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[Il numero di gennaio-marzo 2011 della rivista Nuovi Argomenti (n. 253, pp. 247) era dedicato, non sorprendentemente, al centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, e dunque al “sentirsi italiani/e”. A sviscerare l’argomento erano le risposte di molti scrittori, artisti e intellettuali a un questionario preparato dalla redazione. Per dare un’idea delle domande, eccone una: «Territorio, tradizione e identità sono concetti utilizzati con frequenza, a destra come a sinistra. È d’accordo con l’uso che se ne fa? E crede di poter parlare, secondo la sua esperienza, di territorio italiano, tradizione italiana e identità italiana?”»
Nel novero degli interpellati c’ero anch’io. Anziché affrontare le domande una per una, ho deciso di sceglierne tre, accorparle e scrivere un’unica risposta-testimonianza. Rileggendola a distanza di qualche mese, proprio perché stridentemente inattuale, mi sembra più attuale che mai. La ripropongo qui, fatene ciò che vi aggrada. — WM1]
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Lei si sente italiano? E, se sì, in che modo?
Sente più forte il suo legame con un’identità locale (cittadina, provinciale, regionale) o con l’identità nazionale?
Ci sono personaggi, periodi o eventi storici che accendono in lei qualcosa di simile a un orgoglio patrio?
Stando all’anagrafe, sono nato in Italia. In realtà non è così. Sono nato nel movimento operaio e bracciantile emiliano (padre metalmeccanico, madre bracciante). Sono nato nel PCI e nella CGIL, nel mondo socialista e marxista (più precisamente: gramsciano e togliattiano), un mondo di case del popolo rurali, vecchie sezioni di partito, piccole camere del lavoro e feste de l’Unità infestate di zanzare. Vengo dal lembo “depresso” dell’Emilia, ovvero il suo cantone nord-orientale: il Basso Ferrarese, zona che quand’ero piccolo conservava sacche di povertà, e che ancora oggi poco corrisponde ai clichés sull’Emilia, senz’altro più simile al Polesine che al cuore della regione. I miei natali sono dunque nel profondo della provincia, ma quel profondo era molto vicino al centro del paese in cui sono nato e che oggi non esiste più: il Partito comunista. Fu Pasolini a definirlo «un paese nel paese» con Bologna come capitale virtuale. E andò oltre, esagerando a bella posta, definendolo «un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico». E aggiungo: un paese internazionalista in un paese particolaristico. Quando Pasolini scrisse queste frasi, io avevo quattro anni, e già quel «paese separato» si stava facendo meno onesto e un poco più idiota, meno colto e più consumistico, e ovviamente più particolaristico. Quell’esperienza andava perdendo specificità, il sotto-insieme cominciava a somigliare all’insieme. Come sia andata a finire è cosa nota. Fatto sta che io sono nato e ho vissuto i miei primi anni non (genericamente) in Italia, bensì in quel sotto-insieme, in quell’esperienza specifica che non aveva corrispettivi nel resto d’Europa. E anche quando ho iniziato a contestare quell’origine e quel modello, prendendo altre direttrici, sono comunque rimasto nell’alveo marxista e della sinistra, la peculiarissima e molteplice sinistra italiana, quel phylum intrecciato in cui troviamo Labriola, Gramsci, Bordiga, Panzieri, Tronti, Ingrao, Pintor, Rossanda, Toni Negri, Primo Moroni, Fortini, Pasolini, Sanguineti, Giorgio Cesarano, Paolo Virno… Queste sono alcune delle «eccellenze»; purtroppo vi sono anche molti fessi, ma è inevitabile. All’estero, per fortuna, arrivano le eccellenze. Posso dire che mi sono sempre sentito italiano soprattutto in questo senso, ossia consapevole – e orgoglioso – di stare dentro una tradizione di «pensiero italiano» (cfr. Roberto Esposito) radicale, lungo una via prettamente italiana alla modernità e al pensare la rivoluzione. Cosa che ha ben poco a che fare con lo stato-nazione e col patriottismo dei confini. L’aprirsi di quella via era dovuto a tanti fattori, non ultima l’esistenza, in Italia, del movimento operaio più marxista (benché in un modo “strano”, eterodosso persino nello stalinismo) e più organizzato di tutto l’occidente. Anche la disgregazione che ha prodotto la situazione attuale è dovuta a tanti fattori, non ultima la reazione violentissima dell’establishment alle lotte di quel movimento. Ed è il principio dell’altra storia, quella che mi vede italiano (nel senso anzidetto) per quanto riguarda i natali, ma profugo per quanto riguarda il presente. Profugo, sfollato, pur continuando a vivere all’interno del Paese che è anagraficamente il mio. Sfollato, esule nella mia stessa terra, come un palestinese, perché non esiste più il Paese che era il mio esistenzialmente. Si tratterà, per me e per quelli come me, di federare i campi profughi (dove abbiamo avuto figli e nipoti) fino a costruire un nuovo «Paese nel Paese».
Per me, cresciuto nella capitale rossa italiana, la condizione di profugo non è stata più attenuata. A parte la “ruralità” che era appena dietro l’angolo, e la contestazione al PCI, che era già stata acquisita dai genitori sessantottini, io ho incrociato il primo democristiano alle scuole medie (ed era il figlio di emigrati dalla Campania). Fu uno shock.
Fino ad allora la mia infanzia e prima adolescenza si erano svolte in un ovattato cosmo rosso libertario e de-stalinizzato. Avevo passato le estati facendo campeggio libero sulle spiagge adriatiche, in mezzo ai nudisti e ai freakettoni. Il mio non era l’universo provinciale delle feste de l’Unità o delle Camere del Lavoro, ma quello un po’ beatnik di chi, oltre alle lotte extra-parlamentari, aveva voluto sperimentare nuove forme dello stare assieme, tra Bologna, Parigi e il resto del mondo (e senza i soldi di papà, per altro). E’ stata una parentesi molto breve. A metà anni Ottanta era già finito tutto, risucchiato dal gorgo che avrebbe poi prodotto i tempi in cui viviamo. Nell’85 ormai le suddette spiagge erano state invase da torme di tossici, fattoni e radical chic; a Bologna la politica smobilitava lasciando il posto all'”edonismo reaganiano” e agli ultimi fasti da “isola felice”. E io incontravo il mio primo democristiano… che era pure simpatico. Di lì a poco sarebbero arrivati i veri mostri.
Condivido quasi appieno la risposta – benchè le mie origini non emiliane non mi permettano di provare la giusta empatia. Anzi, io ho sempre percepito la mia terra come la parte disonesta, idiota e consumistica dell’Italia: una sorta di fardello che mi fa pesare la mia italianità. Nessuna vergogna, ben inteso, soltanto dispiacere per le opportunità non colte da un’intera nazione.
Vorrei però lanciare un interrogativo (ed è l’aspetto che mi ha fatto inserie il “quasi” dopo il “condivido”e prima dell'”appieno”): ha davvero senso crearsi un pantheon di miti culturali e politici, una cosmogonia personale? I nomi, secondo me, fanno spesso più male che bene.
@ Haberman
è che tutti abbiamo una costellazione di riferimenti culturali. Senza di essi non si vive. Abbiamo tradizioni (cioè “qualcosa che tramandiamo”), le ricombiniamo, abbiamo un “pantheon” personale. Ripeto: senza non si vive, non si è mai data comunità umana priva di tutto questo. Ciascuno di noi si auto-rappresenta in un flusso del tempo, si figura un passato da cui proviene e costruisce l’immagine di un futuro verso cui è diretto. Oggi quest’ultima parte è la più difficoltosa.
L’importante è, come si è più volte detto qui, “mostrare la sutura”, cioè far vedere che quello che facciamo con le tradizioni è un *lavoro*, che quelli su cui interveniamo sono (direbbe Jesi) dei “materiali mitologici”, non *la* Tradizione, non *il* Mito, non la misteriosa trascendenza che ti schiaccia. Noi scegliamo ogni volta se, quando e come ri-narrare quelle storie, ci chiediamo se sia tempo di guardarle da un’altra angolatura, ci sforziamo di scoprire nella loro ricchezza sempre qualcosa di diverso, affinché non si rapprendano né sclerotizzino.
L’eterogenea lista di nomi (talmente eterogenea che forse alcuni di quei personaggi si sarebbero ammazzati a vicenda, avessero potuto!) sta per qualcosa di molto più vasto. Sta per una brulicante, cangiante peculiarità, un’anomalia selvaggia che si è prodotta a sinistra della storia d’Italia, e che non ha mai avuto veri corrispettivi altrove. Tanto che oggi è studiata in tutto il mondo, e ispira teorie e prassi.
[…] note a margine a proposito di un articolo dei Wu Ming a proposito di sentirsi italiani, di legami con le tradizioni, di sentirsi esuli in casa […]
Forse il mio pensiero è molto influenzato dalle delusioni personali. Mi osno sempre riconosciuto, per trovare le mie radici di italiano, alla tradizione siciliana – Sciascia, Consolo, Bufalino come scrittori, Impastato, Fava, mettiamoci anche Mattarella fra i politici. Tuttavia, mi sono pian piano reso conto che si trattava di appigli fragili, sia perchè ciascuno di loro aveva le sue peculiarità che lo rendevano diverso e persino in contrasto con gli altri (come hai ben detto tu), sia perchè, seppur importante, si trattava di un olimpo rivolto al passato, che non trovava alcun riscontro nel presente. Oggi, non vedo incarnati quei valori in nessun luogo e in nessuna figura; cerco certezze, ma non ne trovo (a questo mi riferivo quando su Twitter connotai gli anni Zero come quelli della “zerietà”).
