Anthropoid è il nome in codice di una delle più note azioni di guerriglia portate a termine con successo contro il nazismo.
– Più note? E chi la conosce?
Appunto. Come abbiamo ripetuto spesso, qua in Italia siamo piuttosto ignoranti sulla Resistenza europea, e anche chi festeggia volentieri il 25 aprile, di rado s’interessa di quel che accadde durante l’invasione tedesca in Polonia, Norvegia, Jugoslavia. Io stesso, sia ben chiaro, non ho affatto i titoli per fare il secchione: se conosco da tempo l’operazione Antropoide, non è per passione storica o politica, ma solo per via di un Interrail a Praga nel 1992. A zonzo per la città, è difficile non imbattersi nella chiesa dei santi Cirillo & Metodio, quella dove trascorsero gli ultimi giorni Jozef & Jan (Santi pure loro? Martiri? Eroi? Kamikaze?).
Quindi, se la notizia fosse che uno scrittore francese di trentanove anni ha pubblicato un libro sull’argomento molto ben documentato e avvincente, già ci sarebbe da passare la voce e fare un salto in libreria, giusto per colmare la lacuna. Ma l’oggetto narrativo che Laurent Binet voleva intitolare Operazione Antropoide – e che invece s’intitola HHhH (*) – ha molti altri meriti per farsi apprezzare.
Va detto subito che mettendo sul fuoco una vicenda del genere è difficile portare in tavola una pietanza insipida. Gli ingredienti per acchiappare il lettore ci sono già in dosi abbondanti: un cattivo da paura, un manipolo di eroi, un infido traditore, passione, guerra, morte. Il tutto a partire da una storia vera, l’ossimoro in polvere che va per la maggiore, in questi tempi affamati di realtà. Il rischio, se mai, è di esagerare i sapori, alterandone l’equilibrio con una salsa troppo forte. Binet se ne rende conto ed evita la trappola con tre mosse efficaci.
Anzitutto, fin dalle prime pagine, prende il toro per le corna e non fa mistero dei suoi timori:
«J’espère simplement que derrière l’épaisse couche réfléchissante d’idéalisation que je vais appliquer à cette histoire fabuleuse, le miroir sans tain de la réalité historique se laissera encore traverser.»
Riporto la citazione in lingua originale perché essa contiene un’immagine che non è stata resa dalla traduttrice italiana. Margherita Botto in questo caso ha scelto – non senza ragione – di alleggerire la prosa di Binet, in favore di una frase più snella ma inevitabilmente più povera (**). Il senso letterale sarebbe:
«Spero soltanto che sotto la spessa lamina rifrangente d’idealizzazione che sto per applicare a questa storia favolosa, lo specchio semiargentato della realtà storica si lascerà ancora attraversare.»
Gli specchi semiargentati sono quelli che i poliziotti usano nei telefilm per osservare i sospetti senza farsi vedere. Da un lato, quello illuminato, riflettono come specchi normali. Dall’altro, che deve restare al buio, si lasciano attraversare come un vetro. Funzionano così perché lo strato metallico che contengono è sottilissimo e lascia passare circa la metà della luce incidente. Aumentando lo strato l’effetto si annulla, e la superficie magica non si lascia più trafiggere dagli sguardi sbirreschi.
Binet immagina che tra noi e la realtà storica si frapponga uno specchio di quel tipo. Il passato è una stanza luminosa (perché lì tutto è già successo, è già dato), mentre noi siamo al buio, come nella caverna platonica, e possiamo vedere l’altra stanza meglio della nostra, a patto di non stendere sullo specchio una lamina rifrangente, ovvero: a patto di non volerci specchiare su quella superficie. L’idealizzazione della Storia, infatti, non è che una forma di narcisismo collettivo.
La tre righe che ho appena citato non si trovano in una prefazione o introduzione o nota preliminare. Non siamo nel paratesto, insomma, ma già oltre il confine del testo vero e proprio. L’autore infatti non si limita a raccontarci la gloriosa epopea di Jan Kubiš e Jozef Gabčík, ma accanto ad essa srotola il resoconto delle sue ricerche, dubbi, scrupoli, problemi di metodo. E lo fa dialogando con i personaggi, recensendo film e romanzi sull’argomento, mettendo in scena sé stesso – tanto al giorno d’oggi, nel corpo a corpo con gli archivi, quanto ai margini degli eventi stessi, come un viaggiatore discreto a spasso nella Storia.
