo a cosa porterà? E non è in fondo quello che stiamo vivendo? (domanda retorica)
Anche Claudio ha parlato del “progresso” del “degrado ambientale” negli ultimi secoli.
3 E’ fuori dubbio che con la modernità ci sia stato un aumento delle libertà individuali, dei diritti e così via. Però io penso che, in fondo, tutto ciò di negativo presente nelle società pre-moderne (schiavitù, torture, violenza, persecuzioni, …) le nostre società “libere” lo abbiano semplicemente esportato all’estero. Una sorta di esternalizzazione del “Male”.
Poi sul fatto che la schiavitù sia finita si potrebbe aprire tutto un altro discorso.
P.S.
alla condizione della donna allora oppongo le migliori condizioni degli omosessualità in certe società pre-moderne. Mi viene in mente il “primo” Islam e le società pagane. So che la passività non era apprezzatissima nella “casta” dei guerrieri, ma agli omosessuali passivi non era preclusa la “casta” sacerdotale. Anche le divinità non si sottraevano all’amore omosessuale.
E sulle prime società islamiche si potrebbe estendere l’intero discorso.
@ Wu Ming: a parer mio, prima o poi dovreste farlo un post su Montanelli e sui danni che ha provocato la sua Storia d’Italia…
Al di là di quanto può avere o non avere “dimostrato” Bloch (mi permetto solo di dire che non chiedo allo storico di fare il pm nel tribunale della Storia…), credo che sia indubbio l’influsso del pensiero e del linguaggio cristiano nell’interpretazione (interpretazione, non realtà di vita e condizione) del termine e del concetto di “servo” e di tutta la famiglia semantica annessa.
Nel Nuovo Testamento il verbo greco “diakoneo” (e sostantivi e aggettivi annessi), sono usati nel senso del “servizio a tavola” e del “provvedere al pasto”, o nel senso dell’assistenza a un singolo o alla comunità con determinanti impegni (come la raccolta delle collette per i poveri, ad esempio). E Cristo, nella Lettera ai Romani, viene chiamato “diakonos” del suo popolo («servitore dei circoncisi»). L’azione di Cristo (rabbi che lava i piedi ai suoi discepoli) capovolge il significato e quindi il lessico legato al servire. «Beati gli ultimi perché saranno i primi», ecc.
Inutile dire che tale capovolgimento, che nei Vangeli ha tratti rivoluzionari, viene riassorbito e ricompreso dalla gerarchia ecclesiastica in un atteggiamento autoritario e aristocratico “patinato” di paterna comprensione: non ti preoccupare se non sai leggere, leggo io per te.
E siamo alle cattedrali.
Biblioteche di pietra? Non so. Penso però che sono un esempio perfetto di quanto stiamo cercando di dire sui simboli, che cioè sono un prodotto culturale, di una particolare cultura/civiltà che in una certa fase storica mette insieme una figura e un concetto legandoli (e non voglio tornare nuovamente all’etimologia di “simbolo”, il ‘segnale’ che serviva a riconoscersi).
Viste ora, nel 2011, le cattedrali sono per noi, comunemente, assolutamente mute. Così come muti sono i quadri e gli affreschi che decorano le chiese (e ancora di più se stati prelevati e inseriti in un museo). Abbiamo bisogno che qualcuno ce le spieghi, le decorazioni di una cattedrale. Lo stesso accadeva, a maggior ragione, nel medioevo. Il sapere, dunque, aveva una trasmissione verticale. Io so, quindi spiego a te che non sai. Io so leggere, quindi leggo per te, che non lo sai fare. Io so scrivere, quindi scrivo per te, che non lo sai fare.
Studiando la storia della nostra lingua sono commoventi (e val la pena superare l’estrema difficoltà di lettura) i documenti notarili più antichi in una lingua “proto-italiana”; commovente come, ancor prima del 1000, si coinvolgevano i “rudes”, i “rustici” in atti troppo complicati per la loro comprensione. Commovente vista dalla parte dei “rudes”, intendo, non dalla parte degli azzeccagarbugli…
[Riguardo Ildegarda di Bingen, oltre al fatto che sì, venendo da una famiglia della nobiltà imperiale, aveva un bel po’ di vantaggi sulle altre donne, bisogna dire che mica se l’è passata tanto bene nella sua vita! A parte che ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, visto che era stata mandata piccolissima in convento, ha lottato tutta la sua vita per poter istruire se stessa e le ragazze che le venivano portate in convento. A queste ragazze insegnava la musica, consentiva la danza, motrava le virtù delle erbe; e tutte indossavano non cupi sacchi che a stento si potrebbero chiamare vestiti, ma abiti leggeri, di colori chiari. Però varie volte fu costretta a fuggire dai suoi conventi date alle fiamme da uomini poco inclini ad accettare tali “derapate”…]
Provo a inserirmi nel dibattito, cercando di non dire castronerie o banalità eccessive.
Se si vuole continuare a discutere di progresso e modernità, è secondo me indispensabile approfondire il punto citato da Kulma (il terzo): la modernità (e quindi il progresso materiale e non dell’Europa) è inscindibile dall’esperienza coloniale. E’ un nesso che tutta il pensiero moderno fino a tempi recentissimi (per quello che ne so) ha cercato di rimuovere, ed è proprio questa una delle sue caratteristiche.
Da una parte c’è l’idea di un miglioramento derivato da una concezione lineare della storia, di cui l’Occidente sarebbe l’avanguardia, capace, grazie alla superiorità della sua scienza, di trascinare poi il resto del mondo. Una visione in cui la modernità è un momento in cui, da noi, la storia accelera, mentre gli altri restano fermi.
Dall’altra parte c’è la realtà di una storia inscindibilmente legata a quanto accadeva oltremare, che si trattasse di vittorie schiaccianti (come è accaduto nella maggior parte dei casi e per secoli) o di sonore sconfitte (vedi crollo dell’economia marittima francese dopo l’indipendenza di Haiti). Non solo in ambito economico, ovviamente, basti pensare a quanto devono al colonialismo discipline come l’antropologia o l’archeologia.
Negare l’importanza di questo legame è sempre stato fondamentale per l’Occidente, che aveva bisogno di vedere se stesso come un’entità separata dal resto del mondo, che dominava per bontà e per spinta civilizzatrice. Questa negazione è stata tanto efficace che quando un po’ del colonialismo c’è finito in casa (campi di concentramento, schedature etniche, pulizie etniche, stragi di civili ecc) siamo rimasti a bocca aperta e l’abbiamo chiamato Guerre Mondiali.
Il progresso è innegabile e credo che (quasi) nessuno lo vorrebbe restituire al mittente (l’Occidente di cui sopra): tuttavia, l’impalcatura di pensiero che ha retto questo progresso è immensamente problematica, bugiarda, ingiusta.
Parlando del miglioramento della condizione della donna: così a naso credo che il vero salto di qualità ci sia stato quando ha cominciato a prendere piede l’idea di controllare le nascite dei figli, cosa recentissima mi sa.
@ Anna Luisa
che esagerata…anche un po’ presuntuosa.
Anch’io non vorrei dire castronerie (se le dico correggetemi, pure), ma credo che nell’emancipazione femminile abbia giocato un ruolo pure la rivoluzione industriale: per la prima volta le donne delle classi povere si sono trovate a lavorare fuori casa, sicuramente in condizioni infami e per stipendi miseri, ma per la prima volta lavoravano fuori dalle mura domestiche e venivano pagate, il movimento operaio ha dovuto tenere conto di questa realtà favorendo una presa di coscienza da parte delle lavoratrici.
Non è un caso forse che la giornata internazionale della donna abbia origine proprio nel movimento operaio, nasce come festa politica anche se oggi nessuno se lo ricorda.
senza poi dimenticare l’anno di svolta dell’Europa: il 1789, è vero che la rivoluzione francese sostanzialmente ignorò i diritti delle donne (nonostante l’impegno di Olympe De Gouges), ma senza quell’evento dubito che l’Europa avrebbe conosciuto tutti gli altri movimenti di emancipazione, o forse sarebbero stati diversi, non so.
Ma mi sa che siamo OT, quindi mi scuso
@ Kulma: Sto uscendo e il tempo per risponderti mi manca. Ti rimando a questo bell’articolo di Linnio Accorroni; non è recente, ma considerato il tono della tua risposta, molto utile.
