Settembre. A ruota libera su #15M, #notav, #Zizek, Ivry-sur-Seine e altro

A giugno/luglio si dice sempre: «Ci penseremo a settembre», «Torno a settembre», «La questione è rinviata a settembre», «Riprenderemo il discorso a settembre», ma settembre è sempre un mese interlocutorio, di ripartenza più lenta del previsto, di nuovo “rodaggio” dei veicoli. E’ così anche per Giap. L’appassionato dibattito in calce al post precedente è già un ottimo inizio di stagione, ma dopo il “rompete le righe” d’agosto (espressione che non equivale necessariamente a “vacanze”) il collettivo Wu Ming non funziona ancora a pieno regime, anche perché alcuni di noi sono alle prese con chiusure e consegne di lavori che si protraggono da tempo. Ci vorrà ancora un po’ prima di ristabilire ordine e disciplina nei nostri ranghi, in vista del “socialismo da caserma” necessario per scrivere il nuovo romanzo. Una data-chiave sarà certamente il 19 settembre, giorno di riapertura delle scuole in Emilia-Romagna. Un anno di nuove avventure per i nostri bambini, e giornate leggermente più programmabili per noi.

Intanto la situazione si fa sempre più critica e l’aria più mefitica, la baracca-Italia grida: «Vengo giù? Che faccio, vengo giù?», e continuano ad accendersi focolai di conflitto in tutto il paese, tante scintille, ma nessuna di queste riesce a incendiare la prateria (leggi: a fornire la rappresentazione che connetta le lotte in corso e sia perciò visibile da lontano).
La lotta più significativa, incisiva, fantasiosa e aggregante – abbiamo già scritto più volte di pensarla così – è quella del movimento No Tav in Val di Susa. Si tratta di un’esperienza molto peculiare, una mobilitazione che dura da anni, e il sostegno di cui gode anche nel resto d’Italia si può ben descrivere con queste parole di Alain Badiou:

«[…] reperire un punto reale sul quale non recedere, costi quel che costi. Sottrarsi alla trama confusa dell’impotenza, della nostalgia storica e della componente depressiva, e trovare, costruire e mantenere un punto reale, che sappiamo di poter tener fermo proprio perché non si può inscrivere nella legge della situazione. Se riuscite a trovare un punto, di pensiero e d’azione, che non sia inscrivibile nella situazione e che l’unanime opinione dominante considera allo stesso tempo (e in maniera contraddittoria…) deplorevole e impraticabile, ma che voi giurate a voi stessi di tener fermo, costi quel che costi, allora sarete in grado d’elevare l’impotenza all’impossibile. Tenere fermo un punto significa […] costruire, in seno alla temporalità dell’opinione, un’altra durata, distinta da quella che ci viene imposta dalla simbolizzazione dello stato.» (A. Badiou, Sarkozy: di che cosa è il nome?, Cronopio, 2008, pp.38-39)

Eppure, dopo anni di lotta No Tav, da quella “resistenza su un punto”, ispirante e rinfrancante quanto si vuole, non è (ancora?) nata la rappresentazione molteplice di cui sopra, l’ecceità del ciclo di lotte, il momento della chiarezza in cui chi guarda è portato a dire: «Sì, adesso capisco, tutte le lotte sono la stessa lotta!»

Quando andiamo all’estero, immancabilmente qualcuno ci chiede come mai, mentre la Grecia è in fiamme, la Spagna è in ebollizione e in Nordafrica e Medio Oriente (Israele compreso!) succede quel che sappiamo, in Italia sembra che non succeda nulla. «In Italia si produce tanta teoria che poi viene esportata», dicono con riferimento all’Italian Theory, al post-post-operaismo et cetera «ma, chiacchiere a parte, dove sono le lotte?»

Noi rispondiamo che l’assenza di conflitto è una distorsione ottica, raccontiamo che nell’ultimo anno ci sono state molte lotte importanti, parliamo del movimento No Tav, delle lotte dei migranti (dai braccianti di Nardò alle rivolte nei CIE), della resistenza operaia (dai referendum di Pomigliano e Mirafiori allo sciopero Fincantieri), di lotte interessanti nel mondo della cultura come l’occupazione del Teatro Valle a Roma… Ricordiamo che la pratica del “Book Bloc”, ripresa nei cortei studenteschi di diversi paesi, è nata in Italia, nel movimento universitario contro la riforma Gelmini. Etc. etc.
Però, mentre spieghiamo, noi stessi ci domandiamo: «Ma perché tocca a noi raccontare questo? Perché tutte quelle lotte (Book Bloc a parte) non hanno superato i confini nazionali? Perché dall’Italia nessuno sembra preoccuparsi di raccontare quel che accade in inglese, in spagnolo, in francese?»

I motivi sono tanti: anni e anni di devastazione sociale, di degenerazione culturale e civile, di focalizzazione di tutti i discorsi su Berlusconi e sul come-siamo-messi, di suicidio “(ir)realpolitiko” della sinistra… Tutto questo ha ristretto la visione, e oggi ci crogioliamo in un provincialismo che è vera e propria “mentalità del ghetto”. Si tende a fare discorsi intraducibili, pieni di riferimenti criptici, tutti inter nos, fatti di allusioni e ci-siamo-già-capiti.
Inoltre:  troppi “ingegneri sociali” sono in azione, sempre pronti e più che lesti a deviare i flussi nelle canalette del qualunquismo, di un discorso che non supera la corta gittata dell’antiberlusconismo più banale né propone alcuna analisi che vada oltre il ripetitivo sberleffo anti-“Casta”. E – checché ne dica Repubblica, sempre pronta a ingigantire qualunque segnale di minima attenzione internazionale in questo senso – all’estero di Berlusconi e della nostra “casta” non fotte un cazzo a nessuno. O almeno, a nessuno dei soggetti che interessano a noi.

E poi, qualunque “cornice” in cui i politicanti sembrino più malvagi e pericolosi dei padroni, è come minimo un diversivo, e come massimo un discorso pericoloso e cripto-fascista.
[C’è ancora qualcuno ignaro del fatto che riteniamo Beppe Grillo un cripto-fascista?]

Insomma, “orbitano” intorno ai nostri computer idee per diversi post, ma scriverli richiederebbe/richiederà tempo e concentrazione. Lo sapete, non postiamo “tanto per fare”, aggiorniamo Giap solo se sentiamo di avere qualcosa di pregnante da dire in un modo che ci sembra pregnante, o avere qualcosa di interessante da segnalare in un modo che ci sembra interessante.
Ad esempio, da tempo vorremmo scrivere qualcosa sul movimento “15 de Mayo” in Spagna, del quale in Italia (e non solo in Italia) si ha un’immagine già obsoleta e stereotipata. L’equivoco è che si tratti di una sorta di “popolo viola”. Ci piacerebbe scrivere un pezzo intitolato Divergenze tra il compagno Zizek e noi sul movimento #15M (ricalcando i titoli di un celebre testo del Partito Comunista Cinese e di un disco dei CCCP), perché riteniamo che Slavoj Zizek (nel suo articolo sui riot in Gran Bretagna) abbia scritto cose molto superficiali e inesatte su quanto sta accadendo in Spagna. Zizek si è concentrato su un testo scritto e diffuso all’inizio della mobilitazione, anziché sulle molteplici pratiche che quel movimento ha saputo mettere in campo nei mesi successivi, pratiche che vanno ben oltre qualunque “manifesto” o dichiarazione d’intenti. Un movimento sociale di massa non è una corrente artistica d’avanguardia il cui manifesto è già un’opera e come tale va letto, criticato etc. Il “Manifesto del futurismo” è l’opera più famosa di Marinetti, i manifesti del surrealismo sono tra le opere più famose di Breton, ma le dichiarazioni d’intenti iniziali di un movimento di massa sono qualcosa di interlocutorio, che serve giusto ad “avviare la macchina” ed è il risultato instabile di mediazioni che in seguito non saranno nemmeno più necessarie. Il movimento, se cresce e si evolve, scavalcherà qualunque “manifesto” degli esordi. Forse Zizek pensa che il movimento giovanile negli USA degli anni Sessanta sia riducibile a quel che si legge nella “Dichiarazione di Port Huron” del 1962?
Ma tutto questo vorremmo svilupparlo in un post articolato. Speriamo di riuscirci.

Il problema è che in Italia non sembra possibile un movimento “alla spagnola”. In Spagna ci sembra meno difficile trovare la rappresentazione molteplice che rende evidente la connessione delle lotte. Tant’è che per il momento l’hanno trovata. Ma la “cuginanza” neo-latina non tragga in inganno: i due paesi sono troppo diversi, e hanno storie troppo diverse.
Nello stato spagnolo un imperativo molto sentito è che il movimento non debba mai presentarsi con sigle e bandiere di sottoinsiemi (identità partitiche, gruppettare, etniche etc.), che non sia segmentato in identità parziali. Da noi una simile “fusione” non c’è mai stata, in nessuna fase della storia dei movimenti. Questo è un paese attraversato da divisioni di ogni sorta, con un’antica storia di frammentazione e lotta tra fazioni. Da noi tutto è sigle, bandiere, correnti, gruppi, logge, lobby, campanili, cricche, parrocchie, etichette, cosche, partiti, correnti di partiti. Identità. Strati di identità.
Lo stato spagnolo è un paese unificato da secoli, ex-centro di un impero, e ha pochi grandi centri: quando si va in treno da Barcelona a Madrid si passa in mezzo a centinaia e centinaia di chilometri di vuoto, di campagna non edificata. Invece, l’Italia è un paese che fino all’Ottocento era spezzettato in diversi regni, e prima ancora in tanti piccoli ducati e principati. Un paese estremamente policentrico, con centinaia di dialetti e realtà diversissime tra loro. E’ ciò che lo rende anomalo e interessante, e al contempo è la sua tara storica. E se vai in treno da Roma a Milano attraversi centinaia di centri abitati, grandi, piccoli e minuscoli.
Inoltre, in Spagna fino a trent’anni fa c’era il franchismo, mentre qui negli anni Settanta ci fu uno scontro politico radicalissimo, che ha prodotto spaccature verticali nei movimenti (e tra sinistra “storica” e nuova sinistra), con la sopravvivenza fino a oggi di tantissime tendenze.
L’Italia dovrà trovare una formula diversa da quella spagnola.
Intanto, ci ha fatto molto piacere constatare che il nostro interesse per il #15M è in un certo senso ricambiato.

Doveva essere una breve intro a un post di segnalazioni, notizie, link e “Prossimamente”, invece è diventato un pippone a ruota libera. E vabbe’, capita. Diamo queste segnalazioni, e per oggi facciamola finita.

Presto sarà on line la seconda parte del reportage di WM1 sugli Yo Yo Mundi, con recensione del loro ultimo album Munfrâ.

Domenica 25 settembre, Wu Ming 1 sarà a Parigi (per la precisione: a Ivry-sur-Seine), al festival letterario “En prèmiere ligne”. Alle h. 16, dialogherà con Paco Ignacio Taibo II e Valerio Evangelisti sul tema: “Letteratura popolare. Perché, come e per chi”.
Ivry-sur-Seine è una banlieue a sud-est di Parigi, ed è un posto affascinante: “el pueblito de Asterix”, come la chiama un compagno franco-spagnolo che ci vive e abbiamo conosciuto. Dal 1944 a oggi è stata ininterrottamente amministrata dal Partito Comunista Francese, che alle elezioni prende (ancora oggi) il 51% (e l’intera sinistra supera l’80%). La toponomastica è molto “bolognese”. Noi qui abbiamo Viale Lenin, via Stalingrado, via Marx, via Gramsci, viale Togliatti, via Spartaco e addirittura, per un breve periodo, la centralissima via San Vitale si chiamò “via Carlo Liebknecht”. A Ivry hanno Rue Lénine, Rue Robespierre, Rue Saint-Just, Avenue Henri Barbusse, Allée Gagarine, Rue Marat, Impasse Proudhon, Rue Blanqui, Boulevard de Stalingrad, Parc Maurice Thorez, Pont Nelson Mandela, Place Insurrection d’Aout 1944, Avenue Jean Jaurès. E anche loro hanno un sacco di vie con nomi di eroi partigiani, da Marcel Lamant a Gabriel Péri, da Louis Rousseau ai fratelli Blais.
[Un problema della cultura di sinistra italiana è che non abbiamo coltivato la Resistenza in una dimensione europea: anche chi conosce le storie di quella italiana, sa poco di quella francese, di quella jugoslava, di quella greca etc.]

N.B. Questo è uno dei pochissimi strappi (già fissati da tempo) alla regola della “clausura” che applicheremo per tutto il resto del 2011 e probabilmente per buona parte del 2012. Niente apparizioni pubbliche, presentazioni, conferenze, seminari, workshop etc. Inizia la fase intensiva del lavoro sul romanzo. Nei prossimi mesi abbiamo giusto in programma qualche iniziativa a Bologna, e poco altro. Siamo disposti a strappare ulteriormente la regola soltanto se da Perugia vorranno invitarci a commemorare il compagno Paolo Vinti, nel primo anniversario della morte, 28 novembre 2011.

A proposito di anniversari, il 25 agosto scorso abbiamo festeggiato il centesimo compleanno di Vo Nguyen Giap. Ebbene, ecco un’intervista rilasciata lo stesso giorno da Tommaso De Lorenzis (co-curatore della nuova edizione di Masse armate ed esercito regolare) a Radio Onda d’Urto di Brescia.

Infine: qualcuno ricorderà (speriamo che lo ricordi) che l’anno scorso ci siamo occupati di un film molto bello e importante, Io sono con te di Guido Chiesa. Il film ci è piaciuto molto, benché per motivi diversi da quelli per cui è stato girato. Qualche tempo fa il collega Valter Binaghi ne ha scritto una recensione diversissima dalle nostre, una recensione teologico-poetica. Ce l’ha segnalata, e noi la segnaliamo a voi.

Per oggi è tutto. Buone cose. La lucha sigue.

Dedicato a Marianna Valenti ed Elena “Nina” Garberi.

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139 commenti su “Settembre. A ruota libera su #15M, #notav, #Zizek, Ivry-sur-Seine e altro

  1. (Penso che mi sto sbagliando. E’ un punto di vista personale. Penso che vi annoierò:)

    Abuso dell’invito e dello spazio (della serie “gli dai un dito…”) per intervenire (egocentricamente) sulla questione “provincialismo e auto-ghettizzazione delle lotte/assenza della rappresentazione del molteplice”, tenendo in conto anche la discussione su Twitter iniziata da voi il 6 settembre che partiva dalla mancanza di tweet in inglese sull’occupazione della Borsa di Milano. Mancanza che secondo me è insieme causa, effetto e segno; segno di carenza nel valutare mezzi e fini. (Meditavo anche da giorni di raccogliere quei tweet e le discussioni che partirono in uno storify, e includere proprio quello storico post sulla mentalità del ghetto, ma non credo che lo farò più ora che c’è questo post.)
    Quei vostri tweet mi colpirono molto. La giornata del 3 luglio in Val di Susa (a cui avevo partecipato per curiosità, volontà di sapere direi) aveva fatto sorgere in me mille questioni e dubbi che prima erano rimasti come latenti. La necessità della lotta e la difficoltà delle sue condizioni divennero di colpo tremendamente tangibili e oscure, come una pietrata in testa all’improvviso. Ho passato molto del tempo successivo a chiedermi se potevo fare qualcosa e cosa e come, non altruisticamente ma anzi con la consapevolezza di essere debole e più spaventato all’idea di dovercela fare da solo. All’idea che avrei perso se avessi avuto me stesso come unica causa nella vita. Queste le poco nobili premesse.

    Valutata l’idea di dover lottare, mi sono chiesto realisticamente che cosa potessi fare. Come avrei potuto occupare al meglio le mie capacità? No, piuttosto come avrei potuto sopravvivere alla lotta nonostante le mie mancanze. Mi sono reso conto che per quanto sia necessario esserlo sono del tutto impreparato a lottare “sul campo”. E che lottare “sul campo” necessita una preparazione molto maggiore di quella “fisica” o di quella “strategica”, perché il “campo” non è soltanto il luogo della battaglia, per me è “la pratica in cui tutte le cose si risolvono” di cui parla Kant. I confini si sciolgono e tutto diventa “il campo”. Penso che molto della “sindrome del reduce” (per quanto io sia stato reduce di ben poco, restai distante dagli scontri “duri”) derivi dall’incapacità di accettare una verità che ci ha colpito troppo duramente, tanto da sembrare assurda: che la battaglia è ovunque e non c’è nessuna Ixtlan a cui ritornare (perdonate il riferimento sciamanico-cialtronesco).

    Subìta come reale l’idea che la battaglia è ovunque, ho cercato di accettarla, di farla mia. Ho cercato di capire l’intrico di fili che parte dal nostro modo di vedere le cose e finisce nella pratica in cui le cose si risolvono. Ho cercato di immaginare, di accelerare mentalmente ogni rappresentazione fino al momento in cui quella rappresentazione si ritrova a fronteggiare un cellerino o una rete metallica. Ho accelerato, senza lucidità, ansiosamente, come se scappassi. Ho provato a immaginare cortocircuiti la cui scossa non fosse troppo elevata ma *abbastanza elevata*.

    Dicevo che quei tweet mi hanno illuminato. Ho anche avuto un breve scambio di tweet mentre osservavo le discussioni altrui, in cui affermavo che la mancanza di fonti in inglese sulle lotte italiane riflette una mancanza di fonti in italiano per “non interni” e voi Wu Ming mi avete confermato questa mia idea. Ho cominciato a riflettere sulla necessità di quelle fonti, a cosa comportava la loro assenza. Ho accelerato quella rappresentazione. Pochi istanti prima che voi partiste con quel “pippone”, @arumsetta mi aveva chiesto dati precisi, “perché glieli chiedevano dal Giappone”. Quello che pensai, il mio riflesso condizionato istintivo, fu un chiaro esempio della mentalità del ghetto: mi chiesi inconsciamente “che cazzo c’entrano i giapponesi”. Quando quel pensiero superò la soglia della coscienza mi resi conto di quanto era idiota. Di quanto è suicida presumere che “il campo” abbia dei confini, che il Giappone si abbastanza lontano da non riguardarci.

    Pochi istanti dopo è partito il vostro “discorso per tweet” e mi sembrò come se l’accelerazione che stavo cercando di dare ai pensieri subisse un’iniezione di potenza aggiunta. Forte come una pietrata, ma stavolta non oscurante. La mancanza di fonti in inglese. Di colpo mi ritrovai ad accelerare *quel* pensiero. A immaginare una situazione in cui molti parlassero in inglese delle lotte italiane, sui blog e sui social network, e nella realtà. A cosa avrebbe comportato e soprattutto a cosa avrebbe *implicato*. A cosa avrebbe implicato *sul campo*.

    Nell’euforia del pensiero sono forse stato anche poco lucido. Sono stato quasi inebriato all’idea, dal 6 settembre, e credo di esserlo ancora (non si vede?). Oggi pomeriggio sono entrato in uno scambio tra Don Cave e voi Wu Ming su twitter, a cui si è aggiunto subito Kappazeta e via via altri e ho provato a esprimere ciò che avevo in testa già da cinque giorni. Ho accelerato, ma stavolta non era solo più un esperimento mentale, ho accelerato un’idea e cercato di spenderla subito *sul campo*. Ho immaginato come si potesse tradurre in una pratica immediata, e ho proposto di fare un blog informativo in inglese, che eluda *il campo* il più possibile, che vi si avvicini con larghissimi cerchi concentrici. Un blog che non si ponga come voce di un movimento né tantomeno “del movimento” ma che racconti l’esistente delle lotte, in inglese. A che scopo? Senza uno scopo strategico definito, ma per realizzare nella pratica il più possibile tutto ciò che l’idea di una situazione in cui si parla in inglese delle lotte italiane implica. Ero (e lo sono ancora) posseduto dall’idea che una narrazione descrittiva, “distante” anche grazie alla lingua straniera, forse “periferica”, proprio per il fatto di apparire come non contenente nessuna quota di performatività, avesse ricadute massimamente performative in una situazione in cui i discorsi altamente performativi sono, prima ancora che sbagliati, troppi, e troppo centrati sull’imporsi su altri discorsi performativi.

    Ho inviato mail e scritto una bozza nel giro di mezz’ora di come immaginavo quel blog e l’ho condivisa, dopo poco tempo già sei dei miei contatti su twitter erano interessati, e più tardi altri due. Nel frattempo ho letto questo post http://parlacoimuri.splinder.com/post/25539156/litalia-e-una-provincia-fondata-su che sembrava molto più lucidamente esprimere ciò che io sentivo. Chi l’ha scritto è una delle due persone che mi hanno contattato più tardi.

    Ma qualcosa dentro di me stava ancora scappando, sta ancora scappando. Credo di essere arrivato a realizzare la necessità della lotta troppo tardi e da troppo poco tempo. Non sono sicuro dei risultati delle mie fughe.

    Forse il blog in inglese raggiungerebbe il minimo risultato con il massimo del dispendio di energie. Forse c’è bisogno di discuterne a fondo. Di discutere a fondo le premesse che mi hanno portato a immaginarlo. La verità è che non riesco ancora a focalizzare. Sto ancora scappando e il mio timore più grande è che la fuga abbia dei validi motivi per essere percorsa, che non ci sia più tempo, che dalla quota totale del fare si debba sganciare la zavorra del fare-pensiero. Ma non è così. Vero?

    Quindi dobbiamo discuterne.

    (Perdonate lo sfogo metafisico-delirante. Ho cercato di esprimere quello che sentivo prima ancora di mettervi ordine.)

  2. Solo per aggiungere che la possibilità di descrivere è per me “il punto reale che sappiamo di poter tener fermo proprio perché non si può inscrivere nella legge della situazione” di cui parla Badiou. Il mio timore è che sia un punto troppo distante. La mia quasi-certezza è che ci sia bisogno anche di altri punti.

  3. Segnaliamo un piccolo inconveniente tecnico.
    Diversi iscritti all’aggiornamento e-mail di Giap non hanno ricevuto questo post. Per motivi non chiari l’antispam lo ha bloccato. E’ capitato a chi ha gmail, ad esempio. Era già capitato un’altra volta l’anno scorso.
    Chi non l’ha ricevuto, quando ha un mezzo minuto di tempo vada a cercare la mail nello spam e la segni come “non spam”, per favore. Per trovarla più rapidamente, sappiate che è partita alle 3:00 am di stanotte. Grazie e scusate l’intoppo.

  4. Consigliatissimo il post di Valentina Fulginiti linkato da uomoinpolvere. Lo ri-linkiamo:
    http://parlacoimuri.splinder.com/post/25539156/litalia-e-una-provincia-fondata-su

  5. Sabato sono stato a Roma all’assemblea generale degli Indignati d’Italia e mi ha fatto un’ottima impressione. I numeri non sono neanche lontanamente quelli degli Indignati spagnoli (che tra l’altro erano presenti con una delegazione) ma le premesse sono buone, ossia:

    – totale anti-istituzionalismo
    – organizzazione rigorosamente assembleare e territoriale del movimento
    – nessuna “lista della spesa” (vogliamo questo e quest’altro, ecc.) ma critica al sistema nel suo complesso
    – persone di tutte l’età, molti giovani ma non “giovanilisti”

    Particolarmente avanzata la Commissione Lavoro:
    http://commissionelavoro.blogspot.com/

    Speriamo che il movimento si diffonda anche in altre città…

  6. @ Giacomo

    Il movimento degli “indignati italiani” (Italian Revolution – Democrazia Reale Ora) non è proprio una novità… esiste dal maggio scorso, e si è diffuso da subito in diverse città.