Questa seconda narrazione ricorda molto da vicino quella di Paco Ignacio Taibo II in Rivoluzionario di passaggio (1986), che tra l’altro ha in comune con Binet anche i capitoli molto brevi, frammentari, spesso divaganti rispetto alla vicenda principale, che diventa il pretesto per squadernare molteplici storie. La differenza sta nel fatto che Taibo usa le incursioni nel presente per colmare i buchi macroscopici di un passato ipotetico, la biografia impossibile di un sindacalista anarchico che ha lasciato pochissime tracce di sé; al contrario Binet si trova per le mani l’intreccio dettagliatissimo di una storia già nota – talmente nota che molti lettori sanno già come va a finire – e dunque utilizza lo stratagemma di Taibo per ovviare al problema opposto: spargere congiuntivo eventuale (cioè il sale di ogni narrazione) sopra la carcassa del passato remoto. In Taibo, alla totale incertezza che circonda l’ombra del personaggio, fanno da contraltare i fatti della ricerca: ho in mano questa fotografia, ho scovato il tal microfilm, sfoglio un giornale dell’epoca. Binet invece intacca la monumentale evidenza della sua vicenda con la puntuale testimonianza delle proprie sviste. Così ad esempio, a pochi capitoli di distanza dall’entrata in scena di Jozef Gabčík, ci imbattiamo in queste righe:
«Rileggendo uno dei libri fondamentali della mia documentazione […] mi accorgo con sgomento degli errori che ho commesso parlando di Gabčík. Per cominciare, dal novembre 1938 Košice non apparteneva più alla Cecoslovacchia ma all’Ungheria, la città era occupato dall’ammiraglio Horthy, quindi è altamente improbabile che Gabčík sia andato a trovare i suoi commilitoni del 14° reggimento.»
Oppure:
«Nella prima stesura avevo scritto: “strizzato in un’uniforme azzurra”. Non so perché, ma la vedevo azzurra. E’ vero che nelle fotografie Göring ha spesso un’uniforme azzurra. Ma non so se quel giorno la indossasse. Poteva benissimo essere vestito di bianco, per esempio.»
Capite bene che queste riscritture, ripensamenti, correzioni retroattive mettono il lettore in un paradossale stato d’incertezza: sto leggendo un romanzo storico – che forse non è nemmeno un romanzo – nel quale l’autore stesso compare fin dall’inizio e mi promette che sarà accuratissimo, che non inventerà nulla, e proprio quando comincio a fidarmi, quello si fa vivo di nuovo e mi dice che no, per quanti sforzi faccia non riesce ad essere attendibile, e non solo perché qua e là gli scappa un dialogo di fantasia, o un po’ di introspezione psicologica a spese dei protagonisti, cosa che in fondo non è così grave, ma fa pure degli errori, e magari se ne accorge diverse pagine dopo, e va bene che li corregge, ma io comunque devo stare sul chi vive, non posso accomodarmi sul testo e dormire sonni tranquilli.
Se il finale del libro è già scritto e non c’è suspense, allora ci sarà suspense nella scrittura di quel finale. Proprio per questo Binet fa sesso tantrico con la sua scena madre, dilaziona l’orgasmo, scrive tutto il resto, “poiché tutto il resto doveva convergere verso quell’episodio decisivo”. A pagina 104, lo assale addirittura il dubbio di aver sbagliato protagonista:
«Quando parlo del libro che sto scrivendo, dico: “Il mio libro su Heydrich”. Eppure Heydrich non dovrebbe esserne il protagonista. […] Heydrich è l’obiettivo, non l’attore dell’operazione. […] Mi rendo conto che i miei due protagonisti tardano ad entrare in scena. Ma se si fanno aspettare, forse non è un gran male. Forse così avranno più consistenza.»