Questa disillusione mi porta adesso a dubitare di qualsiasi personalità che mi possa inizialmente sembrare convincente; penso che l’unico rimedio sia l’analisi spietata, che scruta nel profondo l’identità dei miti per trovare o meno le loro pecche. Ed è questo che mi aiutate a fare voi Wu Ming, a partire da Martin Lutero fino a Beppe Grillo.
la sensazione di essere un esiliato l’ho sempre avuta anch’io. alcuni dei miei ricordi degli anni ’70 sono simili a quelli di wm1. la bisiacaria rossa e la bassa friulana erano piu’ simili all’ emilia che al veneto. ma da queste parti chi era comunista viveva sospeso tra due mondi: il socialismo, quello vero, era la’, oltre le colline. quel che e’ successo a partire dal ’91 mi ha fatto capire in modo traumatico che “di la’” non erano proprio roselline. pero’ lungo tutti gli anni ottanta l’ esperienza materiale di un luogo “altro” e’ stata per me una difesa potentissima contro l’ ondata di merda che ci stava sommergendo tutti.
eppure quando ripenso alla yugoslavia non mi viene in mente il socialismo. piuttosto mi tornano in mente una certa luce, certi colori, certi rumori, certi silenzi, certe situazioni che mi sembrano appartenere a un’ altra vita e a un altro mondo.
provo a buttare giu’ alcune immagini sparse sulla “mia” yugo, anni settanta-ottanta.
estate del ’75, ci eravamo appena trasferiti a gorizia. la nostra casa era a poche centinaia di metri dal confine. dalla finestra, oltre i campi, si vedeva la iskra, una fabbrica di materiale elettrotecnico. ricordo che ogni tanto, alle ore piu’ assurde, si sentiva il suono fortissimo di una sirena, e subito dopo si vedevano tutti gli operai uscire e fare cose strane. anni dopo, mi hanno spiegato che si trattava di esercitazioni per la difesa della fabbrica in caso di attacco aereo.
febbraio ’87, io e mio zio stiamo andando a piedi da cepovan a dolenja trebusa. sprofondiamo nella neve fino alle ginocchia.
e’ gia’ il crepuscolo e il paese e’ ancora lontano. come un fantasma, compare un uomo con le racchette da neve e il berretto blu con la stella rossa, o almeno cosi’ mi sembra di ricordare: era il postino. tornava da un giro di tre giorni nelle frazioni rimaste isolate.
tira fuori dalla bisaccia una bottiglietta di grappa, ci offre da bere, e ci accompagna lungo l’ultimo tratto fino al paese.
settembre ’79, gita di famiglia in val trenta. nella mia memoria compaiono e scompaiono come flash immagini di paesini di pietra, finestre piene di gerani, file di operai che camminano lungo la ferrovia, carri tirati da cavalli, strade bianche, colpi di accetta, profumo di fieno, lenzuola stese che si gonfiano nel vento. e il fiume verde-azzurro, ovviamente, ma quello non e’ cambiato, tutto il resto invece ora non lo ritrovo piu’.
agosto ’86, ancora in val trenta, ma questa volta senza famiglia. ho appena compiuto 16 anni, e finalmente ho potuto fare la propustnica. io e un mio amico abbiamo deciso di tentare l’ impresa: in bicicletta da gorizia alla sorgente della soca (isonzo) e ritorno, in giornata. sono circa 200km. rispetto al ’79 le cose sono gia’ cambiate. a solkan hanno costruito una diga, e cosi’ l’ ultimo tratto del fiume prima della pianura si e’ trasformato in un grande lago. a kobarid, sul muro di una fabbrica, campeggiano ancora i ritratti di marx-engels-lenin-tito. le strade sono tutte piu’ o meno asfaltate.
mano a mano che si sale, pero’, la valle diventa piu’ selvaggia, e nell’ ultimo tratto la solitudine e’ totale, dà quasi le vertigini.
una sensazione simile l’ho provata solo molti anni piu’ tardi, in una gola vicino al confine tra la grecia e l’ albania.
inverno del ’74, sono un bambino di quattro anni. all’ epoca abitavamo a tarvisio. vado con mio papa’ a comprare carne a kranjska gora. la macelleria e’ una casa giallina bassa e scrostata, sulla piazza del paese. io resto in macchina, una 500 bianca, mentre mio papa’ entra nel negozio. fa freddo, in giro non c’e’ nessuno, ci sono solo mucchi di neve, e un grande silenzio.
@ Haberman
forse la differenza sta anche nel tipo di “concatenamento” a cui, rispettivamente, ci riferiamo.
Nel tuo elenco sono tutti (biologicamente e anagraficamente parlando) morti a parte Vincenzo Consolo. E’ più facile percepirlo come un “pantheon” tutto rivolto al passato, anche se io non credo sia vero: la figura e l’esempio di Peppino Impastato mi sembrano molto più conosciuti e ispiranti oggi che durante gli anni Novanta, per dire (almeno fuori dalla Sicilia). Insomma, non è un appiglio fragile, o almeno non lo è più di tutti gli altri che aiutano a vivere.
Dal canto mio, io ho messo insieme morti e vivi, e li ho scelti non tanto (o non solo) per i “valori” incarnati, quanto per le chiavi che ci hanno dato e ci danno per leggere la realtà, anche di oggi. E’ un filone teorico. Tra i nomi che ho incluso nell’elenco ci sono persone tuttora viventi e in piena attività, la cui elaborazione teorica, filosofica e politica pare ancora lungi dal concludersi ed è oggi “incarnata” (sebbene precariamente, ma trovami una cosa buona che al tempo stesso non viva un’esistenza precaria…) in prassi reali, in dinamiche collettive e di movimento.
Quindi secondo te è ancora possibile trovare dei padri spirituali su cui fare affidamento? Voglio dire: avere come punti fermi delle personalità singole e al contempo impegnarsi e interessarsi contetamente in movimenti di massa?
Quando partecipo a inziative che coinvolgono molte persone, ho come la sensazione che si perda lo spirito originario che le ha ispirate. Non è snobismo, ma semplice riconoscimento che una volta passata all’azione, spesso un’idea smrrisca quasi del tutto la propria forza e il proprio valore (inteso come validità).
E poichè l’obiettivo dev’essere sempre quello di modificare il mondo, con le idee, provo una concente delusione ogni qual volta questo accade. Anche alla luce di quanto da voi scritto in “Spettri di Muntzer all’alba” (Giap 6 IXa serie – 6 marzo 2009), come pensate si possa risolvere questo problema (se pensate che esista?)
@ Haberman
mica siamo dei guru, noialtri :-) Non millantiamo di avere soluzioni. Già individuare i problemi è un bel passo avanti, rispetto al non individuarli. Ci sforziamo di mantenere aperte le prospettive, di condividere con tante persone le riflessioni sui problemi, di riconoscere i vicoli ciechi prima di andare a sbattere la zucca contro il muro, di imparare qualcosa mentre usciamo da quei vicoli, di trovare la lingua per parlarne ad altri, per segnalarli.
Il nostro motto rimane: “Salvarsi il culo il più collettivamente possibile”. Tutto quel che scriviamo ha a che fare con questo.
Beh, hai ragione.
Come direbbe Caparezza: “Mi credi il messia? Sono problemi tuoi!”
In questo momento Caparezza è uno dei più lucidi.
@Wu Ming 1 @Wu Ming 4
«Ciascuno di noi si auto-rappresenta in un flusso del tempo, si figura un passato da cui proviene e costruisce l’immagine di un futuro verso cui è diretto» e «Per me, cresciuto nella capitale rossa italiana, la condizione di profugo non è stata più attenuata».
Mi intriga come ci si ritrovi poi tutti qui “Esuli in patria”, pur essendo quel flusso e quel passato diverso per ciascuno, difforme, se non antitetico e discrepante.
Perchè:
se invece nasci nella Confcommercio della provincia centro-meridionale più piccola e triste, la cultura cristiano contadina dei tuoi genitori timbra il Comunismo o il sessantotto come il Male e in famiglia i riferimenti (in)formativi sono la Democrazia Cristiana Dorotea e RAI1;
se la loro alfabetizzazione è di quinta elementare (non “da”, proprio “di”) e l’ultimo ricordo di un insegnamento “culturale” di tuo padre risale a quando avevi cinque anni (ovvero la spiegazione del significato della parola “riscossa” mentre eri con lui davanti alla TV per “Sandokan alla riscossa”);
se, al culmine della sua cinefilia, quello stesso padre ti portava da bambino a vedere “Piedone l’Africano” («Pensa che ci stanno quelli che dicono che il cinema è arte!»);
se tua zia ti porta a tutte le Sante processioni per ogni SS.Cosma&Damiano, SSPietro&Paolo, Venerdì Santo, Assunzione di Maria,…
se a mezza adolescenza, stavi per scrivere una lettera ad Avvenimenti (!) e tuo padre ti presenta orgoglioso una tessera del Napoli Club Pizzeria California e un biglietto per Napoli-Inter (due a zero, Careca , Maradona http://dai.ly/lSP6Ot);
se in quella stessa provincia il clima politico era tale che nel 1992(!) la DC otteneva la maggioranza assoluta dei voti e il PSI era al 15%.
Se tutto questo e altro ancora,
com’è che per strane alchimie sociali ti aggreghi fuori dalla scuola a uno sparuto gruppo di coetanei (molto sparuto), imparate assieme di post punk e ti metti a suonare in una band (a cui gli altri coetanei lanciano ortaggi durante i concerti)?
organizzi le assemblee, volantini per la LAV e i referendum, in somma ti dai da fare e ci metti dentro tutto quello che non dovresti fino a farti scacciare e schifare da tutti?
decidi che vieni a studiare a Bologna, anche se i tuoi amici se ne vanno a Roma e ti infili tra sconosciuti nel primo posto occupato che trovi?
e poi da lì, non fai a tempo ad arrivare a un ciao che già cerchi un circuito/sottoinsieme ancora più ristretto di persone in cui trovi weltanschauung e comunanza assimilabile?
per imparare poi da e con loro che “identità” e “territorio” sono plastismi più che categorie, e che veicolano spesso e con maggiore forza argomenti pericolosamente reazionari?
ecc…
@Wu Ming 1 @Wu Ming 4
SPAZIO O TEMPO?
Io invece sono nato a Roma.
E qui abbiamo visto tutto ed il suo contrario, rosso e nero, e soprattutto tanto, tanto bianco e giallo, e niente era così netto, purtroppo. Non c’è stata nemmeno la fortuna di non sapere che esistevano i democristiani, purtroppo. A Roma era più complicato.
Allora la riflessione che nasce dalla risposta di WM1 e che volevo condividere è che anche io mi considero un esule in terra natia, ma non un esule “territoriale”, bensì temporale.
Non territoriale, perché questo paese, ieri ed oggi, per quanto pestilenziale, non mi può impedire completamente di guardare ad un altrove e scoprire ed imparare qualcosa di migliore.
Esule “temporale” invece sì. Sono nato a Roma, ma sono cresciuto nel pieno degli anni ’80. Ecco, quello sì poteva impedirmi, bloccarmi, ed in parte l’ha fatto, poteva addormentarmi, mentre costruiva le basi per tutto quanto oggi è evidente a molti, e in quegli anni lì ancora non era così chiaro, ancora nelle orecchie l’eco dei primi ’70, e il declino degli ultimi ’70, e la sterilizzazione rapida, ma all’inizio indolore dei primi ’80
Era magari anche il berlusconismo in vitro.
Per cui non so se mi sento tanto o poco italiano, so che ciò che questo paese ha prodotto anche in quegli anni ha fatto di me una sorta di esule da un tempo, un diverso tra troppi uguali, un migrante in patria, un alieno mai salito su una astronave. Capita di pensare “sarei dovuto nascere in un altra epoca”; ecco, io una ventina di anni prima, ad esempio.
Per cui mi sento uno scampato, a Ustica, alla morte di Lennon, alla morte di Marley, alla P2, alle rielezioni della Thatcher, alla rielezione di Reagan, ai Guns’n Roses, all’uscita di Brothers in Arms, ai socialisti trasformati in craxiani, alla Milano da bere, all’edonismo reganiano, come ricordato da qualcuno.
Un dilagare del brutto che certo non contagia solo l’Italia.