    Ho partecipato alle attività di IR a Bologna, e purtroppo non condivido la tua “buona impressione”. Non perché i ragazzi con cui ho lavorato non siano pieni di capacità e buona volontà, ma perché il “modello” sperimentato fin da maggio non ha funzionato, e non c’è stata la capacità di rimettersi in discussione: si è “feticizzata” l’assemblea di piazza, disdegnando qualsiasi altra forma o modalità operativa, nella più che errata convinzione che per essere davvero democratici ed aperti si debba rinunciare ad esprimere una propria posizione e persino una struttura organizzativa.

    Ancora oggi, i ragazzi mi sembrano convinti che sia sufficiente organizzare assemblee di piazza per trovarsi davanti agli occhi, come per miracolo, la tanto magnificata “società civile”, traboccante di contenuti, proposte ed entusiasmo. Ma ovviamente non è così, e i risultati deludenti di IR lo dimostrano in modo impietoso.

    La partecipazione è calata inesorabilmente. Da assemblee di più di 300 persone si è progressivamente scesi ai numeri miseri di adesso. E – questo è il punto cruciale – non c’è stata nessuna autentica “evoluzione” nella piattaforma di rivendicazioni. Si è rimasti fermi a qualche elenco sconclusionato di rivendicazioni “inesigibili”, e – parlo di Bologna – non si è riusciti neppure a trovare un accordo a livello assembleare su principi generali come “siamo antifascisti” o “il lavoro non è una merce”.

    Quella che tu chiami “lista della spesa” è, entro certi limiti, essenziale per qualunque soggetto che voglia fare politica. Altrettanto essenziale, è la creazione di una struttura capace di organizzare e comunicare.

    La mobilitazione di IR, al contrario, è partita dal presupposto (che si è rivelato errato) secondo cui bastava andare in piazza richiamandosi al precedente spagnolo (e prima ancora egiziano e tunisino) per attirare centinaia di cittadini volenterosi. L’organizzazione sarebbe nata spontaneamente, e “la piazza” avrebbe creato il suo manifesto, votando democraticamente le proposte avanzate dagli stessi cittadini.

    Ma questa ricetta non ha funzionato. Il nome, tra l’altro, si è rivelato una pessima scelta (l’inglese tende a creare diffidenza, di “rivoluzionario” non c’è stato nulla, e “democrazia reale ora” è una pessima traduzione letterale). L’incapacità di prendere decisioni e di formulare proposte credibili si è rivelata cronica. In più le diverse realtà nate nelle varie città non hanno saputo coordinarsi in modo efficace (l’unico livello che ci si è preoccupati di curare è stato quello della comunicazione via web… della serie: clicktivismo e poco più).

    Nella manifestazione del 10/09, abbiamo perciò visto Mascia del Popolo Viola appropriarsi dell’etichetta di “indignati” e il Movimento 5 Stelle organizzare assemblee aperte scopiazzate da quelle di IR. Insomma: non essendo stata capace di trasformarsi da *mobilitazione* spontanea in *movimento* consapevole e maturo, IR si è fatta mettere nell’angolo e scavalcare alla prima occasione.

    Io spero in tutta sincerità che l’esperienza non finisca qui. Però ci sarà bisogno di nuovi contributi, di una rifondazione da zero e, soprattutto, di una severissima autocritica.

  7. Sono il kappazeta citato da uomoinpolvere qui sopra. :-)
    Credo che lo spunto lanciato dai WM sul raccontare in altre lingue sia stato raccolto da molti, su Twitter e non solo. (Anche io, nel mio piccolo: seguendo il ciclismo, ho twittato in inglese il perché delle contestazioni al Giro di padania, secondo me poco chiare agli sportivi esteri).
    E credo che abbia posto anche un tema fondamentale. L’impressione, da qui (periferia bolognese), è che l’Italia sia sempre scollegata da ciò che avviene oltre confine, a partire dal resto d’Europa: come se fossimo dentro un recinto (come cavie di un esperimento sociale?) e da fuori ci guardassero dall’alto, a volte ridendo, altre volte semplicemente lasciandoci perdere ad affogare nel nostro letame.
    Il raccontare all’estero ciò che accade in questo paese è un pensiero che anch’io avevo in testa da un po’: la mia prima idea era partire dalla storia di (fu) information guerrilla e dell’ondata di informazione indipendente nata a partire da Genova 2001 per raccontare i successivi dieci anni e le forme di resistenza messe in atto in questo periodo (e anche l’involuzione del potere politico ed economico, compresa la costante restrizione degli spazi di libertà e dei diritti).
    Raccontare il presente, sforzandosi di adottare uno sguardo il più esterno possibile in modo da far capire davvero cosa succede qua, credo sia una grandissima sfida, ma la contingenza di questo contesto di crisi, con focolai di rivolta e resistenza che si intensificano a livello globale, rappresenta anche un’occasione unica. Vale la pena mettere insieme idee e modalità concrete, definendo bene gli obiettivi (se quelli sono chiari, credo diventi più facile finalizzare il lavoro) anche considerando la possibilità che ciò che verrà fuori possa essere molto diverso rispetto alle prime ipotesi condivise. Al lavoro!

  8. Non riesco ancora ad entrare nel ritmo e nella profondità di Giap, quindi scusatemi per le “toccate e fuga”.

    Due robe, per quel che può valere:

    1. Io domani sera ho un incontro preliminare per cominciare localmente (= a Pavia) a promuovere Dobbiamo Fermarli, che qualcuno riduttivamente chiama “l’appello di Cremaschi” o “l’appello dei sindacalisti”. L’avete visto? Cercate “appello Dobbiamo Fermarli” e lo trovate su molti siti, non sto a spammare con dei link. Secondo me quella cosa lì può diventare il centro di aggregazione di un movimento italiano di ribellione contro l’austerity senz’altro meglio dei V-Day camuffati da indignación. Ci piacciono le sigle (e non sono poi così sicuro che sia solo un male, né è una fissazione tutta nostra)? E Dobbiamo Fermarli permette di usare le sigle, rilassando il vincolo irritante e spesso qualunquista del “niente bandiere” su cui si perde metà del tempo di solito; faccio notare che anche nel movimento No TAV il vincolo contro le sigle e le bandiere non esiste e nelle conferenze stampa del movimento intervengono i singoli come i rappresentanti di questo o quel gruppo impegnato nella lotta in valle. Ci sono alcuni temi unificanti e al tempo stesso radicali su cui ci si può muovere? E Dobbiamo Fermarli li tira fuori, partendo dal ripudio del debito fino all’uscita da tutte le missioni militari, alla lotta alla precarietà (Pomigliano, Mirafiori), alle privatizzazioni (referendum), alle grandi opere inutili (TAV). La caratteristica dell’appello che secondo me può diventare il suo punto di forza è che non è un appello giovanile-movimentista che forse, se ci va bene, pian pianino potrà cercare di coinvolgere la classe lavoratrice organizzata; anzi, sembra quasi il contrario: ha una forte connotazione operaia (ovviamente “di avanguardia”, ma tant’è: sinistra FIOM, sindacalismo di base, delegati ultracombattivi), il problema sarà semmai fargli raggiungere quella massa critica giovanile che ha fatto la fortuna del movimento spagnolo. Be’, io ci credo; se l’autunno caldo 2011 è iniziato con uno sciopero generale quello ha dato il segno al movimento e su quella scia bisogna porsi – il che peraltro non promette affatto male.

    2. Il mio inglese non è ottimo ma non è pessimo, ho vissuto per un po’ a Londra dove tra l’altro scrivevo anche articoli per un sito in inglese, talvolta parlando dell’Italia: se serve do una mano molto volentieri! Suggerirei però, per mantenere il progetto fattibile, di puntare su una grandissima concisione; se si cercano di dare molte informazioni e fare analisi approfondite, ci vuole tantissimo tempo, sorgeranno contrasti politici, serve qualcuno che faccia proof-reading, sarà un gran casino insomma. Non si improvvisa un sito in lingua straniera. Qualcosa che potrebbe servire è un sito che faccia un po’ più di un tweet ma un po’ meno di un articolo su ogni lotta importante, fornendo link per chi vuole saperne di più o vedere immagini. IMHO.

  9. Volevo aggiungere un paio di considerazioni sul perché del “fallimento” degli indignados italiani, dal momento che stavolta non sono d’accordo con l’analisi di Wu Ming :-)

    Ok, in Italia c’è una tendenza pressoché congenita alla frammentazione e – se mi passate il termine orrendo – al “parrochialismo”.

    Però mi sembra piuttosto liquidatoria come analisi. Ricalca un po’ la stanca solfa della “specificità” italiana in materia di inerzia e lassismo civico di cui si nutrono gli apologeti dell’inazione. Insomma: i rischi che si corrono in casi, sono quelli con cui bisogna fare i conti tutte le volte che si ricava per induzione una “legge” da un fatto statistico… ossia di lasciare campo libero a dei comodi pregiudizi (l’unica cosa che, in mancanza di evidenze sperimentali, può fondare induzioni di questo tipo quando si parla di questioni sociali e culturali).

    Non è tanto una critica a WM, quanto semmai un caveat più generale: certi ragionamenti sono “pericolosi”.

    La questione infatti è: c’è la possibilità di superare frammentazione e parrocchialismo? Di chi è la responsabilità se, a dispetto di tutte le buone intenzioni, questo non succede? Davvero le circostanze “esterne” sono quelle determinanti? O non è anche un problema di organizzazione “interna”?

    WM1, in uno scambio su twitter ha puntualizzato sul fatto che, in fondo, non c’è una reale distinzione fra “interno” ed “esterno”. Di nuovo, non sono d’accordo.

    I rapporti di un movimento con altri movimenti sono una questione “esterna”. Le dinamiche organizzative e decisionali, e le linee programmatiche di un movimento sono invece una questione “interna”. Non dico che le due cose non si influenzino l’una con l’altra, per carità. Ma si tratta secondo me di questioni che vanno separate concettualmente, anche solo per mettere po’ d’ordine fra le idee.

    Ci tengo a sottolineare questo punto perché una delle tendenze che si sono notate all’interno di IR è stata quella di scaricare la responsabilità sull’esterno. Della serie: le assemblee di piazza e l’acampada non sono decollate perché gli altri movimenti hanno “snobbato” IR. Quindi gli indignados italiani sarebbero stati vittime precisamente del parrocchialismo dominante.

    Io la vedo diversamente. Anche se l’atteggiamento della stragrande maggioranza degli altri movimenti non è stato dei più accoglienti – pregiudizi reciproci di ogni sorta e persino qualche deliberata cattiveria hanno giocato a sfavore di un’ampia sinergia – secondo me bisogna prima di tutto guardarsi “in casa”. Capire gli errori che si sono fatti, e magari chiedersi se, con un approccio diverso, le cose sarebbero andate in un altro modo.

    Superare il parrocchialismo, quindi, secondo me non è impossibile. Non è facile, questo è sicuro. Ma fanculo le difficoltà… sulla capacità di superare la “divisione a mosaico” delle lotte si gioca il futuro dei movimenti sociali in Italia, per cui “mani sulle palle e via andare” (cit. WM1). Il movimento No Tav non ci sta riuscendo per grazia divina, ma perché ha saputo lavorare egregiamente.

    La questione, quindi, secondo me è tutta interna. IR ha scontato ingenuità, mancanza di esperienza, scarsa predisposizione a prendere posizioni forti e a coltivare con determinazione una visione alternativa. Si è arreso al populismo unanimistico, nella speranza che la “società civile” esprimesse spontaneamente quel punto di vista che il movimento non era in grado di esprimere per conto suo.

    Risultato? Il caos di quel magma reazionario-ribellistico che ci ostiniamo a chiamare “società civile” ha cannibalizzato il movimento, trascinandolo in un baratro di inconcludenza, togliendogli “consenso” e aprendo la strada alle strumentalizzazioni di questi giorni.

    Secondo me, quindi, qualsiasi movimento che voglia fare un tentativo di superamento della frammentazione e del parrocchialismo, deve dotarsi di strumenti e capacità organizzative, programmatiche, comunicative adeguate. Da qui non si scappa.

  10. @ Don Cave

    anch’io a ruota libera:

    secondo me c’è un equivoco.
    Dire che il modello spagnolo non è riproponibile tale e quale in un contesto completamente diverso non significa affatto dare la colpa al “destino cinico e baro”. Al contrario, significa dire che è ingenuo pensare di “fare come in Spagna”, di fare gli “Indignados all’italiana”, di fare l’acampada-senza-sigle-che-riparte da zero come (in apparenza) è successo a Madrid e Barcellona. Trarre ispirazione da quel che accade in Spagna non significa importare tali e quali forme, pratiche e linguaggi.

    [Né si può ignorare che a monte del #15M c’è stato un lavoro preparatorio, una serie di reazioni chimiche. Ci sono stati movimenti meno visibili, ma che hanno preparato il terreno in modo peculiare. Un terreno non vale l’altro: nel terreno italico sono presenti altre sostanze, e quindi cambia la scelta di quali semi piantare e come.]

    Non c’è antinomia tra fattori “interni” ed “esterni” perché in una scena quasi interamente occupata da marpioni politici non ci si può permettere di essere ingenui. Debolezze soggettive e limiti storico-oggettivi sfumano le une negli altri.

    Il superamento delle fazioni ossificate va ricercato, ma probabilmente va praticato in altri modi e lungo altri percorsi, con approcci meno frontali e più obliqui, “obliqui” come lo sguardo che parte da una “marginalità” (da una periferia del campo visivo, se vuoi) e lavora con un perturbante mix di radicalità e discrezione, com’è successo per anni in Val di Susa.

    Se una sperimentazione ancora debole o addirittura debolissima e sicuramente inesperta si “mette in piazza” subito (vedasi l’acampada di Piazza del Nettuno la scorsa primavera) e si pone già come rappresentazione generale del movimento, esaurirà tutte le forze cercando invano di essere all’altezza dei propri proclami.

    Il percorso NoTav è stato esattamente inverso: si è deciso di “resistere su un punto costi quel che costi”, e quella resistenza ha imposto una durata diversa da quella che comprime e macina i movimenti, e quelle sperimentazioni di condivisione e lotta sono maturate mentre poche persone guardavano, perché nessuno si aspetta che le esperienze più avanzate vengano dalla provincia montanara anziché dalla metropoli.
    In questo, il movimento NoTav è stato molto “chiapaneco”.

  11. @ Wu Ming 1

    Sono d’accordo. Per ovvie ragioni mi sento più portato a focalizzare l’attenzione sul “punto di vista interno”, dato che è lì che ho percepito la mancanza – mia, anzitutto.

    Ho partecipato alle attività di IR proprio perché volevo mettermi in gioco a partire dalle molte suggestioni sulla necessità di superare la “visione a mosaico” che sono nate in questo spazio.

    Che le condizioni per “fare come gli spagnoli” non ci fossero in partenza, è stato evidente dopo pochi giorni. Ma che a mancare fossero, tout court, le condizioni per *muoversi in quella direzione*, è una conclusione che mi sentirei di trarre solo dopo aver tentato tutto il possibile.

    E’ una sfumatura di non poco conto, e per questo il ragionamento sulla presunta frammentazione “atavica” del contesto italiano mi ha lasciato parecchio perplesso. Suona un po’ come una condanna a priori, e, come ho cercato di sottolineare, potrebbe diventare una scusa sia per i detrattori di principio, sia per chi non vuole prendere atto, all’interno del movimento, sui suoi limiti e sulle sue contraddizioni.

    Anche perché, in fondo, le condizioni *stanno* cambiando. Si tratta solo di capire quali forze e tensioni devono essere intercettate, e come lavorare per conciliarle. E, se non ci si riesce (si tratta chiaramente di un lavoro improbo), almeno trovarsi, alla fine, con qualcosa di concreto in mano. Con delle rivendicazioni forti, con una struttura organizzativa capace – se non di “sintetizzare” – quanto meno di farti interagire proficuamente con le componenti più avanzate dei movimenti sociali.

    La narrativa che si è creata da subito all’interno del movimento ha impedito uno sviluppo di questo tipo, e la considerazione che fai da questo punto di vista è drammaticamente corretta. Hanno prevalso il trionfalismo, il “siamo tanto belli e tanto bravi” e un certo orgoglio post-ideologico che, in mancanza della “furbizia” di violetti e grillini, si rivela essere una mazzata sui maroni delle peggiori.

    Forse la sintesi non ci sarebbe stata comunque. Ma almeno, adesso che si stanno creando le condizioni, gli indignados non sarebbero al palo. Sarebbero comunque una forza – per quanto marginale – dotata di una sua identità e capace di interagire positivamente con il “fuori”.

  12. Io non credo che in Italia il movimento degli Indignati sia già alla frutta, anzi. Forse in alcune città è naufragato, ma, almeno nella capitale, è più vivo che mai.

    “Sappiamo che la crisi in cui versa il sistema, oltre a rappresentare un disagio nella vita di ognuno, può essere un’opportunità di cambiamento per tutti noi, a patto di abbandonare l’individualismo, ricompattando il tessuto sociale disgregato, abbracciando il sentimento di indignazione internazionale che sta aggregando la gente in molti paesi da Cile alla Grecia, dall’Egitto alla Spagna ad Israele e oltre.
    La logica del profitto a tutti i costi ha posto in secondo piano la felicità dell’essere umano, la paura e l’indifferenza hanno preso il posto della solidarietà.
    Per questo il nostro progetto è quello di dare vita ad un movimento assembleare di massa capace di mettere in discussione e trasformare il sistema fin dalle fondamenta.
    Tornare a fare politica, fuori dai partiti istituzionali, fuori dai palazzi, fuori dalle logiche di bottega, sempre uguali a sé stesse.
    Tornare nelle piazze, riappropriarsi del potere del confronto e della parola, è questa la nostra potenza, al contempo pacifica e rivoluzionaria.
    Aspiriamo ad una società che ponga l’essere umano al centro, al posto dell’economia e delle classi sociali, affinché non sia più possibile lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.”

    (Assemblea generale degli Indignati, manifesto di convocazione)

    Io sono un veterocomunista che vuole fare la rivoluzione proletaria, ma questo mi sembra comunque un buon punto di partenza. E forse non è un caso che le uniche bandiere accettate in piazza fossero quelle del NO TAV…

  13. @ Giacomo

    A me sembra una pietra tombale, più che un punto di partenza. Ma è questione di punti di vista, ovviamente :-)

  14. @ Don Cave

    pensiamoci un momento: è la stessa analisi (oddìo, così è troppo: diciamo “la stessa suggestione”) fatta l’anno scorso dopo il 14 Dicembre. Le giornate del “bloccare tutto” avevano saputo sfruttare bene l’estremo policentrismo di questo paese, il suo essere “l’Italia delle cento città”. Occupare la Mole Antonelliana, la Torre di Pisa, il Colosseo e tanti altri posti meno “iconici”e da cartolina. Sembrava l’album Panini “Tutta Italia” che avevo alle elementari! Invece la Grande Scadenza Nazionale del 14 dicembre seguiva tutt’altra logica, ha compresso i tempi fino a farli coincidere con quelli del potere costituito (il voto di fiducia al governo). In quel giorno i molteplici sono diventati Uno, molte energie si sono bruciate etc.

    Noi non possiamo fingere che questo non sia un paese più policentrico di altri e molto diversificato al suo interno. Precise ragioni geografiche, storiche e politiche hanno prodotto questa situazione. Da questo dato di fatto bisogna partire, è la nostra ricchezza e al tempo stesso la nostra miseria. In certe fasi questo policentrismo è stato un fattore di resistenza e non-omologazione, in altre è stato un fattore di divisione e frammentazione (pensiamo a proposte obbrobriose come le “gabbie salariali”). Noi dobbiamo saperne valorizzare gli aspetti positivi (es. la possibilità di colpire da direzioni del tutto inaspettate, come è accaduto in Val Susa – io anni fa, prima della TAV, non sapevo nemmeno che esistesse, la Val Susa!) e saper superare quelli deteriori, come il “parrocchialismo”.

    Un altro esempio di uso virtuoso del policentrismo secondo me è la contestazione all’orrido Giro di Padania. Non solo perché la contestazione è avvenuta *a ogni tappa* con modalità diverse ed espressioni molto ricche e fantasiose, ma anche perché si è contestato in nome dei molteplici un Uno farlocco propagandato dal potere costituito: la “Padania”. La Padania non esiste perché Verbania non è Rovigo, Parma non è Brescia etc. Solo nella propaganda della Lega esiste un Popolo Padano: esistono invece “le Italie”.
    Se, ipotizziamo, si fosse deciso di oppore al “Giro della Padania” un’unica grande manifestazione da tenersi in un solo luogo il giorno della partenza o dell’arrivo, secondo me non si sarebbe combinato niente.

  15. @ Giacomo

    però cerchiamo di non commettere l’errore di Zizek a rovescio: un movimento non si può giudicare solo da ciò che scrive di volere e/o da come descrive se stesso. Come non mi convince che Zizek sminuisca il movimento spagnolo basandosi su certe aporie contenute nella sua auto-descrizione di cinque mesi fa, così non mi persuade giudicare il movimento italiano basandosi su un manifesto di convocazione. Bisogna vedere come sono le prassi e come “arrivano”. L’altro giorno in piazza era evidente l’egemonia politica e comunicativa di Popolo Viola e Movimento 5 Stelle. Dejà vu, dejà entendu. Poi, se i media hanno distorto quel che è accaduto (cosa non certo implausibile), meglio così. Sono quei casi in cui uno è felice nello scoprire di aver avuto un’impressione sbagliata. Ma quel che ho visto non era molto incoraggiante.

  16. @Don Cave e a tutti

    Ieri twittando con kappazeta/Roberto mi colpì molto un suo tweet:

    “e bisognerebbe fare piazza pulita dei ‘professionisti della pseudo opposizione’ funzionali al potere”.

    Sono d’accordo sulla necessità di un’organizzazione interna perché sia possibile non già la vittoria ma la stessa lotta. Guardandomi intorno noto però come questa necessità sia stata raccolta proprio dai falsi-movimenti (in tutti i sensi) che contestiamo, su tutti Rete Viola e Movimento 5 stelle.

    La tua risposta è, se non ho frainteso: bene, organizziamoci “anche noi”, meglio, con obiettivi più concreti, con analisi politiche lucide, non populisticamente, e affrontiamoli *sul campo*.

    Ho alcune obiezioni al tuo ragionamento. Questi falsi-movimenti non costituiscono “in sé” IL nemico della lotta, benché di fatto siano parte integrante dello Stato di Cose, collusi in vario modo con le forme attuali del potere, *funzionali* a esso a tutti gli effetti, non sono LA struttura del potere ma solo pifferai incaricati di deviare l’opposizione. Scontrarsi con loro sul campo significherebbe secondo me trovarsi nella pessima posizione di dover fare contemporaneamente opposizione reale al potere E “concorrenza” a chi dice di farla, ed è dotato di mezzi (in alcuni casi ingenti) e strutture articolate, organizzate e collaudate. Studiate *per esprimere opposizione* e perciò *già in questo* in qualche modo sterili, anche sorvolando sulle collusioni de facto.

    Un’altra obiezione, credo ancora più importante: i falsi-movimenti non sono fatti solo di manovratori (cripto-fascisti, collusi o interessati al potere personale). Sono fatti soprattutto da chi è stato inglobato da loro. Chi li segue ha sbagliato e sbaglia, secondo me, e credo che su questo siamo d’accordo. Ma costituisce secondo me una grossa fetta dei possibili partecipanti a un “italian struggle”, e non solo. Credo che quasi tutti quelli che seguono Rete Viola e Beppe Grillo siano (stati) sinceramente interessati a “cambiare lo stato di cose presente”. Molti di loro si sono sbattuti e si sbattono per questo. Sono una grossa parte delle forze rivoluzionarie italiane, narcotizzate e instradate su binari morti. Sei sicuro che uno scontro frontale contro questa “fetta potenziale” sia il modo migliore per convincerla che “sta sbagliando”? Sei sicuro che la soluzione sia “una via giusta” da contrapporre a “una via sbagliata”? Non pensi, come ho risposto a Roberto ieri, che questa via sia troppo simile a quella percorsa dagli stessi falsi-movimenti, quando partirono da una critica alla falsa-opposizione e si autoproclamarono la “vera opposizione”?