Dare consistenza ai personaggi, per Binet, non è un bisogno stilistico: è un imperativo etico. Ciò che più emerge, da tutte le considerazioni con le quali arricchisce il suo infra-romanzo, è l’amore ossessivo e passionale per la vicenda che ha deciso di raccontare. In tempi dove troppo spesso le storie sono strumenti dei loro autori, è bello vedere un autore che si fa strumento della sua storia e cerca di servirla meglio che può. Tanta dedizione sfocia però in un dilemma irrisolto.
Da un lato, Binet vuole rendere omaggio ai protagonisti ( e ai comprimari) dell’operazione Antropoide, e vuole farlo con la letteratura, perché ritiene che soltanto grazie ad essa i fantasmi possono tornare a vivere e imprimersi nella memoria collettiva (E’ da mezz’ora che cerco il passaggio preciso dove lo dice chiaro, ma non lo trovo più). Dall’altro, ritiene “volgare” la semplice verosimiglianza, considera “artificiosi” i “dialoghi ricostruiti a partire da testimonianze più o meno di prima mano”, definisce “puerile e ridicola” l’invenzione romanzesca e a pag 234, capitolo 192, scrive a proposito de Le Benevole di Jonathan Littell:
«Dico che inventare un personaggio per comprendere dei fatti storici è come manipolare le prove. O piuttosto, come sostiene il mio fratellastro, “introdurre nella scena del delitto elementi incriminanti mentre il terreno è cosparso di prove.»
Ovvero, per dirlo con altre parole: Che interesse ci sarebbe a “inventare” sul nazismo?
Qui c’è una contraddizione di fondo che finisce per rendere comici gli sforzi di Binet (che infatti non di rado ci scherza su volentieri). Egli è talmente affascinato dalla letteratura, da trasformare sé stesso in personaggio: un personaggio che quando apre bocca, sputa sugli elementi chiave della letteratura stessa. A me ricorda mio figlio quando assaggia gli asparagi e dice: “Buoni. Però un po’ cattivi.” Ma voi mio figlio non lo conoscete, quindi vi faccio un altro esempio. Avete presente il protagonista di In & Out, quando per convincersi di essere macho, si mette ad ascoltare I Will Survive a tutto volume, cercando disperatamente di non sculettare a ritmo di musica? Oppure ancora quei ragazzini che vorrebbero tanto fare un gioco infantile, ma lo rifiutano per dimostrarsi “grandi”? Cosa c’è di più puerile delle lamentele alla David Shields intorno all’artificiosità puerile della forma romanzo? Affermazioni tipo:
«Scrivere narrativa è come mettersi al volante vestito da pagliaccio. Devi andare da qualche parte, ma sei in costume e nessuno se la beve. Sei quel tipo in costume, e tutti dovrebbero dimenticarsene e stare al gioco.» (***)
Esatto. Ma voialtri siete troppo intelligenti per giocare con noi, giusto? Siete troppo sgamati. E bisogna a tutti costi che ce lo dimostriate, mettendovi in un angolino a fumare Camel, mentre noi ci divertiamo come cretini. Viene il dubbio che la vostra, in fondo, sia una forma di invidia:
«E’ incredibile, ho appena trovato un altro romanzo sull’attentato. Si intitola “Like a Man”, di un certo David Chacko […]. L’arte di Chacko consiste nella capacità di inserire un’informazione storica in una battuta già efficace in sé per la sua finezza psicologica, e soprattutto, sotto il profilo letterario, per l’arguzia finale. […] E io, per quanto non me la senta di usare questo procedimento, devo ammettere che funziona benissimo: mi sono davvero lasciato catturare da molti passi del libro.»
O ancora:
«Mi chiedo come faccia Jonathan Littell a sapere che Blobel […] aveva una Opel. Se davvero Blobel viaggiava in Opel, tanto di cappello. Ma se è un bluff, mette in crisi l’intera opera. E’ vero che i nazisti si rifornivano massicciamente da Opel, e quindi è del tutto verosimile che Blobel possedesse un veicolo di quella marca. Ma verosimile non equivale ad accertato.»