Ma l’Italia ha un problema in più, non ha gli anticorpi. Non ne genera mai abbastanza, per cui capita che il primo ventennio del secolo da noi trovi sempre un seguito, e soprattutto trovi legittimità e legittimazione. Non ci sono gli anticorpi.
Gli anni ’80, quelli della politica prima di tutto, proseguono e filiano, e legittimano icone trash e ideali poster televisivi stile tette enormi e short di jeans. Mancano gli anticorpi.
In 150 anni, e forse in particolare dal ’40 in poi, non abbiamo saputo rafforzare quest’ organismo. Per questo, parole come territorio, tradizione, identità suonano ancora più vuote. Ci mancano gli anticorpi.
p.s.
@Christiano: qualcuno la chiama “resilienza”…
Non mi è mai fregato un cazzo di essere italiano. Il tricolore ha sempre suscitato in me un moto istintivo di ripulsa. E questa cosa precede, e di molto, la formazione e le scelte politiche personali.
Da quando ho ricordi è così. Non penso che sia un bene, è così e basta. In questo senso non potrei nemmeno definirmi un esule. Un profugo sì.
Sono nato a napoli. Durante gli scontri di Watts.
A sette anni, credo, seduto vicino a mio padre, al cinema, a vedere “C’era una volta il West”, non capivo un cazzo, ma mi piaceva moltissimo.
L’Autobiografia di Malcolm X, incontrata per caso a 15 anni, sconvolse il mio modo di pensare, e vedere le cose.
La versione di Monk, al piano, di Round Midnight mi spaccò il cuore, e aprì nuovi mondi, sensazioni sconosciute.
Janpath Road, New Delhi, alle sei del mattino, mi diede la certezza di appartenere a un’umanità brulicante, di cui ero briciola. E che ero già stato lì.
Carlo Giuliani è mio fratello, e non ho fatto niente per lui ed ero a pochi metri. Come per altri milioni.
Davanti alla tomba di Joseph Brant ho desiderato morire. E sono morto.
Gli esseri umani risuonano. A migliaia di km. di distanza. Le radici, brandelli di esse, sono dove riconosci quella musica ancestrale.
Le storie sono musica. Se non suonano, non sono storie.
La terra dei padri è grande quanto la galassia.
I morti sono vivi. Molti vivi sono non morti, e nessuno è immune dal poterlo diventare.
Questo post è bellissimo. I commenti, come quelli di christiano e tuco, sono emozionanti.
L.
Sono nata anch’io a Roma, dove non è facile sfuggire a simboli, pseudo-simboli, monumenti, retorica, DC, ma per fortuna i miei orizzonti si sono aperti assai presto.
Mio padre passava lunghissimi periodi in Maghreb a progettare strade e così i miei primi passi li ho fatti in Marocco, le mie prime parole sono state in arabo, il mio primo ricordo è quello di una nave che ci avrebbe portato in Tunisia, e le mie sere romane, quando non eravamo con lui, erano accese dalle sue lettere scritte dal deserto, sotto un cielo traboccante di stelle che mi sembrava di vedere e mi pungevano il viso dando forma in modo confuso alla mia nostalgia…
L’Italia, per me, è “qualcosa” solo quando mia madre mi racconta di mio nonno, classe 1899, che viene chiamato in guerra (la “grande guerra”) quando ormai pensava di averla scampata. E di tutti i ragazzi che ha visto morire [Ungaretti, Jahier, e tutti gli altri scrittori-soldati del 14-18, per me non sono solo segni neri su pagine bianche].
Non riconosco “patrie” geografiche, i confini mi danno soffocamento [pochi giorni dopo ‘Schengen’ come una folle esule dispatriata mi sono messa in macchina, ho costeggiato il Tirreno fermandomi a dormire a Bocca di Magra – e lì, su quel promontorio verso il mare mi sembrava di vederli, Giulio Einaudi, Pavese, gli autori Einaudi -, per passare da Ventimiglia alla Provenza senza intoppi, senza blocchi], riconosco solo appartenenze di pensiero, di visione, di sogno, di racconto…
La mia patria è una carovana in movimento, un fuoco acceso in un caravanserraglio. Persone, non simboli. Fatti, non retorica. Movimento.
Da Udine a Torino, da Torino a Brescia: qualora si presentasse l’occasione di un impiego professionale più vantaggioso, mia madre, rimasta vedova con due figli da crescere, era pronta a fare le valige con tutta la famiglia al seguito. Ogni trasferimento comportava il dover ricostruire il mio mondo da zero: amicizie, giochi, scuola, punti di riferimento. Se diamo ascolto alla psicanalisi, quei traumi infantili stanno alla radice di un senso di precarietà latente che non mi ha mai abbandonato. Poi il collegio in Veneto, lontano da casa, in mezzo a coetanei provenienti da ogni città d’Italia. Infine approdammo a Bologna, ma a quel punto avevo già 16 anni ( anche se il collegio me ne aveva rubati cinque): sapevo che lì, finalmente, avrei potuto mettere radici, sapevo delle band nelle cantine e.. poco altro. Nessuno mi aveva insegnato a seguire le scritte a pennarello e gli stencil sui muri del centro: Anna Falkss, Nabat, Stalag 17, Raf Punk, una dopo l’altra, fino a raggiungere le case occupate del quartiere Marconi, il Disco d’Oro, il cassero di Porta Santo Stefano. Ci arrivai così, da solo. E non per caso.
Sentii che quella era casa mia, quella gente era mia. Presto mi resi conto di essere diventato parte di una famiglia allargata, i cui membri vivevano sparsi in ogni angolo del globo, e in ogni luogo era possibile sentirsi a casa propria. Bastava falsificare un biglietto del treno per trovarsi con i propri simili a Berlino, Amsterdam, Londra, Zurigo. Quelli erano i nostri punti di riferimento: i nostri simili. I confini nazionali erano assolutamente irrilevanti. L’unica linea di demarcazione era quella che separava idealmente il nostro mondo da tutto il resto. Lo Stato e la bandiera erano l’istituzione, la polizia, l’esercito, la scuola: in una parola, il Nemico. Che a Bologna coincideva con il rosso dell’amministrazione del PCI. In Italia, a distanza di decenni, l’eredità del Ventennio fascista pesa ancora sull’idea di patria e di patriottismo. Eppure GAP era l’acronimo di Gruppi Armati Patriottici, i nostri partigiani rivendicavano un patriottismo che si opponeva con le armi a quello della propaganda fascista. Chissà se è possibile indicare un punto esatto nella nostra Storia nazionale in cui quell’idea ha smesso di essere parte dei valori della sinistra, o se piuttosto si è trattato di lento processo di disconoscimento. Il caso volle che mi trovassi a New York durante l’11 settembre. Ho visto l’ambulante con la bandierina issata sul chiosco dei pretzel, il pischello portoricano che indossava un bandana a stelle e striscie e le sneakers perfettamente abbinate, rosso bianco e blu. Mi ero trovato per caso, con loro, nel bel mezzo alla Storia. A parte Spagna’82, non avevo mai visto un’intera città esibire con orgoglio una bandiera. Da italiano, dovetti mettere da parte tutto il mio cinismo e l’avversione all’idea di patria, per cercare di capire. Credo persino di esserci riuscito. Altri mondi. Ps: “Straniero nella mia nazione” è un pezzo dei Sangue Misto del 1994.
Sangue Misto, “Straniero nella mia nazione”
http://www.youtube.com/watch?v=FTTzK_h5KW8
Occhio, GAP= Gruppi d’Azione Patriottica
La sostanza della frase di DeeMo non cambia, comunque è giusta la precisazione di Anna Luisa.
@Deemo
Stavo twittando proprio il link alla canzone dei Sangue Misto legandola a questo post mentre @wu_ming_foundt comunicava il tuo commento che mi ha preceduto di qualche secondo. Mi vennero in mente subito le strofe di Deda e Neffa appena lessi il titolo del post. Il titolo esatto comunque è ” Lo Straniero” traccia numero 3 di SxM, ho il disco sottomano.
Ho lasciato un rizoma, un pezzo di me pronto a rigermogliare, tra le pagine dei libri che ho letto e i posti in cui ho vissuto. E tutti insieme, pagine o luoghi, hanno riprodotto quell’allegagione che si fa corpo, e volto, e nome, e che chiamo “io”. C’è un luogo, in effetti, in cui faccio di tutto per tornare, anche quando sono a Bombay o in Patagonia. E’ l’oliveta di mio nonno, dove di solito non manco un novembre per la raccolta. Ma è troppo poco per chiamarla patria.
Una volta – avendo scritto un romanzo ambientato in Argentina – mi hanno chiesto se mi sentivo argentino, o più argentino che italiano. Ecco cosa ho risposto:
“Quanto ti senti argentino?
Tanto quanto mi sento italiano. Ti rispondo in maniera un po’ ironica, anche perché il mio senso di affiliazione nazionale è alquanto basso. Mi divido tra l’istanza “acrata” di essere “straniero in ogni luogo” e quella più internazionalista di “cittadino del mondo”. Ho vissuto a lungo in diversi paesi. Quando vivevo in Inghilterra la gente mi chiedeva se ero spagnolo, in India se ero australiano. In Francia non mi chiedevano niente. In Argentina indovinavano subito che ero italiano, ma pensavano che ovviamente vivessi lì da sempre. Tra tutti, gli argentini sono quelli che si sono sbagliati di meno, e quindi se per essere davvero italiano devo andare in Argentina, allora posso anche essere argentino. Aggiungo che Alfredo, il protagonista del mio romanzo, a tratti si sente un “tano”, un italiano d’Argentina, e a tratti si percepisce “gringo”, straniero. Ma nelle pagine iniziali del “fioraio” cito fedelmente una lettera del mio vero prozio Cosimo. Nel 1976, l’anno zero della dittatura, lui ha scritto una lettera a mia madre, commentando in cocoliche, in italo-argentino, una mia fotografia scattata quando avevo 3 anni: “Albertito sta fatto una meraviglia… La zia tiene tutte le fotografii i cuando viene in casa gli altri nipoti di parte di Lei ci li inzegna a tutti dandoci spiegazioni che il ragazzino della foto è il figlio della figlia di la sorella di Cosimo, così che è conosciuto da tutti i cuasi tutti diceno che non pare italiano, diceno che tiene faccia di argentino, di questa America povera”.”
L’America povera, mi spiega mia nonna, è quella dove si andava a rifarsi una vita quando si nasceva contadini, come i miei nonni. Altri preferivano andare nell’America ricca, quella del nord.
Forse la faccia di questa America povera è qualcosa che mio prozio ha visto riflesso in quella foto. E qualcosa che continuo a cercare, tra l’oliveta in Maremma e gli slum di Bombay, tra calle Corrientes a Buenos Aires e i deserti dell’Asia centrale. Davvero nostra patria è il mondo intero…
Per me invece il “paese” è stato tale in senso drammaticamente concreto e materiale. Paese fatto non di continuità ideale con una tradizione di lotte e di pensiero, e nemmeno di una qualche identificazione patriottica, ma di villette a schiera, giardinetti curati, campanili, oratori, interminabili aree commercial-industriali, campi di mais e soia a segnare i confini eternamente in espansione fra il “dentro” e il “fuori”.