    Io sono certo che sapresti elencarmi decine di motivi per cui quelli sono falsi-movimenti e in cosa sarebbe differente un movimento che voglia davvero cambiare lo stato di cose, e credo che li condividerei tutti. E sono d’accordo con te anche sulla necessità di uno sguardo “interno” e di una organizzazione. Però credo di intenderla diversamente (forse mi sbaglio, forse in realtà intendo le stesse cose che intendi tu, e allora te le dico per scoprirlo).

    Secondo me lo “sguardo interno” deve andare più a fondo delle rivendicazioni, dell’analisi politica e delle prassi di lotta. Deve porsi le questioni in tutta la loro terrificante enormità, fino ai confini stessi del discorso politico tout-court. Deve interrogarsi sulla necessità delle istituzioni e del loro rinnovamento. Deve immaginare una società diversa, e deve “immaginarla concretamente”, deve cioè pensare le strutture concrete di questa società e i passi per realizzarla. Non sto dicendo che deve eludere il campo, perché come già delirai ieri notte sono convinto che non abbia confini e sono convinto che “la battaglia” sia inevitabile. Non sto dicendo che bisogna negarsi il proprio ruolo di *opposizione*. Ma che per farlo al meglio bisogna prima di pensarsi come tale immaginarsi già come alternativa. Di pensare già la possibilità di “essere istituzione”, la necessità di doverlo diventare.

    Penso che qui su Giap questo discorso di fondo sia emerso spesso, nel post sul “Potere Pappone” ad esempio, e in molte altre occasioni.

    Credo che dal pantano italiano la lotta potrà uscire solo in una forma più *matura* che altrove. Perché “le condizioni oggettive”, ben lungi dal negare la possibilità stessa della lotta, la sfidano però a un livello più alto.

    Quanto all’idea del blog in inglese, intendo appena possibile postare sul mio tumblr e magari linkare qua la bozza riveduta che alcuni già conoscono, e spiegare più lucidamente che cosa intendevo e perché ho pensato che potesse servire e perché non ne sono del tutto sicuro.

  17. Solo per dire che al momento di pubblicare il mio ultimo commento ero arrivato a leggere fino a quello delle 12/09/2011 at 8:07 pm di Don Cave e non i successivi.

  18. Salve a tutti.
    Capire cosa stia succedendo in Europa e cosa avverrà nella giornata europea del 15 ottobre è un argomeno decisivo, e infatti anche noi un mesetto fa avevamo provato ad analizzare parzialmente questi movimenti e in particolare quello degli indignados (http://www.militant-blog.org/?p=5131)

    Detto questo, effettivamente il fatto di opporre un’Italia dei mille campanili ad una Spagna priva di queste conflittualità latenti mi lascia un pò perplesso. Proprio in Spagna, infatti, esiste un esasperato radicamento territoriale anti-centralista che condiziona anche gli stessi compagni. E infatti, provate a far dialogare i compagni baschi con quelli castigliani, o i compagni galiziani con quelli andalusi (ma più che altro, il vero nemico è Madrid),e vedrete che esistono delle antipatie congenite che neanche il fatto accomunante della politica riesce a superare. Sono tutti un pò diffidenti fra loro, e io l’ho sperimentato in prima persona.
    Poi ovviamente, certe cose di fronte a qualcosa di più grande e importante passano decisamente in secondo piano, ma comunque esistono.

    L’Italia, invece, è si il paese dei mille campanili, ma non mi sembra che in anni passati questi campanili abbiano contato poi così tanto. Tant’è vero che esistono dei “centri” politici presenti in certe città che danno addirittura la linea a movimenti di città diverse (vedi ad esempio il ruolo di Padova, punto di riferimento su un area ben definita di movimento e che ha una certa egemonia addirittura qui a Roma..)
    Questo per dire cosa? Che i campanili esistono per chi li vuole creare, certe volte fanno addirittura comodo, e in altre sono il risultato di politiche che non varcano il proprio orticello (contente di rimanervici, tra l’altro), ma non sono tare congenite italiane. Quando negli anni settanta l’Italia dava in un certo senso l’esempio sulla radicalità e l’efficacia del movimento era un pò difficile etichettarla come paese dei mille campanili, almeno parlando di movimento.

    Detto ciò, la rappresentazione passata in Italia del movimento degli indignados è assolutamente priva di fondamenti concreti, anche -e soprattutto- fra i compagni. Non esiste alcun punto di contatto fra Indignados e grillini e popoli viola vari, eppure chi qui in Italia ha cercato di riprodurre quell’esperienza si è visto come fosse legato in qualche maniera a quel modo di pensare. E’ una distorsione assolutamente italiana, in cui sono caduti un pò tutti, dai media fino alle assemblee di compagni.

    Mentre gli indignados sono un movimento contro il sistema neolibersita (e capitalista) che ha generato questa come le altre crisi, in Italia è passato il concetto che questi invece sarebbero dei movimenti della società civile per richiedere parlamenti puliti, parlamentari onesti e un più democratico processo politico decisionale. Anche se una parte di queste richieste ci stanno, risultano, come dire, il superfluo all’interno di un ragionamento più generale, e politico, di critica al sistema.
    Cosa che non esiste nei presunti indignados italiani, che infatti sono tutti destinati a fallire proprio perchè non hanno quella radicalità e quell’esperienza di cui invece sono pervasi i movimenti spagnoli.

    Poi, detto ciò, anche in Spagna soffrono di alcuni problemi non indifferenti, come sull’uso della forza e della produzione materiale del conflitto, e infatti appena a Barcellona avevano provato ad alzare un pò la conflittualità sono stati subito messi all’angolo dagli stessi indignados, con prese di distanza non propriamente simpatiche.

    Per adesso mi fermo qua che ho già scritto troppo.

    Un saluto, mis queridos…

  19. @ Collettivo Militant

    proviamo a rispondere a questa domanda:

    lo stato spagnolo ha una storia politica (antica e recente) più o meno ingarbugliata di quella dell’Italia?

    E’ chiaro che anche là c’è una situazione complessa, ma quando gli spagnoli cercano di spiegarla agli stranieri, ci riescono abbastanza bene. Ci sono dinamiche e dialettiche in fondo abbastanza “decrittabili”: centralismo / indipendentismi, periferia / centro, cattolicesimo profondo / modernizzazione e laicizzazione rapidissima dopo la dittatura etc.
    La storia recente dei due paesi è diversissima. L’Italia è stata per quarant’anni uno dei luoghi dove la guerra fredda è stata più calda e ha condizionato pesantemente la vita nazionale. Mentre in Italia infuriava la lotta di classe, in Spagna c’era la dittatura franchista. Mentre là cadeva la dittatura, qui iniziava il riflusso etc.
    Spostandosi alla geografia politica, rispetto all’Italia, i “poli di attrazione” (i centri *importanti*) spagnoli sono in fondo pochi. Anche il paesaggio è molto meno frastagliato e diversificato. Ci sono *macro-aree* di diversità.
    Insomma, nonostante la somiglianza tra le due lingue e alcuni sostrati comuni, i due paesi non potrebbero essere più diversi.

    Quindi – questo era il discorso – non si può pensare che quel che funziona là debba per forza funzionare qui e viceversa.

    Quanto ai “campanili” italiani:

    se non aderiamo al significato letterale del termine, ma ne cogliamo la valenza metaforica, a me Padova sembra in realtà un ottimo esempio.
    Da decenni nei movimenti si parla dei “Veneti” (e “filo-Veneti”) per descrivere una corrente dell’ex-Autonomia molto caratterizzata, molto organizzata, molto influenzata a livello nazionale da quel che si decide *su una precisa piazza* (Padova/Mestre), piazza dove esiste una peculiare continuità di strutture e relazioni molto strette tra compagni, relazioni che datano agli anni Settanta. A volte, per descrivere i Padovani, qualcuno ha usato il sostantivo “tribù”. Se non si sovra-connota il termine di valenze razziste/dispregiative, può anche rendere l’idea.

    Penso di affermare una cosa nota e chiara a chiunque non sia in giro da ieri se dico che la lealtà dei “Veneti” è principalmente alla loro piazza/struttura/rete di relazioni, e solo in secundis al movimento più esteso a cui volta per volta prendono parte. Quando si tratterà di decidere tra l’auto-perpetuazione indenne di quell’area e la crescita del movimento, sceglieranno sempre la prima. In nome dell’auto-perpetuazione dell’area, possono anche fare dietrofront teorici che all’esterno appaiono clamorosi.

    Anni fa, anche in seguito a scazzi durissimi con quell’area, ero molto più critico e tranchant su questo genere di dinamiche. Oggi, pur rimanendo critico, le valuto con più distacco e laicità, e credo valga anche per i miei compagni di collettivo. Basti dire che WM5 insegna thai boxe alla palestra del TPO.
    I “veneti” sono una delle realtà esistenti in Italia, hanno tessuto le loro reti, sono riusciti a rimanere in piedi e organizzati in un territorio difficile, in un avvicendarsi di ondate repressive, scissioni, scazzi, movimenti che iniziavano e finivano. Hanno il loro modo di cercare l’egemonia. Modo che ha evidenti peculiarità, certo, ma l’egemonia la cercano anche tanti altri. Se uno lo sa, può scegliere se e come e fino a che punto averci a fare. Se uno non lo sa, e crede alla fòla del movimento che realizza la “fusione” delle vecchie identità, crede al riazzeramento, alle grandi alleanze che rimescolano, alle nuove sintesi etc., si condanna a non saper leggere dentro la nuova situazione la sopravvivenza delle tribù e strategie di fondo precedenti, e così non riconoscerà certe “rendite di posizione”, certe gerarchie invisibili. Sarà disarmato. E se/quando il movimento rifluirà in uno spettacolo pirotecnico di scazzi, si stupirà che i “veneti” (o altri) facciano i loro giochi e le loro campagne acquisti.

  20. Dimenticavo una cosa: i “campanili” erano esistenti e operanti in vari modi anche nel movimento degli anni Settanta, eccome. Scazzi tra correnti con tanto di sprangate, mire egemoniche di una città su un’altra, accuse gravissime rilanciate avanti e indietro, settarismi etc. Oggi, con la distanza storica, possiamo considerare tutte quelle dinamiche parte di una grande, ricca, complessa “temperie”. Anche molti dei reduci di allora gettano occhiate retrospettive più equanimi (ma altri no, rimangono inchiodati alle vecchie controversie, fedeli a schieramenti e “campanili” che non esistono più).

    E c’erano sostrati di peculiarità, tradizioni e “bizzarrie” locali: perché a Perugia il gruppo egemone nella nuova sinistra era… Avanguardia Operaia, situazione che non aveva corrispettivi in altre città? Perché in alcune aree attecchiva un certo discorso teorico/strategico e non altri che furoreggiavano altrove? Questi sostrati permangono. Magari operano più flebilmente di un tempo, ma permangono.

    Alcune città, in questa o quella fase, elaborano tradizioni e influenze in modo imprevedibile, e diventano laboratori che non somigliano a nessun altro. La Torino “azionista” ed einaudiana (difficilmente l’Einaudi sarebbe potuta nascere altrove). La Bologna degli anni Settanta e poi degli anni Novanta etc.
    Ecco, una particolare… impostazione come quella dei “veneti” (cioè una tradizione recente di estrema sinistra nata in un contesto fortemente cattolico, senza derivare dal PCI, inteso non solo come partito ma come “mondo”) non sarebbe potuta nascere in Emilia, dove il sostrato è diverso. E si potrebbero fare tantissimi altri esempi.
    E’ vero, le peculiarità, le storie diverse e i sostrati locali ci sono anche in Spagna e in ogni paese che sia abbastanza grande. Ma l’Italia si è sviluppata in modo da farne quasi un rompicapo.
    Secondo me, questa situazione si supera in avanti solo tenendone conto. Occorrono strategie che sappiano valorizzare i pregi della diversità, al contempo vigilando perché non abbiano troppa influenza parrocchialismi e frammentazioni.

  21. Il mio riferimento a Padova non voleva essere un giudizio su quell’area, ma un esempio del fatto che, se addirittura a Roma (a cui non stanno simpatici, nella mentalità comune, regioni quali proprio il Veneto, soprattutto dopo l’ascesa della Lega), dicevo, se anche una buona parte del movimento romano si fa influenzare così evidentemente da un’altra città, distante anche e soprattutto nei modi di pensare e di vivere, mi veniva da pensare che in fondo questi campanili non esistono.
    Se invece ti stai riferendo ai campanili politici, a beh, allora qua sfondi una porta aperta…
    E’ sicuramente vero che in Spagna non esistono guerre di posizione come ce ne sono in Italia, ma la Spagna ha delle dinamiche di movimento tutte sue. In certe città, poi, è addirittura difficile parlare di una presenza del movimento (come, ad esempio, a Barcellona), che per altri versi è una città profondamente conflittuale e progressista, ma che non vede una presenza stabile di compagni che si attivano quotidianamente su varie vertenze come possiamo immaginarcelo noi.

  22. BOZZA DI PROPOSTA PER UN BLOG INFORMATIVO IN INGLESE SULLE LOTTE ITALIANE

    http://strugglesinitaly.tumblr.com/post/10172060099/bozza-di-proposta-per-un-blog-informativo-in-inglese

  23. Sicuramente la storia della sinistra e dei movimenti sociali del nostro paese e’ decisamente piu’ ricca e , perfino, unitaria di quella della Spagna.
    Adesso la situazione, purtroppo, e’ diversa.
    Ma credo che l’appuntamento del 15 Ottobre possa riservarci sorprese positive.
    Da noi l’emento interessante e’ quello di un sindacato operaio (la Fiom) molto aperto all’interlocuzione con i movimenti.
    Da qui a ricostruire un ‘alternativa politica ce ne corre, ma non e’ per sciovinismo che credo che sia piu’ facile che avvenga da noi piuttosto che in Grecia o anche in Spagna.

  24. E’ il consueto paradosso italiano: per molti versi la nostra situazione è più avanzata. Siamo all’avanguardia perché in putrefazione avanzata. Abbiamo visto avanzare fenomeni che altrove sono più indietro. Siamo pieni di avanzi di galera, avanzi di banchetti a cui non abbiamo preso parte, avanti, avanti, che non c’è posto! Avanti! è l’ex-gloriosa testata ultimamente diretta da Lavitola. Qualche giorno fa Giuliano Santoro ha proposto un calembour su Twitter: “Il postfordismo è la condizione in cui non si riesce più a distinguere tra il lavoro e Lavitola”. Io una volta credevo di sapere cosa fosse il postfordismo, oggi non lo so più, ma se è quello che dice Santoro, allora siamo il paese più “postfordista” d’Europa.
    E, come noi WM abbiamo più volte azzardato, siamo anche in una condizione (mestamente) “para-post-coloniale”: terminata la Guerra Fredda, l’Italia è stata declassata da sommo teatro ideologico di quel conflitto a teatrino scalcagnato dove recitano i peggiori guitti. E’ così che ci vedono in tanti. E’ come se un impero, una potenza colonizzatrice trasversale ci avesse detto: “Vabbe’, noi d’ora in poi vi caghiamo un po’ di meno, abbiamo altro da fare”.
    Sul lungo periodo, in Italia la fine del bipolarismo URSS-USA ha contribuito a un “calo di tensione” e a una spoliticizzazione che a questi livelli non c’era mai stata. Non si tratta di rimpiangere quei “vecchi tempi”, ma di capire che la nostra vita politica e la nostra lotta di classe si sono svolte nei modi che sappiamo (e hanno sollecitato le risposte che sappiamo: stragi, strategia della tensione, leggi speciali, P2) anche perché erano la versione sul fronte domestico di conflitti mondiali.
    La nostra attuale condizione potrebbe però rovesciarsi in modo clamoroso e diventare quella ideale per sperimentare in modo diverso da quanto avvenga altrove. Sicuramente, se qui crescerà un grande movimento, avrà forme e strategie diverse da quelle che vediamo in Spagna e Grecia. Trarrà senz’altro l’ispirazione da quanto avviene là, ma rielaborerà il tutto a modo proprio, come sempre è accaduto.

  25. Commosso dal modo in cui i miei cazzeggi via Twitter vengano nobilitati, aggiungo qualche elemento, che alimenta la suggestione circa le sperimentazioni nell’anomalia italiana di Wm1.
    Sono domande da persona mediamente informata, anche se non esperta di economia.
    Cosa succede se fa bancarotta un paese *ricco*, la cui manifattura è -nonostante tutto – la seconda d’Europa?
    Cosa significa che fallisce una nazione nella quale la quantità d’oro detenuta dai cittadini è pari alla quantità aurea della Federal Reserve statunitense (secondo recenti stime del Sole24ore, ecco come mai tanti “compro oro”)?
    Come fa ad andare per aria uno Stato nel quale la somma dei patrimoni individuali dei contribuenti è otto volte il Pil?
    Non lo sa nessuno, perché non è mai successo. Soprattutto, è un’ipotesi che nessuno vuole fare – sui grandi giornali – perché il default non converrebbe prima di tutto agli strozzini globali che speculano sul nostro debito.

  26. E’ molto che non intervengo, ma pongo una domanda seria: a qualcuno interessa davvero che l’Italia faccia il botto?
    Spesso penso agli strozzini malavitosi: se fanno fuori un debitore è quasi sempre un messaggio di politica criminale, un delitto sistemico. Non fanno fuori qualcuno che deve un milione di euro, ma magari uno che ne deve diecimila. Anche perché un debito non troppo ingente lo puoi sacrificare, un milione di euro è troppo.
    Non vedo perché un creditore dovrebbe essere interessato al fallimento completo del suo debitore. E’ meglio sperare che paghi il più possibile, e nel frattempo togliergli pian piano l’aria, lucrandoci.
    Lo aveva già capito Marx che l’unica accumulazione deriva sempre, sempre, sempre, dal furto. Le enclosures erano furti fatti con leggi dello stato. Vendere acqua, reti elettriche, infrastrutture e piazze è una vecchia, anzi vecchissima soluzione. Prima pascoli, legna, e fontane, ora acqua, gas e corrente elettrica. Sta sempre lì l’orizzonte, al fondo. Se superi la lotta di classe (che secondo me riguarda più classi di prima perché i capitali sono più concentrati) rimani fottuto. Ma manca un orizzonte preciso e io, pessimista cronico, penso che non ci si muova dal pantano senza. Penso che qualcuno dovrà governare. E nessuno di noi, pronti a scendere in piazza, sembra volersene assumere l’incarico seriamente. Dobbiamo diventare padri/madri del nostro futuro, invece mi sembra che la tendenza sia come al solito il riot, il comportamento dei figli di padri illustri, caduti in disgrazia. Insegnava sir William che non basta essere figli suoi per cavarsela. (Sì, sto rileggendo Manituana :) ).

  27. Fantageopolitica.
    Spagna, Italia e Grecia rompono gli indugi e convocano una Conferenza del Mediterraneo.
    Tema: “Diritto all’Insolvenza: Rinegoziazione Globale del Debito o Fondazione nuove Istituzioni socio-economiche tra i popoli del Mediterraneo.”
    Invitati: da Turchia ed Egitto fino a Marocco e Tunisia, passando anche da Israele (che però declinerebbe di sicuro), l’area balcanica. E anche la Francia, che sarebbe in grossa difficoltà.
    Una Babele, certo. Ma una Babele che farebbe una grossa paura. Con un’allettante posta in gioco. Una mossa spiazzante per il Big Game in corso, che cambierebbe il seguito della partita.
    Per praticare il diritto all’insolvenza o sei molto, molto periferico (Islanda) oppure devi essere mooolto grosso, per poter trattare con quella tecnostruttura vorace che ha sede tra Londra New York e Francoforte.
    I BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) per ragioni proprie, sarebbero non poco interessati da simili sommovimenti, e la loro posizione interlocutoria creerebbe lo spazio e il tempo per non essere bombardati subito.
    Base di Trattativa: Dimezzamento in termini assoluti del totale del debito, e ritorno ai tassi d’interesse pre-crisi (2007).
    Alternativa: Insolvenza, Rottura degli accordi precedenti, Creazione di una nuova Area Mediterranea di Relazioni e Scambi socio-economici.
    Tutto questo prima di essere prosciugati fino all’ultima goccia, manovra dopo manovra, dalle locuste della tecnocrazia d’occidente che sciamano sull’ultimo raccolto.

    Mesto ritorno alla Realtà.
    L’Italia non può ‘fallire’ da sola. Non per sua scelta.
    L’unico potere che ha adesso, è di portare altri con sè, di innescare il crollo dell’Eurozona. E non è poco.
    Intanto, c’è il problema di dichiarare, fuori dalle righe, il default della Grecia, che c’è già stato. E da un pezzo, pure.
    La cosa deve avvenire in fretta, avrebbero già dovuto farlo, ma gli tremano le gambe. Non sanno bene cosa succede. Dopo. Quali banche vanno giù. E quante.
    Però accadrà. A breve.
    L’Europa gioca una demenziale partita contro sè stessa, per interessi tanto grandi quanto schifosi. Per sostenere gli enormi profitti di una dozzina di banche d’affari che mantengono un migliaio, forse meno, di famiglie, il famoso 1% che ha depredato e detiene la metà e più delle risorse dell’intero occidente.
    La guerra di classe loro la fanno. Tutti i giorni.
    Ecco perchè nascerà il PRB.
    Infine, sottoscrivo anche gli spazi bianchi del commento di wm1 qui sopra.
    L.

  28. Solo una precisazione numerica: Gallino dice che la “classe capitalistica transnazionale” che ha fatto e guadagnato da tutto sto sistema è composta da dieci milioni di persone, lo 0,14% della popolazione mondiale.
    Sempre grandissimo Luca

  29. Troppo buona, Adrià.
    Ha di certo ragione Gallino, quando ragiona in termini quantitativi sulla superclasse globale che lucra sulle dinamiche in corso. Io mi riferivo, a spanne, a quella bianca d’occidente, dove il fatidico 1% che detiene all’incirca il 50% delle risorse accomuna statisticamente paesi come Usa Italia e Inghilterra.
    Prima, ho dimenticato di inserire il Portogallo tra i promotori della mia dissennata fantainiziativa. Lo faccio ora.
    Mattoni e maiali uniti nella lotta.
    E’ solo una cazzata, nemmeno difficile da scoprire.
    L.

