[Rifrazioni è un quadrimestrale di cinema-e-oltre diretto da Jonny Costantino. Il n.7, uscito da pochi giorni, contiene un dossier intitolato “Folgorazioni”, nel quale diversi scrittori, critici, storici del cinema, registi e attori (si va da Wu Ming 1 a Enrico Ghezzi, e c’è persino un inatteso Rocco Siffredi) dedicano un pezzo a una scena di film che li ha colpiti, ispirati, meravigliati, o che riveste importanza nella loro vita e/o professione. Wu Ming 1 ne ha approfittato per ribadire una dichiarazione di poetica che riguarda l’intero collettivo. Qui di seguito, il suo contributo. E’ stato scritto il 28 aprile 2011, ciò spiega il riferimento a una “installazione” di quei giorni, realizzata a Roma da Mimmo Rubino. Attenzione: il testo contiene uno spoiler. Se non avete mai visto Profondo rosso di Dario Argento (1975), vi rovina la sorpresa.
Per leggere l’intro del dossier e alcuni estratti, cliccare qui.]
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Pensiamo all’espressione “coda dell’occhio”. Una coda sta sul retro di un corpo. Per la precisione, sopra le terga. E’ il prolungamento della colonna vertebrale, oltre il coccige. La coda dell’occhio, metafora per l’estremo margine del campo visivo, è dunque associata al “retro” di un corpo, è l’ultima parte dell’occhio a cogliere, a percepire qualcosa di uno spazio che si sta lasciando. Ciò che appare nella coda dell’occhio è ormai lontano dal focus del nostro sguardo, è in-distinto, non si staglia su nulla, è già tornato parte dello sfondo, di ciò che lasciamo in fondo. Va anche fatto notare che il nostro sguardo ha due code: una a destra e una a sinistra. Bruce Lee si allenava a distinguere e riconoscere anche ciò che appariva ai margini del campo visivo, senza girarsi per mettere a fuoco, ma quello di Bruce Lee è un caso eccezionale: quasi tutti noi, dopo aver percepito qualcosa con una coda d’occhio, per distinguerlo e riconoscerlo dobbiamo girarci, ruotare la testa, puntare lo sguardo. Noi andiamo avanti, passiamo nello spazio, l’aggettivo per descriverci è “corrivi”, siamo sempre più corrivi, procediamo di corsa con un focus sempre più ristretto (si potrebbe parlare di paraocchi: cos’è un paraocchi se non un dispositivo che lega le code agli occhi?) senza preoccuparci di quel che c’è intorno, di quel che ci passa accanto, di quel che lasciamo dietro di noi. Il nostro sguardo è monotonamente frontale, non ci fermiamo a distinguere e pensare, e così rispondiamo agli stimoli subito e nel modo più banale. Un artista batte in ferro una scritta che richiama quella all’ingresso di Auschwitz e la colloca sul parapetto di un ponte romano: WORK WILL MAKE YOU FREE. Un messaggio per i precari e le precarie, un richiamo al grande campo di concentramento a cielo aperto in cui viviamo credendoci liberi. Eppure tutti parlano di “provocazione nazista”, di apologia della Shoah. Corrivi prigionieri del focus più angusto, tiranneggiati dal riflesso condizionato. Nessuno sposta lo sguardo del minimo necessario a cogliere un senso diverso, nessuno si ferma per distinguere, per pensare. La provocazione cade nel vuoto, perché la provocazione ha bisogno di qualcuno che si fermi a pensarci sopra. Ha bisogno di almeno una “seconda occhiata”.
La “seconda occhiata” è necessaria quanto e più dell’idealtipica “seconda domanda” del giornalista. Provocazioni dirette e frontali (es. la frontalità della “Reductio ad Hitlerum“) servono a poco dove impera la fretta. Forse abbiamo bisogno di un “sovvertimento sottile”, di una poetica del vivere e del creare che agganci l’attenzione di sbieco, incuriosisca per via obliqua e spinga a dare la seconda occhiata, a fare la seconda domanda, a intraprendere la seconda lettura. In molte interviste noi Wu Ming abbiamo parlato delle “bombe a scoppio ritardato” che nascondiamo tra le righe dei nostri libri, bombe che scoppiano non durante la lettura ma dopo. Abbiamo anche parlato di “mine”, ordigni che esplodono soltanto alla seconda lettura. Infatti, molte testimonianze ci dicono che i nostri libri vengono riletti. Bene, nel tentativo di farci capire, abbiamo più volte evocato la celebre (doppia) sequenza di Profondo rosso, quella del corridoio, dei quadri e dello specchio. Mirabile andamento: primo passaggio (focus ristretto, sguardo dell’uomo corrivo); qualcosa nella coda dell’occhio (estrema fugacità dell’indizio); oblio e lavorìo sub-limine; ripensamento (fare “mente locale”!); ritorno sulla scena, flashback, riconoscimento… Ti giri e l’assassino è lì. L’avevi già visto, anzi, l’avevi visto subito. Il suo volto ti ha accompagnato fin dall’inizio, te lo sei tirato appresso per tutta l’indagine, impigliato nella coda dell’occhio. Lontano dal focus. Molto istruttivo: a Bruce Lee non sarebbe accaduto, ma a noi “normali” sì, perché noi siamo corrivi e tiriamo innanzi sine cura, disattenti, nolenti, incapaci di distinguere. Quest’andamento culmina in un’agnizione poderosa, squassante. La prima volta che vedi il film, l’ultimo flashback ti ghiaccia il sangue, salti dalla sedia, hai una reazione fisica. E perché no, in fondo? La coda, che prima stava sul culo dell’occhio, adesso ti si agita davanti al capo. La storia ha capo e coda, ma si sono scambiati di posto, c’è stato un rovesciamento. Vedi la realtà in un altro modo. E’ quel che si cerca di ottenere (invano) con provocazioni dirette, frontali. No, funziona di più così. Funziona il doppio passaggio. Qualunque artista, creatore, sobillatore dovrebbe lavorare per farci entrare due volte nel corridoio: la prima volta passando di corsa, la seconda fermandoci.
