[Dalla prefazione di Wu Ming 2 a L’arte del camminare. Consigli per partire con il piede giusto, di Luca Gianotti, Ediciclo, in libreria dal 19 maggio.]
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L’arte di camminare è un’arte visiva: la si potrebbe chiamare passoscopia. Ecco perché, seguendo i preziosi consigli del libro Luca Gianotti, L’arte del camminare [Ediciclo], non si apprendono solo i trucchi e le liturgie del viandante, ma si acquista la capacità di guardare al mondo in maniera diversa. Buono a sapersi, direte: ma in cosa consiste tanta diversità?
Esistono molti modi di viaggiare alternativi rispetto all’andare a piedi: il treno, l’auto, la bici, l’aereo. Della motocicletta non posso dire nulla, non sono competente, ma grazie all’etimologia la immagino come un ibrido tra ciclo e motore, con alcune caratteristiche del mezzo a pedali e altre dell’automobile. I centauri mi scuseranno se non è proprio così. In compenso conosco bene il treno e condivido quel che ne ha scritto Michel de Certeau: il vagone ferroviario produce nostalgia. Salgo in stazione, cerco un posto, mi accomodo. Il convoglio parte e il paesaggio si mette a scorrere in due strisce separate, come le fette di pane di un tramezzino imbottito. In mezzo, al posto del tonno e della maionese, ci sta lo scompartimento: gli altri passeggeri, il corridoio, il controllore che punzona i biglietti. Io non mi muovo, sto seduto in poltrona come se fossi al cinema, solo che lo schermo è sdoppiato e laterale: un pezzo a destra e uno a sinistra. Oltre i finestrini, anche il mondo è immobile, se si esclude la rotazione terrestre. Sta fermo, eppure lo vedo fuggire, non posso afferrarlo. Ci sfioriamo, facciamo le presentazioni, ma non c’è tempo di conoscersi: resta l’amaro in bocca delle occasioni perdute. Ecco un filare d’uva che avrei voluto assaggiare o un torrente d’acqua limpida dove sarebbe bello tuffarsi. Ecco un cantiere stradale che devasta la campagna, mentre io passo e non ne so nulla; ecco un paese arroccato su un colle, del quale non conosco nemmeno il nome. Apro il giornale, lo sfoglio e per una mezz’ora mi perdo dietro alle notizie. Ogni tanto il treno rallenta, si ferma in stazione, ma non sono io a decidere le soste. Guardo i binari, leggo le insegne degli alberghi di là dalle rotaie e se mai scopro con gli occhi un angolo interessante, è già tempo di andarsene, di ripartire. Nostalgia dell’abbandono: mi si chiudono le palpebre, dormo, sogno di camminare sulla strada bianca intravista poco fa.
Viaggiare in auto è molto diverso. Paul Virilio ha chiamato dromoscopia le immagini che si proiettano sul parabrezza, in faccia al guidatore, anche se sarebbe più corretto dire che è il guidatore a proiettarsi contro le immagini, non viceversa. Se il treno taglia il paesaggio in due fette, l’auto lo buca, ci scava dentro, lo rivolta come un guanto. Apro lo sportello, mi metto al volante, giro la chiave per avviare il motore. Parto. Ora l’orizzonte mi viene incontro alla velocità che preferisco, anche se devo tenere conto del traffico e della segnaletica. Ho gli occhi sulla strada, attento alle curve, alle altre auto, agli ostacoli che mi si possono presentare. Più che vedere, sono costretto a prevedere: l’arte del pilota consiste nella capacità di anticipare gli eventi, via via che il mondo compare sul parabrezza, si apre davanti al cofano come una gelatina e subito si richiude dietro il lunotto posteriore. Se voglio evitare incidenti, devo attribuire un valore diverso a ogni cosa che vedo. Devo stabilire una gerarchia tra gli elementi del paesaggio, in base alla loro distanza da me e alla loro consistenza. Questi platani sul ciglio della strada, contro i quali potrei andare a sbattere da un momento all’altro, sono molto più importanti per me di quella fattoria laggiù, innocua, in mezzo a un campo di girasoli. Ai primi, devo prestare un’attenzione costante, alla seconda, posso dedicare soltanto uno sguardo di sbieco. Questi ciclisti che non si tolgono di mezzo mi mettono addosso più rabbia di quelle trenta palazzine in colori geometrili, piantate come giganti cattivi sul crinale alla mia sinistra. Guidando, devo tenere il mondo a distanza di sicurezza, evitare di andargli incontro attraverso il vetro che ho di fronte. La cintura che mi attraversa il petto proprio a questo serve: a non farmi sbattere contro la realtà, mandando in pezzi la simulazione.