  30. Rispetto alla preparazione della mobilitazione del 15 ottobre io intravedo due rischi concreti e collegati.
    Il primo è quello di appiattirsi eccessivamente su pratiche e parole d’ordine elaborate a partire da contesti e scenari diversi che non possono essere applicate senza essere prima “tradotte” e dunque lavorate.
    Nel gruppo Facebook degli “indignados” altoatesini stanno girando già dei manualetti di “buona condotta assembleare” che sono sicuramente utili ed interessanti ma non possono, a mio avviso, essere considerati dei manuali di comportamento da adottare alla lettera. Ogni movimento nazionale deve mettere a punto i propri strumenti e le proprie pratiche, avendo sempre presente il contesto in cui queste vengono elaborate: quello che ha funzionato al Cairo potrebbe non funzionare a Londra o a Roma (la valorizzazione dei Social Network messa in campo dalla stampa occidentale in occasione delle rivolte arabe e dei riot londinesi è solo un esempio di questa necessità)

    Il secondo rischio è di carattere “linguistico”. Provo un certo fastidio verso i termini “indignato-indignados”. Non vorrei sbagliarmi ma la parola dovrebbe derivare dal titolo dell’ormai stranoto pamphlet “Indignatevi” e la sua natura “mediatica” mi sembra si traduca troppo spesso in un uso disinvolto che la fa assomigliare ad un brand valido per tutte le stagioni.
    Sui giornali, qualsiasi manifestazione è una manifestazione di “indignati”, che siano le piazzate del M5S, la manifestazione dei collettivi di studenti medi contro il ministro dell’Istruzione o il presidio del sindacato dei tornitori.
    C’è il rischio che quelle correnti “sotterranee”, rappresentate dalle lotte degli ultimi anni (quelle degli studenti, degli operai, dei movimenti di difesa del territorio) che dovrebbero poter cominciare a trovare una cornice in grado di accomunarle (e la mobilitazione del 15 ottobre potrebbe essere un passo in questa direzione: una mobilitazione non guidata da logiche di politica interna, come ci si auspicava su Militant qualche giorno fa), vengano sovrastate ed obliterate nella confusione mediatica.
    Il controllo sulla propria visibilità e, dunque, sulla propria identità è fondamentale.
    Sono convinto che la mobilitazione del 15 ottobre potrà dare vita ad uno scenario di lotta positivo solo se sapremo aprirla verso una dimensione internazionale in cui vengano superate le istanze “di casa nostra” più compromesse, ad esempio: la battaglia contro la/le casta/e, i costi della politica e l’antiberlusconismo tattico in generale.
    Ci sarà da lavorare sodo nelle assemblee

  31. A parte il cattivo uso che ne fa la stampa (che si sa divora tutto e tutti) a me il termine indignados piace, penso sia positivo e… potente. Mi fa venire in mente Spinoza!
    Magari si puó provare a riappropiarsene.

  32. ci sono due questioni separate:
    – la rappresentazione che viene o verrà fatta di questo embrione di #italianrevolution
    – la sostanza dei movimenti che ne saranno attori.
    (un po’ forma e contenuto, ma sto frequentando troppi semiotici ultimamente!)

    Il problema della rappresentazione che ne danno/daranno i media ci riguarda credo solo relativamente. Certo, a livello del movimento sta a noi evitare “infiltrazioni” di grillini e rosso-bruni vari, ma credo che abbiamo l’esperienza e l’intelligenza politica sufficiente per superare questo problema.

    Ma nella sostanza dei movimenti che vogliamo fare? Con questi “chiari di luna” (e questa opportunità globale) vogliamo continuare ad affrontare la situazione con le elaborazioni e le relazioni che ci portiamo dietro dal 77? Veramente vogliamo parlare di Padovani e Romani? Di CGIL (leggi FIOM, non Camusso) e USB che si danno a mazzate, come è effettivamente successo il 6 settembre? Siamo talmente abituati a ragionare solo su queste logiche che ci diventa impossibile ripensare completamente tutto, sparigliare per unire veramente le istanze di lotta che si stanno manifestando già da due anni almeno. Sì uniamo, ma a chiacchiere. Io mi unisco con l’operaio amico mio, tu con lo studente amico tuo. Guardiamoci in faccia, ma di che parliamo? Siamo talmente presi da noi stessi da non avere neanche le parole per comunicare quello che sta succedendo (v riflesisone di WM1 e altri) e vedi che manco un fetente di hashtag per gli scontri di montecitorio riusciamo a unificare.

    Poichè non sono sicura che siamo davvero sull’orlo della rivoluzione, la logica identitarista, tutta concentrata sulla difesa degli orticelli e di rapporti di forza immaginari, con logiche da BSE, è certamente perdente, e molto noiosa.

    Davvero ce ne fotte prendere la testa del corteo della CGIL (che secondo me è una cosa davvero difficile da spiegare al mondo)? O vogliamo piuttosto lavorare ad unificare le diverse istanze di lotta di classe: immigrati, studenti, precari, pubblica amministrazione, disoccupati e vivaddio operai.

    La sostanza unificatrice della lotta (che poi ha un effetto benefico sulla sua rappresentazione) è la connotazione di classe. Che ci chiamino pure indignati se gli fa piacere, ma che sia chiaro chi è ad essere indignato! Che ce ne fotte di ribadire a priori le nostre elaborazioni (vetero)? è la lotta in se a dover essere in grado di comunicare in maniera autonoma la propria sostanza.

    Sì, lavoriamo pure sodo nelle assemblee, ma è inutile se noi per primi non modifichiamo completamente le nostre aspettative e non siamo in grado di superare i cliché in cui ci crogioliamo.

    Good night and good luck!

  33. la fantageopolitica descritta da luca non e’ poi cosi’ tanto fanta. Il nodo del problema sara’ proprio il rapporto tra gli stati europei ed i loro equilibri. Se scorniciamo la situazione italiana dalla sacrosanta, ma trita e ritrita, indignazione contro la politica, ci troviamo in una situazione identica a quella degli altri paesi iperindebitati. il vero nodo sara’ capire da chi e come verra’ cavalcata politicamente questa sudditanza economica verso la germania. Il rischio e’ di trovarsi in una situazione simile alla fine della grande guerra dove la germania vittima fu’ vessata economicamente da francia e inghilterra. Il risultato del passato e’ arcinoto ma anche il futuro e’ cupo, che tipo di leader politici produrrano i paesi mediterranei vessati e quali saranno i nuovi mantra populisti x vincere le elezioni nel prossimo decennio ? Il rischio vero sara’ proprio quello di creare tensioni all’interno dell’ europa fra paesi poveri e paesi ricchi e dove ultra nazionalismi e xenofobia potranno essere la regola con un conseguente altissimo rischio di balcanizzazione (termine che non mi piace ma purtroppo rende l’idea) di tutta l’Europa. La mia conclusione e’ che il vecchio motto “Dump the debt” usato x l’Africa nei 90’s deve diventare un motto europeo, le perdite vanno collettivizzate fra tutti i paesi e tutte le classi sociali che le possono pagare. Questa e’ secondo me e’ l’unica strada da percorrere adesso ed i governi nazionali che uscirebbero da questo passaggio storico sarebbero sicuramente meglio di quelli del passato.

  34. @daniela: tu dici “che ci chiamino pure indignati se gli fa piacere, ma che sia chiaro chi è ad essere indignato!” Il problema è proprio quello di una chiarezza che manca.
    Non si tratta soltanto della rappresentazione data dai media, o di scongiurare le “infiltrazioni”, perché non è necessario infiltrarsi negli “indignados”, basta scendere in piazza con una bandiera per esserlo già “di fatto” (mediatico, ma pur sempre di fatto).
    Ecco perché penso che il lavoro sull’autorappresentazione dei soggetti (temo che parlare di movimento sia purtroppo prematuro) che arriveranno al 15 ottobre sia fondamentale. In questo paese il berlusconismo ha prodotto una stortura per cui chiunque sia contro Berlusconi guadagna un credito di stima, una spilletta “antagonista”. Ecco perché possiamo avere il “compagno” Fini, il “compagno” Casini, il “compagno” Di Pietro e Grillo. Tutta gente che esprime un punto di vista conservatore e retrivo sul mondo, ma che riscuote anche simpatie tra alcuni “democratici” (uso questa distinzione in modo improprio per semplificare il discorso) per il semplice fatto di opporsi al governo.
    Politicamente il bipolarismo avrà anche fallito, ma dal punto di vista cognitivo ha stravinto, imponendo una cornice concettuale che interpreta ogni dibattito come una scelta di campo: pro o contro Berlusconi.
    La sfida di cui farsi carico da qui al 15 ottobre consiste nel provare a rompere questa cornice per aprirne un altra. Lo ripeto è una sfida da vincere nelle assemblee, rifiutando ogni contenuto di politica interna, ogni manovra strumentale per concentrarsi sulla dimensione internazionale delle lotte.

  35. Saremo, come sempre, oltrepassati dagli eventi.
    Quella cornice già non esiste più.
    Viviamo la fase zombie. Berlusconi è morto da un pezzo, è il suo cadavere mostrificato che va ancora in giro perchè incistato nello psichismo collettivo di un trentennio che prova a non finire mai.
    Ma è finito.
    Potrebbe essere oggi o domani, tra una settimana o tre. O due mesi. Non cambia niente.
    Il dopo è già adesso.
    E il dopo è durissimo. Arriva la tecnostruttura, è già arrivata.
    Non abbiamo più tempo per berlusconi, la vita di milioni di persone è su un filo che corre sul vuoto.
    Bisognerà superare prove che facciamo ancora fatica a immaginare, ma che sono già leggibili in modo chiaro.
    Solo movimenti transnazionali potranno almeno sperare di affrontare i marosi, di tracciare rotte possibili.
    Compito dei compagni ora, come dice bifo, non è incitare all’insurrezione, alle rivolte. Ci saranno comunque, e non saranno governabili da chicchessia, nè lineari.

    Compito dei compagni ora, è costruire legami, ponti, vie di comunicazione. Immaginare nuove infrastrutture, istituzioni, realtà di convivenza, pratiche di cooperazione. E di condividere tutto questo, tra quanti più è possibile.
    La palla già rotola, e diventa valanga.
    Non facciamoci distrarre dagli zombies.
    Sono arrivati i marziani.
    L.

  36. “Siamo disposti a strappare ulteriormente la regola soltanto se da Perugia vorranno invitarci a commemorare il compagno Paolo Vinti, nel primo anniversario della morte, 28 novembre 2011.”

    Vi ringraziamo per la vostra disponibilità e continua attenzione alla figura di Paolo, di cui vi ringraziamo e che ci inorgoglisce enormemente. E che continua a commuoverci.
    Certamente non mancherete di essere coinvolti nella commemorazione, nel modo e nella forma che riterrete più opportuna.
    Presto saranno attivati i canali mediatici con cui poter comunicare con l’Associazione Paolo Vinti da poco costituita con lo scopo della prosecuzione della sua opera, aperta alla collaborazione con tutti per promuovere e sostenere iniziative di culturali, artistiche e politiche.

    Con emozione, con emozione altissima

    Barbara Vinti

  37. ‘sera compagni! Non commento da un po’ (per inciso, ho cambiato nick conformandolo a quello di Twitter semplicemente perchè da brava rincoglionita ho perso pass e nick dell’altro) ma leggo costantemente.

    Vengo da settimane di assemblee (l’ultima è finita esattamente due ore fa) in cui si discute di questo benedetto 15 ottobre e sulla base di quello che sto sentendo e vedendo a riguardo, almeno nel mio piccolissimo contesto campano, provo a dire la mia sulla questione e soprattutto sulle differenze con l’estero.

    Punto 1. Ho l’impressione che in Italia l’idea sia più cercare di cavalcare l’onda estera che collettivizzare le lotte esistenti.
    Alla scorsa assemblea un rappresentante FIOM ci diceva che i lavoratori dei Consorzi hanno deciso, così, a buffo, di cambiare nome in “Indignati e organizzati”. Ora, questa del nome è una cazzata ma secondo me fa capire BENISSIMO che qui, più che seguire i MODELLI di lotta esteri e riadattarli al nostro, all’esistente (che poi non bisogna nemmeno andare all’estero perchè abbiamo l’ottimo esempio delle lotte No-Tav) si tende a seguire -ancora- le MODE, così, alla cazzo di cane. Insomma, ho l’impressione che l’idea sia “Manifestiamo perchè lo fanno altrove, perchè l’Europa si è mossa” e non “Manifestiamo perchè c’è la necessità di cambiare l’esistente”.
    In Spagna, nel Maghreb, in Grecia, le lotte sono nate con una propria identità. Noi l’identità ce l’abbiamo, è solo che non riusciamo (ancora) a sfruttarla, ergo, tendiamo a importare.

    Punto 2. Si tende ancora ad avere l’idea della giornata-evento e a ripetere lo stesso errore del 14 dicembre l’anno scorso. Un esempio su tutti: a Caserta hanno deciso di piazzare la manifestazione dei migranti in attesa della decisione della commissione sulle richieste d’asilo PROPRIO il 15 ottobre, in concomitanza con quella a Roma. Che è una PUTTANATA in tutti i sensi (politico, mediatico e strettamente organizzativo) e fa capire benissimo -secondo me- che si tende ancora ad avere l’idea della “giornata campale” e non a una collettivizzazione della lotta anche sul piano strettamente temporale.

    Il punto 3 è una puttanata mia personale: il termine indignazione che risulta essere tanto a la page mi sta sul cazzo. Mi sa di borghesi cattolici benpensanti. Magari è pure per questo che si presta a fare da slogan per grillini, popoloviolini ecc ecc ecc, ma vabeh.

    Per il resto, nonostante io sia fortemente perplessa su questo 15 ottobre, a Roma, con tutti i compagni di qua, ci sarò. Magari riusciamo a sfruttarla come occasione di condivisione, comunicazione e confronto tra aree di attivismo, che è già tanto per quello che mi riguarda.

  38. @ barbara.vinti

    piena disponibilità. Vorremmo fare un intervento sulle declamazioni, ovvero sull’uso della lingua e della retorica da parte di Paolo.

  39. Intervengo spero non troppo fuori dal discorso. Per dire una cosa che ho pensato oggi, mentre discutevamo riguardo al sito in inglese su come trattare *movimenti* e *lotte*. Forse ripeto l’ovvio come al solito ma io ad esempio non ci avevo mai veramente riflettuto a fondo.

    Mi sembra di notare che in Italia le lotte che si sono formate in tutto e per tutto *sul campo* raramente abbiano saputo generare movimenti veri e propri.

    Provo a spiegarmi meglio. Penso cioè che i movimenti, i partiti e gli altri “soggetti in lotta” la cui nascita non è avvenuta direttamente sul campo sono sempre in qualche modo movimenti “dall’alto” anche quando le reali e sincere intenzioni sono quelle di essere un “movimento dal basso”. Invece, le lotte che nascono davvero “nella pratica in cui tutto si risolve” o *sul campo* a tutti gli effetti, non hanno saputo *generare movimento*, non dico a livello nazionale, ma nemmeno a livello locale. Tranne in qualche fortunata(?) occasione questo non è avvenuto. Non a caso penso che stia avvenendo con il movimento (appunto) No Tav, che infatti “sta vincendo” in un certo senso. Il motivo per cui non è quasi mai avvenuto altrove va indagato, ci si può chiedere se il motivo è interno (scarsa capacità organizzativa?) o esterno (presenza appunto di altri soggetti di lotta che occupano gli spazi di creazione di movimenti?), oppure si può porre la questione in altri termini. Io non ne so abbastanza per rispondere. Posso solo notare, dal mio punto di vista (certamente inesperto, impreciso quando non proprio sbagliato) che appunto ciò non è avvenuto. Che i movimenti veri e propri non sono nati *sul campo* e che quello che è nato *sul campo* non è quasi mai diventato un movimento. Penso che se ci fossero movimenti organizzati e strutturati *nati sul campo*, nati da esigenze concrete, nati dai “punti reali” di cui parla Badiou, per quanto frammentati sul territorio avrebbero forse espresso col tempo movimenti su scala nazionale più attivi e incisivi dei fantasmi o spauracchi di movimenti nazionali che ci sono ora (M5S, Rete Viola…).

    (Spero di non aver offeso nessuno con questo mio commento, il mio è appunto un punto di vista da ignorante, e sarò felice di saperne di più e di essere smentito.)

  40. Secondo me quello che in molti casi è mancato alle lotte per diventare movimenti è il tempo. Tu citi, giustamente, il notav come controesempio, ma, come è facile immaginare, anche il movimento notav inizialmente era solo una lotta focalizzata sul singolo problema (anzi, sul dettaglio del problema, la Torino-Lyon, non l’alta velocità), col tempo la gente si è dociumentata, ha studiato e ha capito, ma se, come succede nel 99% dei casi, la vicenda fosse arrivata a conclusione diciamo in 2 anni, qualunque fosse la conlusione, questo non sarebbe successo.
    Sarò pessimista ma penso che una grossa massa di persone che si mette a studiare tutta assieme è una cosa che succede solo sotto lo stimolo di un pericolo diretto e immediato. Se il pericolo sparisce (o anche se si trasforma in una realtà non più evitabile) quando la formazione è ancora all’inizio il processo si arresta (certo, non per tutti, ma quando parliamo di numeri rilevanti per la gran parte si)

  41. @uomoinpolvere

    Mi pongo anche io una questione simile da un po’ di tempo: nello specifico, la domanda che mi sono fatta io è “Perchè le lotte No-Tav hanno fatto presa e quelle di Terzigno, di Chiaiano (esempio che vivo più da vicino ma ce ne sarebbero mille), pur partendo da un comune denominatore teorico di deturpazione ambientale, sono scemate col tempo e non sono riuscite a uscire fuori dall’odiosa logica del not-in-my-garden? Perchè i compagni piemontesi sono stati più bravi di noi campani? (può essere, non escludo niente, ma non credo)”.

    Io personalmente non riesco a darmi ancora una risposta precisa a riguardo ma magari tutti insieme, confrontandoci, ci si riesce. Voi che dite?

  42. Ma poi voi siete così sicuri che i notav ce l’abbiano fatta? L’avete vista la trasmissione su La7 ieri sera?
    A me hanno fatto una pessima impressione. Eppure era una occasione da non sprecare. Non è che ne abbiano tanto di spazio in TV.
    So di essere controcorrente e già su twitter WuMing mi ha cazziato per le mie posizioni, ma secondo me i NoTav sono ancora molto lontani dall’essere un movimento.

  43. Secondo me paradossalmente “l’isolamento” che ha sofferto un po’ la lotta No Tav in tutti questi anni (vuoi per la posizione decentrata, o per qualsiasi altro motivo) può averla aiutata in questo, ha avuto il tempo di crescere autonomamente. Ma davvero non credo di saperne abbastanza.
    Provo a fare un controesempio di tipo diverso: la FIOM. La FIOM sembra smentire ciò che dico, perché non nasce da un punto preciso, bensì a seguire il discorso che facevo sembra nascere dall’ “alto”. Però secondo me non è così, il “punto reale” semplicemente non è territoriale ma c’è eccome: sono i diritti dei lavoratori metalmeccanici. A ben guardare è un altro soggetto politico che è riuscito a mantenersi in quel sottile spazio di confine che c’è tra “lotte reali” e movimenti.

    Io non penso che il mov. No Tav e la FIOM debbano diventare movimenti onnicomprensivi a livello nazionale. Dico solo che sono tra i pochi che sono riusciti a mantenere entrambi i livelli, lotte che diventano movimenti, o soggetti “politici” (lo intendo in senso molto lato, so bene che la FIOM è un sindacato e non un movimento, ciò che intendo è: soggetto politicamente attivo e minimamente strutturato) che fanno lotte su punti reali. Quello che mi auspico anzi è che restino su quella linea di confine, che lascino aperta quella possibilità, che rimangano quasi “a esempio”. Se molte altre lotte italiane riuscissero a diventare movimento così come ci sono riusciti i No Tav, e se molti altri soggetti politici come la FIOM facessero “lotte su punti reali”, forse si aprirebbero molte possibilità in più per l’avvenire dell’Italia.
    Per quanto riguarda gli ostacoli “esterni”: i movimenti nazionali nati dall’alto andrebbero secondo me pressati su punti reali, costretti a lottare per quei punti reali o ad ammettere la propria evanescenza e collusione col sistema di cose.

  44. thiswas sei mai stato in Valdisusa?
    Dietro le bandiere c’e’ una comunita’ in lotta non un movimento di opinione. Le persone – quelle fatte di carne, tendini, sangue e sudore – sono determinate, informate e pazienti. Non si parla di attivisti sparsi qua e la’, si tratta di vicini di casa, amici, mezzi parenti che hanno stipulato un patto non scritto di coesione sociale.
    Le persone che hai visto ieri in televisione sono “vere” non videorealistiche.
    Passare in video non e’ un’occasione, i notav restano anche quando si spegne il tubo catodico mentre i telespettatori scompaiono. Sinceramente sono stufo della retorica da dibattito, della propaganda da falce e martello e dei manifesti usa e getta.
    Il movimento c’e’.

  45. La lotta NoTav non è NIMBY perché:

    Perché il movimento dice “quella linea NON SERVE”, non si limita a dire “non la voglio qui”
    [e in effetti i dati anche quelli dell’osservatorio tecnico dicono che quella linea è inutile]
    Perché la lotta al TAV è lotta contro un modello di sviluppo GLOBALE
    [nei documenti ufficiali del movimento questo concetto è esplicitamente espresso]
    Perché il TAV non è una grande opera, ma è la grande opera in Italia
    [il costo stimato è quello di circa quattro centrali nucleari e di tre ponti sullo Stretto]
    Perché la lotta al TAV è parte integrante della lotta per la difesa dello stato sociale del nostro paese
    [i fondi europei sono il 4% il resto è a carico nostro]
    Perché la lotta al TAV è lotta contro il moltiplicarsi del debito. [i grossi gruppi bancari anticiperanno le somme necessarie al completamento di un’opera che non sarà mai in grado di ripagarsi]

  46. @eveblisset
    io credo, forse per ignoranza riguardo agli altri movimenti, che la lunga durata del movimento NO TAv sia dovuta ANCHE al fatto che le porte sono aperte ai militanti di partito, ma chiuse ai partiti. Che io sappia le uniche sigle di cui si è cercata la complicità in questi 22 anni sono quelle sindacali.

  47. @thiswas
    ma cosa intendi tu per movimento?
    io, lo dico dal di dentro, credo che quello No Tav sia un autentico movimento
    gente che si muove, che parla, discute, si confronta, a volte scazza
    ma è gente che muove il culo
    studia, si mobilita, fa riunioni, cerca soluzioni.
    Sui manuali non c’è scritto come si FA un movimento, per fortuna, ma per me è questo.
    Persone in movimento vulcanico e coordinato.

  48. @thiswas

    Non avevo visto il tuo commento. Secondo me la lotta No Tav è un movimento, certamente locale, e non gli si può mica chiedere di abbandonare la Val di Susa per farsi portavoce di esigenze nazionali (lo sta facendo fin troppo forse). Certo non ha una struttura gerarchica ma ha assemblee dove si discutono delle agende di lotta, si organizza per manifestare a Torino e in altre città, in pochi giorni è in grado di mobilitare decine di migliaia di persone senza avere nessun medium… Certo tutto ha un margine di miglioramento, ma confrontandolo con le altre lotte locali, beh, direi che non c’è paragone! Non voglio dire che le altre lotte siano “meno brave”, io non so di preciso perché altrove non ci si riesce quasi mai. L’alchimia della cosa va studiata.

    Quello che dice Roberto G potrebbe essere una parte della spiegazione: una questione di “tempi di maturazione”.

  49. imho il movimento NO TAV non può essere definito NIMBY così come non lo è quello NO DAL MOLIN. da una parte c’è l’idea di una mobilità alternativa da basare su esigenze reali e non sui dettami di un’europa iperliberista, che peraltro su quel corridoio ha cambiato più volte idea. dall’altra parte c’è un no secco alle servitù militari, alle rimanenti vestigia del potere imperiale USA, e all’idea stessa della guerra permanente come motore dello sviluppo. in entrambe le lotte c’è poi una difesa del territorio e dell’ambiente che non può essere lasciata alle destre. insomma questi, come altri movimenti in giro per l’italia, sono figli del pensare comune delle mobilitazioni contro il G8, dei social forum nazionali, europei e internazionali, di quello che una volta si definiva altermondialismo. ci siamo tutt@ dentro.