Da piccolo, pensavo che l’Italia e San Donà di Piave (profondo nordest, amministrativamente sotto Venezia ma ideologicamente sotto Treviso) fossero la stessa cosa. Corrado e il giudice Santi Licheri – ho trascorso una parte notevole dell’infanzia a casa dei nonni paterni – erano di conseguenza stranieri.
Quando, crescendo, ho scoperto che il “senso di appartenenza” di buona parte dei miei concittadini, nella migliore delle ipotesi, non andava al di là del Po’ e del Tagliamento, ho ripensato a quella mia vecchia idea infantile. Questa la conclusione che ho tratto: io ero cresciuto, loro erano rimasti lì, con i pantaloncini corti e lo zucchero filato in mano. Quando poi li ho sentiti berciare contro i “teroni” prima, contro i “stracomunitari” poi, mi sono definitivamente persuaso che oltre a non crescere, stavano pure regredendo nell’albero filogenetico.
La geografia demenziale del mio luogo di nascita, però, me la porto addosso. E la sua mancanza di storia è parte di me. E’ parte del mio retaggio familiare, diviso fra un ramo cattolico “nel midollo” e un ramo menefreghisticamente apolitico. Un bisnonno socialista, un prozio ateo, una madre ex ciellina tardivamente convertita ad un comunismo tutt’altro che ortodosso le uniche possibili avvisaglie delle mie future traversie intellettuali.
Traversie tutt’altro che terminate. Sicché, più che un profugo, mi sento una specie di Robinson Crusoe che ha piantato la baracca due metri oltre il confine di quei campi di mais e di soia, desideroso di distaccarsi da un consesso umano provinciale e reazionario che ha sempre odiato – di un odio volentieri ricambiato – ma troppo incerto, dubbioso… “debole” per entrare in qualche consesso nuovo.
Di qui la schizofrenia che ti spinge ad immergerti nel mondo accademico per poi ritrartene schifato con disprezzo profondo e viscerale, a cambiare città tre volte (Trieste, Venezia, Bologna) senza trovare in nessuna più che un fugace fantasma di quello che cercavi fuggendo dalla periferia, a innamorarti di mille cose per poi realizzarne nessuna, ad oscillare eternamente fra aspirazioni radicali e tentennamenti intellettual-borghesi. Il tutto unito ad un senso di generale fallimento dovuta alla mancata comprensione di quel che si è, di quel che si vuole, di quel che si può fare.
Nessuna patria, quindi. Nessuna appartenenza. I pochi esperimenti di azione collettiva naufragati di fronte ad una condizione di eternon nomadismo cui io stesso, come forse molti altri miei passati e presenti compagni d’avventure, mi sento condannato contro la mia volontà.
Chiudo quindi con una domanda: se per i “profughi” del mondo raccontato nel post c’è la possibilità di ricostituire quella specie di “patria ideale”, quale destino per tutti coloro – e dubito di appartenere ad una minoranza – che hanno preferito autocondannarsi alla condizione di “naufraghi” pur di non conformarsi ad un ambiente nel quale sono cresciuti (e che li ha quindi plasmati nel profondo) ma che hanno sempre percepito come estraneo?
Vorrei chiedere a WM1 (e a tutti) se esiste per lui (o voi) qualcosa che si possa definire Italia. Al di là delle denotazioni giuridiche (lo stato italiano), al di là delle identificazioni personali (che sono sempre molteplici), delle idiosincrasie politiche e culturali, del senso critico sul presente.
Perché è una questione che mi sfugge.
Sappiamo come sia nato lo stato italiano (vero?). Non starò qui a richiamare i vari Salvemini, Gramsci, Gobetti, o gli storici contemporanei come Banti. Quel che mi preme capire è se la retorica dell’italianità come appartenenza a una patria putativa, pre-politica, culturale, spirituale o che so io, abbia un fondamento, se lo abbia mai avuto e soprattutto se lo abbia oggi.
Se per un italiano – per una persona che ai miei occhi è indubitabilmente italiana – è legittimo definirsi esule, profugo, ospite in Italia, immaginate cosa può pensare di sé chi non può contare su alcun legame “tradizionale” (nel senso in cui lo intende WM1) con l’idea di Italia e di italianità.
Non si sa – ed è perfettamente naturale non saperlo – quanto costi ai sardi l’appartenenza all’Italia. Quanto costi in termini materiali, economici, sociali, culturali.
Nel 1970, quando il Cagliari vinse lo scudetto, Gianni Brera scrisse che finalmente la Sardegna era entrata in Italia. Era un paradosso, anche abbastanza ironico, ma con un fondo di parziale verità. Parziale perché quest’ingresso, se ci fu, fu abbastanza precario.
La Sardegna oggi, adesso, “ospita” i due terzi di tutte le aree militari italiane e il più grande poligono di addestramento, esercitazione e sperimentazione bellica d’Europa (Poligono Interforze del Salto di Quirra), nonché una delle maggiori raffinerie del Mediterraneo (a Sarroch, presso Cagliari, quella dei Moratti per capirci), con conseguenze facilmente intuibili in termini di deprivazione culturale e sociale, devastazione ambientale e incidenza di simpatiche malattie neoplastiche. A fronte di questo gli investimenti in infrastrutture civili è praticamente assente. Fatto 100 l’indice infrastrutturale stradale italiano, quello sardo si ferma a 43, quello ferroviario a 13 (sempre su 100). Non c’è in Sardegna questione strutturale di natura economica, sociale, culturale, demografica che possa trovare rispondenza nelle scelte di un governo che sta geograficamente altrove (col mare di mezzo, e non sto parlando di pochi chilometri) e che deve preoccuparsi (se va bene) di un territorio e di una popolazione di cui noi siamo un 3% scarso.
Uno può non avere Eleonora d’Arborea, Giovanni Maria Angioy, Melchiorre Murenu o Sergio Atzeni tra i propri padri/madri putativi/e, ma certo essere sardi e doversi sentire italiani è uno sforzo davvero faticoso. Forse per questo le celebrazioni per i 150 anni dell’unificazione italiana sono state in Sardegna così ossessivamente compulsive, con tanto di bambini delle scuole materne costretti a indossare coccarde tricolori e a cantare sull’attenti l’inno di Mameli, in nome dei bisnonni e dei trisavoli morti sul Carso o sull’Altipiano di Asiago.
Non voletecene, se fatichiamo a dichiararci italiani e se tendiamo a considerarci un’altra cosa. Non è questione di nazionalismo o di egoismo territoriale. Non c’è nulla di più distante da questa prospettiva del verbo leghista, dei particolarismi cantonali, della xenofobia e del razzismo così presenti in Italia oggi e un po’ anche ieri.
È che proprio ci fa difficoltà continuare a indossare un abito che ci ha cucito addosso qualcun altro e che somiglia tanto a una camicia di forza.
Al questionario citato da WM1 ha risposto anche Michela Murgia, di cui segnalo anche quest’altra riflessione. Mi ci ritrovo alquanto (non solo io, chiaramente) e a tali risposte rimando.
@ Omar, lo hai sentito anche tu cosa ho detto nell’intervento “Patria e morte”: qualunque discorso di tradizione stato-nazionale va messo alla prova guardandolo dai confini, dal margine, dall’immediato esterno. Io parlavo del confine nord-orientale, degli sloveni, del razzismo anti-slavo, perche’ con quei temi ho un po’ piu’ di dimestichezza, mentre sulla storia sarda non sarei stato a mio agio. Ad ogni modo, il discorso era quello. Riguardo al post qui sopra, io ho scritto che mi sento “italiano”in quanto appartenente a un phylum rivoluzionario che si e’ sviluppato in queste terre. Sardegna compresa, dato che ci ho messo dentro Gramsci e Pintor. Ho detto che in questa consapevolezza c’e’ ben poco di assimilabile al patriottismo, ai confini, allo stato-nazione. I confini servono solo a scompigliare i discorsi che arrivano dal centro.
La mia terra è la Lombardia, quella infida delle villette bifamiliari accanto ai viali delle industrie, e i miei amichetti avevano il papi con la fabbrichetta e la lambo in garage (rigorosamente in garage. solo una mezzoretta di moto ogni domenica per ricordare ai compaesani che sei ricco).
Paesi che trasudano opulenza brianzola da ogni tombino, razzisti fin al midollo, dove tutti i ragazzi che non vanno all’oratorio sono automaticamente schedati dai carabinieri.
In tutto ciò io son giunto da piccolo con miei ad abitare in una comunità di famiglie con cassa comune, ho sempre avuto un mare di persone in casa con disagi di tutti i tipi e a scuola ero una specie di alieno che abitava in una cascina piena di matti ai margini del paese.
Quindi è sempre stato un po’ difficile per me sentirmi parte di qualcosa. Eppure, sono lombardo e sono italiano, questa è la terra che mi ha cresciuto ed è qui che mi voglio impegnare per cambiare la situazione, almeno nel mio piccolo.
‘Fanculo ai papi con la fabbrichetta, non l’avrete vinta così facilmente. Ho chili e chili di zucchero da infilare nei serbatoi delle vostre lamborghini.
@WM1. OK, capito.
La mia non era una provocazione, ci tengo a chiarirlo: davvero vorrei capire se esiste una identificazione che sia “anche” italiana (oltre al resto, al di là della complessa identificazione individuale di ciascuno).
Per quanto mi riguarda, credo che l’unica vera patria (e matria) di tutti noi sia il pianeta Terra. Quando sento parlare di “confini naturali” ormai mi metterei a ridere, se non sapessi cosa questo ha significato in lutti e tragedie nella storia. Come specie, per noi non esistono i confini “naturali” e ogni confine, comunque definito, è sempre stato più un luogo di passaggio che una vera cesura spaziale e/o culturale.
Nondimeno, esistono le distanze e se ne può prendere atto senza la minima pulsione nazionalista o etnocentrica. Tanto meno xenofoba o razzista.
Quel che mi affascina è che io so di non essere italiano, per il semplice fatto che tutto ciò che mi viene presentato come fondativo dell’italianità (la lingua di Dante e Petrarca, il Rinascimento, il Risorgimento, ecc.) non mi appartiene e io non appartengo a tale congerie di elementi storici e culturali, a questa “tradizione”. Al contempo, anche molti che in tali elementi potrebbero riconoscersi hanno difficoltà – o addirittura il rifiuto – a riconoscersi.
La domanda a questo punto sorge spontanea: ma non è che avesse ragione Metternich e l’Italia sia solo un’espressione geografica? A Benigni dispiacerà, ma io non ci vedo tutto questo grande insulto, in tale affermazione, per quanto cinica e bastarda possa suonare.
Capisco comunque bene il senso dell’estraneità di stampo pasoliniano espresso nel post da cui prendiamo le mosse. Solo, volevo capire quanto questa estraneità sia profonda, quale ne sia il grado di complessità.