“Sono sostanzialmente due, nell’Italia contemporanea, le maniere con le quali si affronta la storia: una è quella basata sulla serietà di uno scrupoloso approccio epistemologico, sulla padronanza di alcune necessarie tecniche di lavoro e sul rispetto di una severa deontologia professionale. […]
C’è, purtroppo, però anche un’altra ‘maniera’ di ‘far storia’ che imperversa e furoreggia […] è quella della storia ridotta a effetto cosmetico’ e a intrattenimento popolare/nazionale prodotta per dominare le classifiche dei bestseller, quella ridotta a “scoop ferragostano da rotocalco popolare”, la storia-chiacchiera, la storia-favola da talkshow televisivo, capace di trasformare in pettegolezzo e gossip ogni vicenda del passato, più o meno recente. È la storia che trasforma il libro in una specie di inerte succedaneo cartaceo del telecomando; è quella priva di basi documentarie e di consistenza scientifica, che non sa cosa sia un serio lavoro archivistico o documentaristico; è quella che riesce a spacciare gigantesche menzogne per verità à la page grazie alla poderosa campagna di una mistificazione sistematica e replicata nei circuiti della deformazione di massa ( in primis, la tv, ma anche certa stampa molto allineata e ben felice di adeguarsi alla vacuità televisiva). Fu Montanelli, con la fortunata serie della sua “Storia d’Italia”, il primo ad inaugurare questo malsano e deprecabile filone: testi che ingeneravano comunque una qualche specie di familiarità con il passato, costruiti su di un profluvio di curiosità aneddotiche, ma che, in realtà, non riconducevano a nessuna esperienza conoscitiva autentica e rigorosa. Si leggevano quei volumi di pseudostoria e si rimaneva annichiliti dal profluvio di aneddoti e storielle, ma certo non si poteva pensare che quei testi fossero frutto di una seria analisi storiografica. Gervaso, Pansa,Vespa ed altri hanno poi seguito stolidamente seguito le orme di cotanto ‘Maestro’, contribuendo così ad una specie di paradossale miracolo alla rovescia che si reitera con tanta tragica frequenza nella nostra nazione: in un paese che legge poco, c’è una grande quantità di libri di ‘storia’(?) venduti, ma anche una gigantesca, macroscopica ignoranza della stessa…”
Qui, se hai voglia, puoi leggere l’intero testo.
http://www.nazioneindiana.com/2009/04/14/sangue-ditalia/
@Anna Luisa
Ti chiedo scusa, sono stato troppo sintetico. Non ho argomentato, come non l’hai fatto neanche tu nel primo commento.
Io generalmente odio le citazioni, perché alla fine spostano tutta l’attenzione su di esse. E’ quello che è successo. “Esagerata” e “presuntuosa”, perché sembra che vuoi ridurre l’intero discorso che ho fatto ad un danno prodotto dalla lettura di Montanelli e della sua Storia d’Italia. Il mio era un esempio venutomi sul momento. Di Montanelli non mi frega nulla, non è il mio punto di riferimento e non mi sono formato sui suoi libri.
Il mio discorso è articolato su tre punti(-dubbi):
1) L’idea che ciò che viene dopo temporalmente è meglio di ciò che viene prima è una castroneria, una vera e propria bufala, sfruttata spesso per dirci che quello in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili e che se cerchi di cambiarlo, invertendone totalmente la rotta, sei un “terrorista”, un deviato sociale.
2) Il miglioramento delle condizioni di vita ha come rovescio della medaglia uno sfruttamento esagerato del pianeta e delle sue risorse (ho semplificato di brutto).
3) La conquista di molti diritti e libertà è stata resa possibile, in parte, anche grazie a quella che ho definito esternalizzazione del “Male”. Le cose sono migliorate in occidente, ma noi occidentali continuiamo a perpetrare questo “Male” al di fuori dei confini.
Tu potrai essere non d’accordo con me, ma giudicare tutto questo come il prodotto di un danno prodotto da una mia possibile formazione montanelliana non lo sopporto. Da qui il mio commento, ammetto un po’ stizzito e antipatico. :)
@ kulma
1) Riguardo alla linearità progressiva della storia: nessuno qui esprime una posizione vetero-progressita, quindi inutile tirarla in ballo.
Nella sua replica a Testi, WM1 ha citato progressi materiali concreti, non una posizione fideistico-ideologica. Nella società medievale un figlio di braccianti come lui (o un nipote di braccianti come me) sarebbe rimasto tale, e così i suoi figli e i figli dei suoi figli, salvo affrancamento per gentile concessione del signore e padrone. Per altro, la società moderna non è soltanto più mobile, ma si basa sull’idea che sia possibile realizzare storicamente l’eguaglianza, attraverso l’affermazione del diritto universale (per altro faccio presente che tanto l’eguaglianza quanto l’universalismo sono idee di matrice cristiana, almeno in Occidente). I nostalgici del Medioevo vedono precisamente questo come il fumo negli occhi, come la discriminante. Ergo io credo – come spiegava WM1 ormai molti commenti fa – che la differenza sostanziale tra un fautore della Tradizione o un nostalgico del passato e me rimanga questa: il mio discorso, ancorché critico e perfino criticissimo, rimane interno alla Modernità.
[A latere, aggiungo che l’assunzione del diritto di disobbedienza al signore enunciato da Gandalf a Denethor nella famosa discussione più volte citata, dimostri come anche un anti-moderno come Tolkien non fosse affatto disposto a gettare via il bambino con l’acqua sporca].
2) Riguardo alla selezione naturale: se vuoi non ti prendo per Mengele, ma tengo a precisare che certi discorsi da queste parti possono arrivare fino a un certo punto e non oltre. Te lo dico senza astio e in tutta trasparenza.
Qualunque cosa porta con sé anche aspetti negativi, ma non si può parlare di scarsità di risorse mettendola in relazione all’aumento della popolazione senza considerare la diseguale, disegualissima, distribuzione della ricchezza che è sotto gli occhi di tutti nel mondo. Eliminare l’aspetto distributivo, quindi sistemico, economico, materiale, e non ultimo ideologico (che giustifica il resto), per ridurre tutto agli aspetti demografici è già un discorso sufficientemente pericoloso per quanto mi riguarda. Lo sfruttamento intensivo e suicida del pianeta non dipende dalla necessità di sfamare la popolazione mondiale, che infatti in buona parte continua a fare la fame, ma da un sistema economico basato sul profitto e sull’accumulazione, ovvero sullo sfruttamento di esseri umani e risorse naturali fino all’esaurimento. Per altro sono i paesi più poveri quelli dove si fanno più figli, quindi il cane si morde la coda. Faccio notare che l’idea sviluppista di cui sopra veniva già disgiunta dall’idea di progresso inteso appunto come progresso sociale da uno come Pierpaolo Pasolini (tanto per citare un intellettuale di sinistra italiano che si pose il problema con largo anticipo).
3) Non è vero che le nostre società occidentali hanno esportato soltanto il “Male”. E’ vero che questo è accaduto, cioè è vero che le nostre conquiste sociali sono spesso state fatte pagare ad altri, popolazioni extraeuropee ed extra-occidentali. Ma insieme allo sfruttamento capitalistico e imperialistico, l’Occidente ha esportato anche gli altri aspetti della Modernità, proprio perché quest’ultima non può essere ridotta al mero capitalismo. L’accumulazione capitalistica tende a ridurre la libertà e la democrazia, mentre i valori politici propagati dalla Modernità pretendono di affermarle (e non è un caso infatti che il paese capitalistico più forte del pianeta al momento sia la Cina, che ha raggiunto il capitalismo senza passare per la Modernità). Le colonie extra-europee hanno saputo in molti casi far proprie quelle idee e le hanno fatte retroagire su chi le sfruttava, rideclinandole, ibridandole e ricontestualizzandole, non solo assumendole acriticamente. Basti pensare al caso di Haiti e del “giacobino nero” Toussand L’Ouverture, che rivendicava la libertà degli haitiani contro la madrepatria Francia in nome degli ideali universali della Rivoluzione francese. Ma lo stesso potrebbe dirsi di Gandhi, di Nasser o di Malcolm X.
Questo ovviamente non può giustificare l’idea razzista ancora parecchio in voga che l’Occidente abbia avuto e debba avere un ruolo civilizzatore o democratizzatore rispetto al resto del mondo. Idea che si basa, come fa notare Adrianaaaa, su una supposta separazione che non è mai esistita, giacché il mondo è interconnesso in ogni suo angolo. La storia è fatta di contraddizioni, interscambi e conflitti, non di linearità, appunto, e ogni tentativo di stabilire una gerarchia culturale è funzionale all’instaurazione e al mantenimento di un sistema di potere politico ed economico. Era così nel Medioevo ed è così oggi.
Ecco io di banalità di base ne ho dette parecchie. Ma non ritengo superfluo ribadirle, visto che è qui, con noi, che si viene a dibattere. E sarà pure il caso di tenerne conto.
@ WM4
Al di là delle sacrosante divergenze vorrei fare una precisazione sul punto 2.