  50. @MikeSchirru deciditi però, il movimento c’è o non c’è? La comunità si vede bene. La si sente e si avverte come tale. Si percepisce anche una unità e solidarietà fuori dal comune. Il movimento, invece, non si percepisce. Bisogna andarsi a leggere i documenti in rete per scorgere le critiche al sistema.
    Ieri sera (ne parlo solo perché è l’apparizione più recente, ma la stessa cosa l’ho notata altre volte) si sono sentite mezze parole sul debito e basta. Poi, tanto meraviglioso orgoglio locale di chi non vuole essere sopraffatto. Per me il movimento è altro.
    @filosottile le cose che dici le so anch’io. Però quando i notav comunicano non insistono su questo punto. Domanda in giro, se chiedi “cosa dice il movimento notav” la risposta del 95% delle persone sarà “non vogliono la tav”, non “hanno un’altra idea di paese in testa”. Basta scrivere (anche bene) dei documenti per essere movimento? Oppure bisogna anche sapersi palesare come tale? Possiamo rispondere a tutti quelli che vedono i notav come nimby che è colpa loro che non hanno studiato bene? Oppure forse c’è un problema di comunicazione e agire politico?
    La mia è una critica interessata. I notav hanno potenzialità enormi ed è assurdo che la loro esperienza venga percepita dal Paese come una lotta nimby.
    Quando Castelli dice che 30 milioni di italiani sono favorevoli alla Tav secondo voi dice il falso?

  51. @thiswas ma secondo te in tv lasciano che sia il movimento a scegliere chi far parlare? Nessuna cattiveria verso la Mattioli, che anzi si fa un mazzo tanto, però di certo non è da lei che ci si possono aspettare le critiche al sistema, per questo hanno fatto parlare lei.
    Non è da un passaggio in tv che si può capire qualcosa.

  52. @uomoinpolvere anche per me i notav hanno fatto passi che le altre lotte locali non hanno fatto (qualcuno prima citava chiaiano e terzigno). Proprio per questo è un peccato che si venga percepiti come gli altri. Non credo che si debba abbandonare la valdisusa, ma forse esistono altri modi per diventare *nazionali*. Esiste il modello a rete sperimentato dal movimento noglobal. Lo so @RobertoG che la TV è infame e che si viene facilmente manipolati, ma anche questa è una sfida da combattere. E poi, anche in rete, quali canali usano i notav e come? Su twitter, FB, G+… Si può (si deve) fare di più e meglio. Ogni volta che dico queste cose mi si attacca come se fossi contro il movimento. Io dico solo che si può fare meglio di così.

  53. Sì, Castelli dice il falso. Farebbe meglio a dire che quegli italiani non hanno la benché minima idea di cosa sia la TAV, quindi non possono nemmeno essere favorevoli o contrari. Si potrebbe, al limite, dire che *lasciano fare*. Che è cosa ben diversa. Lasciano scorrere la propaganda, delegano le decisioni ai politici e la conoscenza ai tecnici.

    Ebbasta con ‘sta storia che “non si può dar la colpa alla gente”, questo è populismo. La “gente” non è “buona” né “innocente”, e deve assumersi le sue responsabilità. Altrimenti non ha mai difetti né colpe, è sempre colpa dei “capi che hanno tradito”, dei “movimenti che non sanno farsi capire” etc.
    Non ci sono solo i “limiti del comunicare” da una parte, ci sono anche menefreghismo e indisponibilità all’ascolto dall’altra. Qualunque strategia che non tenga conto di entrambi i corni del dilemma è fallimentare e/o perniciosa: populistica se si esagera da un lato (“andiamo verso la ggente!”), apocalittica dall’altro (“sono solo una massa di coglioni”).

    A livello di comunicazione e spiegazione, sinceramente non so quali altri sforzi debba compiere la comunità valsusina, che ha fatto e sta facendo l’umanamente (im)possibile a fronte di un accerchiamento mediatico e politico e di un “culto del Cargo” impressionante. E ci sono vari “compagni di strada” del movimento che hanno profuso sforzi notevoli sui giornali e nelle (poche) apparizioni televisive, come Viale, Mercalli, Ponti etc.

    Secondo me solo altre lotte contro altre grandi opere e grandi cazzate, lotte che esplodano in altre parti del paese e si coordinino con quella No Tav e creino risonanza con l’opposizione a manovre, austerity, governo vetero-liberista della crisi potranno *spezzare l’accerchiamento*.

  54. Si può e deve fare meglio, ma non credo attraverso la tv.
    Per la rete, ci sono un sacco di siti, in più io li vedo su twitter, su fb non ci sono io ma so che ci sono, su G+ non ho idea.

  55. @ thiswas

    troppo facile dire “potete fare meglio”. Comincia a sbatterti anche tu, a renderti disponibile, a far circolare informazioni e analisi in ambiti che frequenti e che il movimento non ha raggiunto, ritwitta, posta, commenta, inoltra articoli, fai un salto in Val di Susa se ti è possibile, altrimenti resta dove sei ma dài un contributo.

  56. @thiswas secondo me la comunita’ e’ il movimento che passa dallo stato potenziale all’attivita’ politica. La militanza si fonde con la vita, tutti i giorni, quasi non fosse una scelta attiva ma un’esigenza.

    Castelli con la frease 25mln di italiani vogliono la tav intende “25 mln di italiani ci lascerebbero fare la tav”, la famosa maggioranza silenziosa. Non volendolo ha anche sottinteso che 35mln non la vogliono (fortemente) e questa maggioranza include anche la base del PD.

  57. @thiswas, @MikeSchirru: avete ragione entrambi, ovvero credo stiate dicendo la stessa cosa, o meglio state dicendo cose vere entrambi, che descrivono “a tutto tondo” la realtà attuale del movimento NoTav. Questo almeno per quanto lo posso conoscere io personalmente, con l’analisi e la ricerca che gli sto dedicando (assieme ad altri) da un pò di tempo.
    Il movimento c’è. Il movimento ha enormi potenzialità (sia sul suo territorio particolare sia sull’incidenza sistemica delle istanze che produce). Il movimento non sa comunicare adeguatamente, in occasioni chiave. E non solo per limiti suoi, chiaramente.

    Quando stai anni ad ingoiare parole che ti vengono cacciate in bocca da altri, quando i media parlano a nome tuo e non riesci a far sentire un filo di voce tua, alla prima occasione che ti viene offerta di esprimerti, probabilmente farai dei versi gutturali, goffi se non sproporzionati. Sembrerai Calibano, mostro deforme capace solo di maledire. Le parole che userai saranno nella lingua che non ti appartiene ma che ti è stata imposta, quella della sopraffazione e non delle ragioni articolate.
    Io ho visto accadere questo, ieri sera a La7. Come una serie di rigori in finale, quando la cenerentola per cui tifi è arrivata a giocarsela inaspettatamente, e li sbaglia tutti, nemmeno serve arrivare al quinto.
    E scusate se la metafora calcistica profana in qualche modo la sacralità dell’argomento. Erano molte le speranze che finalmente potessero diffondersi sul media di massa i messaggi dirompenti e sacrosanti del NoTav: modello di sviluppo, partecipazione e democrazia apparente paravento per interessi criminali. Invece nulla. A quel piciu di Castelli è bastato segnare il quarto rigore…

    @eveblisset: non so dare neanche a me stesso una spiegazione alla domanda che fai tu…forse è solo una questione “scenica”, la potenza dell’inatteso…dei montanari isolati che hanno la forza di far giungere la loro realtà alla metropoli…non credo abbia a che fare con la bravura strategica, la rilevanza del tema…sta di fatto che la realtà della ValSusa riesce a scatenare significati su livelli altamente simbolici, ideali. E di idee si nutre la storia, per come la vedo io…

    @wuming: scusate se ne approfitto e vado OT…c’è una mail nella vostra casella che vi lancia una proposta sul tema, per andare fuori dai confini nazionali con questo tema. Oberati, capisco. Solo…speranze di risposta? Modi alternativi di contatto?

    Sempre…in alto la banda!

  58. WM1: “Secondo me solo altre lotte contro altre grandi opere e grandi cazzate, lotte che esplodano in altre parti del paese e si coordinino con quella No Tav e creino risonanza con l’opposizione a manovre, austerity, governo vetero-liberista della crisi potranno *spezzare l’accerchiamento*.”

    Esatto, secondo me è proprio così. Se invece ci si aspetta che scendano i No Tav e vengano a salvarci in tutta Italia manco fossero i Mille di Garibaldi, si finisce per perdere anche la lotta No Tav (la si sfianca, la si ammorba di compiti che non può svolgere da sola).

  59. @WuMing1 – 2 cose:
    1) sulla impostazione del post delle 12:11 sono totalmente in disaccordo. Avere ragione senza che gli altri lo sappiano o se ne accorgano non serve a niente. Siccome, poi, in un sistema *democratico* gli altri votano e decidono anche (o lasciano decidere, il che è la stessa cosa), dare la colpa ai menefreghisti disinformati è stupido, oltre che dannoso. Salvo l’ultima frase, che costituisce anche la mia speranza/auspicio. Alcune di quelle lotte già esistono, manca il coordinamento.
    2) sul post delle 12:16, invece, credo che sia un modo di discutere scorretto. Su twitter avete invitato alla discussione su questo argomento. Se servono delle *credenziali* per farlo, beh, dovevate dircelo prima. Ho espresso una opinione che tutti sono liberi di contrastare, ma dire “facile parlare tanto non fai niente” è sbagliato. Primo perché non sapete io cosa faccio e dove. Secondo perché se anche in questo momento fossi legato ad una pala meccanica nel cantiere tav non credo che le idee che ho espresso vi apparirebbero diverse. Questo è un blog e qui si discute. Poi ognuno di noi sa cosa fare e come farlo nella vita di tutti i giorni.
    @ manuko: il paragone calcistico con ieri sera mi sembra particolarmente calzante e condivido la tua rabbia.

  60. @WM1

    Io comunque prendo pari pari il pezzo ricitato pure da uomoinpolvere e lo metto sul volantino informativo che stiamo preparando contro la turbogas che ci stanno mettendo sotto al culo, sappilo :P

  61. Rileggendo un pò i post sento di dover correggere il tiro.
    Trovo ridicolo discutere su quando una comunità possa mettersi la mostrina di “movimento”. Non era questo il punto per cui davo ragione a @thiswas, ma per il messaggio trasmesso ieri sera in tv. Ed è chiaro che è altrettanto ridicolo, anzi fastidioso, dire “non fate abbastanza”.
    Se e cosa può fare meglio la lotta NoTav, aggiungerei, non riguarda in modo diretto le altre lotte, ma solo ed unicamente lo sviluppo della sua, perchè non si avvolga su se stessa, diventando quello che non è, un semplice e solo assedio al fortino.

  62. @ thiswas

    Il punto è questo (speravo si capisse già, ma evidentemente no):

    noi quando esprimiamo un parere critico su una lotta, partiamo sempre da un nostro limite, dalla lezione di errori che noi abbiamo commesso. Ci dichiariamo implicati, cerchiamo di essere il più precisi possibile nel descrivere cosa non va secondo noi, e ci interroghiamo pubblicamente su cosa noi in primis potremmo fare, che contributo potremmo dare anche “solo” in termini di discorso, di re-framing, di racconto, di far chiarezza tutti insieme. E facciamo sempre (o almeno stimoliamo) proposte operative, dal “dirottamento” di un hashtag su Twitter alla faccenda del comunicare di più in altre lingue.

    Quindi se c’è una cosa che NON sopportiamo è quando uno/a fa a una lotta critiche generiche che al fondo si riducono a “non siete abbastanza bravi”, “non è abbastanza”, “dovete fare meglio”, “non vi fate capire”… E le esprime senza implicarsi, senza farsi la “chiamata di correo”, senza la minima tensione a una qualsivoglia proposta, senza dire nulla su quello che lui o lei potrebbe fare o ha cercato di fare o si ripromette di fare o almeno gli piacerebbe fare.

    Non è questione di “credenziali”, ma della posizione che si sceglie di occupare quando si critica.

    Dopodiché, libero di considerare stupido quel che vuoi, e anche di distorcere, se ti fa piacere. Ma la tiritera del “non mi lasciate discutere” (che avverto imminentissima) no, per favore. E’ fuori luogo, è senza basi, è la tipica scorciatoia di chi, dopo che l’interlocutore non gli ha dato ragione, si mette a gridare col viso paonazzo e tira in ballo “scorrettezze”, censure etc. Non arriviamoci, grazie.

  63. @ manuko

    un po’ di pazienza riguardo alle mail, la situazione è a dir poco critica :-/

  64. @Wu Ming 1
    ma dov’è che mi sarei chiamato fuori? mah. E non ho fatto nessuna “tiritera”, anzi, la scorciatoia l’hai usata tu con il “troppo semplice…”. Tra l’altro sapevo già di essere minoranza (l’ho detto dall’inizio) e non cercavo di *avere ragione*. Non ho nemmeno urlato, credo, e il mio viso ha il solito colorito diversamente abbronzato che ho di solito.
    Quello che vorrei realizzare l’ho detto, per il resto fai tu.

  65. @ thiswas

    rileggiti, basta vedere che espressioni hai usato. Per te la lotta No Tav è sempre un “loro”, un soggetto completamente esterno a te che ieri sera in tv ha fatto “brutta figura”. Costoro, questi “loro”, sono “molto lontani dall’essere un movimento” (così hai esordito). E poi “i No Tav fanno”, “i No Tav sbagliano questo e quello”. Terza persona plurale, lontana da te, e nessun co-implicarsi, nessuna assunzione di responsabilità. Queste critiche, anche qualora avessero dei fondamenti, sarebbero comunque del tutto inutili, perché è la “postura” di chi le fa a neutralizzarle in partenza, a farle sembrare sterili esercizi da grillo parlante, a impedir loro di trovare considerazione nel movimento. Per gli altri che hanno scritto qui, la lotta No Tav è includente, è parte di un “noi” plurale. Si può anche non essere mai stati in Val di Susa, ma ci si sente parte dello stesso “qualcosa”. E ogni eventuale critica è percepita come un tentativo di esprimere meglio questo “noi”, e quindi non ha problemi a essere presa in considerazione.

    Riguardo al resto, faccio umilmente notare che hai usato due epiteti precisi: “stupido” (nei confronti di una mia argomentazione) e “scorretto” (nei confronti di un mio presunto non lasciarti esprimere le tue opinioni con serenità).

  66. @Wu Ming 1
    non credo che questa discussione importi a qualcuno, ma lasciami rispondere.
    Non dico “noi” per dire notav perché non ho avuto mai modo di partecipare a quella lotta. Abito a 1000 km di distanza e se fossi uno di quelli che prende le manganellate dai poliziotti un giorno sì e l’altro pure mi darebbe fastidio se mi presentassi io a usare il noi. E’ questione di rispetto, non di mancata assunzione di responsabilità. Mi sento vicino a chi manifesta e condivido quasi totalmente la *piattaforma*. Non ho avuto modo di partecipare sinora e mi auguro di poterlo fare in futuro, magari attraverso quella organizzazione a rete di cui parlavo prima. Riguardo al resto, so cosa ho scritto e confermo entrambi i termini. E’ stupido bollare gli *altri* come menefreghisti perché da loro dipende la vittoria o la sconfitta della lotto contro la Tav ed il modello che rappresenta. Tu ritieni che, invece, preoccuparsi di ciò sia “populismo”. Sono due punti di vista diversi evidentemente. Sullo “scorretto” ho già detto.
    Detto questo, non intendevo litigare qui, ma semplicemente esprimere il mio punto di vista, sperando che sia ben accetto. Amen.

  67. @ thiswas

    io invece ho l’impressione che questa discussione interessi parecchio.
    Felice del fatto che condividi la piattaforma, ad ogni modo, inviterei a non interpretare in modo angusto e banalizzante quel che gli altri scrivono: ho detto che bisognerebbe scrivere “noi No Tav” (tant’è che noi in primis non ci siamo mai sognati di usare una simile espressione), ho parlato di un “noi plurale”, vasto, includente. Un “noi” che si desume da come si parla di quella lotta, partendo dal fatto che “tutte le lotte sono la stessa lotta”. Sotto quest’aspetto, vivere a 1000 km. di distanza non c’entra niente, non smuove niente, non impedisce niente.
    Ripeto, sei libero di distorcere, cioè di continuare a dire che io avrei scaricato tutte le responsabilità sui menefreghisti. Contento tu, contenti tutti.

  68. Aggiungo una chiosa: “noi plurale” è un rafforzativo. Può sembrare pleonastico che un “noi” sia plurale, ma non è così; esiste un “noi” che è un Uno, che fa blocco, omologante, intruppante. Il “noi” a cui mi riferisco è fatto di differenze e molteplicità.

  69. @thiswas
    Ieri ho intercettato un post sulla “genitorialità diffusa”, in qualche modo è simpatico e fra il serio e il faceto dice cose molto importanti.
    Le riassumo brevemente.
    L’assunto di partenza è: che tu abbia dei figli o no, che desideri averne o no, i bambini sono il futuro del nostro mondo e della nostra specie. Se ti interessa il tuo futuro ti devi interessare dei bambini.
    Ora il discorso che ne consegue qual è? Se vedi un bambino che sta facendo una roba pericolosa, che fai? Interviene o non è figlio tuo e per rispetto degli sforzi che i suoi genitori hanno fatto per allevarlo non ti ci intrichi. Oppure: un bimbo fa i capricci e il genitore presente sta per cedere alla tentazione di uno schiaffo, tu che fai? Tenti un soccorso per entrambi o lasci che tutto accada?
    Per le lotte è la stessa cosa, sono gli stessi gli interrogativi da porsi. Al nostro presidio No Tav (quello dei comitati Val Sangone e Collina Morenica) c’è un bel manifesto del comitato Stuttgart 21, quella lotta distante mille e più chilometri ci riguarda e molti di noi ne sanno parlare, sanno di che si tratta. Sappiamo dell’alta velocità in Palestina, nei Paesi Baschi e in Francia, del Mose, del Dal Molin. In questi mesi sono venuti in tanti, da tutta Italia e da tutta Europa a trovarci. Ma ognuno alle lotte se dà, dà ciò che può e potrebbe essere sufficiente che tu appendessi la nostra bandiera al tuo balcone. Sai che invidia i vicini?
    ho scritto un po’ di getto, spero sia tutto chiaro
    Il post sopra citato è qui: http://bit.ly/rrr8kx

  70. Salve a tutti
    In ogni caso, Thiswas pone degli interrogativi che, sebbene presentati in maniera brutale e in chiave tutta negativa, dovremmo porci anche noi.
    La lotta contro la TAV non è sola, l’Italia è un territorio attraversato da centinaia, se non migliaia, di lotte territoriali paragonabili, se non numericamente sicuramente nella sostanza territoriale/ambientale/politica.
    Anzi, la lotta sul territorio per la difesa dei beni primari di salute, civiltà, ambiente sembrerebbe essere diventata, in Italia, la nuova forma di lotta “radicale” dei movimenti e di pezzi di società civile.
    Quindi, se questo è vero, perchè dopo anni nessuna lotta riesce a creare coordinazione, relazione, niente riesce a intrecciare quegli elementi che dovrebbero portare ad una generalizzazione di queste proteste territoriali? E soprattutto, perchè nessuna riesce ad uscire dal suo strettissimo punto d’osservazione? Cioè, non è che queste lotte per generalizzarsi devono per forza di cose connettersi, questo può avvenire o meno e nel più dei casi a connettersi rimangono solo i compagni presenti nelle varie lotte, ma perchè non riescono a sedimentare, nelle coscienze di chi lotta, l’idea che appunto tutte le lotte sono la stessa lotta?
    Cioè, in vent’anni di lotte territoriali tutto ciò che possiamo dire di aver raccolto è una insofferenza diffusa verso il governo in carica (senza tra l’altro che questo si trasformasse in voti). Qual’è la coerenza fra chi lotta contro la TAV e poi vota Partito Democratico?
    Tutto questo, sia detto per inciso, al di là della specificità fondamentale della lotta contro la TAV in Piemonte, lotta che appoggiamo apertamente e che ci vede nelle valli piemontesi più o meno dal 2005…però una riflessione un pò più ampia sulla valenza delle lotte territoriali andrebbe fatta…
    Quindi, la TAV è una lotta fondamentale, ma forse andrebbe presa nella sua *unicità* più che come paradigma sul quale basare nuovi conflitti
    Un saluto a tutti

  71. Ciao a tutti, io mi chiamo Massimo e vivo in Val di Susa da sempre; naturalmente sono No Tav e ieri ero a Chiomonte sia per la merenda nelle vigne, che per la trasmissione di La7, se permettete mi inserirei nel dibattito per chiarire un pò meglio ciò che è successo.
    Nella trasmissione di ieri non è senz’altro uscito il messaggio che noi cerchiamo di far passare da più di 20 anni, e cioè che la gente deve cominciare ad agire direttamente se vuole veder migliorare le cose, mettersi in prima fila e combattere per le proprie idee e per i propri diritti, che nel nostro caso significa bloccare il disastro TAV, certamente, ma anche fermare questo sistema di speculazione e di interessi personali ai danni di tutti, ma questo, non è stato a causa nostra, perchè c’era una regista che ha deciso chi e quando doveva parlare, ciò che è passato è stato solo un frammento, una infinitesima parte di un discorso ampio e articolato. Se da parte dello studio di Roma ci fosse stata una maggior correttezza, ad ogni affermazione indegna di Castelli o di Renzi o dell’altra beota di cui non ricordo il nome, si sarebbe dato modo ad esponenti del movimento No Tav di replicare liberamente per pari tempo; ma ciò avrebbe significato aprire le porte al massacro, perchè di fronte all’evidente ignoranza e pochezza dei personaggi di cui sopra, i membri del movimento, chiunque essi fossero, avrebbero potuto farli a pezzi e questo il sistema dei media embedded non lo può permettere, per cui, oltre a cambiare l’agenda della trasmissione (Sortino avrebbe dovuto essere inserito sin dall’inizio della trsmissione, ma la regia, resasi conto dei rischi per i “poveri ospiti” in studio, ci ha relegati solo alla fine), hanno cominciato a chiedere che venissero avanti solo le donne, che solo loro fossero in prima fila, forse pensando che tra di esse vi fossero persone meno preparate (che sbaglio!), poi di fronte alla chiarezza e alla forza delle prime “tenui” dichiarazioni di Simonetta Zandiri (la biondissima per intenderci), dopo aver dato la linea allo studio, hanno prima passato un video sulla villa di Verdini, che centrava nel discorso come i cavoli a merenda, poi hanno limitato a interventi di pochi secondi gli inteventi dalla Piazza lasciando che gli ospiti in studio divagassero su minchiate e su discorsi assolutamente fuori tema.
    Chi da quello che ha visto (ThisWas), pensa di aver capito qualcosa di che cos’è il movimento No Tav, lasci che gli dica che è come se cercasse di capire il moto dei pianeti attraverso il riflesso in una pozzanghera agitata dal vento.
    Grazie comunque a tutti coloro che sono qui a discutere, perchè questo è il primo passo nella giusta direzione.

  72. A ben vedere una lotta che è cominciata territoriale ed è diventato movimento nazionale al punto da vincere un referendum c’è ed è quella per l’acqua pubblica.
    Anche in quel caso per anni abbiamo assistito alla disinformazione sistematica ed all’accerchiamento dei media. Eppure abbiamo saputo uscirne alla grande e diventare maggioranza. Anche per l’acqua è stato fondamentale il sistema a rete che ha permesso a tutte le varie realtà di mantenere la propria unicità nell’essere parte di un movimento più vasto. Da approfondire anche il discorso PD/NoTav. Perché forse è il caso di far emergere di più le contraddizioni che il PD tende a mascherare.