E’ buffo notare che, mentre la semplice verosimiglianza metterebbe in crisi l’intero romanzo di Littell, Binet dichiara il suo amore spassionato per Salammbô di Gustave Flaubert (“nella lista dei miei dieci libri preferiti”). E riporta una lettera dove l’autore afferma, a proposito dell’opera che sta scrivendo:
«Quanto all’archeologia, sarà probabile. Nient’altro. Purché non si possa dimostrare che ho detto delle assurdità, è tutto ciò che chiedo.»
Dunque? Perché Flaubert può accontentarsi di un’archeologia probabile, mentre Littell è da buttare, se solo Blobel NON aveva una Opel? Forse, penseranno i maligni, perché Littell ha ottenuto un grande successo con un romanzo sul nazismo, proprio mentre Binet scriveva un libro sul nazismo (e lottava contro la propria ossessione per i dettagli, l’incapacità di dire “Ok, questo posso anche inventarmelo”)?
Mi sbaglierò, ma in questa nevrotica “fame di realtà”, oltre al già citato David Shields, sento agitarsi lo spettro di Christian Salmon e del suo saggio sullo Storytelling.
Ho come l’impressione che in Francia il problema delle “tossine narrative” sia stato posto in maniera sbagliata. Invece di interrogarsi su quali figure retoriche o bias cognitivi portano un narratore a manipolare il suo pubblico e a nascondere la realtà, si è deciso che raccontare storie equivale a spacciare frottole, sempre e comunque, salvo poi rincorrere un’incomprensibile contro-narrazione, come fa Salmon, o inchinarsi di fronte al “potere imponderabile e nefasto” della letteratura, come fa Binet. Ma un conto è criticare i clichés di tanti romanzi storici, un altro è negare che l’invenzione letteraria può essere una forma di indagine della Storia, e non soltanto un ingranaggio pretenzioso e ridicolo per rimodellarla. Mentre Hayden White ha mostrato come le strutture narrative sono uno strumento legittimo dell’analisi storica, Laurent Binet vorrebbe ripulire la letteratura da ogni artificio retorico: e meno male per lui che non ci riesce affatto. Come già dimostrò Cristoforo Colombo, anche un tentativo fallito può portare alla scoperta di nuovi mondi.
«Affinché qualcosa, qualsiasi cosa, resti nella memoria, bisogna anzitutto trasformarla in letteratura. E’ brutto ma è così.»
(Alla fine l’ho trovata, quella dannata frase. E devo dire che sì, mi ricorda mio figlio quando assaggia gli asparagi…)
Wu Ming 2
@WuMing2
il problema di fondo è che Binet nei suoi ripensamenti e dubbi qualche volta scade nella retorica più becera, scontata. come quando sta per iniziare a raccontare l’attentato e si chiede come poter dare ragione alla storia senza infonderle falsità letteraria.
il mio è un appunto più che una recensione ma alla fine è quello che mi ha lasciato questo libro.
http://www.liberdocet.it/2011/09/hhhh-il-cervello-di-himmler-si-chiama-heydrich-laurent-binet/
@wm2
non c’entra niente, ma non resisto alla tentazione di riportare questo dialogo con mio figlio di tre anni ieri sera a tavola:
– beh? perche’ non mangi la pasta?
– e perche’… e’ molto molto pericoloso mangiare questa pasta.
@lulumassa
Ho letto il tuo post: fai riferimento a una rece su TTL ma sfogliando il PDF non l’ho trovata.
Quanto alla “retorica becera” di Binet, a me non ha dato fastidio: se uno considera i suoi interventi come un saggio di narratologia, allora sì, risultano a tratti banali, ma non credo sia questo il modo giusto di leggerli. Il “Binet” che ci parla dalle pagine del libro è un personaggio, non l’autore. Un personaggio che si pone interrogativi a volte banali, spesso contraddittori, ma che alla fine ci coinvolge nella sua avventura, cioè il tentativo di rendere omaggio letterario a una vicenda mantenendo trasparente lo specchio semiargentato della realtà storica. La sua è una bella battaglia, anche se combatte contro i mulini a vento.
@ WM2 Leggere serve per scrivere, dicevate…
– Più note? E chi la conosce?
(E’ da mezz’ora che cerco il passaggio preciso dove lo dice chiaro, ma non lo trovo più). […]
Alla fine l’ho trovata.