Il mio, come ho spiegato, è un dubbio, che ho circoscritto al mondo industrializzato (avrei dovuto scriverlo). Ammetto che non aver considerato la distribuzione di ricchezze è un errore grossolano. Riassumendo tutto nel mio secondo intervento mi sono schiarito anche le idee. Non ne faccio solo una questione demografica. Ritengo che, in generale, il miglioramento delle NOSTRE (di noi paesi industrializzati) condizioni di vita è dovuto allo sfruttamento esagerato delle risorse dell’INTERO pianeta. Ciò per rispondere all’affermazione che ora si vive meglio e più a lungo.
Spero di essermi fatto capire….scrivo proprio male :(
avevo scritto un commento che dev’ essere finito nello spam. nel commento facevo notare che l’ idea che ci sia una pura ciclicita’ nei fenomeni naturali (per non parlare di quelli storici) e’ smentita dalla scienza moderna. avevo anche citato il nome del chimico alya prigogine che ottenne il nobel per i suoi studi sui sistemi dissipativi. non metto il link a wikipedia perche’ temo che il commento finirebbe di nuovo nello spam. va detto per completezza che lo stesso prigogine si fece poi prendere la mano dalle proprie intuizioni, e cerco’ di estenderle anche oltre il loro ambito scientifico, con non poche forzature. resta il fatto che molti fenomeni biologici possono essere interpretati alla luce delle idee di prigogine, soprattutto la questione della “pattern-formation” vista come reazione locale autoorganizzata all’ aumento di entropia di un sistema (n.b. qui sto usando questa terminologia in senso scientifico, non figurato). la dinamica popolazione-risorse come delineata da kulma e’ assolutamente semplicistica. non tiene conto dei fenomeni di competizione o cooperazione intra- o extra-specifica, della diffusione spaziale delle specie, ecc. ecc. (sono tutte questioni studiate in profondita’ grazie a modelli matematici che anche nella loro formulazione piu’ semplice esibiscono una complessita’ enorme).
p.s. quanto alla capacita’ degli antichi di creare disastri ecologici, ricordo i disboscamenti operati dai romani per la costruzione delle flotte e per il riscaldamento dell’ acqua delle terme.
@ tuco
Ma infatti io non ho parlato solo di ciclicità, ma di una componente ciclica, che è diverso. Nulla torna come prima. L’esempio da me riportato,che è vecchio solo di qualche anno (ho fatto l’università negli anni zero, non all’epoca del Lombroso :)), è ovviamente un modello semplificato, ce ne sono altri più complessi che più o meno mostrano andamenti non così lontani (considerando anche varie interazioni, tipo preda-predatore e competizione inter-specie). Come tutti i modelli scientifici sono imperfetti, la realtà è sempre diversa e più complessa. Comunque occhio ad utilizzare espressioni come “è stato smentito dalla scienza moderna” come se fosse Verbo incarnato. La scienza si contraddice e si smentisce continuamente. Tutto va preso con il giusto peso, soprattutto teorie e modelli complessi come quello da te citato. Che la scienza riesca a dimostrare che non c’è assolutamente ciclicità nella natura la vedo, al momento, dura, fuori dalla sua portata. La terra gira intorno a se stessa, intorno al sole e il sole gira intorno al centro della galassia. Ignorare la componente ciclica lo trovo ingenuo. Non serve un nobel per capirlo.
il tuo p.s. è l’esempio della ciclicità, in questo caso dell’idiozia umana :)
ehi ehi calma kulma, vediamo di non fare i furbetti. hai cominciato tu a fare affermazioni perentorie, come questa:
“Se si studia il numero di individui della popolozione negli animali (è lo stesso, mi pare, anche neglia altri regni) si può constatare che ha un andamento sinusoidale: ad un aumento della popolazione corrisponde una diminuzione delle risorse pro capite, che porta morte, malattie, competizione e di consegurenza una diminuzione degli individui della popolazione considerata; diminuendo gli individui, aumentano le risorse pro capite e così ricomincia il ciclo. ”
un modello di questo tipo non e’ vecchio di qualche anno, ma di quasi un secolo, e non e’ assolutamente realistico. potrei citarti una letteratura scientifica sconfinata per quanto riguarda gli aspetti puramente matematici dei modelli biologici.
poi vedi, non e’ che la galassia si limiti a girare intorno a se stessa, perche’ contemporaneamente si espande. e certe cose appaiono cicliche nei tempi brevi, ma sui tempi lunghi non lo sono affatto.
se la scienza smentisce che certi fenomeni siano ciclici, tu sei liberissimo di non accettare questa smentita. pero’, per farla semplice, voglio vederti a far rientrare il dentifricio nel tubetto!
io ho scritto: “l’ idea che ci sia una pura ciclicita’ nei fenomeni naturali (per non parlare di quelli storici) e’ smentita dalla scienza moderna” e tu rispondi “Che la scienza riesca a dimostrare che non c’è assolutamente ciclicità nella natura la vedo, al momento, dura, fuori dalla sua portata.” ecco, il tuo non mi sembra un modo onesto di discutere.
1) @ kulma :“Non ho argomentato, come non l’hai fatto neanche tu nel primo commento.”
Non avevo affatto intenzione di argomentare o commentare quanto avevi scritto. Mi sono rivolta non a te, ma al collettivo con una richiesta che può ovviamente essere o non essere presa in considerazione. Richiesta non così OT (non stiamo forse parlando di manipolazione strumentale del dato simbolico e storico?) che partiva, dal tuo riferimento all’opera di Montanelli.
2) “Io generalmente odio le citazioni, perché alla fine spostano tutta l’attenzione su di esse. E’ quello che è successo.”
Per me non è così. Una citazione, qualora non sia impiegata a sproposito, può essere utile per rendere più chiaro il ragionamento che si intende sostenere e portare avanti. Al contrario, mi sembra che il tuo modo di argomentare sia accompagnato talvolta da una certa vaghezza.
3) “Esagerata” e “presuntuosa”, perché sembra che vuoi ridurre l’intero discorso che ho fatto ad un danno prodotto dalla lettura di Montanelli e della sua Storia d’Italia. Il mio era un esempio venutomi sul momento. Di Montanelli non mi frega nulla, non è il mio punto di riferimento e non mi sono formato sui suoi libri […] Tu potrai essere non d’accordo con me, ma giudicare tutto questo come il prodotto di un danno prodotto da una mia possibile formazione montanelliana non lo sopporto. Da qui il mio commento, ammetto un po’ stizzito e antipatico. :)”.
Ecco, qui mi sa che hai fatto tutto tu da solo ;-) Ad ogni modo ci siamo chiariti, quindi direi stop al le polemiche.
@ tuco
Bisogna saper ammettere i propri errori. Non era mia intenzione fare il furbo tuco. Ammetto che mi era sfuggita la particella “PURA” riferita a ciclicità. Mi son fatto prendere la mano. Ho una connessione a tempo, devo leggere in fretta. Ti chiedo scusa. In questo caso approvo quello che hai detto.
Io le teorie citate me le ricordo bene, ti assicuro che non ho fatto una cattiva università. Mi sono rimasti in mente soprattutto i rapporti preda-predatore. In effetti sono più semplici, prevedono meno variabili. Non ho detto che sono assolute. Sono consapevole della complessità di certi fenomeni. Non sono un biologo, mi astengo dal venirti contro nei particolari.
Comunque il mio discorso, semplificando, è che se aumenta la popolazione diminuiscono le risorse pro-capite. Non è così assurdo come concetto. E’ vero che parallelamente, nel caso della popolazione umana (o meglio, di noi occidentali), sono aumentate anche le risorse, grazie a nuove tecnologie e metodi di indagine, ma a quale prezzo per il pianeta e per la nostra salute?
La maggior parte poi le rubiamo agli altri…
kulma, e’ chiaro che il modo di produzione attuale e’ incompatibile con la finitezza delle risorse. ed e’ altrettanto chiaro che quando le risorse diventeranno insufficienti, ci sara’ una drastica diminuzione della popolazione. cosa succedera’ dopo, pero’, non lo sappiamo. difficile comunque pensare che ci sara’ un “ripristino delle risorse” tale da far “ripartire il ciclo”.
tutte queste questioni erano state poste per la prima volta nel 1971 nel report “limits to growth”, elaborato da un team di scienziati del mit di boston (molti anni prima di latouche, e con strumenti di analisi ben piu’ raffinati).
aggiungo che sono assolutamente d’ accordo con wm4 nel distinguere tra capitalismo e modernita’.
Wu Ming 4 ha scritto:
>Tuttavia non dobbiamo commettere >l’errore né di pensare che la condizione >medievale possa essere fino in fondo >esperita attraverso le opere letterarie >e il linguaggio, né che questa capacità >degli Inklings non fosse comunque >influenzata dalla loro condizione di >moderni.
Su questo sono daccordo. Tu intendi il “davvero” di Wu Ming 1 come “difficile”, non come “impossibile” (e penso lo intenda così pure Wu Ming 1). Daccordo anche sull’esempio dell’ ‘ofermod’ tolkieniano.