non male leggere WM1 dopo Rocco Siffredi, non capita mica tutti i giorni.. Ho letto più di una volta il testo.. c’è qualche trucco? Qualche riflesso che ancora non riesco a vedere a causa del mio paraocchi? Insomma sono passato dritto dritto per il corridoio e mi stai fregando? :)
Comunque condivido la necessità di “sovvertimenti sottili”, capaci di infilarsi nelle crepe e con un lento lavorio far crollare parti di mura. Che stimolino il ritorno nei luoghi del delitto, per indagare la profondità dell’accaduto. Allo stesso tempo come tu ben dici la fretta impera, non lascia il tempo per pensare, accecata non solo dall’unidirezionalità dello sguardo ma anche dalla necessità di “sovvertimenti spessi”. Opere come quella di Mimmo Rubino però, in un certo qual modo ti fanno ripercorrere un corridoio familiarizzato che la fretta ti ha fatto fuggire via. Se la folgorazione non è immediata e il paraocchi alla prima lettura ti suggerisce: “i soliti nazifascisti”, la possibilità, per la natura stessa dell’opera o per i discorsi che potenzialmente le gravitano attorno, di una seconda o di una terza lettura potrebbe lanciarti occhiolini obliqui allettanti (certo.. forse dopo la prima lettura hanno già rimosso l’opera e nessuno ne parla e rimani fregato..e allora si che si trasforma in attacco frontale neutralizzato, nemmeno una scheggia dalle mura saltata).
Mi è venuta in mente questa scena di Bande à part (grazie ele): http://bit.ly/6qoGM (purtroppo non ho trovato il video con sottotitoli in italiano). Il lettore passa di fretta nel corridoio ma è costretto a fermarsi. La musica cessa, rimane solo il battito delle mani e dei piedi e la voce fuori campo di Godard che entra nei personaggi e ci mostra il loro punto di vista, la loro profondità. In un certo senso anche qui siamo folgorati, costretti a passare due volte per il corridoio e la coda dell’occhio cambia di posto, la differenza forse è che Godard ci prende per mano, agisce di più.
Di ritorno dal festival veneziano, mi vengono in mente tanti film che hanno fatto dello “sguardo di sbieco” il loro punto di forza (e per me di fascino). Quindi ve li consiglio se e quando usciranno.
Faust (leone d’oro) di Sokurov – il viaggio del dr. F. è raccontato con inquadrature “a specchio”, cioè riflesse su una superficie che nel corso del film diventa sempre più distorta…sino all’oblio del finale.
Vivan la antipodas! di Kossakovsky (Arg/Cina/Spa/Cile/Australia/etc) – Cosa succede se raccontiamo in contemporanea quello che accade fra coppie di città agli antipodi del globo? Si incontrano e sovrappongono forme e intensità, sino al “ripiegamento” gravitazionale.
The Exchange di Kolirin (Israele/Ger)- Un tizio rincasa per la prima volta alla luce del sole e tutto gli sembra diverso. Il suo sguardo e la sua vita partono per la tangente…
Questi a mio parere i più “storti” del festival.
Sarebbe interessante stilare una lista di film/registi che utilizzano l’ermeneutica della “coda dell’occhio”…
Gran bel pezzo, Wu Ming 1.
Sarebbe meravigliosa una conferenza con te e Ghezzi a parlare di Cinema!
(il mio commento contiene spoiler)
Bellissima questa riflessione sulla coda dell’occhio.
Nel caso specifico, anch’io ebbi le capacità di Bruce Lee perché vidi subito Clara Calamai, intuendo che si trattava di uno specchio – caso raro di mia intuizione rivelatasi giusta.
C’è da dire che questa “tecnica”, tipicamente utilizzata nel giallo (anche nella mitica serie della signora Fletcher), è purtroppo rara negli altri generi. Si tende troppo spesso a seguire la linearità ineluttabile, per cui nessuno torna mai sul “luogo del delitto” e la narrazione scorre veloce senza bisogno di ripensamenti (poco per i personaggi quasi nulla per gli spettatori).
Benché rara, ogni tanto però capita di ricevere alcune agnizioni là dove meno te l’aspetti. Non saprei stilare una serie di registi che spesso guardano e ci fanno guardare con la coda dell’occhio. Mi vengono in mente dei film. Non a caso tutti dei grandi film. Dove il disvelamento non è necessario alla storia (come nei gialli), ma offre uno sguardo obliquo su di essa in grado di farne emergere significati altri.
Come la porta di “Sentieri Selvaggi”, la lettera killer della sconosciuta di Ophuls, la profetica diapositiva di “Don’t look now”, l’equivoco del cognome in “Mr. Klein”.
Ce ne saranno molti altri. Se mi tornassero alla memoria, li posto.