Anche tu ci hai preso gusto ad una scrittura che coinvolge il lettore, a salti, vedo ;-)
direi che come imitazione (nel senso positivo ‘imitare è il primo passo per imparare’) è buona, ma, per me, ha un gusto particolare… da asparago ;-)
@zvanèn
A dire il vero non ci ho preso gusto: è che quando parlo di un libro, mi piace imitare lo stile dell’autore, farmi contaminare per contaminare chi legge. E poi credo che ogni testo meriti un commento diverso, non solo nei contenuti, ma pure nella forma.
Recensione davvero pregevole di questo oggetto narrativo. Non avendolo letto non ho argomenti a sostegno o a critica.
Devo però dire che questa storia mi era totalmente nuova, come pure il personaggio di Heydrich (e ci sono un po’ rimasto perché non mi direi proprio profano di vicende sul nazismo). Così sono andato in giro a cercare chi fossero i protagonisti di questo romanzo.
Ho letto dell’attentato, della caccia all’uomo, e delle rappresaglie postattentato – nelle quali le SS hanno effettivamente dato il meglio.
Su wikipedia, ho trovato l’analisi di R.J. Crampton e Mastný (suppongo siano due storici, non so se e di quale caratura) che praticamente asseriscono: dopo quest’attentato, la resistenza ceca praticamente si dissolve. Mi interesserebbe sapere se percaso Binet abbia raccontato anche questo aspetto. Se il gruppo di partigiani e l’ÚVOD fossero in qualche modo consapevoli delle conseguenze di questo gesto.
La cosa più sconvolgente di questa vicenda, per me, è stato leggere da una parte dello stato di terrore instaurato da Heydrich nel protettorato di Boemia – che a quanto leggo, riuscì praticamente a debellare l’ÚVOD arrestandone la maggiorparte dei capi – dall’altra la strage nazista che fu talmente disumana da inibire qualsiasi reazione.
Il dramma di quei partigiani messi tra l’incudine e il martello mi pare la cosa più ardua da raccontare, e mi chiedevo (a WM2) appunto come l’autore ci sia riuscito (se c’è riuscito).
@Ekerot
Le ultime settanta pagine del libro (circa un quinto del totale) sono dedicate al post-attentato e Binet dà molto spazio alla cosiddetta Heydrichiada, ovvero alla repressione scatenata dai nazisti per vendicare la morte del Protettore di Boemia e Moravia (l’unico geraraca del Terzo Reich ad essere morto in un agguato).
La resistenza ceca, a quanto pare, era molto mal messa anche prima dell’Operazione Antropoide. Binet sottolinea come la reazione di Hitler abbia avuto anche effetti controproducenti. Ad es. nel caso di Lidice, un villaggio ceco cancellato dalla carta geografica:
“Nei giorni successivi, Hitler capirà. Per una volta non sono le sue SS a scatenarsi, ma un’entità di cui probabilmente non valuta tutto il potere: l’opinione pubblica. I giornali sovietici dichiarano che, ormai, la gente combatterà con il nome di Lidice sulle labbra. In Inghilterra i minatori di Birmingham aprono una colletta per la futura ricostruzione del villaggio e inventano uno slogan che farà il giro del mondo: Lidice vivrà! Negli USA, in Messico, a Cuba, in Brasile si ribattezzano piazze con il nome di Lidice. […] A Washington, il segretario della marina dichiara: Se le future generazioni ci domanderanno perché abbiamo combattuto questa guerra, racconteremo loro la storia di Lidice. […] Gabcik e Kubis […] sono più che mai divorati dal senso di colpa. Hanno un bel dire a sé stessi che hanno compiuto la loro missione […]: hanno l’impressione di aver ucciso gli abitanti di Lidice con le proprie mani, e anche che finché Hitler non li saprà morti, le rappresaglie continueranno all’infinito”
Non male per uno che, a parole, vorrebbe evitare come la peste introspezioni, monologhi interiori e “fatti” non accertati…
ho letto l’articolo e anche i commenti.