  73. Io suppongo che il movimento notav non sia nimby per pochi e semplici motivi. Non è un problema di carattere egoistico. Il problema non è non volerlo a casa propria, ma non volere quel tipo di opera perché è fine a sé stessa. La lotta notav lotta contro un’opera che è il simbolo di un modello di sviluppo assurdo e scriteriato. Il problema non è il treno, ma il progetto che ci sta dietro: una infrastruttura che serve solo a chi la costruisce e che si disinteressa della volontà degli individui coinvolti e dell’utilità effettiva di una infrastruttura. La teoria del nimby e il relativo termine sono un retaggio di una cultura conservatrice, che giustifica l’opposizione alla costruzione di una infrastruttura dicendo che, semplicemente, coloro che si oppongono non la vogliono nel loro “cortile”. Colui che coniò il termine, Nicholas Ridley, era un conservatore più tatcheriano della lady di ferro:
    Free-market economics was always Nick’s passion. And he had a longer, better pedigree in that respect than most Thatcherites—or indeed I may add—than Thatcher herself. His first vote against a Conservative Government bailing out nationalised industries was in 1961. To be so right, so early on, is not to have seen the light—it is to have lit it…. He would have been a superb Chancellor.
    Insomma, nimby è un frutto amaro che la solita cricca di capitalisti ha dato ai politici che li copre per rendere insignificanti le lotte.
    Ma la lotta notav, come tutte le lotte che rifiutano una azione sul territorio perché lesiva della libertà di coloro che lo abitano NON è nimby. Al massimo è NIMDME (Not In My Developmental Model of Economy). E’ contro il modello di sviluppo che io desidero venga adottato: coloro che lottano contro la tav lottano contro il modello di sviluppo liberista. Del loro cortile se ne fregano fino a un certo punto: lottare contro la tav significa lottare contro una modalità del pensiero che in trenta anni ha fatto più danni del peggior terremoto. E scusate se è poco. Ora e sempre NOTAV.
    ps: scusate il link alla margaret tatcher foundation, ma era necessario far capire da dove arrivano certe robe. Grazie di avermi fatto conoscere Furio Jesi, suppongo e spero avrebbe apprezzato questo modo di fare.

  74. @Collettivo Militant
    Premessa ovvia ma doverosa: fare meglio si può sempre. detto questo però a me sembra che il movimento notav (sul perchè più di altri ho detto la mia sopra) abbia raggiunto risultati anche su questioni non direttamente inerenti il TAV.
    Citi i risultati delle elezioni, ma se vai a guardare i dati di quella che era la comunità montana bassa valle susa, che è il cuore della protesta, vedrai che sono molto diversi dalla media nazionale, e nel 2006, quando i partiti di sinistra avevano ancora una credibilità, per me era splendida. Su poco più di 20 comuni in 3 rifondazione comunista era il partito di maggioranza relativa, e in uno i verdi, rifondazione aveva un percentuale intorno al 20% e i verdi al 10, e questo in un contesto in cui tutti i sindaci del PD erano notav, il che frenava il deflusso.
    Oltre al voto poi ci sono altre cose. Su gestione dei rifiuti, energia, filiera corta in valle si fanno un sacco di buone cose, su altro si è ancora sicuramente indietro.

    Forse mi sono perso in dettagli, quello che volevo dire sono due cose:
    1) A me sembra che nel movimento notav (in senso largo) ci sia una consapevolezza che è migliore della ‘media nazionale’
    2) Pensare che tutti quelli che sono notav arrivino ad un livello di consapevolezza come quello che si trova su queste pagine è come pensare chece l’abbiano tutti quelli che hanno votato si al referendum sull’acqua. Sarebbe bello, ma mi sembra chiedere un po’ troppo

  75. @thiswas
    Tiri in ballo l’acqua pubblica e la scindi dal movimento No Tav, ma ti posso assicurare che in ogni presidio No Tav sventolano ancora le bandiere dei referendum e che localmente i comitati hanno dato spazio alla raccolta firme e alle serate informative. Questo per ribadire che l’importanza dell’inclusività e la connessione delle lotte.

    Per quanto riguarda il Pd, qui in Piemonte mi sembra di capire che una parte non marginale dei militanti di base sta provando a immaginare percorsi alternativi. Vedremo alle amministrative della prossima primavera che succederà. Si voterà in due comuni che saranno sconciati dai cantieri del TAV.

  76. @RobertoG
    sicuramente sarebbe chiedere un po’ troppo. Io, se dovessi decidere il sogno nel cassetto, ci metterei che ad un ipotetico referendum nazionale sull’alta velocità (e sul modello di sviluppo) vincessero i notav. Attualmente temo che non sia così.

    @filosottile
    tiro in ballo l’acqua pubblica perché quello è un argomento sul quale si è saputo fare opinione. Durante la campagna referendaria ho parlato con centinaia di persone alle quali i concetti fondamentali sulle ragioni del sì erano già arrivati (dalle parrocchie, dalle associazioni, dalla scuola, dai centri sociali…). Alle stesse persone, invece, delle ragioni che distinguono i notav dai nimby è arrivato poco o nulla e questo è il punto di cui mi dolgo.

  77. io penso che il solito argomento del NIMBY andrebbe ribaltato dialetticamente in questo modo: non sono i valsusini ad essere affetti dalla sindrome NIMBY, ma tutti quelli che, non vedendo minacciato direttamente il proprio “cortile”, sono ben contenti che il TAV venga sbolognato ai valsusini.

    detto questo, penso che bisognerebbe trovare il modo di scardinare il frame attivato dall’ acronimo NIMBY. questo frame e’ la falsa credenza che esista un “interesse generale della nazione” di fronte al quale non solo le comunita’ locali, ma proprio le vite dei singoli uomini e donne passano in secondo piano. portando questa credenza fino alle estreme conseguenze, si arriverebbe al paradosso di una comunita’ organicamente “felice”, ma fatta di persone individualmente infelici, qualcosa di simile alla “societa’ armonica” cinese (tempo fa wm1 ricordava che, secondo žižek, cio’ che i cinesi chiamano “societa’ armonica” per noi europei si chiama semplicemente fascismo). ovviamente cio’ che viene presentato come “interesse generale della nazione” non e’ nient’altro che l’ interesse di una parte, piu’ precisamente l’ interesse dei padroni.

  78. Salve a tutti.
    Secondo me l’argomento NIMBY va rigettato in toto, perché, anche ribaltato come ha fatto Tuco, propone una rappresentazione che è in se stessa il problema.
    Questa rappresentazione è quella per cui ciascuno ha un giardinetto, non c’è niente di socializzato e quello che si ha lo si difende *ognun per sé*. Già partendo da qui, si capisce bene in seno a quale *cultura* politica sia germogliato e cresciuto il frame.
    Io rigetto l’euqivalenza NO-TAV=NIMBY semplicemente perché la loro terra io la sento come mia, loro stanno lottando ANCHE per me, ed è ANCHE per questo che io li sostengo.
    Inutile dire che la rappresentazione del giardinetto si sposa benissimo con il federalismo stampo-lega che ieri sera parlava su LA7.
    A quei signori andrebbe spiegato che è la loro idea ad essere *ideologica*, falsa coscienza per cui, come diceva Tuco, si presenta un interesse particolare come se fosse quello generale.
    Tralascio i giochetti di Castelli sulle cifre perché mi pare che su Giap siano stati adeguatamente decriptati.
    Buona serata a tutti.

  79. mi sono arrivate delle notifiche di messaggi che però non vedo qui… siccome non credo che siano stati cancellati ma sia un problema di software rispondo lo stesso.
    @pascoit uno dei problemi che sollevavo è proprio riferito a quello che dici tu. La trasmissione di ieri sera (che tra l’altro non mi sembrava nemmeno tra le più ostili ai notav) ha trasmesso un messaggio distorto che rappresenta i notav come una cosa che non sono. Siccome non è la prima volta che accade (e non sarà l’ultima) e siccome affinché l’opposizione alla tav (e alle altre opere inutili e a quel modello di sviluppo) vinca abbiamo bisogno che il messaggio parta e arrivi correttamente, errori come quelli commessi ieri vanno evitati. Tu eri lì e puoi sicuramente aver fatto tesoro di quello che è successo. Bisogna che Castelli (o chi per lui) se ne vada con la coda tra le gambe. Il ragionamento fatto da @tuco e @tiziano sul perché vada rifiutata l’etichetta nimby lo condivido al 100%. Ma questo messaggio arriva solo a chi si prende la briga di leggere i documenti che ci sono in rete (o si impegola in discussioni infinite sui blog). Agli altri che messaggio arriva? C’è il boicottaggio di questo messaggio, senza ombra di dubbio. Ma questo è un dato di fatto con il quale vanno fatti i conti. Io non voglio apparire disfattista e non voglio trasmettere sensazioni negative, ma per essere percepiti come un movimento che vada oltre la questione del “no alla tav in valdisusa” bisogna fare uno sforzo in più.
    Dobbiamo farlo tutti, è ovvio, a scanso di equivoci mi ci metto anch’io per esteso, ma è uno sforzo che va fatto.
    In questo momento l’idea dominante è quella che ha espresso Castelli “C’è una grande ferrovia che parte da Kiev (e un giorno da Pechino) e arriva a Lisbona , noi siamo al centro di questa grande opportunità. E’ interesse di tutti noi non rimanere tagliati fuori da questa grande opera. Non possiamo consentire che per i capricci di 4 gatti della valdisusa l’Italia perda questa grande occasione”
    A margine di questo discorsetto ci sta pure il pippone sulla violenza, sui poveri poliziotti e sui posti di lavoro che si fanno perdere bloccando i cantieri.
    20 anni di studio e lavoro notav contro questo pistolotto. Questo è il problema da risolvere.

  80. @ thiswas
    il commento a cui rispondi è nel thread, tutto normale.

  81. @Wu Ming 1
    ok, grazie. E’ che le email mi sono arrivate in un ordine diverso… comunque tutto ok.

  82. @ thiswas

    ho capito cos’è successo: quando un commento (poniamo lasciato alle 15) finisce in moderazione (e succede al primissimo commento di ciascun iscritto a Giap), la notifica partirà solo dopo il suo sblocco (poniamo alle 15:30), ma naturalmente nel thread apparirà tra i commenti lasciati alle 15.

  83. @thiswas

    in realta’ c’e’ molto piu’ passaparola di quel che credi. chi legge i documenti o frequenta i blog poi parla con altre persone, mette in circolo idee, ecc. c’e’ molta gente, in tutto il nord italia, che non e’ per niente d’accordo con la costruzione del TAV. ci sono gli ambientalisti, gli agricoltori, i comitati di pendolari, le comunita’ slovene del carso… certo, ci sara’ sempre una maggioranza di persone a cui non frega niente della questione, e che ripete a pappagallo le parole di castelli. ferrovia lisbona-kiev, figo! e magari poi la prolunghiamo fino a pechino! (che notoriamente e’ giusto un po’ piu’ in la’ di kiev). per capire quanto gliene importa *realmente* all’ italia dei collegamenti con l’ est, basta guardare la ferrovia elettrificata a doppio binario che unisce trieste a lubiana, costruita dagli austriaci piu’ di cento anni fa e facilmente modernizzabile con pochissima spesa. in attesa del nuovissimo meraviglioso traforo di 24km che sara’ pronto nel 2050, cioe’ quando io avro’ 80 anni, questa linea oggi e’ percorsa da non piu’ di due treni passeggeri e tre-quattro treni merci al giorno. prima della caduta del muro di berlino, da trieste partivano treni per mosca, praga, budapest, belgrado… ora, se voglio andare in treno a zagabria, devo andare in autobus fino alla stazione di divača, che e’ la prima cittadina slovena oltre il confine. queste cose la gente le vede in prima persona, e capisce subito che i valsusini hanno ragione, anche se stanno a 700km di distanza.

  84. @ RobertoG
    Sono d’accordo, infatti sottolineavo l’unicità della lotta contro la TAV in Val di Susa (perchè poi, non dimentichiamocelo, di lotte contro la TAV ne è piena il resto della penisola e nessuna ha veramente prodotto nulla, tanto per dire la TAV esiste anche a Roma, e di passaggio ha anche sventrato un quartiere storico, Casalbertone).
    Il mio appunto era che secondo noi è difficile, e probabilmente anche pericoloso, farne un paradigma per le nuove lotte.

  85. @thiswas
    non ho visto la trasmissione in diretta, ero a Chiomonte nel pomeriggio ma dopo il giro nelle vigne ho preferito scendere a valle. L’ho guardata questa mattina e, premesso che non credo che in un talk show del genere sia semplice esporre le nostre ragioni, non mi pare si siano commessi “errori” così devastanti. In questi mesi hanno cercato di ridurci a un problema di ordine pubblico e le parole e la presenza delle donne del movimento era spiazzante per il frame “sono alcune centinaia di violenti” (che tirano pietre di 40 kg con le catapulte in testa alle forse dell’ordine).
    Poi. Tu dici che dovremmo essere percepiti come un movimento che va oltre la questione del “no alla tav in valdisusa”. Ma perchè? L’opposizione al tav nasce da motivi ambientali (20 anni di cantieri devastanti per la nostra valle) ed economici (le esigenze di traffico attuali non giustificano un tale enorme investimento, la linea storica è sotto utilizzata). A queste motivazioni sono legate immediatamente altre cose: difesa dei beni comuni, lotta contro chi vuole arricchirsi attraverso le grandi opere, poca fiducia nella delega, l’esigenza di una partecipazione diretta alle scelte che riguardano le nostre vite, e via dicendo. Questi temi ci hanno fatto incrociare decine di altre lotte e migliaia di compagni: dai No Dal Molin alle lotte in Campania, dagli operai della Fiom ai ragazzi dell’Aquila. Queste connessioni erano visibili il 3 luglio, nei mesi precedenti e in quelli successivi, e anche in questi giorni in cui le feste del pd in varie parti d’italia sono funestate da incursioni di bandiere col treno crociato.
    Ma, per quanti corollari e conseguenze la lotta No Tav porti con sè, il punto centrale è sempre quello che tu hai chiamato il “no alla tav in valdisusa”, quello è il nostro fulcro. E noi dobbiamo tenere fermo quel punto lì, cosa estremamente ardua dato che contro di noi c’è l’intero arco parlamentare, gli industriali al gran completo, 2 sindacati e mezzo, buona parte dell’informazione. Però, tra mille difficoltà e qualche errore che ovviamente si commette, mi pare che ci stiamo comportando bene e li cacceremo, metro per metro, uno per uno.

  86. Ciao tutti, splendido thread.

    Due cosine al volo e molto confuse, spero di non essere troppo banale.

    Sui NoTav in tv: io non la guardo praticamente mai, non li ho visti. Vi leggo e non mi stupisce che siano “venuti male”. Non poteva essere differente. Non c’è un solo media mainstream che si permetta di farli “venir bene”. In compenso ho l’impressione (sto a Torino e ho le “spie” nel movimento ;-) che a una parte dei NoTav i media interessino fino a un certo punto, e anche l’opinione pubblica e il pensiero dell’italiano medio. Quindi un dubbio: dal punto di vista NoTav, il problema esiste? Non sarà che invece il problema della rappresentazione esista più che altro *fuori* dalla Valsusa, presso i simpatizzanti esterni? (lo so che questo magari stride in qualche modo con #strugglesinitaly, e vi chiedo perdono).
    Come accenna sopra @uomoinpolvere: non c’è il rischio di tirare per i capelli i NoTav quando si cerca di farne qualcosa di più largo?

    Sul Nimby. Non sono leghista neanche sotto tortura, ma voglio estremizzare e mi chiedo (correggetemi, cazziatemi) se una opposizione anche su base territoriale o “orticellare” a qualsiasi presunto interesse nazionale non sia in fondo affine alla “renitenza alla leva”, al rifiuto di andare in guerra. L’interesse nazionale è sempre e comunque una roba bellica, perché il concetto stesso di nazione lo è (e questo, per chiarire, vale anche e soprattutto per le “piccole patrie”).
    Questo è un argomento bifido e sdrucciolevole, e l’equilibrio è delicato e confuso, lo so… Personalmente, ad esempio, vivo come un problema recarmi in SudTirolo senza parlare tedesco, o in Val Maira senza parlare occitano. Eppure c’è tanta brava gente di sx. che vede come fumo negli occhi questi che io ritengo diritti fondamentali di ogni popolazione. Mi chiedo quindi se esista un possibile pericolo: vedere i vari Nimby come ostacoli all’allargamento di un movimento quando magari, con i dovuti distinguo, potrebbero esserne “mattoni”. In fondo non è questo “agire localmente, pensare globalmente”?

    Perdonatemi le molte confusioni :-)

  87. @f.s.
    seguo il tuo ragionamento e provo a spiegarti cos’è che sta alla base del mio.
    Partiamo dal fatto che tutti riteniamo la tav sbagliata per le ragioni che sappiamo, che non sono solo di carattere ambientale o prettamente locali, ma che riguardano il progetto di sviluppo del paese (e che qui non ripetiamo perché tutti sappiamo di che parliamo). Questa premessa è obbligatoria, perché è la base che rende la lotta notav diversa, ad esempio, dalla lotta contro la discarica di Chiaiano.
    Partiamo anche dal fatto che qui ci si pone non tanto di analizzare chi e come sta portando avanti la lotta contro la tav ma di come questa lotta possa essere vinta.
    A mio sommesso avviso esistono due modi teorici di vincere questa battaglia. Quello “militare” e quello politico.
    Quello “militare” (che consiste sostanzialmente nel fermare con la forza il cantiere finché qualcuno non decida di rinunciare all’opera) è, secondo me, perdente. Non a caso il governo è sceso su questo piano di confronto (le cariche, gli scontri…) e, anzi, lo cerca continuamente, addirittura provocando (“i notav vogliono il morto” et similia) e, per farlo, ha allestito un falso cantiere come quello che abbiamo visto in tv. Perché considero questo piano di lotta perdente? Sostanzialmente per la sproporzione dei mezzi a disposizione.
    Rimane il piano politico. Sotto questo aspetto la lotta non coinvolge solo più chi vuole iniziare i lavori e chi si oppone fisicamente a che ciò accada. Ci coinvolge tutti. Ed è una battaglia che ci vede fortemente svantaggiati, perché le forze politiche esistenti appoggiano il progetto Tav al 90% e oltre. Le sponde che si offrono a chi non vuole la tav sono sostanzialmente m5s, i 2 partiti comunisti, quel che rimane dei verdi e pochissimo altro. Praticamente niente.
    Per ribaltare la situazione ci vuole un movimento che sappia convincere i cittadini della giustezza delle proprie convinzioni contro i partiti e contro i mezzi di informazione mainstream. Per convincere gli italiani che la tav è un pessimo affare per tutti bisogna, senza abbandonare le ragioni locali, rivelare le connessioni tra i vari progetti e, quindi, tra le varie lotte che ci sono attualmente. Bisogna che si rendano chiare le implicazioni del modello tav per il resto del paese. Questo per me significa diventare un movimento in grado di giocarsi la partita sul piano politico.
    Qui veniamo al mio primo intervento, notav è questo?
    Secondo me ancora no, e lo dico con la preoccupazione di chi si sente coinvolto e vede il nemico che sta per vincere la partita.
    Quando ho citato il movimento per l’acqua pubblica l’ho fatto perché quella lotta ha saputo vincere la battaglia sul piano politico partendo da una situazione molto simile a questa. Lo schieramento politico a favore della privatizzazione era lo stesso che appoggia la Tav. Addirittura moltissimi dei livelli politici locali si erano spinti in avanti su questo piano (non si contano i consigli comunali che avevano deliberato in materia, che avevano cominciato a cambiare gli statuti delle municipalizzate, qualcuno aveva cominciato già a selezionare i privati – tra cui Firenze). I mezzi di comunicazione hanno trattato chi si opponeva all’acqua privata come e peggio dei notav. Addirittura il referendum è stato oscurato e lo si è spostato in una data scomoda, nascosta tra ballottaggi e amministrative.
    Eppure quella lotta è stata vinta. Ed è stata vinta perché la rete contro lo scempio dell’acqua è stata ampia, diffusa, convincente, in qualche caso scaltra e persino furba (il messaggio durante la campagna referendaria è stato semplificato al limite della banalizzazione).
    Ora, se la mia analisi è sbagliata e la lotta alla tav si può vincere (e si vince) in modo diverso, io sarò l’uomo più felice della terra. Ho paura che non sarà così e, precisamente, ho paura che il governo ottenga che lo scontro provochi una tragedia, che in questo modo si isoli e si indebolisca il movimento e che così la tav si faccia.
    Scusate la prolissità.

  88. Rileggendo mi sono accorto che, mentre scrivevo, @f.s.pubblicava: “Ma, per quanti corollari e conseguenze la lotta No Tav porti con sè, il punto centrale è sempre quello che tu hai chiamato il “no alla tav in valdisusa”, quello è il nostro fulcro.”
    Esattamente quello che intendevo anch’io.

  89. @thiswas

    Scusami in anticipo: ti vedo “solo contro tutti” e adesso mi ci metto anch’io con qualche piccola opinione (peraltro ho molto rispetto per le tue e non le sento così distanti).

    Quello che dici del “piano militare” secondo me non è scontato. Perché quando uno stato è costretto a usare la forza contro le ragioni, prima o poi succede la cazzata (senza arrivare alla tragedia, speriamo) e questo ne indebolisce il consenso, per cui lo stato stesso è costretto ad alzare il livello dello scontro, perdendo ulteriore consenso e così via. Non è detto che perda, ma nemmeno che vinca. Per vincere sicuro deve imporre un numero crescente di eccezioni alla democrazia, e su questo punto la partita è apertissima. Per ora ha ottenuto la dimostrabilità tramite YouTube che Bolzaneto e la Diaz sono adesso/qui. Che quando partono le cariche vengono mandate all’ospedale le signore di mezza età, che quando arrestano nel mucchio prendono le infermiere volontarie e le tengono in gattabuia senza uno straccio di pretesto. E come fa notare @tuco, il passaparola conta eccome. Prova con i tuoi amici, con i miei funziona abbastanza :-)

    Quanto al “piano politico” mi pare (se ho ben capito) che tu aspetti la manna dal cielo: “Per convincere gli italiani che la tav è un pessimo affare per tutti bisogna, senza abbandonare le ragioni locali, rivelare le connessioni tra i vari progetti e, quindi, tra le varie lotte che ci sono attualmente. Bisogna che si rendano chiare le implicazioni del modello tav per il resto del paese”. Io sono molto, molto scettico sul fatto che questo possa avvenire: la gente si muove solo quando ha le fiamme al culo. L’acqua pubblica era un problema che ognuno aveva in casa, mentre un treno o un ponte sembrano sempre, o possono facilmente essere fatti passare, come “cazzi altrui” o al contrario come “sacrificio per la Patria”, piaccia o non piaccia.
    Sono due lotte diverse, secondo me il NoTav continua a essere un oggetto strano da troppi punti di vista per pretendere che diventi un paradigma nazionale. Per ogni contesto occorre una strategia che va creata sul posto e sul momento. La convergenza sarà un prodotto, non un programma; un punto d’arrivo, non di partenza.
    Almeno credo.

  90. Esco un attimo dal tema degli ultimi interventi per una proposta di (auto)chiarificazione terminologica sulla questione del rapporto fra “lotte” e “movimenti” sollevata da EveBlissett e uomoinpolvere.

    Secondo me bisogna distinguere almeno tra *lotta*, *movimento*, *mobilitazione* e *piattaforma*. A sua volta, un “movimento” può essere inteso sia come un singolo soggetto politico (una *organizzazione* diciamo) o come sintesi di soggetti politici diversi.

    Popolo Viola, M5S e Italian Revolution sono nati tutti come *mobilitazioni*. Alcune mobilitazioni “cagliano” in un movimento politico in piena regola (tipo M5S) altre rimangono allo stato di mobilitazioni – spesso superficiali, inconsapevoli, puramente mediatiche – e alla lunga o vengono o superate dal corso degli eventi oppure cadono sotto i colpi delle proprie contraddizioni. La difficoltà maggiore che incontrano queste realtà è proprio quella di intercettare in modo organico e profondo le realtà di *lotta*, perché la narrativa che esprimono gioca spesso e volentieri su un livello universalistico, astratto rispetto alla concretezza delle lotte.