>Mi permetto di aggiungere qualcosa anche >sulla questione passato/presente.
>Nel mondo medievale l’accesso >all’istruzione era privilegio di pochi. >E’ vero che le cattedrali erano >incredibili biblioteche di pietra, ma >quanti invece sapevano o potevano >leggere un libro? E quanto libera era >l’interpretazione di quelle storie >impresse nel granito?
>Idem dicasi per la condizione della >donna: non vale portare ad esempio le >nobildonne medievali. Non è giudicando >la condizione di un’élite di >aristocratiche rimaste famose per aver >fatto politica o poesia che si può >desumere la condizione della donna nel >Medioevo.
Non vorrei passare per nostalgico e chiarisco meglio. La donna sta di sicuro meglio oggi che nel Medioevo, ci mancherebbe altro. Tuttavia dico che ci sono studi molto seri (se volete li indico) che mostrano come la condizione della donna nel Medioevo era “di principio” (non solo nelle eccezioni) migliore sia rispetto alla grecità che rispetto al rinascimento e primissima modernità. Per cui additare l’età di mezzo come epoca in cui la donna è stata meno considerata, è sbagliato, tutto qui. Lo si sente dire spesso, ma penso sia un “frutto” della libellistica illuminista che del Medioevo era completamente ignorante. Ma ripeto: nessuna nostalgia, e viva il ‘900 da questo punto di vista.
>E qui si torna al discorso di cui sopra, >cioè al rischio di confondere la parte >per il tutto: la “biblioteca di pietra” >per l’accesso diffuso al sapere,
Non ho mai detto questo e mi spiace aver causato un OT, ma mi permetto di chiarire: i libri nel ME erano una vera rarità, e questo anche per i ricchi e per i nobili e quindi l’accesso al sapere più completo di allora era negato non a molti, ma a moltissimi. Ma altra cosa e’ dire (come spesso sento, non qui per la verita’) che si volevano tenere la masse ignoranti, il che e’ falso: le si volevano istruire, ovviamente con i mezzi possibili e la cultura allora dominante (il che avviene sempre).
> o peggio, la servitù della gleba, >l’essere ceduti o ereditati come alberi >insieme ai poderi, con una condizione >preferibile alla “precarietà” >contemporanea.
Anche qui colgo l’occasione per chirire: ho solo detto che c’è un aspetto della servitu’ della gleba che, specie guardando la condizione attuale, e’ positivo: la non precarieta’ e la scurezza di poter avere un propria terra da coltivare (carestie permettendo), cosa che oggi e’ negata a tantissimi salariati i quali, senza lavoro, rischiano davvero la fame. Questo mi pareva interessante, anche guardando alle nuove proposte economiche sulla decrescita (a cui pensavo Wu Ming 1 alludesse implicitamente alla fine del suo post quando parlava del PIL), che parlano sempre piu’ di auto-produzione dei beni primari. Poi ci sono mmmmmille altri aspetti che me la fanno aborrire: in primis la “fissita’” della condizione.
>La parola “servi” è sempre
>attribuita
>alla parte di Sauron. O
>sbaglio?
Detta così sbagli ;-). La parola “servants” ricorre spesso nel Silmarillion, per indicare i servi dei Valar (Ulmo e Manwe in specie), di Melkor, di Sauron, dei re elfici Finrod e Thingol, di Morwen. Pero’ se si contano le ricorrenze, sono predominanti i “servi” di Sauron e Melkor. E’ una ricerca che ho fatto molto velocemente, ma meriterebbe forse un approfondimento. Interessante sarebbe vedere invce la parola “schiavi”: a memoria mi sentirei di dire che ricorre solo per quelli di Morgoth e Sauron, ma devo verificare.
@ Claudio Testi
Solo una specificazione e un suggerimento d’indagine.
1) Sulla possibilità di esperire il Medio Evo: be’, direi che con tutta la buona volontà che possiamo metterci, noi non possiamo “diventare” uomini del Medioevo. Non possiamo cioè astrarci completamente da noi stessi e vestire l’abito mentale di un essere umano che viveva nel ME. Questo non significa che non possiamo sforzarci di farlo e formulare molte ipotesi e teorie a riguardo, suffragandole con ogni fonte materiale e letteraria a nostra disposizione. Ma la nostra idea del Medioevo è inevitabilmente la “nostra”, appunto. Come fai notare tu, quella degli illuministi del Settecento, ad esempio, era molto diversa. E spesso, tra l’altro loro consideravano sopravvivenze dell’oscurantismo medievale quelli che erano invece tratti connotativi della prima età moderna. Tanto è vero che il sistema politico che criticavano era quello delle moderne monarchie assolute ed esaltavano la monarchia parlamentare inglese (che era nata proprio in reazione alle spinte assolutiste degli Stuart).
2) Sui “servi” in Tolkien. Consiglierei in effetti un’indagine più approfondita. Potrei assolutamente sbagliare, perché non sono un grande conoscitore della lingua inglese, quindi rimando a ricerche più approfondite se avremo tempo e modo di farle. Azzardo però che il termine inglese “servant” sia più tenue dell’italiano “servo”. In italiano è quasi un sinonimo di schiavo, o comunque tende a connotare una condizione di forte sottomissione e dipendenza, tanto è vero che viene usato anche come dispregiativo. In inglese esiste invece l’espressione “civil servant” per definire un funzionario pubblico, laddove si intende l’impiegato non già come “servant” dello Stato, bensì del cittadino. Il “servant” veniva utilizzato, almeno fino ai tempi di Tolkien, ma credo anche adesso, per definire senz’altro i domestici e gli uomini di chiesa (“servant of God”). Il servo della gleba medievale era invece definito con un’altra parola: “serf”. Mentre lo schiavo è “slave”, ovviamente (e sinceramente non avrei dubbi che nell’opus tolkieniano ricorra soltanto in relazione alle forze del male).
Per farla breve, nella parola italiana “servo” è contenuta l’idea di un’obbedienza forzata, mentre mi pare che nella parola inglese “servant” ci sia quella della volontarietà del servizio prestato. Si può dire che Sam è “servant” di Frodo, infatti lo chiama “Master”, ma il loro rapporto è improntato alla famigliarità e al rispetto reciproco. Infatti un altro modo di chiamare i domestici una volta era “famigli”, cioè membri della famiglia allargata.
Ok, adesso chiudo l’OT e mi ritiro in buon ordine.
Sono stato lontano dal computer un giorno e mezzo, non ho potuto seguire la discussione in tempo reale, e molte delle cose che avrei voluto dire le hanno già dette, e bene, WM4, Tuco e Anna Luisa. Alcune, minimali integrazioni:
@ Claudio Testi
Su difficile e impossibile: ho l’impressione che la differenza tra il tuo discorso e il mio sia più che altro questione di “sfumature”.
Il compito dello storico è *inferire* – in base a fonti, indizi, documenti, reperti – come si vivesse e come si pensasse nel passato. La storia delle mentalità ha rischiarato molte scene in precedenza oscure. Ad esempio, Philippe Ariès ci ha raccontato quale fosse il rapporto con la morte nel Medioevo, nel Rinascimento e nella modernità, e ha ipotizzato la collocazione temporale di alcune fondamentali “cesure” e trasformazioni in tale rapporto. Robert Darnton ci ha spiegato che nella Francia della seconda metà del XVIII secolo l’Illuminismo e le sue pubblicazioni ebbero un’influenza quasi risibile rispetto a quanto racconta il Mito dell’Illuminismo, e che i libri che ebbero un’influenza riscontrabile sulla mentalità che rovesciò l’Ancien Régime erano tutt’altri. Etc. etc. etc. Sono laureato in storia e nella vita ho fatto il romanziere storico, potrei ripescare dal mio percorso di studio fin troppi esempi.
Ma, ecco dove casca l’equino: Ariès si è avvicinato il più possibile alla mentalità degli Europei medievali di fronte alla morte, e l’ha ricostruita per approssimazione. Lo sforzo dello storico (ma, aggiungo, anche dello scrittore) è approssimarsi per quanto possibile al passato. Ma c’è un limite invalicabile, ed è questo: noi il passato possiamo esperirlo soltanto indirettamente, per il tramite dei suoi resti, delle sue rovine, di ciò che ci è stato consegnato. Non possiamo viverlo, non possiamo calarci completamente in esso, sappiamo che tale sorta di “epifania” è impossibile. Non possiamo davvero “pensare come gli antichi”. Possiamo sforzarci di immaginare come pensavano, possiamo interrogare quel che ci è stato tramandato per vie dirette o traverse, ma c’è un limite invalicabile. E tanto le metodologie quanto le cornici concettuali e il punto d’osservazione da cui partiamo per compiere questo lavoro, sono in tutto e per tutto nella modernità.