Mi trovo d’accordo col wu ming, anche se ammetto che la riflessione di Binet sul distacco di filtro percettivo tra noi al presente e la realtà storica sia abbastanza calzante, anche se poi applicata non nel migliore dei modi.
ps ma ho letto che parlerete ad un convegno a bologna a metà ottobre??? dove e quando che voglio venire assolutamente!
lola
In questo momento su Rai Storia stanno trasmettendo un documentario sulla *Resistenza europea* e mentre scrivo parlano proprio di Heyndrich.
La Risonanza…
P.S. Nel documentario si parla nel dettaglio dell’ideazione e della messa in atto dell’attentato a Heyndrich, e pur sapendo già come è andata a finire è raccontato in modo appassionante.
Senza il post di WM2 di oggi probabilmente non mi sarei fermato a guardarlo, grazie…
@superpu
E dopo il documentario, consiglio l’ascolto di A Lovely Day Tomorrow dei British Sea Power, dedicata all’impresa di Jan & Jozef:
http://www.youtube.com/watch?v=cHgpNZSxwPU
Qui anche in versione ceca (“Zitra Bude Krasny Den”)
http://www.youtube.com/watch?v=gZOWsCz8o2c
Tra l’altro, quest’estate i British Sea Power hanno fatto una tournée negli USA insieme a A Classic Education, gruppo italiano anglofono dove suonano Paul Pieretto e Federico Oppi, ovvero la sezione ritmica che mi affianca di solito nei reading (ad esempio in “Razza Partigiana”)
La Risonanza…
Da ignorante, ignoravo l’esistenza dei British Sea Power, ottima scoperta!
E perfetta conclusione di una giornata passata alla *caccia di nazisti*, sia per studio che per “svago”…
Beh un po’ho voglia di leggerlo questo HHhH ma un po’ presento un effetto asparago.
Dubito invece dell’effetto “pasta” come da altra fantastica citazione infantile (quella di Tuco): non credo HHhH sia una lettura “pericolosa”.
Però vorrei notare che il titolo (la mera abbreviazione) è fantastico (forse soprattutto per chi ha un minimo di confidenza con l’uso delle maiuscole in tedesco), ma è assolutamente depotenziato da occhiello sottotitolo e quant’altro hanno voluto aggiungere per far capire di che si trattava… mi viene in mente la copertina di “ad alta voce” (Schlink, Garzanti mi pare) che recava il classico tamburino nazista rovinando il primo dei due notevoli colpi di scena del romanzo…
Buon asparago a tutti.
w
Un appunto «tecnico». Di solito ricevo le vostre notifiche su GMail, ma per quella precedente (Foucault) non mi è arrivato nulla… (nemmeno nello spam!)
Recensione davvero intrigante: libro finito direttamente in wishlist.
@tuco: mi dicono che è pericoloso, essere colti «con le mani in pasta» ;)
@ Taliesin
a noi risultava non pervenuta agli indirizzi gmail la notifica del post precedente, “Settembre”, mentre quella su Foucault ci risultava arrivata a tutti. Il fatto che non la trovi nemmeno nello spam è strano. Misteri di feedburner. Comunque, grazie per la segnalazione!
@wm2
riguardo a tuttolibri ho inserito solo il link alla rivista, nello specifico hai provato a cercare con il motore di ricerca interno al sito?
comunque doveva essere un numero di fine luglio-metà agosto, ero in biblioteca in pausa pranzo e ho letto questa recensione. non ti so dire il numero preciso.
@ WM1: a me quella precedente era arrivata correttamente. In passato una era finita nello spam (ve lo avevo segnalato). Ora ho aggiunto fra i contatti in Rubrica l’«indirizzo email» da cui proviene il vostro feed, si sa mai che serva a qualcosa :)
Ho letto il libro di Binet e il libro di Littel.
Interessante l’artificio retorico di usare questo personaggio narratore imperfetto, che sbaglia, si scorda, ha paura. Non sono così sicuro che sia un artificio retorico cosciente, cioè che possiamo distinguere l’autore dal narratore.
C’è un punto in cui Binet definisce il Littel delle Benevole come l’Houllebecq nel nazismo. Secondo me tocca il punto debole di Littel cioè quel personaggio, Maximilian Aue se non sbaglio, così blasè così distaccato e perverso molto simile ai personaggi di Houellebecq. Quando Littel rifila tutta quellalinea narrativa forzata sull’omosessualità e sulla relazione incestuosa con la sorella per capirci. Però Littel si fa coinvolgere, si fa prendere dal fascino del nazismo.