Grazie, comunque.
P.S. Per inciso – e per completezza – devo sottolineare che il pensiero rivoluzionario di Gramsci e di Pintor ha poco a che fare con la Sardegna se non in termini di provenienza geografica dei due (più sentita e “formativa” in Gramsci, a dire il vero). In questo senso, il loro contributo ideale e teorico è decisamente “italiano” e molto poco “sardo”, se posso dire così senza incorrere in fraintendimenti antipatici.
@ Omar
io credo che per qualunque parlante, e a maggior ragione per uno scrittore come me, la “madre patria” sia soprattutto la lingua in cui si esprime. Noi cresciamo nella lingua che parliamo, e uno scrittore è “connazionale” di tutti gli scrittori che si sono espressi nella sua stessa lingua. Se questa coincide con la lingua natìa, ancora di più, ma non è nemmeno necessario. Per questo Conrad non è uno scrittore polacco, Nabokov è sia uno scrittore russo sia uno scrittore anglo-americano, Kafka è uno scrittore tedesco.
Secondo me, “Italia” oggi non è solo un’espressione geografica. Forse Metternich aveva una parte di ragione ai suoi tempi, ma oggi “Italia” è (nel bene e nel male) un’espressione geografica e linguistica. La lingua italiana – quella che stiamo usando entrambi per comunicare – è, se vogliamo, una “patria”. Una patria mobile, in accidentata evoluzione, continuamente perturbata da sostrati e prestiti. Una patria che si può anche odiare, da cui ci si può auto-esiliare, ma che comunque esiste e con la quale siamo in rapporto fin da quando la mamma ci canta la prima ninna-nanna.
E c’è chi cresce parlandone due, di lingue. Si possono avere più “patrie” di questo tipo.
Riguardo ai sardi rivoluzionari: allora cito Lussu. In questo caso non si tratta solo di provenienza geografica: il suo contributo ideale e teorico fu decisamente “sardo”, e al tempo stesso apparteneva e appartiene in tutto e per tutto a quel phylum che dicevo. Le due dimensioni possono andare insieme. Anzi, in Italia vanno insieme spesso, perché questo stato-nazione contiene tanti mondi diversi.
Preciso che “andare insieme” non implica una “sintesi” tra le due dimensioni. Forse, al massimo, quella che Deleuze chiama “sintesi disgiuntiva”, in cui gli elementi combattono insieme e al tempo stesso combattono tra loro, rimangono inconciliati.
E’ in fondo una sintesi disgiuntiva anche quella su cui ho costruito la risposta a “Nuovi Argomenti”.
Che bel florilegio, miei cari amici. Che racconto plurale, si snoda in ricordi e provenienze e intrecci. Non lo se siete d’accordo, ma io lo leggo come un unico racconto, e mi arriva a una profondità che mi sorprende.
E poi, che piacere ogni volta che leggo dee mo da queste parti.
E al suo racconto allego una cosa personale, per me non poco importante. La prima ragione per cui ho amato bologna, appena arrivato, sono stati proprio quei biglietti di treno falsi.
Un’epifania, una sorpresa, un incredibile dono di libertà. Era l’87, e, come dee mo, arrivai al collettivo del dams senza sapere come. I biglietti li facevano alcuni di loro, insieme ad altri geni che avrei conosciuto poco più tardi. E le case erano quelle citate. Con quei titoli di viaggio ci andai ovunque, le città sono quelle e le case pure, amsterdam berlino zurigo… Una roba fantastica, con quattro lire in tasca ti godevi kreutzberg ante-muro passando da un concerto all’altro, da uno squat all’altro, e mostre e cinema indipendente, e la frei universitaet che ribolliva come una caffettiera con ogni sorta di incontri e seminari e via così.
E poi tornavi e c’avevi voglia di fare un pacco di robe, e contestavi la biennale giovani messa su dal comune e le istituzioni, facendone una vera e migliore con gente e gruppi che arrivavano da tutte le parti d’europa.
Ecco, così. Tanto per dire.
L.
@ luca
sai cosa mi ricordano, a volte, questi scambi su Giap? La rubrica delle lettere di “Linus” negli anni Settanta. Non per paragonarci o che , ma mi viene in mente spesso.
Avanzo una (ingenua) proposta. Perchè voi Wu Minghi non fate una specie di newsletter – tipo “Giap-off”, in cui inserire un abstract degli argomenti dibattuti, e poi il best of dei commenti dei lettori? Non molto lavoro – almeno credo – per voi, un buon prodotto per la giap community, e una minima gratificazione per chi commenta.
@ Haberman
fidati, qualunque lavoro in più sarebbe *un sacco* di lavoro in più. Soprattutto in questa fase. Voi vedete una piccola percentuale di quello che portiamo avanti. Se qualcuno si offre volontario per fare un suo personale “best of” dei commenti, ben venga, ma davvero, noi non possiamo imbarcarci in un’altra impresa.
Ci credo: avrei dovuto scrivere quell’ “almeno credo” in caratteri maiuscoli e di dimensione 24. Magari, se qualcuno è disponibile a una selezione di gruppo, confrontando le diverse opinioni, si può pensare a una cosa del genere. Un vero spin-off di Giap.
Lancio la proposta.
@WM1. Anche io credo che “ormai” esista l’Italia. È quella verso cui ci si può sentire appunto esuli “in patria” o stranieri tout court pur avendone la cittadinanza e usandone la lingua ufficiale.
Non enfatizzerei troppo la questione linguistica, comunque, perché dovremmo sapere quale sia la storia dell’italiano (come lingua e come lingua “di stato”). Per quanto riguarda me, è una lingua imposta a tutti gli effetti (ma questo potrebbero dirlo quasi tutti gli “italiani”): non è la “mia” lingua, non è la lingua in cui hanno espresso il mondo, hanno costruito la propria semiosfera, i miei antenati (anche i più prossimi) e continuano a pensare e a pensarsi molti miei conterranei. Inoltre, nel mondo ipercomplesso in cui viviamo, dobbiamo cominciare a rivedere le categorie identificative su cui si sono basate le grandi costruzioni culturali e politiche della modernità. L’equivalenza tra lingua, cultura, processi identitari ormai è stata destrutturata, rimescolata e trasformata in una sorta di identificazione multistrato, a volte persino incoerente al suo stesso interno.
Non posso sentirmi italiano solo perché uso l’italiano. L’italiano è per me un dispositivo da cui sono stato e sono agito molto più che uno strumento con cui agisco io.
Credo che comunque sia inevitabile a certe condizioni la vigenza di identificazioni sovralocali (quelle che nell’Ottocento sono state chiamate “nazionali”). Mi pare che sia un fenomeno direttamente proporzionale alla crescita della densità demografica e della complessità delle relazioni umane. Non appena l’umanità raggiunge un certo grado di presenza numerica sul pianeta e le sue relazioni interne si articolano oltre un certo limite quantitativo e qualitativo non basta più l’autorappresentazione come membri di una famiglia, di un clan o di una tribù ed è necessario autoidentificarsi in un insieme più ampio. La “nazione” nel medioevo e sino a epoche relativamente recenti era la propria città, spesso.
Ritengo che gli stati saranno ancora a lungo protagonisti delle storia umana, magari evolvendo le proprie forme sulla scia dell’aumentata diversificazione interna delle varie comunità che li abitano. Già nel corso del Novecento, a costo di enormi tragedie, si è imposta una nuova concezione di stato: non più stato-nazione ottocentesco, ma stato-diritto. Non è detto che il futuro ci riservi un’evoluzione verso il meglio, ovviamente. Ma finché (se mai accadrà) il livello di complessità delle relazioni umane non sarà ulteriormente cresciuto (magari quando la grande maggioranza della specie avrà compiuto la “transizione demografica“) e ci sarà bisogno di altri modelli di convivenza sovralocale, lo stato avrà la sua bella parte da giocare. Sempre che non ci estingua nel frattempo…
Detto ciò, citandomi Emilio Lussu, mi poni poi una questione che dalle nostre parti è stata ampiamente affrontata e problematizzata,non senza attriti e dibattiti (ancora in corso). Rischio però di essere noioso e autoreferenziale, perciò eviterò il più possibile di dilungarmi e avverto tutti che ciò che segue si può serenamente saltare, se non specificamente interessati al tema.
Emilio Lussu – gran persona, uomo integerrimo, ottimo “capo”, ma di scarsissima statura politica – rappresenta molto precisamente la causa profonda della depressione (materiale, culturale, politica e – secondo le statistiche – persino clinica) in cui versano i sardi contemporanei.
Quando nel 1921, a indipendenza irlandese ormai avviata, in Italia si annunciava un analogo processo per la Sardegna (visto il successo elettorale del PSdAz), fu Emilio Lussu, in un famoso discorso alla Camera, a respingere decisamente l’ipotesi “separatista” (allora si diceva così).
Lussu e il suo ideologo principe, Camillo Bellieni, avevano teorizzato la necessità per i sardi di reclamare verso l’Italia una tutela speciale, in nome del proprio sacrificio nel primo conflitto mondiale (ricordiamo qualche dato: su una popolazione di 800000 abitanti, ne erano partiti per il fronte 100000; rispetto una media italiana del 10% di perdite sul totale dei chiamati alle armi, la perdite sarde ammontarono al 13%). Tale tutela doveva riscattare la nostra “nazione fallita”, anzi “abortiva” (ossia produttrice di morte) dal buio della barbarie, grazie alla luce della superiore civiltà italiana (mi esimo dal ricostruire tutta la tradizione culturale che aveva prodotto da metà Ottocento in poi l’idea dei sardi come popolo “orientaleggiante”, poi come razza “congenitamente delinquente”, infine appunto come genia di eroici combattenti). Dovevamo aspirare dunque non a una compiuta autodeterminazione (come si aspettava la base dello stesso Partito Sardo d’Azione) ma all'”autonomia”.
Il tradimento fu tanto più cocente, in quanto reiterato. Quando la Sardegna uscì definitivamente dalla seconda guerra mondiale, alla fine del 1943, i partiti pre-fascisti si riorganizzarono. Il PSdAz tra questi, ovviamente. In tanti, specie tra i più giovani, attendevano il ritorno sull’Isola del “Capitano” (Lussu, appunto) per dichiarare finalmente l’indipendenza. Era un sentimento largamente diffuso. Lussu infine tornò (solo nel 1946!) e pronunciò un famoso discorso, in cui raggelò qualsiasi aspettativa in tal senso. Fu uno choc per un’intera generazione. Sentirsi dare del fallito dal proprio “padre”, del congenitamente fallito, non è esattamente un toccasana per nessuno. Nemmeno per una collettività in cerca di riscatto.
Il principio ispiratore dell’autonomismo sardo e prima di tutto del sardismo è riconducibile all’endiadi “orgogliosi e integrati”. Orgogliosi della propria “specialità” nell’ambito di un consesso culturale altro, presunto superiore, cui chiedere di essere integrati (accettati) in nome del proprio sacrificio (perché la tutela bisogna costantemente meritarsela).