Quindi: c’è un compito “molto difficile”, come dici tu, che è quello dello storico; e c’è un “impossibile”, come dicevo io, che è quello di immedesimarsi completamente in una mentalità che non è quella in cui viviamo e operiamo.
Su donne, servi, schiavi etc. Nella mia prima risposta al tuo commento ho fatto dichiaratamente un discorso generale, a volo d’uccello, mettendo insieme diversi stadi di “pre-modernità”: tempi antichi, Medioevo etc. Questo perché riprendevo, come te, il discorso sulla Tradizione, che fa un’unica “pappa” di tutto il passato pre-moderno. E’ evidente che i tempi e le formazioni sociali vadano distinte tra loro, come è evidente che vadano distinte le “istituzioni” della schiavitù e della servitù della gleba. Sono entrambe condizione di sottomissione, ma in contesti e con modalità differenti.
Il mio problema con l’impostazione di questi tuoi commenti è che, come ha osservato WM4, mi sembri dare un’importanza eccessiva a esperienze, condizioni di vita e modi di pensiero delle classi alte, delle infime minoranze privilegiate.
Ad esempio, io guardando un’opera architettonica del passato antico o medievale, certo, vedo la grandiosa realizzazione che sfida i secoli, e vedo il tesoro di conoscenza che in quell’opera ha trovato forma e modo di trasmissione; ma, allo stesso tempo, mi chiedo anche quali condizioni materiali si siano incarnate in quella pietra. Quante vite furono sacrificate sui ponteggi di quell’opera? Quanti lavoratori furono sfruttati per costruirla? Quante ore al giorno lavoravano? Quale disciplina dovevano osservare, che punizioni subivano, in quali alloggi tornavano la sera (se ci tornavano)? Quanto campavano? Come esercitavano sulle loro mogli e/o figlie un’autorità che riproduceva in scala minore quella che essi stessi dovevano subire dai loro padroni?
Di fronte a ciò che ci perviene dal passato, io cerco di non scordarmi questi interrogativi, di non scordarmeli mai. Perché sono gli stessi interrogativi che rivolgo al presente.
E quel che sappiamo di Matilde di Canossa non ci autorizza a estendere la sua condizione alle donne delle classi subalterne del suo tempo.
@ Adrianaaa
oggi noi ricostruiamo “ex post” il corso (o decorso) della modernità, partendo dagli esiti, cioè dalla sua realizzazione capitalistica e imperialistica. Ma proprio perché non crediamo più – o comunque non dovremmo più credere – al volo inequivocabilmente diritto della freccia del tempo, alla “linearità” della storia e dello sviluppo, è necessario lo sforzo di distinguere l’esito (questo esito) dalle potenzialità. Che dovesse andare così non era scritto in cielo, esistono leggi strutturali ma nessuno sviluppo è ineluttabile. Ci sono state altre intepretazioni della modernità, che hanno combattuto anche a mano armata contro quella che poi è prevalsa: c’è stata la modernità dell’internazionalismo proletario; c’è stata la modernità che ricordava WM4, quella di Toussaint l’Overture e degli insorti di Haiti che cantavano La Marsigliese contro i colonizzatori francesi; c’è stata la modernità del movimento di liberazione delle donne.
C’è stata la modernità delle guerre imperialistiche, e c’è stata quella delle rivoluzioni; c’è stata la modernità del colonialismo (e del razzismo come principio regolatore del mercato del lavoro mondiale), e c’è stata quella delle spinte egualitarie. Mi va bene esercitare una critica che individui cosa queste modernità condividessero (in questo è consistita la critica postmoderna, postcoloniale, cultural studies etc. degli, ma oggi – di fronte a tanti confusionismi – mi sembra urgente separate il grano dal loglio, e insistere sulle *differenze* tra queste modernità che han combattuto l’una contro l’altra. Guardando a quegli epocali combattimenti, si schiude al nostro sguardo un mondo di feconde ipotesi controfattuali, e le ipotesi controfattuali sono ottimi esercizi intellettuali (e, direi anche, *spirituali*) contro la malattia del determinismo e del non-poteva-che-andare-così.
Quindi le traduzioni del Signore degli Anelli fatte con la collaborazione della Società Tolkeniana Italiana sono filo evoliane?
Dimenticavo:
@ kulma
qualunque storico minimamente serio, non importa se di sinistra o di destra, se è intellettualmente onesto ti dirà che le divulgazioni montanelliane erano robaccia, volgarizzazioni frettolose e interessate. A suo tempo, contribuirono a diffondere nell’opinione pubblica un “senso comune” qualunquista. Reticenze, falsificazioni e ricostruzioni di comodo “pro domo sua” (cioè di Montanelli) si affacciano a ogni pagina: rimozione dei crimini contro l’umanità commessi dall’Italia durante le sue aggressioni coloniali; insistito negazionismo sull’uso delle armi chimiche durante la guerra d’Abissinia (cosa provata e comprovata); subdolo ridimensionamento delle responsabilità del fascismo… E ricordo che Montanelli fu querelato per diffamazione a mezzo stampa dai familiari di Francesco Lorusso, e rinviato a giudizio, perché nel suo libro L’Italia degli anni di piombo (scritto con Mario Cervi) si affermava che Lorusso era un terrorista di Prima Linea e quando fu ucciso era armato di pistola, mentre era un militante di Lotta Continua, e quando fu ucciso era inerme. Inoltre, Lorusso fu ucciso l’11 marzo, mentre Montanelli e Cervi lo indicavano tra i responsabili di azioni di guerriglia urbana compiuti il 12 e il 13 marzo.
Insomma, qui su Giap la “rivalutazione” di Montanelli non è passata né mai passerà. Sì, negli ultimi anni si scazzò con Berlusconi, ma poiché non riduciamo la critica della società all’antiberlusconismo, per noi è una cosa poco influente.
@ Mlt:
Purtroppo non posso esimermi da una risposta articolata. Spero tu abbia pazienza.
La questione delle traduzioni italiane del SdA (e di tutta l’opera di Tolkien) è lunga e controversa. In linea di massima quello che possiamo affermare con certezza è che non sono traduzioni accurate. Sono piene di sviste, approssimazioni, elisioni, equivoci. Ho toccato con mano la gravità del problema occupandomi della riedizione di un testo breve come “Il Ritorno di Beorhtnoth”. Per fare un altro esempio, nel SdA non sono mai state tradotte trenta righe. Non fondamentali per la comprensione della trama, ma tant’è. Il Silmarillion andrebbe quasi ritradotto da capo. L’epistolario è da mani nei capelli… Lo Hobbit è stato abbastanza recuperato. E così via.
Restando al SdA valga quanto segue: la traduzione italiana venne fatta da una ragazzina di diciassette anni, Vicky Alliata di Villafranca, con la revisione di Quirino Principe (da sempre sostenitore dell’interpretazione neo-pagana del romanzo). E quella è rimasta per oltre trent’anni. Soltanto nel 2003 Bompiani ha pubblicato una traduzione riveduta e corretta in collaborazione con la Società Tolkieniana Italiana. Tuttavia quella revisione ha lasciato fuori ancora circa duecento errori, che non sono stati recepiti in tempo per l’andata in stampa.
In questo quadro aleatorio e disastrato è molto difficile stabilire cosa possa essere stato tralasciato o distorto per convenienza e cosa per semplice sciatteria. Alcune cose però saltano talmente agli occhi che viene da chiedersi come non siano saltate anche agli occhi dei revisori della traduzione. Una è quella che segnalavo alla presentazione romana, cioè il caso della parola “pagani”.
Nelle oltre milleduecento pagine del romanzo la parola “heathen” compare soltanto in due occasioni, a distanza ravvicinata e riferita allo stesso contesto. Non per niente sulla presenza di questa parola nel SdA si sono interrogati i maggiori studiosi mondiali di Tolkien.
Chiunque conosca minimamente l’opera di Tolkien sa che lui non spende MAI la parola “heathen” a caso, e lo fa sempre volendo significare qualcosa di preciso, cioè assumendo una critica etico-filosofica, in cui l’accento è posto appunto molto più sul piano etico che su quello storico. Per capire perché Tolkien nel famoso dialogo Gandalf-Denethor si sente legittimato a usare la parola “pagani” per riferirsi agli antichi re asserviti a Sauron basta leggere la lettera 156.
In quella lettera Tolkien usa il termine “pagano” per descrivere gli uomini dei tempi antichi ricaduti sotto il potere del “primo Signore delle Tenebre”, distinguendoli da quelli che si spostano a Occidente e che abbracciano il monoteismo sui generis degli Elfi. In questo senso Tolkien traccia un implicito parallelismo (ancorché imperfetto) con la storia del nostro mondo. Ecco perché Denethor e Gandalf possono dire “pagani” pur non essendo cristiani.