Binet no, o almeno non lo ammette. A
un certo punto dice: ho il babbo compagno e la madre ebrea quindi io sono immune, io non potrei mai…eccetera. Ecco questa secondo me è la pecca più grande. Questo guardare il nazismo da fuori, questo subirne il fascino, come in certi tratti secondo me è evidente, e non poterlo ammettere per motivazioni “ideologiche”. Chiaro che la sua storia è quella dei paracadutisti, però l’immagine che ci rimanda del nazismo è qualcosa di già visto, di storicamente accettato. Forse però narrativamente inesplorato. Ecco forse Binet non dà fiducia alla potenza reale della letteratura: quella di tirare fuori verità più profonde della verità storica, perché più sporche, meno partigiane.
Mi si perdoni l’uso privato del mezzo ma….
@ wolfbukowski
sicuro all 99,9% che lo pseudonimo sia uno pseudo-pseudonimo, un saluto da un ex-150 orista.
Lo so che tutto questo è pratica da troll, lo so….
@lola f:
(O.T.) Il convegno del quale hai sentito parlare credo sia quello organizzato dalla CNA sull’intelligenza collettiva per il 14-15 ottobre. Il programma è ancora in allestimento. Noi dovremmo…suonare, ma non è ancora sicuro. Vi terremo informati.
@behemoth
Sono d’accordo sulla differenza che segnali tra Littell e Binet. Il mio socio WM1 nella sua recensione a Le Benevole scriveva: “Aue è mio fratello, è contro me stesso che devo vigilare, nessuno di noi è immune dal diventare «nazista».”
Questo è l’effetto perturbante che ottiene Littell, mentre Binet non ci riesce, mantiene un approccio classico all’orrore. E forse non è un caso che Littell ci riesca usando un personaggio fittizio (anche se la definizione di “Houellebecq tra i nazisti” non mi convince molto…). Questo dimostra proprio il contrario di quel che afferma Binet: un personaggio fittizio può esserci utile per capire un periodo storico (pensate alla galleria di un comico come Guzzanti, per fare un esempio facile. O al Cetto Laqualunque di Albanese, che quando diventa troppo “vero” diventa inservibile). Sarebbe interessante capire se sia possibile ottenere un “effetto Littell” anche con un nazista realmente esistito… Binet riesce ad ammettere soltanto che Heydrich è “un bel personaggio letterario”. Ma la mia impressione è che stia sulla difensiva.
Forse chi davvero è riuscito a creare un “effetto Littell” su un personaggio esistito storicamente è Genna con “Hitler”. O meglio ancora: William T. Vollmann in “Europe Central” con Hitler ( il sonnambulo ), Paulus, Shostakovich, Akhmatova e Gerstein. Anche se il problema di Binet alla fine se lo pone anche Vollmann nelle note, che diventano una continua ammissione della “colpa di aver inventato” dove i documenti non potevano aiutare la storia. Eppure Binet, su Vollmann, dice poco o nulla, non lo giudica come Littell; lo ammira soltanto.
@Severino Antonelli:
Senza nulla togliere al romanzo di Genna – che ho letto con grande ammirazione – tuttavia non mi sembra che il suo Hitler provi a scatenare un “effetto Littell”. Più volte Genna descrive Hitler come la non-persona, ci invita a considerare “se questo è un uomo”, lo addita come il male assoluto. In nessun capitolo del suo romanzo io sento in testa una vocina che mi dice “Ehi, anche tu sei così. Il germe di questo atteggiamento te lo porti dentro anche tu. Attento, non sei immune”. Al contrario, la lettura mi convince che Hitler è il risultato di un’epica malvagia che non mi coinvolgerà mai direttamente.
“Europe Central”, invece, non l’ho (ancora) letto.
[…] mesi fa, nel recensire il non-fiction novel HHhH. Il cervello di Heydrich si chiama Himmler (di Laurent Binet), Wu Ming 2 […]
[…] simile come struttura a quella di APS e vincitore della categoria opera prima al Goncourt del 2010. Qui una recensione di Wu Ming […]