Ecco perché Lussu non può in alcun caso essere considerato un buon esempio di “padre”. La sua parabola politica è tutta inscritta dentro l’orizzonte italiano. La soggettività collettiva cui faceva riferimento era altro da sé. Un “sé” assunto come minus habens. Una specie di nazionalismo alla rovescia, autorazzista. Attenzione, è ciò che i sardi pensano di sé ancora oggi, in molti casi (sempre meno, per fortuna). Specie quelli che non hanno avuto altri contatti con l’esterno che non siano i mass media italiani, televisione in primis.
Questa è una chiave di lettura molto utile per capire la storia sarda contemporanea. Mi perdonerete dunque se mi sono dilungato ad esporla (sia pure tratteggiandola senza approfondirla). Ma naturalmente non esaurisce il discorso. Per chi ne volesse sapere di più, sapete dove cercarmi (anche per insultarmi, nel caso).
@ Omar
il fatto che l’italiano (come del resto tutte le lingue nazionali e/o imperiali) sia stato imposto, di per sé significa poco. Proprio i “cultural studies” e le ricerche post-coloniali a cui alludi nel tuo ultimo commento ci mostrano una plètora di pratiche di riappropriazione, creolizzazione, trasformazione, che ri-plasmano dal basso la lingua ufficiale. Anche l’inglese è stato imposto agli “Africani della Diaspora”, ma se ne sono riappropriati e oggi lo usano, ad esempio, così:
Linton Kwesi Johnson – “If I Woz A Tap Natch Poet”
o così:
Smiley Culture – “Cockney Translashun”
Linton Kwesi Johnson è uno dei più grandi poeti in lingua inglese, e come lui Kamau Brathwaite (che chiama il suo particolare inglese “Nation Language”):
Kamau Brathwaite reads from “Born to Slow Horses”
…O come Benjamin Zephaniah (si pronuncia “Zefanàia”):
Benjamin Zephaniah – “Rong Radio”
Questa è tutta gente che non usa l’inglese in modo pacificato, ma lo anima di prassi che lo tengono in tensione e ne contestano l’origine. Ogni parola, per come viene pronunciata e/o scritta e/o concatenata alle altre, è testimonianza viva della schiavitù, della diaspora, del colonialismo, dell’imperialismo. Questo è un modo di “mostrare la sutura”, di mostrare il funzionamento della “macchina mitologica”, cioè di non dare per scontati i miti e le ideologie che la lingua imperiale sedimenta.
E al contempo, sempre di inglese si tratta. Dell’inglese più vivo e poetico che si possa trovare.
Quindi, “di tragica necessità” si può fare “conflittuale virtù”. E il fatto che sia conflittuale, non significa che sia meno “virtù”, anche in senso artistico.
Riguardo a Lussu:
io, ovviamente, non sono né potrei essere un indipendentista sardo, principalmente perché non sono sardo, e in secundis sono colpevolmente poco ferrato sulla tematica.
Però sono un marxista, un antimilitarista e un antifascista italiano, e da questa angolazione posso dire questo:
– Lussu è stato uno dei testimoni e analisti più lucidi dell’incubazione del virus fascista nella cultura dei reduci della Grande Guerra, ed è tra quelli che ci hanno fornito i resoconti più utili sull’ascesa del movimento e poi del regime di Mussolini (in primis Marcia su Roma e dintorni).
– Dobbiamo a Lussu (al suo libro Un anno sull’altipiano e al film che ne venne tratto nel ’68, Uomini contro) la più vivida descrizione della prima guerra mondiale come insensata carneficina.
– Dobbiamo a Lussu e a non moltissimi altri (al modo in cui si comportarono durante l’esilio e al loro mantenere vivo un network di contatti in giro per l’Europa) se c’è stata una continuità tra il primo antifascismo e la Resistenza.
– Lussu è un esempio di condotta antifascista limpido e ispirante: la sua prigionia, la sua evasione da Lipari, il modo in cui trattò la spia Pittigrilli etc.
Avercene, di persone così. Lo dico, ovviamente, da italiano. Non posso sapere come la penserei se fossi un indipendentista sardo. E’ un “what if” che non poggia su alcuna base, perché se fossi un indipendentista sardo, sarei un’altra persona.
Scusate, il testo della poesia di Linton Kwesi Johnson è troppo bello per non postarlo:
if I woz a tap-natch poet
like Chris Okigbo
Derek Walcott
ar T.S.Eliott
ah woodah write a poem
soh dam deep
dat it bittah-sweet
like a precious
memory
whe mek yu weep
whe mek yu feel incomplete
like wen yu lovah leave
an dow defeat yu kanseed
still yu beg an yu plead
till yu win a repreve
an yu ready fi rack steady
but di muzik done aready
still
inna di meantime
wid mi riddim
wid mi rime
wid mi ruff bass line
wid mi own sense a time
goon poet haffi step in line
caw Bootahlazy mite a gat couple touzan
but Mandela fi im
touzans a touzans a touzans a touzans
if I woz a tap-natch poet
like Kamau Brathwaite
Martin Carter
Jayne Cortez ar Amiri Baraka
ah woodah write a poem
soh rude
an rootsy
an subversive
dat it mek di goon poet
tun white wid envy
like a candhumble/ voodoo/ kumina chant
a ole time calypso ar a slave song
dat get ban
but fram granny
rite dung to gran pickney
each an evry wan
can recite dat-dey wan
still
inna di meantime
wid mi riddim
wid mi rime
wid mi ruff bass line
wid mi own sense a time
goon poet haffi step in line
caw Bootahlazy mite a gat couple touzan
but Mandela fi im
touzans a touzans a touzans a touzans
if I woz a tap-natch poet
like Tchikaya U’tamsi
Nicholas Guillen
ar Lorna Goodison
an woodah write a poem
soh beautiful dat it simple
like a plain girl
wid good brains
an nice ways
wid a sexy dispozishan
an plenty compahshan
wid a sweet smile
an a suttle style
still
mi naw goh bow an scrape
an gwan like a ape
peddlin noh puerile parchment af etnicity
wid ongle a vaig fleetin hint af hawtenticity
like a black Lance Percival in reverse
ar even worse
a babblin bafoon whe looze im tongue
no sah
nat atall
mi gat mi riddim
mi gat mi rime
mi gat mi ruff bass line
mi gat mi own sense a time
goon poet bettah step in line
caw Bootahlazy mite a gat couple touzan
but Mandela fi im
touzans a touzans a touzans a touzans
@wm1 e omar onnis
leggendo il vostro scambio mi e’ venuto in mente “dead man” di jim jarmusch. nella citta’ di machine, dove tutti i bianchi anglosassoni si esprimono poco piu’ che a grugniti, nobody, il nativo americano, e’ l’ unico che parla un inglese ricco e colto, conosce i poeti, cita william blake e lo rilegge alla luce della sua cultura.
Ecco una veloce traduzione, poi chiudo il semi-OT:
SE FOSSI UN POETA DI PRIM’ORDINE
Se fossi un poeta di prim’ordine
come Chris Okigbo
Derek Walcott
o T.S.Eliot
Scriverei una poesia
così dannatamente profonda
da essere agrodolce
come un prezioso
ricordo
che ti fa piangere
ti fa sentire incompleto
come quando la tua amata ti lascia
e anche se ammetti la sconfitta
implori e preghi
finché non ottieni una proroga
e sei pronto per il rock-steady
ma la musica è già finita.
Intanto
con il mio ritmo
con la mia rima
con la mia grezza linea di basso
con il mio senso dell’andare a tempo
io, poeta fuorilegge, dovrò ancora aspettare
perché forse Bootahlazy ne aveva duemila
ma Mandela ne aveva
migliaia e migliaia e migliaia e migliaia.
Se fossi un poeta di prim’ordine
come Kamau Brathwaite
Martin Carter
Jayne Cortez o Amiri Baraka
scriverei una poesia
così rude
e popolare
e sovversiva
che il poeta fuorilegge
diventerebbe bianco per l’invidia.
come un canto candomblè, voodoo o kumina,
un vecchio calypso, una canzone da schiavi
che è messa al bando ma
discende dalla nonna
giù fino ai nipoti
e tutti quanti possono cantarla
quanto gli pare.
nel frattempo
col mio ritmo
con la mia rima
con la mia grezza linea di basso
con il mio senso del tempo
io, poeta fuorilegge, devo ancora aspettare
perché forse Bootahlazy ne aveva duemila
ma Mandela ne aveva
migliaia e migliaia e migliaia e migliaia.
Se fossi un poeta di prim’ordine
come Tchikaya U’tamsi
Nicholas Guillen
o Lorna Goodison
Scriverei una poesia
tanto bella quanto semplice
come una ragazza dall’aspetto normale
con un bel cervello
e belle maniere
con un atteggiamento sexy
e tanta empatia
con un sorriso dolce
e uno stile sottile.
eppure
non mi inginocchierò né chiederò elemosine
non farò la scimmia
non chiederò una puerile pergamena di etnicità
con soltanto un vago sentore di autenticità
come un Lance Percival nero a rovescio
o peggio ancora
un blaterante buffone con la lingua sciolta.
nossignore
proprio no
io ho il mio ritmo
ho la mia rima
ho la mia grezza linea di basso
ho il mio senso dell’andare a tempo
così, poeta fuorilegge, dovrò ancora aspettare
perché forse Bootahlazy ne aveva duemila
ma Mandela ne aveva
migliaia e migliaia e migliaia e migliaia.
La mia grezza linea di basso.
Poesia fantastica.
L.
@ Luca
ho un vaghissimo ricordo, secondo me Linton Kwesi Johnson me lo facesti conoscere tu nel ’90 o giù di lì. E’ possibile?
Davvero splendida.
Oh, poi può pure darsi che ci siano delle sviste, è una traduzione fatta in tre minuti tre… :-)
Oi.
Toccante la poesia.
O “pseudo-canzone”, visto che la Dub Poetry è spesso collocata a metà strada tra post raggae e proto-rap. Ed appartiene di fatto alla linea di formazione di pop, trip-hop e dj culture inglese (Johnson se non sbaglio è praticamente cresciuto a Londra).
Le ripetizioni e allitterazioni poi sono determinanti per una disposizione naturale del componimento all’oralità.
Tra l’altro mi sembra particolarmente pertinente a questo post la frase
«[…] peddlin noh puerile parchment af etnicity
wid ongle a vaig fleetin hint af hawtenticity».
P.S.: @Wu Ming 1
A prop della traduz, vedo “goon poet” posto in opposizione al “tap-natch poet” che se io fossi…
Quindi lo tradurrei piuttosto con “mediocre”, “stupido” (non mi viene un termine migliore, ma credo di essermi spiegato).
Scusate, molti di voi lo conosceranno. Ma a proposito di esilio e spaesamento, mi pare utile segnalare l’aneddoto che racconta l’intellettuale ebreo-austriaco Jean Améry, che come Primo Levi si suicidò dopo essere stato in un campo di concentramento.