Questo spiega anche perché non tradurre “heathen” con “pagano” fa cadere una distinzione importante, che non può
essere del tutto desunta dal contesto. Un conto infatti è dire che nella Terra di Mezzo sono tutti pagani e alcuni sono più barbari di altri; un altro paio di maniche è dire che nella storia della TdM esiste una visione pagana e una non-pagana: che è precisamente quello che afferma Gandalf in quel passaggio.
In poche parole se si traducesse la parola come andrebbe tradotta, l’interpretazione tradizionalista neo-paganeggiante del romanzo cadrebbe all’istante per bocca degli stessi personaggi. E tanti saluti ai nipotini di Evola.
Per questi motivi il sospetto che l’elisione sia frutto di una scelta e non di una semplice svista in me rimane forte. Anche perché è pur vero che della Società Tolkieniana Italiana fanno parte persone di diverso orientamento politico-culturale, ma è altrettanto vero che i suoi fondatori e i direttori della rivista della società sono membri della Fondazione “Julius Evola”. E il punto 2a dello statuto afferma che la ragione sociale della STI è far conoscere l’opera di Tolkien “approfondendo la ricerca delle radici culturali e sacrali della Tradizione Europea, da cui tutta la produzione tolkieniana trae vita e nutrimento”. Mi sembra un’evidente dichiarazione di… ehm, “poetica”.
Poiché ho partecipato alla revisione della traduzione italiana del Signore degli Anelli, mi permetto di intervenire, per fare (spero) un po’ di chiarezza sulla questione delle “famose” trenta righe mancanti dal Signore degli Anelli.
Le trenta righe in questione sono state eccome tradotte: nelle edizioni Rusconi e in quelle Bompiani pre-revisione ci sono. Quando nel 2003 la traduzione fu “riveduta e corretta dalla Società Tolkieniana Italiana”, nel file che fu inviato alla Bompiani le trenta righe c’erano. Perché poi la Bompiani le abbia eliminate in sede di stampa, è questione tuttora inspiegabile (le trenta righe sono però state reinserite nell’edizione del SdA che è stata distribuita in edicola come allegato al Corriere della Sera nel 2005).
Quanto alla questione di “heathen”, non ricordo se qualcuno l’avesse sollevata in sede di revisione; proverò a controllare nell’archivio della mailing list, se ancora riesco a trovarlo, ma mi sembra di no.
@WM1
Come ho già scritto, non volevo spostare l’attenzione su Montanelli, non sono un suo sostenitore. Comunque grazie per le informazioni. Non conoscevo queste manipolazioni. Ho letto solo i primi libri della collana (da Storia di Roma, dei Greci, e qualcosa sul medioevo).
@WM4
Che bella notizia che mi dai! Per avvicinarmi a Tolkien mi sono comprato poco tempo fa il Silmarillion, ritenendolo meno “scontato” del SdA. Mi è sembrato il più adatto per conoscere le doti mitopoietiche di Tolkien.
Ancora non inizio a leggerlo. E’ così tradotto male? Ma ci sono errori o manipolazioni? Immagino che leggerlo (e capirlo) in inglese deve essere tutta un’altra cosa.
Aggiungo solo un paio di postille:
1) “E quel che sappiamo di Matilde di Canossa non ci autorizza a estendere la sua condizione alle donne delle classi subalterne del suo tempo.”
Idem per la condizione femminile in età romana. Conosciamo in modo parziale la vita di alcune donne appartenenti alle classi sociali elevate (mogli di imperatori, figlie…) ma solo grazie a fonti esclusivamente maschili che, nel raccontarcele, spesso ripropongono l’oscillante topos della santa/puttana. Per ciò che attiene le donne “normali” in pratica, non sappiamo quasi nulla.
2) “Lo sforzo dello storico (ma, aggiungo, anche dello scrittore) è approssimarsi per quanto possibile al passato. Ma c’è un limite invalicabile, ed è questo: noi il passato possiamo esperirlo soltanto indirettamente, per il tramite dei suoi resti, delle sue rovine, di ciò che ci è stato consegnato. Non possiamo viverlo, non possiamo calarci completamente in esso, sappiamo che tale sorta di “epifania” è impossibile. Non possiamo davvero “pensare come gli antichi”. Possiamo sforzarci di immaginare come pensavano, possiamo interrogare quel che ci è stato tramandato per vie dirette o traverse, ma c’è un limite invalicabile. E tanto le metodologie quanto le cornici concettuali e il punto d’osservazione da cui partiamo per compiere questo lavoro, sono in tutto e per tutto nella modernità.”
Tra l’altro, per il periodo antico e per quello medioevale dobbiamo sempre tenere a mente che ancora non esisteva la stampa: molte delle informazioni, delle conoscenze e dei saperi riferibili a quei momenti storici sono irrimediabilmente perduti. Sono mondi naufragati.
Sarebbe un po’ come tentare di capire cosa è e come funziona un frigorifero (senza averlo mai visto prima) possedendo come dato informativo di partenza un’unica pagina del libretto di istruzioni …
@ Wu Ming 1
Sono perfettamente d’accordo con te sulla necessità di distinguere e insistere sulle differenze. Ho fatto quella precisazione perché mi sembrava che nella discussione si insistesse molto su quello che è accaduto nell’Occidente in epoca moderna, tralasciando le interconnessioni e l’importanza dell’esperienza coloniale.
Poi c’è da dire che per studi e per propensione personale mi interessano particolarmente i momenti di liberazione emersi da situazioni in cui tutto rema contro, compresa la lingua che un popolo parla e la sua stessa identità.
Parlando di Toussaint, lui pagò con la vita il fatto di essersi fidato troppo dei bianchi, però è anche vero che in Francia dovettero farlo viaggiare in incognito e farlo morire di stenti, invece che processarlo e condannarlo a morte, perchè i francesi lo volevano libero. Quindi sì, distinguiamo eccome :)
@ Lorenzo Gammarelli
Grazie per la precisazione e per essere intervenuto.
@ kulma
Non saprei dire se nel Silmarillion ci siano “manipolazioni”. Se ci sono credo siano involontarie. La traduzione è di Francesco Saba Sardi, lo stesso che ha tradotto “Il Ritorno di Beorhtnoth”. Diciamo che per quello che ho potuto notare confrontandomi con la sua traduzione mi ha dato l’idea di uno un po’ distratto e che tende a prendersi delle libertà parecchio discutibili. E’ evidente per esempio che quando ha tradotto “Beorhtnoth” non si è premunito di leggersi il poema sulla Battaglia di Maldon, né la critica esistente sul testo di Tolkien. Altrimenti certe scelte grottesche di traduzione e certi errori non li avrebbe fatti.
Comunque avvicinarsi a Tolkien partendo dal Silmarillion secondo me è una scelta corretta, dato che pur trattandosi di un’opera spuria, lì è contenuto il cuore del legendarium.
Non per difendere la categoria, ma non è detto che sia tutta colpa del traduttore. Non di rado, l’esito dipende dalle condizioni in cui la casa editrice lo fa lavorare. Su questo anche Gammarelli (a cui dò il benvenuto su Giap da collega, da traduttore a traduttore) ha detto qualcosa in un’intervista:
«Bompiani era interessata unicamente a cose come il numero di cartelle o di pagine, e alla data di consegna del testo in tipografia. Per Il fabbro di Wootton Major e per Il cacciatore di draghi non ho neanche potuto correggere le bozze, e infatti ci sono vari refusi ed errori che si sarebbero facilmente potuti evitare (per esempio la lettera runica thorn sostituita da una p e l’errore nel nome del traduttore di Fabbro).»
@ Wu Ming 1
Infatti ho premesso che nel marasma in cui si è lavorato su Tolkien in Italia è molto difficile distinguere una svista dovuta a sciatteria (a sua volta magari conseguenza delle pessime condizioni in cui il traduttore è stato fatto lavorare) da una dovuta a un abito mentale che può aver portato qualcuno a far “slittare” la traduzione di alcune parole chiave.
Bompiani da questo punto di vista ha la maggiore fetta di responsabilità. Tanto per portare anche la mia testimonianza: per tradurre il saggio di Shippey in coda al “Ritorno di Beorhtnoth” io e Arduini abbiamo avuto una settimana.
Sono stato fuori casa per due giorni e quandi non ho potuto rispondere.
Al volo, sottscrivo quello che dice Wu Ming 1 sul “possibile e impossibile”: su questo ci siamo intesi alla fine. L’esempio di Aries è perfetto: tra l’altro ci ho lavorato sopra proprio recentemente.
A Wu Ming 4 per l’OT sui “servi” in Tolkien: sarà un’ottima pista di studio.