La bici è un mezzo di trasporto molto meno virtuale degli altri due: quando salgo in sella e pedalo, il paesaggio mi circonda, ci sto in mezzo, non è una videosequenza muta spalmata sul cristallo di un finestrino. Cionostante, la mia visuale è limitata dalla postura e dalla fatica: se voglio evitarmi fastidiosi torcicolli, non posso far girare lo sguardo oltre i 270 gradi e se devo affrontare una dura salita, difficilmente avrò occhi per qualcos’altro che non sia nei dintorni della mia ruota anteriore. Allo stesso modo, nelle discese ripide devo star concentrato sulla strada, le buche, le curve. Il rischio di andare a sbattere e rompermi la testa mi costringe – come in auto – a dividere il mondo tra ostacoli e scenografia. In compenso, posso fermarmi quando voglio, senza bisogno di stazioni o parcheggi, e cedere al desiderio di guardarmi intorno con calma. Mi basta togliere i piedi dai pedali e scendere dal sellino, ma la posizione non è delle più comode e alla lunga influisce sulla mia voglia di fare soste. Così pedalo, pedalo a lungo, e quando mi fermo, preferisco lasciare la bici, e trasformarmi da ciclista in camminatore.
Di solito l’aereo non è davvero alternativo rispetto ai passi del viandante: il più delle volte si vola lungo distanze che non si farebbero a piedi e si cammina tra luoghi che non sarebbero collegati da un areoplano. Ma non è sempre così e allora la prima cosa che andrebbe notata è che i tragitti aerei si misurano in ore e minuti, non in chilometri. Chiunque sia andato in jet da Roma a Berlino sa quanto dura il volo tra le due città, ma solo i maniaci dei dettagli si ricordano la distanza percorsa. Questo per dire quanto poco interessa lo spazio a chi viaggia in aereo: scopo del passeggero è andare dal punto A fino al punto B e poco importa se in mezzo ci sono le Alpi o soltanto nubi. Poco importa, ma quando la terra si mostra è sempre uno spettacolo, come studiare una mappa vivente. Ci sforziamo di riconoscere i paesi, le anse di un fiume, il percorso di una strada, un casolare isolato. Se abbiamo la fortuna di sedere accanto al finestrino, lo trasformiamo subito in un buco della serratura, ritagliato nell’acciaio della fusoliera. Come vecchi guardoni, scrutiamo il mondo da fuori senza essere visti, lo dominiamo dall’alto come padreterni. Siamo puro sguardo, occhi che non si sporcano le mani, piccoli geografi senza cittadinanza.
A differenza di tutti questi viaggiatori, l’artista viandante non conosce schermi, nostalgie fittizie, gerarchie visive, torcicolli, soste scomode, voyeurismi. La sua visione del mondo è la più vicina che si possa immaginare alla verità pulsante, caotica e indifferenziata della vita. Quando vuole voltarsi, si volta: per lanciare un’occhiata all’altro lato delle cose. Quando vuole fermarsi, si ferma: non ha che da interrompere il ritmo dei passi. Se vede qualcuno e vuole parlargli, deve soltanto decidere di andargli incontro. Per evitare gli ostacoli, non ha bisogno di prevederli con grande anticipo: gli basta stare attento a dove mette i piedi, ma è raro che quest’operazione gli ingombri davvero la vista. Così, mentre le gambe lo portano da un luogo all’altro, senza soluzione di continuità, il paesaggio prende forma davanti ai suoi occhi, ed è un coacervo indistinto di sfondi e dettagli: un’ape su un fiore e le colline all’orizzonte, un minerale sul sentiero e un mulino a fondovalle, la storia di quel mulino e macchie di sole nel bosco, foglie di faggio, il segno biancorosso su un tronco e il fruscio di una biscia, i nomi sulla mappa, il rombo di un’automobile, un gregge di nuvole, il pensiero di una pecora, le strofe di una canzone ripetute come un’ipnosi, le scarpe slacciate e ancora le colline, in distanza, con il loro profilo appena cambiato rispetto a un minuto prima.
Camminando, mi sono convinto che il piacere ultimo del viandante sta proprio in questo: mai come quando andiamo a piedi il nostro modo di guardare si avvicina alla realtà in dissolubile del mondo. Uno sguardo oltre lo sguardo: senza filtri, senza obiettivi, senza inquadrature. Non a caso, credo che passeggiare sia il modo di spostarsi più interessante anche per chi non vede. Ma perché la magia si sprigioni, bisogna aver appreso i segreti dell’arte. Il glaucoma del turista – che vede soltanto ciò che ha già visto in foto o nelle parole di una guida – e la cataratta del pilota – che ci tormenta anche quando non siamo al volante – sono sempre in agguato per confonderci la vista. Andare a piedi non basta, e la lentezza non è solo questione di chilometri all’ora: benvenuto a questo libro, che può curarci lo sguardo.