    Le *lotte* possono essere di tipo diverso. Possono riguardare il lavoro, l’ambiente, la vivibilità di un luogo, l’istruzione e l’università, l’erogazione di servizi ecc. I soggetti che le esprimono possono essere diversissimi, e altrettanto dicasi degli esiti potenziali di ogni singola lotta. In alcuni casi si tratta, marxianamente, dell’esplosione di contraddizioni oggettive profonde; in altri casi degli “effetti collaterali” di simili contraddizioni; in altri casi ancora, infine, le lotte possono addirittura svolgere una funzione reazionaria, magari perché tendono a rimuovere la contraddizione o a sopprimere i soggetti che la esprimono. La comparsa di un *fattore soggettivo* in grado di amplificare e riunire le istanze della lotta e di “comunicarle” al resto della società per universalizzarle è in ogni caso fondamentale.

    Un *movimento* (si tratti di un singolo soggetto politico o di una sintesi di soggetti diversi) è appunto il fattore soggettivo che fa guadagnare alla lotta quel grado di unità, di proiezione sul lungo termine e di universalità necessario per far sì che non si esaurisca, e magari per unirla ad altre lotte. Il movimento No Tav mi sembra essere un “fattore soggettivo” di questo tipo; la lotta dei valligiani contro l’alta velocità, anziché esaurirsi e darla vinta alla tracotanza di stato e padroni, è ancora viva e ha acquisito un’importanza simbolica così forte proprio perché è stata in grado di esprimere un fattore soggettivo capace; un esempio da cui, per quel che mi riguarda, c’è solo da imparare.

    La *piattaforma*, infine. Dando vita ad una piattaforma, movimenti, lotte, mobilitazioni diverse cercano un terreno comune su cui elaborare un insieme di rivendicazioni. A differenza di quanto accade nei “movimenti” in senso stretto, la piattaforma non comporta una sintesi vera e propria; i diversi soggetti che partecipano mantengono la propria identità, e contraddizioni e scazzi restano sempre dietro l’angolo. L’appello “Dobbiamo fermarli” e il 15O mi sembra mirino alla costruzione di una piattaforma intesa in questo senso, più che di un movimento propriamente detto…

    Ho sentito il bisogno di riflettere su queste distinzioni, all’apparenza soltanto terminologiche, perché mi sono reso conto di quanta confusione regni all’interno delle realtà che stanno nascendo in questo momento. Realtà che, come IR, si autodefiniscono “movimento” (persino rivoluzionario!) senza esserlo, e senza aver ancora capito se vogliono diventare un soggetto politico (nel qual caso dovrebbero dire addio a certo spontaneismo ingenuo, organizzarsi seriamente e capire su quali *lotte* basare la loro azione), o se vogliono fungere da piattaforma (nel qual caso dovrebbero scontrarsi con la “concorrenza” di piattaforme ben più ampie e riconoscibili).

    Condividete questa analisi? Cosa ne pensate? Pensate vada aggiunto/modificato/specificato qualcosa?

  91. penso possa essere utile alla discussione:
    http://titanpad.com/15shm-lessons-learned

    “Lessons learned”, note dall’incontro Hub Meeting di barcelona (http://bcnhubmeeting.wordpress.com/)

  92. @ VecioBaeordo 17/09/2011 at 1:10 pm

    il problema di riuscire a distinguere una lotta che nasce sul territorio, ma ha valore universale, da una che nasce sullo stesso territorio, ma ha carattere esclusivo e regressivo, e’ fondamentale. da noi al nord questo problema lo sentiamo da almeno vent’anni. non conosco la situazione al sud, ma credo che anche li’, per motivi diversi, il problema si ponga con urgenza. secondo me la questione si puo’ riassumere nella contrapposizione tra gli enunciati “vogliamo essere padroni a casa nostra” (slogan leghista per antonomasia) e “non vogliamo padroni a casa nostra” (che credo sia il senso profondo del messaggio che ci arriva dalla val di susa). [e’ chiaro che quando si dice “non vogliamo padroni a casa nostra”, la negazione davanti a “padrone” connota immediatamente in senso inclusivo l’ aggettivo “nostra”].

  93. @tuco

    Illuminante. Concordo che le parole chiave siano “padroni” “casa” “nostra”. La tua formulazione della distinzione è il massimo possibile quanto a sintesi e precisione (come al solito).

    Nel caso NoTav tuttavia credo di capire, da quanto mi raccontano i miei amici in valle, che la distinzione universale/regressivo che fai (e che condivido) non sia vissuta come fondamentale da chi sta lottando sul posto. Ho l’impressione che ciò che conta in questo momento sia la compattezza contro il nemico, e che nessuno possa essere buttato fuori perché tutti sono necessari. Nessuno butta fuori i leghisti (che ci sono, senza bandiere come tutti gli altri) come nessuno butta fuori chi va alle reti accettando lo scontro anche fisico con la polizia. Nessuno prende le distanze da nessun altro. Il molteplice è la regola. Questa sembrerebbe una delle pochissime eventuali linee guida del movimento, forse la migliore. Si cerca *caparbiamente* ciò che unisce (no al tav), e si trascura *platealmente* ciò che potrebbe dividere, o che in altri momenti dividerebbe. Questo a quanto pare tiene insieme e mette d’accordo tutti.
    Io non riesco a far concordare questo fatto con la distinzione di cui sopra. Mi viene il dubbio che nell’emergenza perda importanza, che sia un lusso da tempi di pace; come forse molte altre distinzioni.
    In fondo anche la Resistenza ha unito comunisti, liberali, cattolici, anarchici e quant’altro. Poi a scannarsi ci hanno pensato dopo, in tempo di pace, appunto.
    Non so… se volete ditemi dove sto sbagliando, che pezzi mi sto perdendo.

  94. @ VecioBaeordo

    Come dice tuco, e come notavo anch’io nel mio post precedente, *lotte* regressive ed esclusive ci sono. Sono lotte a pieno titolo; e dico sottolineo questo proprio perché secondo me “lotta” è un termine neutro, il cui significato concreto e le cui connotazioni particolari vanno specificate di caso in caso.

    Che cosa caratterizza allora una lotta regressiva, distinguendola da una progressiva? Secondo me, il fatto che la lotta sia in grado o meno di articolare positivamente, in una prospettiva appunto progressista, quelle contraddizioni oggettive da cui nascono le occasioni di conflitto.

    Faccio tre esempi. I conflitti relativi al mondo del lavoro sono il riflesso diretto delle contraddizioni del sistema capitalistico. L’opposizione alle grandi opere inutili è invece il frutto degli “effetti collaterali” di queste contraddizioni (nel senso che lo stesso capitale che sfrutta i lavoratori o li lascia disoccupati, ha bisogno delle grandi opere inutili per trovare uno sbocco d’investimento, e lo stato gli serve l’occasione su un piatto d’argento). Infine, ci sono lotte che nascono addirittura *in reazione* alle contraddizioni, come gli scioperi fiscali a vocazione poujadista che vengono evocati di tanto in tanto, o *alcuni* movimenti di difesa degli interessi della piccola imprenditoria come la famosa LIFE (Lega degli Imprenditori Federalisti Europei), responsabile di alcune azioni “eclatanti” alla fine degli anni ’90.

    Ora, nel mondo del lavoro la lotta può tranquillamente assumere una dimensione regressiva se, ad esempio, si traduce nella difesa del diritto di precedenza dei lavoratori locali rispetto ai lavoratori immigrati. Nell’ambito della protesta contro le grandi opere inutili, i rischi (deriva “nimby” localistica e particolaristica) sono già stati sviscerati a sufficienza. Nel terzo caso, infine, la regressione è nella natura stessa delle rivendicazioni.

    Ora quello che si nota è che in tutte e tre le occasioni viene rimossa l’origine delle contraddizioni che hanno prodotto la situazione di conflitto e, quindi, innescato la lotta. In tutti e tre i casi, in altre parole, viene a mancare la comprensione del meccanismo fondamentale attraverso cui si creano le condizioni per l’antagonismo sociale: vale a dire, la dinamica del capitale.

    Questa almeno è la mia idea. Secondo me una lotta è tanto più progressiva quanto più rafforza e rimarca la sua “vocazione anticapitalista”. Il presupposto su cui si basa il ragionamento è, ovviamente, che il capitalismo sia l’origine delle contraddizioni economiche, sociali e politiche che, in un modo o nell’altro, innescano le lotte. Se neghi il presupposto, il ragionamento smette di essere valido e la distinzione fra lotte progressive e lotte regressive va fatta poggiare su altre basi.

  95. @veciobaeordo

    hai ragione, c’e’ tutta una gamma di sfumature tra i due enunciati. e gli schemi non collimano mai con la realta’, che e’ ben piu’ complessa. pero’ certe volte uno schema, se usato come ipotesi di lavoro e non come gabbia mentale, puo’ essere utile per darsi un orientamento e una direzione, e per cominciare una buona volta a dipanarla, questa maledetta complessita’. :-)

    @ compagni wuminghi

    ho seguito la polemica sui tweet qui a fianco. concordo: “se i movimenti stanno già producendo nuovi, piccoli inquisitori delle vite altrui, non siamo messi benissimo”. che dire: play it fucking loud!

  96. @ Tuco e tutt*

    io registro un problema, che provoca in me (e sicuramente anche nei miei compagni di collettivo) un brutto dejà vu.

    Come sapete, da quando è partito l’attuale ciclo di lotte mondiali noi abbiamo iniziato a riflettere – insieme a tutti voi e a tante altre persone – su quel che sta accadendo, ma sempre da scrittori e narratori quali siamo, es. interrogandoci sulle “narrazioni tossiche”, su come viene raccontata una rivoluzione, trovando esempi nella letteratura o nell’interzona tra letteratura e filosofia.

    Invece, qualcuno ci sta scambiando per quel che non siamo, es. una “struttura di servizio” di qualsivoglia movimento, una specie di “ufficio di agitazione e propaganda”. E quindi si lamenta perché il tal giorno non abbiamo adempiuto ai nostri presunti compiti, non rilanciando il tale tweet, non seguendo come avremmo dovuto la tale manifestazione etc.
    Addirittura, ci rimprovera di condotta scarsamente rivoluzionaria perché mentre era in corso la tale mobilitazione non eravamo su Twitter a valorizzarla etc.

    Noi con questa rappresentazione di merda abbiamo già dato dieci anni fa. Abbiamo commesso i nostri errori, e fatto la nostra autocritica:
    http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/giap6_IXa.htm
    Come scritto oggi su Twitter, siamo scrittori che
    1) provano a dare un contributo come, quando e nella misura che possono, senza tradire la propria specificità né snaturare il proprio ruolo (cosa che non servirebbe a nessuno;
    2) si includono in tutte le critiche. Ogni osservazione critica che facciamo è rivolta a un “noi tutti” che ci implica, e parte sempre dal rispetto per lo sbattimento di chi lotta e da una condivisione dei fini.

    Ora, negli ultimi giorni è successa una cosa molto bizzarra.

    Da quando uomoinpolvere ha lanciato la proposta di “Struggles in Italy” e si è formato il gruppo di discussione aperto a chiunque voglia prendervi parte, su Twitter siamo stati coinvolti (proprio noi, non i promotori del progetto) in almeno tre scambi di tweet molto sgradevoli, con persone che criticavano preconcettamente quell’idea e/o erano convinte che fosse “cosa nostra”.
    Va invece precisato che noialtri – proprio perché troppo “ingombranti” – non siamo entrati nel gruppo di lavoro, non siamo iscritti alla mailing list e ci siamo limitati a dare qualche suggerimento usando l’hashtag #StrugglesinItaly (*).

    Abbastanza rapidamente, questi scambi di tweet sono culminati in insulti: uno ci ha dato degli “idioti”, un altro – il miserabile sbirrucolo che ci accusava perché “assenti” durante la giornata di lotta di ieri – ha detto che siamo un “clan” che si interessa alle lotte per ragioni di “mercato” (quando invece è molto più plausibile che tale interesse ci alieni la fetta “meno schierata” dei nostri lettori).

    Ora, noi abbiamo idee abbastanza chiare su come tutelare noi stessi: con la trasparenza, le spiegazioni, e la continua ricollocazione dell’accento sul nostro essere scrittori e sul fatto che questo è il blog ufficiale di una band di romanzieri. Però io mi pongo (e pongo a voi) due domande:

    1) come mai il semplice annuncio di un blog per raccontare le lotte italiane ai lettori esteri ha generato ostilità e aggressività, e critiche prima ancora che venga pubblicato il primo post? Cosa rivela una simile reazione, certamente minoritaria ma – lo abbiamo visto – abbastanza frequente? Uno ha addirittura detto che, criticando l’assenza di materiali in inglese sulle lotte italiane, abbiamo “offeso la nazione”!

    2) noi vogliamo rispettare l’autonomia di tutti i progetti, “Struggles in Italy” compreso, e tutelarli dal nostro possibile “ingombro”, ma… come? Come possiamo sfilarci da un progetto in cui non ci siamo mai infilati??

    Spero di essermi fatto capire, ho scritto di getto.

    * – Hasthag molto specifico, che serve a discutere di come e quali lotte italiane raccontare in articoli da scrivere e postare in inglese, spagnolo, francese etc.
    Nell’ultimo caso, la persona che ci attaccava era anche convinta che #strugglesinItaly ambisse a sostituire tutti quelli relativi a lotte e mobilitazioni precise, es. #piazzaffari, #notav etc. e ci rimproverava per “aver segnalato gli hashtag sbagliati” (!?)

  97. @ Wu Ming 1

    Non è che, per caso, questi atteggiamenti rivelano semplicemente che in giro c’è gente un po’ stolida e alla quale magari noi altri stiamo pure sul cazzo? Perché in questo caso né l’una né l’altra sarebbero grandi novità di cui discutere…

  98. @ Wu Ming 4

    diciamo che questo è il “nocciolo invariante”, ma qui c’è anche un aspetto peculiare, cioè gente che si incazza perché qualcuno vuole raccontare le lotte italiane nel resto del mondo. Come se usare l’inglese – cosa che del resto fanno tutti gli altri movimenti in giro per il mondo, dall’Egitto alla Grecia al Cile – fosse un voler “fare i fighi”. Pensiamo ai tweet deliranti della tizia dell’altro giorno, roba tipo: “Cosa volete, chiedere aiuto agli americani perché vengano qui a IMPORTARE LA DEMOCRAZIA???”, oppure l’altro che ci chiedeva: “Non sarebbe il caso di parlare una volta tanto di quello che va”?

  99. Sono d’accordo con WM4, anche se fate benissimo a chiarire una volta di più la vostra posizione.

    Sull’atteggiamento da tenere nei confronti di certi provocatori, secondo me, c’è qualcuno che ha detto la proverbiale “ultima parola” circa 700 anni fa:

    “Fama di loro il mondo esser non lassa;
    misericordia e giustizia li sdegna:
    non ragioniam di lor, ma guarda e passa.”

  100. …E tra l’altro, le lotte che si vogliono raccontare *sono* “quello che va” :-)

  101. @ Wu Ming 1

    Be’, ipotizzo:

    1) pigrizia linguistica: in Italia l’inglese è ancora masticato male da troppa gente che magari non ha tempo né voglia di faticare a scrivere/leggere in una lingua straniera;
    2) pigrizia mentale: spiegare a un uditorio straniero la situazione delle lotte in Italia significa provare a vedersi da fuori, cercare modi semplici per illustrare situazioni peculiari e complesse, uscire dal refrain.

  102. Cerco di rispondere sul primo punto, perché sul secondo non saprei bene come fare, e rispondo anche a WM4.
    Non credo sia solo gente stolida nei vostri confronti in giro.
    Per come la vedo io, accanto a tantissima gente che si sbatte nelle lotte quotidianamente (e vorrei essere *davvero* fra quelli, mea culpa, a proposito del “noi”) c’è altra gente che superficialmente o meno dà per scontate un sacco di cose, e che ignora più o meno deliberatamente gli sforzi che si fanno. C’è anche lo sport tipico del criticare non costruttivamente tutto quel che si fa, e l’ho vissuto parecchie volte.
    Per fare un esempio banale, ieri ho risposto ad un mio follower che scriveva: “dico addio a un paio di voi. è inutile far finta che esista una rivoluzione qui solo perchè si spara qualche twit in inglese.”
    Ecco, frega nulla di perdere un follower, ma ho voluto rispondergli per cercare di spiegargli che partiva con preconcetti. E ho cercato di presentare il progetto #strugglesinitaly. Pochi tweet, ma credo non siano stati vani. Lamentava che le cose bisognerebbe farle conoscere prima in Italia, ho spiegato che le cose vanno di pari passo, poi ha capito che *noi* diamo priorità a fare da cassa di risonanza per l’estero che alle lotte interne (O_o…) e sicuramente m’ero spiegata male io e gli ho risposto che entrambe le cose sono importanti. Alla fine credo (spero) di aver chiarito, però questi preconcetti mi danno da pensare. C’è un’abitudine a sparare nel mucchio, a sentirsi esclusi a priori. Forse solo a non essere abituati a concepire quel *noi*.

  103. @ Wu Ming 4

    questi sono sicuramente i due motivi di chi non lo fa in prima persona. Ma… insultare gli altri che lo fanno? Questo è un passo successivo, e nemmeno breve, che non deriva necessariamente dalla premessa.

  104. @ Wu Ming 1

    …”insultare gli altri che lo fanno?”. Credo che Sweepsy abbia risposto. Quando uno non sa come agire, a fronte di una situazione che percepisce comunque come indecente e insopportabile, tende facilmente a posizioni pregiudiziali e e livorose, a gettare merda su chi prova a fare qualcosa, perché sicuramente è la cosa sbagliata o è fatta in malafede. E’ un segno del malessere che pervade il paese.

  105. @WuMing4

    Secondo me le due pigrizie di cui parli non bastano a spiegare le ragioni di questi attacchi. Il fatto è che l’*internazionalismo* è oggettivamente una prospettiva non molto comune, oggi. Se ci fosse la chiara percezione che le lotte che risorgono in tutto il mondo hanno la stessa matrice profonda e quindi *devono* dialogare ed interagire, non ci sarebbe pigrizia o scetticismo che tenga. Ma c’è ancora un sacco di lavoro da fare in questo senso…

  106. Secondo me un progetto del genere viene criticato così tanto perché:
    1) come già detto, c’è tanta gente che ce l’ha con voi
    2) come detto proprio qui sopra da WM4, c’è tanta gente che ce l’ha con tutti
    3) è la solita visione ombelicale del mondo, di chi è portato a pensare che i problemi siano generati qui (da Berlusconi e dai vizi italici) e qui vadano risolti.
    4) come conseguenza del punto 3, si pensa che parlare in inglese di quello che accade in Italia sia un modo per sfilarsi e ridacchiare da lontano, facendo finta di non esserci in mezzo, di essere diversi.

  107. Con riferimento al video postato da Tuco, qui:
    http://www.youtube.com/watch?v=DdRZ1gFhZP0
    c’è il video completo di Dylan che suona Like A Rolling Stone a Manchester nel 1966, uno dei momenti *cruciali* della storia del rock (quasi un Evento come lo intende Badiou). In mezzo al pubblico c’erano alcuni contestatori, convinti che Dylan fosse un traditore perché era passato dal folk di protesta degli esordi al rock elettrico e acido. Dopo il primo set del concerto (solo voce e chitarra), Dylan si ripresenta in scena con la strumentazione elettrica. Subito prima di L.A.R.S., un tizio con scarsissimo senso delle proporzioni gli grida: “Giuda!!!”. Lui gli risponde con un apparente non sequitur: “Non ti credo, sei un bugiardo.” poi dice alla band (che è The Band): “A tutto volume, cazzo!”. Gli otto minuti che seguono (quelli del video linkato sopra) sono da pelle d’oca e ogni volta mi lasciano a bocca aperta: galvanizzato dalla sfida, Dylan *sbatte in faccia* ai suoi troll la canzone, in un’interpretazione “a screzio”, rabbiosa, latrata, per il 1966 ineditamente *dura*, che deve aver lasciato il pubblico attonito. Come vedere esplodere una supernova.

  108. @wm*

    Provo una spiega alternativa, terra-terra (oh, il mio livello è quello) e non troppo seria per gli “incidenti” su twitter, vi spiace?

    a) avete > 6Kfollowers, quindi ogni cosa che fate là sopra fa un casino pazzesco e genera le conseguenze dei seguenti punti c e d

    b) i messaggi brevi si prestano a essere isolati e fraintesi, specie da chi non si sbatte per capire i contesti (il mio povero Bateson si rivolta nella tomba ;-)

    c) mi pare dimostrabile, se non l’esistenza, quantomeno la percepibilità di una specie di “giro dei wuming” su twitter, che più o meno include coloro che più frequentemente interagiscono costruttivamente con voi e viceversa

    d) poi esiste, forse meno percepibile, un “giro allargato” (nel quale mi includo) di twitteri che vi annoverano tra i propri riferimenti, non solo in campo letterario, e non di rado vi retwittano; il che da una parte allarga lentamente entrambi i giri (punti c e d) e dall’altra accresce velocemente il problema b

    e) è abbastanza evidente che #strugglesinitaly nasce dal giro del punto c, anche se voi ve ne tenete fuori. La cosa non può non prestarsi all’equivoco di vederla come una vostra diramazione, anche perché se ne parlate voi torniamo al punto a.

    f) per sua natura twitter tende a far perdere la successione e a far vivere l’istante. Chi vi rimprovera di staccare per andare a cambiare i pannolini (tranquilli, ci sono passato :-) probabilmente a sua volta si è perso dei passaggi, perché come sappiamo tutti è durissima seguire le cose, su twitter, ma è altrettanto facile pensare, sbagliando di brutto, di essere sulla cresta dell’onda delle cose che vanno per il semplice fatto di essere lì e seguire un hashtag.

    A me pare che la percentuale di gente che c4c4 il c422o rispetto a quelli che non lo fanno sia comunque trascurabile, e comunque il problema mi sembra endemico di twitter e della sua natura. Non potete farci nulla, credo, anzi fate già punti paradiso a bigonce dando retta a tutte le pisciatine degli ultimi arrivati (tra i quali prudentemente mi annovero).

    Don’t worry, be happy! :-)

  109. secondo me adrianaaaa ha centrato il punto: “è la solita visione ombelicale del mondo, di chi è portato a pensare che i problemi siano generati qui (da Berlusconi e dai vizi italici) e qui vadano risolti”.
    sono 17 anni che ci raccontiamo che i problemi del paese iniziano e finiscono con berlusconi. chi cerca di mostrare che non e’ vero, che certe questioni vanno lette e affrontate con uno sguardo piu’ ampio di quello nazionale, ecc. (dove l’ ecc. sta ad indicare tutte le questioni sviscerate qui in questi mesi), viene percepito come un “giuda”, uno che cerca di tirarsi fuori dall’ unica lotta che conta, quella contro berlusconi. aggiungiamo che negli ultimi anni l’ unica risposta che la “sinistra” (?) mainstream ha saputo dare al leghismo e’ stata il recupero della retorica risorgimentale della “nazione”, e abbiamo un panorama abbastanza chiaro della merda in cui siamo sprofondati un po’ alla volta e senza rendercene conto.

  110. @ Vecio Baeordo

    OT solo per dire, da genitore a genitore, che per noi la fase dei pannolini è passata da tempo :-) La fase attuale ha una diversa *criticità*: in Emilia-Romagna domani riaprono le scuole, e soprattutto per due nostri bimbi che vanno in prima elementare, ieri era l’ultimo sabato della vita-di-prima, con comprensibile bisogno extra di attenzione e dedizione, comprensibili nervosismi grandi e piccoli (ci siamo passati tutti quanti, anche se non lo ricordiamo più) etc. etc. Oggi in casa mia abbiamo fatto insieme lo zainetto, ci sentiamo su una soglia importante. Domani c’è un rito iniziatico.