Per il discorso sulle donne nel Medioevo, giusto per completare, come fonti ho consultato (più o meno approfonditamente) questi libri(che non riguardano solo le eccezioni tipo Matilde):
– E.Power, Donne nel Medioevo, Jaca
– R.Pernod, La donna al tempo delle cattedrali, BUR
– AAVV, Medioevo al Femminile, Euroclub
– D. Dufrasne, Donne Moderne nel Medioevo, Jaca
– Piccoli, Rinascimento al femminile, Laterza
Poi c’è una monumentale storia delle donne a cura di Duby-Perrot in 5 volumi, edita da Laterza (di cui ho letto solo pochi saggi).
E… grazie a tutti per la stimolante discussione.
@ Claudio Testi,
comunico un’impressione, da prendere con le pinze.
A occhio e croce, e in base a ricordi di lettura e citazioni da parte di altri autori, quelli che proponi mi sembrano – non tutti, ma quasi tutti – storici cristiani “militanti”, tesi a una rivalutazione del Medioevo europeo in quanto unica epoca autenticamente e profondamente cristiana, in cui ogni cosa e materia del mondo era intrisa di fede. Due libri su sei li ha pubblicati Jaca Book quand’era la casa editrice di CL. Non lo dico per sminuirne il valore scientifico, o esprimere un preconcetto: lo dico per chiarezza, perché le cornici narrative non sono mai “neutrali”.
E le idee sul genere, sul femminile, sul ruolo delle donne nella società, e quindi su quando e dove le donne (e quali donne) siano state più o meno libere, sono le idee più soggette a radicali oscillazioni a seconda della cornice.
Che l’immagine del Medioevo come epoca meramente oscurantistica sia alla base di una vulgata stereotipata è vero, e aggiungo che questa è da tempo un’acquisizione trasversale della storiografia. Però mi sembra sbagliato anche l’eccesso di reazione, l’iper-compensazione, l’eterna rivalsa contro le descrizioni illuministiche e positivistiche del Medioevo.
Per usare una metafora: il fatto che Voltaire tagliasse con l’accetta fendendo l’aria da sinistra, non significa che si debba recuperare De Maistre, che tagliava con la mannaia fendendo l’aria da destra.
Di Regine Pernoud (senza polemica correggo il refuso: Pernod è il liquore :-)) ho letto solo interviste. In quelle interviste, mi è sembrata eccessivamente innamorata dell’epoca che studiava. Leggendo le sue descrizioni mi figuravo un’epoca luminescente, con il collant sulla telecamera e le luci “smarmellate” (“Apri tutto!”, direbbe Duccio).
Magari – anzi, molto probabilmente – i suoi libri offrono un quadro più complesso. A rendermi un po’ guardingo è il fatto che, se vado a leggere le recensioni del libro che citi, trovo soprattutto i nomi di personaggi “eccezionali” sullo sfondo di un’epoca esaltante: nobildonne, badesse, sante…
Dufrasne, se non sbaglio, propone come modello di femminilità emancipata le beghine. Legittimo, e anche interessante, però, ecco, non facciamo finta che non ci sia un orientamento ideologico. C’è sempre. Se lo sappiamo e ce lo diciamo tra noi, possiamo trarre il meglio da quel che ci viene proposto, al di là dei rispettivi orientamenti.
Mi piacerebbe che qualcuno proponesse qui, a integrare quella di Claudio, una lista di storiche e storici che, anche traendo conclusioni diverse, hanno scritto di contraddizioni di genere nell’età pre-moderna partendo dalle schiusure di prospettiva e dalle acquisizioni dei gender studies più avanzati.
Ho appensa sentito il podcast. Molto interessante la discussione :complimenti.
Forse ormai e` OT pero`…
Vorrei aggiungere che oltre lo specifico esempio del dialogo tra gandalf e denethor sul diritto alla disobbedienza, molte delle scelte fondamentali e con esito migliore del libro sono “disobbedienti”. Farmir che lascia passare Frodo, Eowyn che va in battaglia e avra` parte fondamentale nella morte del nazgul, gli Hobbit che alla fine fanno un po’ come gli pare e per questo vengono coinvolti nella storia avendo poi il ruolo centrale, Huma che fa entrare Gandalf col bastone da Tehoden.
Altra cosa che non mi ha mai fatto capire come il SdA potesse essere interpretato destramente, e` boromir. Alla fine se vogliamo vedere un modello di eroe tradizionale e araldico e` secondo me boromir (assolutamente non aragorn) che fa scelte ubbidienti con gli ordini che ha ricevuto e cosi` fallisce sonoramente.
Finalmente sono riuscito ad ascoltare l’intervento di wm4. Lo sottoscrivo parola per parola, ma desidero aggiungere due considerazioni, sono certo che wm4 ne sia consapevole, ma ritengo importante menzionarle. Credo sia fondamentale porre attenzione all’ordinamento politico della Contea degli hobbit. Cito a memoria, ma potrei con facilità andare a reperire i passi interessati nel testo. Nella Contea c’è un sindaco, ma la carica è poco più che onorifica, la sicurezza (guardie di confine e pompieri) è presa in carico da gruppi di cittadini volontari auto organizzati. Se proprio vogliamo dare etichette politiche (e talvolta non è un gioco ozioso) l’auto organizzazione è una pratica che appartiene all’anarchismo e all’autonomia…
Ora, lungi da me l’intento di dare dell’anarchico a Tolkien, ma mi pare che nel testo ci siano gli elementi sufficienti a sostenere che l’autore idealizzi la Contea, ed è evidente a chiunque legga con un briciolo d’attenzione che la Contea è tutt’altro che una dittatura. Perché i fascisti questo vogliono – o sbaglio? – una dittatura. Anzi, in chiusura di romanzo – e Tolkien avrebbe potuto tranquillamente chiudere con il matrimonio di Aragorn, invece di menarla ancora per cento e rotti pagine – vengono spese molte parole per narrare la rivolta che Merry e Pipino promuovono contro il despota Saruman.
Chiudo questo mio piccolo contributo spendendo due parole sulla tradizione. Credo che uno degli intenti che artisti e studiosi antifascisti devono perseguire con maggiore impegno, sia proprio nell’ambito della tradizione. Mai come oggi, è fondamentale combattere l’idea di una Tradizione immobile e avulsa dalla storia, e rimettere al centro l’idea della tradizione (anzi, delle tradizioni) come il MOVIMENTO delle idee e dei comportamenti umani nel tempo e nello spazio.
augh
filo
@wm4: in un commento del 10/03 scrivi: “Il giardino hobbit è un giardino molto borghese, forse anche vagamente agricolo”. Sottoscrivo anche questo, anche alla luce di quanto ho scritto sopra, certe istanze anarcoidi, tra l’altrosono, proprie del mondo rurale.
@pedrilla
Su Boromir/Aragorn. Sono d’accordo. Boromir è assolutamente più compreso nella parte dell’orgoglioso guerriero, più pesantemente sovradeterminato dal proprio ruolo e dalla propria missione. E non a caso l’Anello agisce su di lui. Con un gioco di parole si potrebbe dire che l’Anello colpisce l’anello debole della catena (cioè della Compagnia). Boromir ritiene che l’Anello non spetti al piccolo vulnerabile indifeso hobbit, bensì a lui, che appunto è un potente guerriero, capo militare carismatico, e che quindi saprebbe come usarlo contro Sauron. In lui vediamo in azione l’orgoglio, oltre all’idea che il nemico possa essere battuto solo se lo si affronta con le stesse armi. Suo fratello Faramir è completamente diverso, e non solo è uno dei personaggi positivi del SdA, ma è anche uno dei due personaggi nei quali Tolkien affermava di identificarsi (l’altro era Bilbo).
@ filosottile
Esiste un anarchismo di destra.
In una società in cui tutti i poteri sono vacanti, decadenti o decaduti, comunque in crisi, la selezione dei migliori può avere luogo senza intoppi e l’uomo forte può trovare il proprio cammino verso l’affermazione di sé.
E’ precisamente così che gli evoliani leggono, ad esempio, il SdA (che poi è l’unico testo di Tolkien che leggono).
Tolkien stesso dice in una lettera di sentirsi affine o all’anarchismo o a una monarchia non costituzionale di stampo pre-moderno.
In effetti alla fine del SdA il re ritorna e regna sulla Terra di Mezzo senza imporre un dominio, ma rendendo la libertà a tutti i popoli, a prescindere da quale parte abbiano tenuto durante la guerra. In questo modo Aragorn realizza il proprio destino e riporta in auge la propria stirpe.
Tutto vero. Però va integrato con alcune constatazioni:
1) Un romanzo non è necessariamente un manifesto politico. Tra l’altro è l’autore stesso a respingere qualunque intenzionalità di questo tipo che già in vita alcuni tentarono di attribuirgli (scusa se non ti cito le lettere, ma non ho l’epistolario sotto mano).