Améry è lo pseudonimo di Hans Mayer. Dopo l’Anschluss fugge in Belgio e partecipa alla Resistenza. Nel testo intitolato «Di quanta patria ha bisogno l’uomo» (che è contenuto nel volume “Intellettuale ad Auschwitz”, edito in Italia da Bollati Boringhieri e liberamente scaricabile da qui: http://www.autistici.org/apm/abolizionismo/amery/amery.pdf), Améry racconta un aneddoto accaduto nel 1943, quando condivide un appartamento coi suoi compagni partigiani. Il covo è confinante con una casa abitualmente frequentata da soldati nazisti. Un giorno, il rumore dei ribelli disturba la pennichella pomeridiana di un soldato, dall’altra parte del pianerottolo.
Allora quest’ultimo bussa alla porta e, trafelato ma ancora mezzo addormentato, invoca un po’ di quiete. Scrive Amery/Mayer: «La sua protesta – e per me questo fu il lato realmente spaventoso della vicenda – avvenne nel dialetto della mia regione. Da molto tempo non avevo più udito quella cadenza e questo suscitò in me il folle desiderio di rispondergli nel suo stesso dialetto. Mi trovavo in una disposizione paradossale, quasi perversa, fatta di enorme paura e al contempo di improvvisa, familiare cordialità, Perché quel tizio […] mi apparve d’un tratto come un familiare compagno. Non sarebbe stato sufficiente apostrofarlo nella sua, nella mia lingua, per poi celebrare tra compatrioti con una bottiglia di buon vino una festa di riconciliazione?».
Nel suo «Scienze sociali e ‘natura umana’» [2003], Paolo Virno – che è anche uno degli esuli in patria del Pantheon di Wu Ming1 – commenta con stringata durezza questo racconto, traendone conclusioni legate alla condizione materiale e intellettuale dello spaesamento, tipica della contemporaneità: «Chi cerca radici prima o poi si commuoverà al dialetto di una SS», scrive Virno.
Tuttavia, citando ancora Améry, noi abbiamo «bisogno di vivere in mezzo a cose che ci narrano storie».
Questa necessità serve a sperimentare un «agio sensuale – qui è di nuovo Virno che parla – nei confronti del proprio contesto vitale». Questa scommessa, si muove tra la perniciosa ricerca di uno pseudoambiente che magari ci accomuni persino ai nostri carnefici e il bisogno di un «luogo abituale». È una partita delicatissima e che si gioca tutta su un equilibrio sottile, che ci impone sì di costruire delle abitudini e degli spazi familiari, ma evitando di cercarle in una qualche forma di passato da ristabilire o facendo a meno di andare sulle tracce di una qualche tradizione da rispolverare.
Due righe in prima persona, non per narcisismo o autopromozione ma per riallacciarmi al mood del post e dei commenti che lo accompagnano: per me questa cosa ha anche fare con la soluzione del problema delle radici.
Dalla città del sud dalla quale provengo, dove ho passato gli anni in cui si sceglie da che parte stare, si è passati dalla narrazione autoesaltante della «comunità sovversiva» [tanto più ficcante quanto basata anche su fatti reali e incontestabili] alla depressione sconfinata. L’unico modo per venirne a capo, è quello di andare a vedere. Così, dopo 18 anni di esilio, dopo aver passato la metà esatta della mia vita lontano dalla mia terra di origine, camminerò per un mese intero in giro per la Calabria.
@ Christiano
eh, c’hai ragione! Infatti tutto il periodo ipotetico è ironico:
“se io fossi un poeta-e-basta, senza ‘sto cazzo di dub che mi fa considerare un bifolco o un mezzo teppista (perché in fondo la differenza tra me e questi altri è che io c’ho la base musicale), e mi fossi già meritato l’alloro di Poeta Di Serie A, allora sì che farei scintille, mica come adesso”… :-)
Secondo me con la parola “goon” Johnson tiene insieme più significati: poco-di-buono, fuori-dai-ranghi (cioè fuori dai confini della poesia), considerato non-all’-altezza… Per tutti questi motivi gli tocca “step in line” (mettersi in fila, in attesa del suo turno, dell’approvazione ufficiale).
Mi viene il mal di mare.
Dal moto ondoso di questi ottimi commenti, una pletora di temi che emergono e tornano di sotto come cetacei.
Tra gli altri, le lacerazioni tra “senso di appartenenza” e il bisogno di sentirsi riconosciuti da una comunità sovrana (etimologicamente) di cui sei al contempo “parte” e “altro” (come dal post stesso, come dall’ottima lettura di Wu Ming 1 in «mettersi in fila, in attesa del suo turno, dell’approvazione ufficiale» o come il «nazionalismo alla rovescia, autorazzista» di Omar, il cui commento ho molto apprezzato).
Sì, è possibile. Per me negli anni 80 era un cantante dub e ne andavo pazzo insieme al mio amico carlo, anche se era evidente l’enorme spessore delle sue rime.
Nell’87 andai in jamaica, era il 25simo dell’indipendenza e la decima edizione del sunsplash festival, e mi ricordo che mi colpì un bel po’ che sull’isola non fosse poi tanto conosciuto e apprezzato. Ma poi a ripensarci adesso la cosa non è strana più di tanto.
Al tempo c’era un suo famoso pezzo sulla rivolta di brixton che mi mandava fuori di testa.
L.
@WM1. Perfetto. Siamo d’accordo pressoché su tutto.
Anche sul fatto che Lussu è stato un grandissimo italiano e, in generale, un personaggio decisamente ammirevole.
La “conflittuale virtù” con tutto l’ambaradan te la rubo di brutto, perché casca a pennello nel dibattito (a dir poco acceso e conflittuale, appunto) in corso dalle nostre parti su cosa sia letteratura sarda e su chi si possa definire scrittore sardo. C’è questa faccenda del romanzo sardo contemporaneo, che sta facendo fondere un sacco di neuroni alla strenua ricerca di una categoria in cui infilarlo. Per esempio, alcuni essenzialisti un po’ etnocentrici (ma non indipendentisti, guarda un po’) ritengono che sia letteratura sarda solo quella scritta in sardo (e dunque uno scrittore sardo che scrive in italiano non lo è, nemmeno se si autoidentifica come tale).
Ma sto scivolando fuori argomento e la pianto qui.
Grazie, anche per la poesia!
Mi e’ venuto in mente che “goon poet”, per giocare coi due significati, si potrebbe tradurre con “cattivo poeta”.
@jimmyjazz
visto che hai accennato alla tua città, alla tua bildung e al tuo progetto di camminata, a questo punto dài a chi sta leggendo più dettagli, non è per niente, ma proprio per niente OT.
@ omar
mi incuriosisce molto il dibattito letterario che hai riassunto per sommi capi. Potresti dare qualche coordinata, nomi di autori, circostanze della discussione etc.?
@ Luca
tre settimane fa, in questa intervista, LKJ ha rievocato il riot di Brixton:
http://brixtonblog.wordpress.com/2011/04/28/interview-linton-kwesi-johnson/
Si, anch’io ho un po’ sete di letteratura sarda. Da fan di Satta, ho sempre voluto approfondire il tema, ma non ho mai conosciuto persone sufficientemente preparate sul tema. Il rapporto tra l’indipendentismo e gli scrittori, poi, mi sembra un argomento molto interessante.
@WM1. La cosa, latente e sottotraccia da qualche anno, è esplosa definitivamente l’anno scorso. Devo dire, anche un po’ per “colpa” mia (dico colpa, perché non sono affatto contento dei toni prevalenti e di alcuni sviluppi del dibattito). Era emersa pubblicamente in questa circostanza e aveva avuto un seguito nei mesi successivi (qui e qui, ad esempio, con corollari, risposte, deviazioni in diversi altri spazi web).
Da una parte sono schierati alcuni autori, linguisti, giornalisti che perorano la causa della esclusività del sardo come unico elemento necessario e sufficiente a definire sarda un’opera letteraria. Dall’altra scrittori come Marcello Fois e Michela Murgia che, sia pure senza condividere al 100% le medesime posizioni politiche, si trovano ad argomentare la relativa rilevanza della lingua utilizzata nella definizione di sardità di un’opera, autoidentificandosi come autori sardi a tutti gli effetti.
Il problema nasce dal fatto che la Sardegna ha da tempo immemore prodotto una letteratura in sardo (ma anche nelle lingue minoritarie della Sardegna: gallurese e catalano, soprattutto). Prima di tutto poesia (la poesia sarda è in misura larghissimamente prevalente poesia *in sardo*). Ma da qualche decennio a questa parte anche romanzo.
A questa produzione si affianca come si sa una produzione in lingua italiana, prevalentemente in ambito romanzesco, la cui mole quantitativa e qualitativa è cresciuta parecchio dai tempi di Grazia Deledda e ha avuto una specie di salto di fase a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, in primis con Sergio Atzeni (che personalmente reputo il maggior scrittore sardo contemporaneo) e poi con Marcello Fois, Salvatore Niffoi, Flavio Soriga, Michela Murgia, Milena Agus e tutti gli altri che non cito per brevità.
Costoro hanno goduto e godono di un bacino di utenza decisamente più ampio, del vantaggio che i sardi stessi siano stati alfabetizzati in italiano, che l’italiano sia la lingua dell’università e dei mass media, mentre il sardo (e il romanzo in sardo di conseguenza) paga l’assenza da tutte le agenzie formative e comunicative e la perdurante mancanza di uno standard grafico condiviso (tema di un altro tostissimo dibattito in corso, quest’ultimo, i cui contorni linguistici, culturali e politici però vi risparmio).
Il tutto va inserito nella perdurante macro-questione identitaria e politica a proposito di autonomia e indipendenza della Sardegna, anch’essa sempre più accesa a vari livelli e in procinto di diventare in qualche modo egemonica nel panorama culturale sardo presente e futuro.
Questo è grosso modo il quadro della faccenda. Spero di aver fornito almeno qualche coordinata utile.
@wm1
facciamo così: commento il pezzo di wm2 sul camminare e facciamo tutto un conto :)
@tutti questo post e i suoi commenti sono veramente belli
Ai wuminghi e a tutti.
Per chi bazzicasse Bologna e dintorni, venerdì 20 (domani), alle h 17.00, in via Stalingrado 81, Parco Nord, presso la sede del Circolo “Sardegna”, c’è un dibattito con questo tema: “Scrittori di Sardegna contemporanei. Che c’entra la letteratura con la situazione attuale dell’isola?”. Intervengono Marcello Fois, Michela Murgia, Bachisio Bandinu e Alberto Masala.
Sabato c’è pure dell’altro, compresa buona musica, nell’ambito del Brinc@ festival.
@Omar Onnis
Scusa ma la descrizione che fai di Lussu è “lievemente” sbilanciata… Pensavo di trovare da un momento all’altro uno degli altri capi d’accusa che gli furono mossi all’epoca: avere sposato una “continentale”.