Mi piacerebbe chiosare l’ultima parte della panoramica sui modi di viaggiare con una breve integrazione sul passeggiatore urbano.
Premessa: a me piace camminare in campagna, ricordo con estremo piacere i chilometri percorsi nella campagna intorno a Oxford, che ho battuto in lungo e in largo quache anno fa, i sentieri, i luoghi, gli animali, le persone incontrate, le memorie che il territorio mi restituiva (in particolare ero sulle tracce di scrittori morti da tempo). Tuttavia non sono mai stato un serio camminatore agreste o montano, ma sicuramente sono un camminatore urbano.
Se applichiamo alla città le riflesisoni di WM2 sui mezzi di trasporto potremmo paragonare – mutatis mutandis – la metropolitana all’aereo. La metro ti teletrasporta da un punto A a un punto B (certo senza l’elemento voyeuristico, dato che là sotto non vedi niente). L’auto è una macchina infernale e inutile; la bici un rischio per la propria incolumità. Spostarsi a piedi in città invece ti consente, anche dopo molti anni che vivi in un centro abitato, di continuare a scoprire dettagli e angoli che non avevi notato in precedenza, di incontrare persone che conosci, di lasciarti attirare da una vetrina, una targa, una locandina, dal particolare di un edificio o di un giardino, di provare percorsi alternativi per andare da A a B. Non a caso la “deriva urbana” di situazionistica memoria si svolgeva a piedi. Quando un centro storico viene pedonalizzato, poi, tutto diventa ancora più facile, accessibile, e la scoperta, o riscoperta, inevitabile.
voglio spezzare una lancia a favore della bicicletta. quando ero piu’ giovane, prima di essere impegnato a tempo pieno coi figli, ho viaggiato molto in bicicletta, da solo o in compagnia: italia, slovenia croazia, austria e francia. per me una delle cose piu’ emozionanti e’ sempre stata la partenza: partire dal portone di casa e percorrere le strade della tua citta’ come parte di un percorso te le fa vedere in un modo completamente diverso. poi c’e il paesaggio che ti viene addosso, ma non e’ come in macchina, perche’ ci sei immerso dentro, ti arrivano i suoni, gli odori, e se non c’e’ traffico puoi guardarti intorno. la fatica fisica del viaggio e’ meravigliosa, da’ valore allo spazio che stai percorrendo, e ti impone una disciplina nel dosare le tue forze. le soste sono tra i ricordi piu’ belli, soprattutto quelle non previste. ricordo una tappa in umbria: dopo aver percorso il tratto da perugia a spoleto sotto un sole africano, e aver scollinato verso la nera, ci siamo trovati improvvisamente in una valle fresca e ombrosa, percorsa da un torrente fresco e limpido. abbiamo fatto il bagno in un’ansa, e abbiamo deciso di piantare li’ la tenda per la notte. poi ci sono anche le esperienze terrificanti, come percorrere la statale 16 da s. benedetto del tronto a pesaro in mezzo a un delirio di camion corriere macchine bagnanti ciabatte…
Io invece sono sempre stata un gran camminatrice agreste, ma soprattutto boschiva (in Liguria ci sono molti più boschi che campagna). Camminare ti permette di perderti nei dettagli, vero, e anche di scoprire la ricchezza dei boschi: una pianta di fragole, un’orchidea che spunta tra gli alberi (andate a farvi un giro per le Langhe ad aprile, consigliatissimo), un porcino quand’è stagione. Le camminate che ho amato di più, e che continuo a fare quando ne ho l’occasione, sono quelle che si fanno alla ricerca di funghi. Non c’è una meta, è un bighellonare in circolo, guidati dal naso o dall’esperienza. Da bambina mi incollavo all’ombra di un mio zio fungaio, che conosceva palmo a palmo i boschi. Era sicuro che saremmo tornati con il cestino pieno. Immergersi in un bosco di castagni d’autunno, allontanandosi man mano dal senitero, vuol dire entrare in un mondo dove tutto è marrone e dorato, non ci sono quasi punti di riferimento. Mio zio sa sempre perfettamente dov’è, qual’è il crinale più ricco, come ritornare sulla strada attraverso piste nascoste dalle foglie cadute. Prima o poi spero di imparare anch’io.
E poi voglio spezzare una lancia a favore della bici, ma in una circostanza particolare: la biciclettata urbana notturna. Io adoro girare per la città di notte, ma non c’è niente da fare: quando si imbocca una traversa poco frequentata, il pensiero che ronza nella testa è sempre “ma non sarà un po’ troppo deserta questa strada? I passi che sento non saranno di qualcuno che vuole rompere, vero?”. Dopo che mi è capitato di essere pedinata alle tre di notte, è proprio un tipo di pensiero che non riesco a scacciare (sarà per quello che sono andata ad abitare nella via bolognese dove c’è più traffico notturno :) ). In bici, invece, non c’è niente del genere. Posso girovagare dove voglio, senza preoccuparmi di essere sola o meno.