2) Desumere da un paio di frasi in una lettera privata che Tolkien fosse un antiautoritario nostalgico di una monarchia carismatica è quanto meno un po’ sbrigativo. O meglio: nulla osta che lo fosse, ma che considerasse questo un obiettivo politico a cui aspirare è tutto un altro paio di maniche. C’è una lettera in cui Tolkien afferma anche di voler tornare a vivere sugli alberi e di apprezzare chi faceva attentati contro le fabbriche… ma fino a prova contraria visse tutta la vita da buon borghese nell’ovattata Oxford, senza concedersi mai alcun colpo di testa.
3)Il mito del ritorno del re è un topos del patrimonio leggendario europeo: il fatto che Tolkien lo riproponga non significa che lo auspichi “davvero”. Oggi non ci sogneremmo di ammantare d’intenzionalità politica il finale delle fiabe o delle saghe epiche a cui Tolkien si ispirava. Quindi perché leggere il SdA in questa chiave?
4) Il ritorno in auge della stirpe di Aragorn dura assai poco. C’è un momento di vero e proprio rinascimento (che tra l’altro per come viene descritto fa pensare al Rinascimento storico, cioè all’uscita del Medioevo), ma l’era che è stata inaugurata è in realtà quella degli Uomini, cioè il tempo storico che mette fine al tempo leggendario/letterario. Alla morte di Aragorn, il trono passerà a suo figlio, che dovrà affrontare altri guai [per non parlare della fine tragico-maliconica di sua moglie Arwen]. Nei suoi ultimi anni Tolkien provò a scrivere un sequel del SdA, che avrebbe visto protagonista proprio il figlio di Aragorn e Arwen, ma abbandonò il progetto perché – disse – la Terra di Mezzo senza elfi non lo appassionava più. Insomma, l’icoronazione di Aragorn non riporta indietro il tempo, non ripristina l’Età dell’Oro, ma al contrario traghetta la Terra di Mezzo dal mito alla storia caduca e complessa dell’umanità.
5) Di questo tempo moderno fa parte proprio la Contea. Come fai giustamente notare, il romanzo non finisce con l’incoronazione del re. E questo è importantissimo. Il vero finale è il ritorno degli Hobbit nella Contea, con l’ultima prova che dovranno affrontare, questa volta da soli. Cioè il ritorno degli uomini moderni al proprio tempo, dopo il lungo confronto con il passato mitico e con il suo epos. Perché questo è il meta-tema dominante della bilogia dell’Anello: il nostro rapporto con la letteratura epica.
Al netto di questa considerazione, che ci porterebbe troppo lontano, mi sembra che l’interpretazione politica più forte sulla Contea sia quella chestertoniana, cattolica, che vede la Contea come una società ideale di piccola borghesia agraria e piccoli commercianti e artigiani.
Personalmente appartengo alla schiera dei lettori di Tolkien che ritengono che la Contea non sia affatto un posto “ideale”. Ovvero: l’idealità consiste nel fatto che è una società in cui l’accumulazione originaria è stata leggera, quindi non ci sono signori o grandi proprietari, e in cui padroni e domestici vanno d’amore e d’accordo. Ma non è invece per niente ideale nelle sue dinamiche interne, nelle sue consuetudini sociali e mentalità, etc., che invece vengono stigmatizzate impietosamente nel corso della narrazione. Stolidità, grettezza, conformismo, familismo, provincialismo, sono tutte caratteristiche degli abitanti della Contea. I quali sono gli unici che pensano che la guerra non li riguardi, che sia una cosa lontana e di cui non interessarsi. Questa egoistica ottusità ha delle conseguenze pratiche, dato che Saruman riesce a circuirli e a prendersi la Contea con una mano sola. La Contea insomma è un gran bel posto in cui vivere una vita tranquilla – lo è davvero – finché il conflitto non ti entra in casa e non ti morde le chiappe. E’ questo che ci racconta Tolkien, secondo me.
Scusate se l’ho fatta lunga, ma non è che ponete questioni di poco conto e io non sono un esperto: ragiono mentre rispondo.
@wm4
Parlando di anarchismo nella Contea, concentravo la mia attenzione sulla autogestione delle misure di sicurezza.
Per quanto riguarda ciò che dici al punto 1) Il fatto che Tolkien respinga una lettura politica della sua opera, significa per me solamente che Tolkien non desiderava che venisse data una lettura politica della sua opera, non che una lettura politica non fosse possibile e, soprattutto, che il SdA non sia un romanzo che in maniera massiccia affronta questioni politiche. Ci vado cauto con ciò che gli autori dicono a proposito delle proprie opere, nel bene e nel male. Per dirne una, sono fra quelli grati a Max Brod per non aver rispettato i desideri di Kafka.
Per quanto riguarda le tue conclusioni finali mi tocca dire “Touché!”. È senz’altro come dici tu.
Io pure ragiono scrivendo, e leggendo, e confrontandomi. E ti ringrazio sentitamente di avermi risposto.
filo
Se posso “intromettermi”:
quella del cosiddetto “inconscio politico” in arte e letteratura e quella dell’allegoria politica sono due faccende diverse.
L’inconscio politico fa sì che ogni opera d’arte sia anche una “allegoria aperta” delle tensioni politiche, sociali e di classe del suo tempo (e in diversi hanno evidenziato quanto di quelle tensioni sia presente nelle opere di Tolkien), ma non vuol dire che quest’allegoria sia “a chiave”, che a ogni elemento della storia corrisponda biunivocamente un elemento della realtà in cui l’opera è nata, perché le allegorie a chiave sono e possono solo essere *intenzionali*.
Se non ho capito male, mi sembra che quando Tolkien parla di questo nelle sue lettere, esprima con altre parole tale distinzione.
@wm1
se stai dicendo che il SdA non è Animal farm, mi trovi d’accordo al 100%. Ma ciò non toglie che il romanzo ponga e si occupi ampiamente e piuttosto esplicitamente di questioni etico-politiche.
@ filosottile
ok, però a me non viene in mente nessuna opera che *non* si ponga, di riffa o di raffa, questioni etico-politiche :-) Persino l’arte-per-l’-arte è una presa di posizione sul mondo.
@wm1
in effetti è proprio così, tutta l’arte – di riffa o di raffa – si pone sempre questioni etico politiche. Sono abbastanza sicuro che Wilde nel Critico come artista e più di uno di quei buoni filosofi francofortesi l’abbiano persino scritto. :-)
In ogni caso, io non ho letto le lettere di Tolkien, mi sto affidando a ciò che mi riporta wm4. Della richiesta di Tolkien mi sfuggono contesto e tono. Adesso, senza voler pontificare oltre il dovuto, mi limitavo a dire che dal momento che lui si occupa ESPLICITAMENTE di questioni etico-politiche, io mi sento legittimato a leggercele… Volendo fare mostruosi parallelismi, è come se il marchese de Sade dicesse che nella Filosofia nel boudoir c’è solo sesso!
Sì, ho capito cosa intendi. Integro con un’ulteriore sfumatura: uno scrittore può porsi esplicitamente (immagino che con questo intendi dire *intenzionalmente*, perché si è espliciti anche nei lapsus, anzi, soprattutto!) questioni etico-politiche, senza per questo affidare al testo che scrive una risposta, o muoversi in una sola direzione. Altrimenti si scrive un romanzo a tesi.
Oltre a Wilde, Adorno etc. possono essere utili L’inconscio politico di Jameson e Politica della letteratura di Rancière (che infatti ho appena letto!).
“possono essere utili L’inconscio politico di Jameson e Politica della letteratura di Rancière”
allora me li cerco
grazie
filo
@ filosottile
chiedo scusa per il ritardo nella replica, ma ero lontano da una connessione.
Ovviamente hai ragione nel dire che si è legittimati a trovare in un testo narrativo elementi – politici o no – anche al di là delle intenzioni dell’autore. Se non altro perché capita spesso che il testo ne sappia molto più di lui.
Quello che volevo far notare ricordando che Tolkien respingeva l’attribuzione al suo lavoro di una esplicita intenzionalità politica, è che forse quel genere di interpretazione perde qualcosa per la strada. Se per lui raccontare “il ritorno del re” non significava auspicare il ritorno al passato, allora forse non è del tutto casuale che entrambi i romanzi del ciclo dell’Anello NON si concludano al momento dell’incoronazione (Bard e Aragorn), bensì con un ritorno al mondo borghese della Contea, cioè al nostro mondo. Un mondo nel quale non ci sono né re, né signori, né invincibili guerrieri, e dove nondimeno i protagonisti possono fare tesoro di ciò che hanno esperito nei loro viaggi, per così dire, a ritroso nel tempo.
Detto questo, i romanzi di Tolkien trattano temi politici? Sì, in senso lato, nella misura in cui trattano problemi etici, psicologici, filosofici, etc. E nell’affrontarli bisogna stare attenti a non confondere quella che Tolkien chiamava “l’applicabilità” di una storia con l’allegoria interna.
Sono sostanzialmente d’accordo con quest’ultima formulazione
filo