Più in generale, non vorrei essere brusco, ma non credo proprio che la “macro-questione identitaria e politica a proposito di autonomia e indipendenza” si appresti a diventare “in qualche modo egemonica nel panorama culturale sardo presente e futuro”.
A meno di non confondere alcuni blog, sezioni di dipartimenti e sedi di movimenti indipendentisti per “la” Sardegna.
Solo un modesto parere da sardo, niente di più.
Sono nato a Sassuolo, figlio del polo industriale della ceramica. I miei, per mettere su famiglia, dovettero lasciare la Sardegna: mio padre maestro di scuola non si sarebbe potuto permettere al suo paese un matrimonio e una minima certezza economica. La fabbrica fu la sua soluzione. In Emilia sono nato io e pure mio fratello. Solo dopo dieci anni tornarono in Sardegna, e noi con loro.
Parlo italiano e sardo, e vivo a Cagliari. Mi sento sardo, italiano ed europeo proprio come quel Sergio Atzeni citato più volte in questo post. [avete letto “Il figlio di Bakunìn”? No? Fatelo.]
Come Luca, “il tricolore ha sempre suscitato in me un moto istintivo di ripulsa”. I miei fratelli sono quelli che hanno occupato l’università con me, che si sono battuti e sbattuti in ogni contesto, che hanno scioperato, studiato, scritto, rotto i coglioni. Sono, in una parola, i compagni.
buonanotte!
@JohnGrady.
Non credo che questo spazio sia il più adatto a un dibattito su Lussu, indipendentismo sardo, ecc.
Però una cosa è meglio chiarirla. L’allusione che fai tu è fuori luogo in ogni senso. Intanto chi fa dell’essenzialismo etnico un elemento politico decisivo è proprio il sardismo, che si fonda sì sul riconoscimento dei sardi come un’entità collettiva diversa dagli italiani (grazie alla tecnicizzazione del mito relativo alla nostra esoticità, con i suoi rigidi cliché folkloristici, ancor oggi in voga: i sardi orgogliosi, taciturni, duri ma leali, ospitali, pocos locos y mal unidos e via andare), ma declina tale diversità in termini patologici, come una mancanza, una assenza dalla Storia e una necessità di redenzione e riscatto. Redenzione e riscatto che però ci può dare solo qualcun altro. Ancora nel 1951 Lussu descriveva i sardi come una “nazione fallita”. Sono parole sue, non c’è alcuno sbilanciamento da parte mia, che mi limito a riportare quanto è facilmente reperibile su testi e documenti abbastanza noti.
L’indipendentismo contemporaneo, in ogni caso, almeno nelle sue manifestazioni non populiste/demagogiche/folkloristiche (del tutto strumentali allo status quo, queste ultime) è dichiaratamente non-nazionalista, oltre che non violento. Che Lussu fosse sposato con una donna non sarda è un dato totalmente irrilevante. Poi venirlo a dire proprio a uno che si trova nella stessa condizione “peccaminosa” (ossia io) è la dimostrazione di quanto si debba andare cauti nel muovere rimproveri a casaccio.
Ti chiederei di approfondire un attimo la storia della Sardegna contemporanea, prima di emettere facili sentenze liquidatorie, per altro non argomentate.
Quanto alla tua contestazione circa la prevalenza del discorso sull’autodeterminazione nel dibattito politico sardo, anche qui, dovresti argomentarla meglio (anzi dovresti argomentarla proprio): non è che ti sta sfuggendo qualcosa di quel che ti succede intorno?
Chiedo scusa per questo OT.
A disposizione per discuterne ancora, comunque. In una sede più consona, magari, dove non spappoliamo i marroni a tutti gli altri.
Concordo con l’incipit del tuo intervento: meglio non spappolare i marroni a chi non è interessato alla vicenda.
Non accolgo l’invito a proseguire altrove il dibattito perché non penso abbia senso: sono molto sincero come vedi.
Per quanto riguarda Lussu, ho scritto proprio “non vorrei essere brusco” perché sapevo di “entrare a gamba tesa”. Ritengo che analizzare la sua figura limitandosi al punto di vista indipendentista sia riduttivo.
Personalmente non sono indipendentista. Di una Sardegna indipendente sotto la borghesia locale non me ne faccio niente.
Per quanto riguarda l’importanza del sentire indipendentista, confermo quanto scritto.
Togli qualche blog, togli qualche momento associativo, non mi pare che sia all’ordine del giorno in Sardegna. Sarà che io non mi guardo intorno.
Ritengo che il problema occupazionale e la tutela del territorio siano fondamentali ma li slego da una “questione italiana” perché il tema mi sembra mal posto.
Ciò detto, non voglio sparare sulla croce rossa, ma le vicende dell’indipendentismo locale mi sembra che non invitino all’ottimismo.
Accetto il consiglio di “approfondire un attimo la storia della Sardegna contemporanea”, terrò presente: semplicemente non mi sembra la sede per un dibattito, volevo solo portare un punto di vista diverso sulla Sardegna, chè a leggere in rete sembra che qui si sia pronti alla Repubblica Sarda da un momento all’altro mentre le cose non stanno nemmeno lontanamente così.
Tutto qua.
@JohnGrady.
Be’, allora lo fai apposta.
Sì stai entrando a gamba tesa ed è una cosa che non ho mai sopportato, né in senso proprio né in senso figurato.
Tu dici che proseguire il dibattito qui non ha senso. Ho il sospetto che tu pensi che sia il dibattito in sé a non avere senso. Su questo, posso solo dirti che mi dispiace per te.
Se trovi scritto da qualche parte che qualcuno sostiene l’imminente realizzazione della Repubblica Sarda indipendente, fammelo vedere, così poi ci facciamo due risate insieme. Che invece il tema dell’autodeterminazione sia assolutamente al centro del dibattito politico sardo è talmente palese, anche solo scorrendo le pagine dei quotidiani e seguendo le nostre cronache, che non vale nemmeno la pena di cercare pezze d’appoggio. Vedi ad es. le dispute suscitate dalla mozione sull’indipendenza presentata dal PSdAz nell’autunno scorso (da cui ha preso spunto un pessimo articolo di Stella&Rizzo sul Corriere, tanto per dire).
Se pensi che questo tema possa essere eluso facilmente ancora a lungo, ripeto: mi sa che ti stai distraendo alquanto. Se poi credi che qualsiasi istanza emancipativa per la Sardegna possa prescindere dal discorso sulla sovranità, non fai che replicare argomentazioni che hanno come minimo novant’anni e che si sono dimostrate fallimentari negli ultimi settanta.
La borghesia sarda (quella che Mialinu Pira definiva borghesia “compradora”) è legata mani e piedi a un sistema di poteri (notare il plurale) che ha la sede e il centro dei propri interessi fuori dell’Isola. Tagliato quel cordone, vorrei proprio vedere cosa resterebbe del potere di intermediazione che legittima la classe dominante sarda, del suo clientelismo, di certi meccanismi di deprivazione culturale e sociale, delle servitù militari e industriali.
Vedi un po’ tu se il dibattito ha o no senso e ripensa all’invito a discuterne. Nel frattempo c’è qualcosa di interessante in merito sull’ultimo Limes e dovrebbe uscire qualcosa il 30 maggio p.v. nientepopodimeno che sul fogliaccio quotidiano della confindustria. Tutta roba molto borghese, certamente, ma per ora è lì che ci stanno dando spazio. E noi ce lo prendiamo.
E ora tolgo il disturbo davvero.
Ragazzi, avete avuto due botte / risposte a testa. Stop.
premetto che non so assolutamente nulla della sardegna. questo scambio pero’ mi ha fatto venir voglia di dire due cose sul friuli, che spesso viene accomunato (secondo me impropriamente) alla sardegna per la sua particolare situazione linguistica. per un triestino, anche se supermeticcio come me, parlare di friuli e’ come entrare in una cristalleria. ma ci sono alcune cose che vorrei dire e che credo siano importanti per le discussioni che stiamo facendo su questo blog. l’ autonomismo friulano e’ sempre stato sopratutto conservatore e clericale. la lega, quando e’ approdata in friuli, ha trovato certi spazi gia’ occupati e per questo non ha praticato piu’ di tanto il terreno identitario. tagliando con l’ accetta, in friuli c’e’ un autonomismo progressista, di ispirazione anarchica, c’e’ l’ autonomismo storico conservatore e clericale, ma ci sono anche gruppi autonomisti che io non esito a collocare nell’ area rossobruna. sono gruppi che sposano le istanze ecologiste legate alla decrescita con le teorie etnonazionaliste di leghisti evoliani come silvano lorenzoni. un esempio incredibile di dove possa portare l’ identitarismo e’ la val di resia. si tratta di una valle abitata da non piu’ di 300 persone, i cui abitanti parlano un dialetto slavo arcaico del gruppo sloveno. la popolazione della valle e’ spaccata a meta’ tra quelli che si considerano parte della minoranza slovena e quelli che rivendicano la propria appartenenza al friuli storico. questi ultimi sono arrivati a chiedere la mappatura del proprio dna per dimostrare la loro estraneita’ alle “stirpi slave”!
Classe:1991
Genealogia: nonni comunisti: da una parte e anarchici dall’altra.Genitori di sinistra ma che hanno trasmesso accenni di disfattismo/disillusione/diffidenza (sia dalla televisione che dai politici).
Dove: varesotto (dove e’ nata la lega).
Mi sento Italiano?
Potrebbe essere infantile ma il mio sentirmi Italiano si limita (per ora) alla Letteratura, al Rinascimento e alla Resistenza(che sono gli studi che mi portero’ per sempre dietro) e ai mille travagli politici/economici che affliggono lo Stato dove risiedo.Perche’? Per il fatto che sono le connessioni che saltano alla mente di chiunque mi chieda da dove io provenga.
Quanto piu’, invece, mi sento Europeo perche’ mi sembra che, nel definirmi tale, io prenda le distanze dai localismi codini e dai campanilismi farseschi che abbondano dalle mie parti; in un certo senso vedo l’Europa Unita come una speranza per il mio futuro (e magari non solo per i giovani cervelli in fuga).
E di tanto in tanto mi sento davvero Cives Mundi perche’, benche’ il mondo di per se’ sia complesso, riesco a riconoscermi in ogni uomo e a comprendere il fatto che stiamo tutti nella stessa barca e che “dobbiamo cercare di salvarci il culo il piu’ collettivamente possibile”,citando “Who Minkya”(o un nome altrettanto divertente che -sorry- non ricordo).
Non ho vissuto altri Paesi nel Paese(maiuscola non per antonomasia) e quindi sono un po’ estraneo al tono elegiaco e soprattutto alla generazione che si e’ espressa nel topic ma non credo che per questi motivi non avrei dovuto lasciare i miei due cents.
[…] a proposito di un testo di WuMing1 sul sentirsi straniero nella propria nazione: potete leggerlo qui) Bookmark on DeliciousRecommend on Facebookshare via RedditTweet about itSubscribe to the comments […]