Ritrovo e rileggo nelle parole di Wu Ming 4 (ma certo anche in quelle di WM2) l’eredità nobile dei rappresentati dell’APB (Associazione Psicogeografica di Bologna).
Andare a piedi, eh, girovagare, soprattutto nelle zone non urbane: si può guardare sapendo che quel che vedo è stato testimone di qualcuno o qualcosa, tanto tempo fa: e se c’è un albero vecchissimo è più facile considerarlo un ‘interlocutore’, piuttosto che un edificio. O meglio, comunica in maniera diversa, è meno perentorio, e io mi sento più ‘libera’ che di fronte ad una architettura.
Solo a piedi poi sono riuscita a vedere piante o funghi che crescevano anche dalle mie parti, e pure nel Dorset o in Irlanda – sarà stupido ma mi ha fatto condividere meglio certi luoghi.
Comunque una lunga escursione a piedi ci ricolloca in spazi e tempi primitivi, in luoghi da cui non puoi ritirarti e mollare (basta…voglio un taxi!) e anche questo ha importanza.
L’auto l’ho apprezzata molto in un viaggio che in un giorno ci ha portato dalle pianure italiane tiepide al gelo del Brennero innevato e poi di nuovo nelle pianure della Germania, senza più le soste che prima spezzavano la geografia: avevo attraversato un unico grande territorio senza fermarmi a delle frontiere.
p.s. WM4, sei anche stato a fare ‘punting’ sul Cherwell a Oxford? ;-) Perchè anche la barca sul fiume è bella…
A me piace la metropolitana, forse perchè da Milano sono atterrata qui. La metro mi manca proprio perchè produce un effetto di isolamento autistico che in questa città è difficile ritrovare. E comunque di tanto in tanto si ha bisogno di sentirsi parte di quel perverso meccanismo automatico e automatizzato che ti riduce ad essere e pensare come se la macchina fossi tu. Ti capita anche quando fai la barista in un centro commerciale, sei, in quel momento, per gli altri, il prolungamento della macchina del caffè. Secondo me è utile riconoscersi in quelle orribili spersonalizzanti deformazioni che il progresso alimenta, utile per testare il proprio grado di degenerazione, utile per prendere coscienza, a questo punto meglio spingere l’acceleratore sulle contraddizioni del sistema. Qui bucoliche passeggiate non ne faccio, anche se il mio cane mi costringe ad andare al parco, anche lui è un utilissimo veicolo per rimanere in contatto con la “natura urbanizzata” della città, siamo costretti a fare chilometri a piedi per trovare uno spicchio di verde. Però è emozionante guardare il tuo cane che si trasforma in un vero animale appena entra ai giardini Margherita. Vorrei succedesse anche a me.
@ Wu ming 4, sul passeggiare urbano ci sono in rete molti gruppi che si organizzano e fanno delle cose molto interessanti come l’osservatorio nomade romano, il gruppo Stalker. Tanti itinerai che comprendono anche la zona della campagna. Qui il link delle loro passeggiate http://www.osservatorionomade.net/
Per Bologna conosco questo geoblog http://percorsi-emotivi.com/dove l’esperienza del camminatore si incolla ad un particolare specifico dell’arredo urbano o di un determinato luogo. La carrellata di mezzi che Wu Ming 2 mette a nostra disposizione non fa che sottolineare in maniera del tutto lineare, quanto i nostri piedi siano capaci di rapportarsi con il mondo, di farne esperienza, una pratica innata che come diceva Le Breton “decentra da sè e ripristina il mondo, inscrivendo l’uomo nei limiti che lo richiamano alla sua fragilità e alla sua forza. Stimola continuamente nell’uomo il desiderio di comprendere, di individuare il suo posto nella trama del mondo, di interrogarsi su ciò che stabilisce il legame con gli altri”
Forse è proprio questo a renderla una pratica dalla forte connotazione simbolica e metaforica e per questo così naturale.
@ Christiano:
Viva l’APB!
@ Paola Di Giulio:
purtroppo niente “punting”. Sarà per la prossima volta…
Segnalo le presentazioni pubbliche al libro “L’arte del camminare”, di/con Luca Gianotti:
18 maggio – Padova – MelBookstore ore 18 via Martiri della libertà 1
19 maggio – Pedavena Feltre (BL) – Biblioteca civica ore 20.30
21 maggio – Firenze – fiera Terra Futura – Fortezza da Basso – ore 12.30-13.30 Spazio Media Eventi
23 maggio Bologna – MelBookstore ore 18 – via Rizzoli, 18 insieme a Luca Gianotti interverrà Wu Ming 2, autore della prefazione.