  111. @wm1
    Ok, i pannolini erano una metafora, estendibile nel tempo a piacere (la mia prole è alle superiori, ma a volte la metafora la sento ancora molto attuale ;-)

    OT per OT, ho sempre apprezzato il vostro mettere in pubblico, anche in passato su Giap, il fatto di essere genitori, di dover pensare alle famiglie. Uno, perché sono certo che il fatto di esserlo in qualche modo modifichi il vostro “prodotto”. Due, perché dopo un libro come Q il rischio di passare per “maledetti” non era da poco. Gli autori di Q che pensano ai bambini è una storia che spero mandi all’aria tanti pregiudizi ;-)

  112. @ Wu Ming 1

    “zainetto”? Io qua ho un Lonsdale rosso che peserà quindici chili. Più che prepararlo a un rito iniziatico mi sembra di doverlo mandare via con Burton e Speke…

  113. @ Wu Ming 4

    eh, ma son “fatiche d’amore”! “Zainetto” è più un vezzeggiativo che un diminutivo. :-)

  114. @wm1 @wm4

    Pesateli davvero: vi spaventerete…

  115. @ VecioBaeordo

    Lo so, non era mica una battuta… Non ho la bilancia, ma mi regolo sui manubri che tiro su in palestra: dodici chili ci sono tutti. Facendo le debite proporzioni, è roba da legionari romani.

  116. @ Vecio Baeordo

    per fortuna il nostro non pesa poi tanto: i libri li ordina e ritira direttamente la scuola, i genitori a stento li vedono. E lo zaino resta là, tornerà a casa solo il sabato. E’ una scuola primaria pubblica, ma con una storia di sperimentazioni e impostazioni abbastanza peculiari, compreso un sito curato insieme da insegnanti e genitori:
    http://www.scuolalonghena.org/
    Chiuso l’OT! :-)

  117. guarda caso la mia ribellione nei confronti dei libri di scuola cominciò giusto alle elementari…

    e non scherzo eh! ho una pessima memoria, ma il peso dello zaino me lo ricordo benissimo.

  118. Da sempliciotta:
    pare che manchino una serie di competenze culturali da parte di alcuni (e spero siano solo alcuni) in relazione alla situazione attuale, che è evidentemente internazionale/mondiale.
    Faccio un esempio forse limitato:
    quest’estate mi è capitato di seguire alcune assemblee del movimento Italian revolution a Roma e ho avuto l’impressione che fosse più un gruppo parrocchiale che altro. Si leggevano comunicati tradotti dal movimento spagnolo, e, chi prendeva la parola, sembrava aver vissuto negli ultimi 20 anni sotto una campana di vetro. Ho giustificato la cosa considerando l’età media che non superava, credo, i 25 anni, ma sono comunque rimasta di sasso per l’inconsapevolezza di molti.
    Ora, per chiunque abbia attraversato anche tangenzialmente i pre e i post del G8 di Genova (come me) è impossibile non conoscere almeno i rudimenti del perché di quelle proteste. Capisco anche che gli ultimi 10 anni abbiano potuto ottundere molti, ma in quel caso era più una tabula rasa.
    Forse è mancata una certa consapevolezza? Forse si è peccato di ingenuità? Oppure addirittura di superbia? Perché non si è attinto dalle innumerevoli esperienze di lotta di cui la capitale è piena?
    Facendomi queste domande mi è balenata alla mente la possibilità che volessero addirittura escludere le altre realtà per un mero problema di pragmatica: ovvero la forte connotazione “pacifista” escludeva a priori gli altri per una evidente incompatibilità.
    Oppure è solo un mesto problema di leadership? Come dire, noi siamo migliori degli altri per questo, questo e quest’altro motivo, quindi meritiamo di rimanere circoscritti dentro un recinto che ci siamo scelti?
    Allargando un po’ la visuale non potrebbe essere proprio questa ricerca di eslusività e diffidenza a spingere alcuni a:
    1) criticare i @wuming per un loro certo “protagonismo” (che secondo me è pura invenzione, mentre mi pare far parte di una necessaria dialettica quello che leggo qui e su twitter, nonostante tutti i buchi che possono crearsi utilizzando quel tipo di social network).
    2) non vedere di buon occhio il necessario interscambio narrativo che deriva dall’uso di diverse lingue?
    Insomma pecchiamo di provincialismo per evidenti lacune culturali nell’affrontare il mondo esterno?

    Perché davvero usare inglese e spagnolo dovrebbe essere alla base, se, come è, NOTAV, No dalmolin e tutto il resto fanno evidentemente capo ad un unico problema.

  119. @ Flaccidia

    Italian Revolution è stato la valvola di sfogo di moltissime persone desiderose di “sporcarsi le mani” in qualche modo ma completamente prive di esperienza politica e arroccate su posizioni, come noti tu, riformiste e buoniste. A Bologna chi ha partecipato alla mobilitazione si è speso molto, spesso con grande generosità; ma le carenze organizzative e contenutistiche hanno fatto si che il movimento non andasse al di là di una ingenua feticizzazione della piazza (della serie: basta organizzare assemblee pubbliche e la “società civile” accorrerà in massa portando contributi e contenuti).

    Il rapporto con le realtà di movimento è stato ambiguo. Da un lato si è fatto di tutto per “dissociarsi” da pratiche considerate inefficaci e settarie (a volte in modo completamente pregiudiziale, altre volte non del tutto a torto); dall’altro, si è cercato il dialogo con realtà affini (ossia piegate sullo stesso standard pacifista, riformista e ostentatamente “innocuo”). Alcuni soggetti più consolidati, infine, hanno cercato il contatto con IR, e da lì – guarda caso – sono usciti gli stimoli e le attività più interessanti (a Bologna, almeno, è andata così).

    Per come l’ho vissuta io – e per come mi viene da rileggere adesso l’esperienza in retrospettiva – le assemblee di IR hanno messo in scena in modo esemplare tutte le contraddizioni della cosiddetta “società civile”. E il quadro che ne emerge è un po’ luci ed ombre… personalmente, spero che i passi in avanti che ci sono oggettivamente stati al livello delle coscienze individuali non vadano dispersi. Persone che prima di questa esperienza non si interessavano per niente di politica o avevano idee mooolto moderate, hanno cominciato a porsi delle domande e a trovare delle proprie risposte; la qualità e la radicalità dei discorsi sono aumentate in modo lento, progressivo ma sensibile. Si tratta di un potenziale che non va gettato alle ortiche.

    D’altro canto, “fare politica” in un contesto di questo tipo è dannatamente difficile, e questo tende a scoraggiare chi ha praticato l’attivismo per anni. Può essere infatti piuttosto frustrante sbattere la testa ad ogni piè sospinto con le decine di “se” e “ma” che ostacolano una comprensione radicale delle condizioni sociali ed economiche attuali, e la presa d’atto che, se si vuole fare qualcosa, bisogna agire in rapporto a queste, entrando in sinergia con le lotte esistenti; e non trincerandosi nell'”isola felice” delle assemblee di piazza come se la rivoluzione la si facesse lì…

    Insomma: se ho tratto un insegnamento generale da questa esperienza è che c’è una fascia importante della popolazione che ha voglia di mettersi in gioco ma non ha gli strumenti per farlo. Perdere queste persone vorrebbe dire – secondo me – “regalarle” alla reazione, per effetto della disillusione e dello scoraggiamento. Non ci si può permettere una cosa del genere. Per cui secondo me è necessario che chi ha energie, tempo e capacità per farlo, continui ad agire dentro queste realtà, in modo ovviamente “critico”, per far sì che non degenerino.

    Da questo punto di vista, segnalo un rischio concreto: un gruppo di fascisti ha annunciato su facebook una “marcia su Roma” per il 15 ottobre. Le assemblee di piazza non sono esenti dal rischio di infiltrazioni del genere (e non lo dico a cazzo). E’ quindi necessario, secondo me, che chiunque vuole evitare di trovarsi il nemico in casa, tenga un occhio vigile su queste realtà e faccia lo sforzo di non lasciarle a loro stesse. Magari è tempo perso, e il tentativo di coltivare all’interno delle assemblee di piazza un certo approccio “radicale” alla crisi non avrà futuro. Ma resto dell’idea che sia fondamentale provarci, non lasciando nulla di intentato.

  120. Solo una cosa, poi se avrò da dire la mia la dirò. Oggi pomeriggio andando e tornando da torino ho ascoltato Higway 61 di Dylan tutto il tempo.

    Cazzo, la risonanza :’-)

  121. L’ora mi sembra adeguata, quindi posso partire con uno dei miei soliti deliri. (Quello che ho scritto nel primo, in cima ai commenti, per me resta valido.)

    Condivido più o meno tutte le ragioni riportate da tutti sul perché c’è questo tipo di reazione preventiva per qualcosa che ancora di fatto non c’è.

    Su tutte mi piace quella di Wu Ming 4 quando dice: “Quando uno non sa come agire, a fronte di una situazione che percepisce comunque come indecente e insopportabile, tende facilmente a posizioni pregiudiziali e e livorose, a gettare merda su chi prova a fare qualcosa, perché sicuramente è la cosa sbagliata o è fatta in malafede. E’ un segno del malessere che pervade il paese.”

    Io come al solito ingigantisco le cose, parlo a sproposito e dico: è più che un malessere, è il biopotere. Io penso che al netto degli haters e degli umbelicali di professione, ci sia un sacco di gente che, come me, sta scappando. Sta correndo una rat-race, spesso una rat-race al contrario, dove non si insegue più nessun obiettivo, talvolta nemmeno la propria sopravvivenza. E travolge tutto quello che incontra, anche chi prova a tendergli una mano con tutte le migliori intenzioni. Abbiamo parlato dei tempi duri che ci stavano aspettando, ne abbiamo parlato per mesi, forse anni. Eccoli qui.

    Parlare in inglese delle lotte italiane per alcuni sarà visto come porre delle distanze ingiustificabili. Parlarne con un taglio giornalistico, ancora peggio forse. L’inglese è la lingua del potere, e l’approccio “descrittivo” è quello che secondo me incide di più sull’ “ontologia percepita” delle cose. Io penso che qualcuno sarà molto scontento di ciò che *faremo* (eh già, per me anche dire è fare). Magari qualcuno anche nei movimenti. In fondo essere descritti non è mai una bella esperienza: di solito non piace davvero nemmeno ricevere complimenti. L’approccio descrittivo secondo me è in realtà quello più performativo proprio nel non sembrarlo.

    I miei dubbi restano. Non mi sento innocente. Penso di essere animato da buone intenzioni e penso che lo siano tutti i partecipanti all’impresa. Ma sono mai bastate le buone intenzioni? Non credo che sarà una passeggiata. Penso che se ci sentiremo “al di sopra delle parti”, “esterni”, in grado di “vedere le cose come sono e descriverle come sono” non potremo che alimentare questa situazione in cui tutti si sentono attaccati. L’approccio descrittivo secondo me dovrà fare attenzione a sfuggire a questa volontà di potenza. Dovremo descrivere bene soprattutto noi stessi, rendere conto pubblicamente del nostro punto di vista limitato. Porci come i detentori declamanti della verità (per giunta nella lingua del potere!) ci renderebbe odiosi prima di tutto a noi stessi.

    Quanto a voi Wu Ming, un grosso grazie per tutto, per l’intelligenza e la forza che ci mettete in quello che fate. Non credo alla paternità delle idee; semmai nella maternità: le idee figliano, ma non sono figlie di. Posso forse dire che quella è una mia idea? Che è un’idea dei Wu Ming o “della loro cerchia”? Per quanto mi riguarda riconosco solo la mia non-innocenza nell’usarla; nella proprietà non credo. E non credo nei confini delle “cerchie”. Io leggo i Wu Ming (e non solo!) e parlo con voi; i Wu Ming a loro volta leggono e parlano con altre persone. Come si può stabilire da cosa nasce un’idea?

    @Don Cave, le tue analisi della situazione presente delle lotte italiane le trovo sempre molto utili e interessanti, ne so molto meno di te, quand’è che vieni nel gruppo!

  122. due parole di volata.
    Cito a braccio i miei appunti delle lezioni di Storia del cinema italiano. Pare che Andreotti abbia commentato la distribuzione di Ladri di Biciclette sui mercati esteri con un lapidario “i panni sporchi li si lava in casa propria”.
    Ecco, io sento dietro i mugugni per #strugglesinitaly quel puzzo democristiano. Il tutto, ovviamente, ha diverse sfumature, iscritte fra due estremi. Il primo è un complesso di superiorità mascherato da complesso di inferiorità, ovvero “le cose che faccio non sono così importanti da essere comunicate oltre una ristretta cerchia”, il che a ben vedere è spesso incapacità totale di mettersi in discussione. L’altro è un grottesco desiderio cartolinizzare la propria realtà.
    Ma il concetto, per me è quello, quello per intenderci del familismo amorale.

    @wuming1
    lo so, l’OT l’hai chiuso, ma mi preme comunicarti che nel 1984 cominciavo le mie elementari in una classe che adottava la stessa impostazione a cui fai cenno: sono e sarò grato alla mia maestra Chiara finché campo.

  123. [Ci ha scritto una promessa futura lettrice americana. Le ho chiesto se potevo pubblicare la sua mail perché mi ha fatto molto piacere riceverla, e soprattutto perché penso che il suo punto di vista sia molto interessante.
    Mi ha detto che potevo farlo riportando anche nome, cognome e sito (mi ha chiesto solo di non riportare la sua mail, per via dello spam). Segue il suo messaggio email.]

    “Ciao!

    mi chiamo Samantha Pinto, sono il tumblr user “pintu”. Prima di tutto, italiano non è mia matria lingua e so che questa risposta è piena di sbagli. Perdonami per favore!

    Mi piace l’idea tantissimo, e lo leggerrei sicuramente! Sono una studentessa italo-americana e mio italiano è orribile (scritto, parlato, mie abilità di comprensione, eccetera). Voglio di essere informata di quello che succede in italia, e per questo seguo un paio di blog italiani da circa 2 anni. Mi hanno aiutato e ho imparato tanto della lingua e la politica italiana, ma allo stesso tempo devo spendere tanto tempo leggere gli articoli e i posti e mia conoscenza è limitata. Capisco tutto più o meno, ma tanto è perso perché non sono
    molto familiare con il contesto. Ho pensato spesso di creare un blog in cui traduco e spiegare alcuni articoli che trovo dai blog italiano che seguo, ma intanto non ho una conoscenza molto forte e tradurre è un processo abbastanza lungo e difficile. Non potrei farlo.

    Mia specializzazione a università è italiano e ho trovato che non impariamo molto della politica oppure dei problema sociali e le lotte in italia, ma invece nostri corsi si trattano della comprensione della lingua e poi “la cultura” cioé: la letteratura medievale, le città belle (specificamente delle regioni nord), e la cucina. Ho studiato italiano da dodici anni, ma la maggioranza dei miei compagni di classe
    hanno cominciato studiarlo solo in liceo o università e non conosco la lingua molto bene. Quindi, siamo limitati e è difficile capire tanti testi. Un blog inglese sarebbe molto utile. Voglio imparare più di solo “Firenze è bella, tiramisù è gustoso, Dante é un bel scrittore.” Spero di capire ogni testo italiano che leggo nel futuro, ma per il momento mi piacerebbe leggere della lotte italiano in inglese. Tutti
    gli articoli inglesi che leggo (di Berlusconi, della munnezza a Napoli, eccetera) sono stronzati; ogni contiene la stessa informazione e sono piena di luoghi comuni. Vorrei un’alternativa.

    Immagino che ci sono altri studenti chi s’interesserebbe: studenti d’italiano, della politica, studenti italo-americani chi non parlano italiano (la maggioranza delle nostre famiglie ha perso la lingua dopo una generazione) ma voglio imparare della “terra patria.”

    Se continui con questo progetto; io sono disponibile per quello che necessiti! Non posso scrivere bene in italiano, ma posso scrive e correggere molto bene l’inglese. Spero di essere una traduttrice professionale nel futuro, e specificamente m’interessa cose di questo
    genere piuttosto della traduzione della letteratura, per esempio.
    Allora, posso faccio promozione al blog con gli amici, i compagni di classe, forse con alcuni professori miei d’italiano o la politica, eccetera. Ho alcuni followers chi capiscono un po d’italiano o scrive delle cose italiane/italo-americane, e forse loro s’interessa.

    Il punto di questo è che è un bel idea, sì! ci sono lettori
    potenziali, e c’è almeno una studentessa americana chi vorrebbe essere coinvolta!”

    [Non sarà soltanto nostra lettrice: intende anche collaborare al progetto.]

  124. “Avremo sempre Parigi”, diceva Rick nella scena finale di Casablanca. Nelle ultime 48 ore, violente cariche di polizia contro gli “Indignados” francesi e spagnoli in Place de la Bastille, decine di arresti, feriti gravi, in questo preciso istante manifestazione spontanea notturna. Per pura combinazione, io sarò in città da questo venerdì al lunedì della prossima settimana, per il festival “En premiere ligne” a Ivry-sur-Seine. “Le strutture sono scese in strada”, disse quel tale a quel famoso incontro su quell’annoso tema. L’autunno si scalda. Mi guarderò intorno, garantito.

  125. Sempre riguardo #strugglesinitaly, stavo pensando guardando ieri PresaDiretta che potrebbe essere efficace non solo la traduzione di documenti, ma anche il sottotitolare in inglese video italiani, che possano presentare contenuti pertinenti. Ho appena provato a dare una rapida e sicuramente non esaustiva occhiata su youtube su argomenti a tema, ma si trovano solo filmati prodotti da stranieri o video di manifestazioni senza una regia. Mi riferisco invece a un format di inchiesta come appunto presadiretta o report, che quando non vanno a toccare argomenti troppo locali credo possano interessare anche a uno straniero.

  126. Dubbio sul 15 ottobre, fermissimo restando il rispetto per chi si sbatte, e sperando che le cose vadano per il meglio:

    la… Grande-Manifestazione-Nazionale-A-Roma, ennesima di un’eterna sfilza? La solita rotta col pilota automatico verso il rilascio di endorfine? Tutti convergenti verso l’Uno della Grande Scadenza? Di solito, la manifestazione nazionale *conclude* una mobilitazione. Questa che cosa conclude? Assemblee in streaming dove parlano prevalentemente maschi ultracinquantenni del ceto politico dei cicli di lotta di ieri… Scadenzificio, liste della spesa, “shopping di sigle”… Sicuri sicuri che negli altri paesi il viaggio verso il #15oct somigli a questo? Uhm…

  127. in questi ultimi sette giorni ho fatto più volte lo stesso discorso di WM1 [ http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5079&cpage=2#comment-8018 ] .
    questo 15 ottobre, da noi, può funzionare solo al contrario, come punto di partenza, di condivisione e di incontro. Chi pensa che in quella giornata si possa fare una rivoluzione, manca di senso della misura. Si rischia anzi solo di andare a fare le comparse per impaurire/rassicurare i ceti medi attraverso le immagini dei telegiornali.
    I comitati No Tav stanno organizzando i pullman, e fanno bene, ma i comitati No Tav sanno cosa vanno a fare a Roma: tessitura reti.

  128. Sono d’accordo al 100% con i dubbi sul 15O espressi da WM1. Sinceramente, nelle assemblee in preparazione del 15 a cui ho partecipato finora ho visto pochi contenuti e anche poca voglia di coinvolgere i non militanti, che è uno sbaglio mastodontico sotto ogni punto di vista, anche sotto quello strategico. Con tutti i media che non vedono l’ora di immortalare qualcosa che permetta di mettere al margine tutte le istanze di cambiamento, isolarsi e fare del 15 una parata di militanti è la cosa peggiore che si possa fare.

  129. Io no. Da qualche parte bisogna iniziare. Non che non ci siano mille conflitti, dalla tav alle lotte sociali e sindacali.
    Ma occorre una cornice comune. Occorre rimettere insieme conflitti sociali e un programma di alternativa al disastro in cui siamo immersi.
    Occorre,in poche parole , che torni la politica.
    Anche sulla questione dei militanti la penso esattamente all’opposto di Adrianaa. Qui bisogna proprio tornare a produrre militanti.Di tipo nuovo ovviamente.
    Ragionare sulla centralita’ opinione pubblica e’ stato , a mio avviso, un enorme abbaglio del movimento
    Il 15 Ottobre non risolve, di per se’, nulla.
    Ma e’ un modo per iniziare a rappresentare un’alleanza sociale.
    Dal lavoro cognitivo alla Fiom, dai No/Tav a chi lavora perle energie alternative.
    Militanti , conflitto, progetto politico.
    Parole antiche ma utili.

  130. @saint-just
    cornice comune e parole antiche mi stanno bene. Cornice logora e forme stantie un po’ meno. Il copione è stato recitato fino alla nausea, quante decine di Grandi Manifestazioni Nazionali abbiamo visto in questi anni? Dobbiamo sempre e per forza incanalare le energie in quell’imbuto? Mi sembra uno schema molto scontato e impoverente, rispetto a quanto sta accadendo in Spagna, negli Usa etc. Spero che l’evento si manifesti eccedendo l’intensità del suo “sito”, per dirla più o meno con Badiou.

  131. @ saint-just

    sì, da qualche parte bisogna pur cominciare. Sperando sempre che cominciare non sia già finire…
    Mi tocco le palle e dico che pure la dicotomia militanti/opinione pubblica è abbastanza inutile. La seconda serve per il consenso elettorale, non per fare politica attiva, e i primi sono pressoché estinti (incalzati da una nuova genìa di attivisti…). Quello che avanza è una massa di spossessati, cassaintegrati, licenziati, precari, etc., il cui comportamento non è possibile prevedere. Non so quanto il 15 ottobre sarà in grado di intercettare questa gente, al netto dell’appartenenza intendo, ma vedremo. Perché poi, al di là delle perplessità ribadite sulla Grande Scadenza, la Grande Adunata, il Grande Assedio (nel quale poi l’aspirante assediante si ritrova assediato, adunato, scaduto), il problema è che a mancare è proprio un progetto politico credibile. Altrimenti si sarebbe già fatto un bel passo avanti. Non è mica facile, lo sappiamo bene. Mettere assieme gente che viene da galassie diverse, a volte contrapposte. Tanto per fare un esempio, almeno fino a un paio d’anni fa la FIOM era nuclearista; non si sarebbe mai sognata di parlare di “reddito di cittadinanza” (che poi, anche parlare non significa mica avere circoscritto e definito l’oggetto, sia chiaro); considerava i precari alla stregua di lavoratori fantasma congenitamente inadatti a diventare un soggetto politico-sindacale.
    Le cose cambiano e bisogna aver fiducia in questo. Sperare che davvero sia iniziato un confronto di contenuti su certi temi cruciali e che non ci si trovi soltanto davanti all’alleanza di sigle che provano a uscire dall’angolo nel quale sono state ridotte negli ultimi dieci anni. Però io penso che questo passaggio in avanti lo possa fare con maggiore credibilità gente più giovane di quella che finora vedo tenere le file.

  132. ok, parliamo di due cose diverse. scusate, la prossima volta mi sveglio :D

  133. A me pare di vivere un momento di schizofrenia palese.
    Ho un punto di vista parziale e mi consolo con la speranza che sia anche completamente errato. Vivo in un acquario che distorce la realtà? E se si quante gente c’è che vive all’interno di una boccia di vetro?
    Interroghiamoci sui numeri: Io passo almeno 12 ore al giorno davanti al computer a lavorare, di queste 12 ore, 10 sono di lavoro “duro”, una di procrastinazione e l’altra di informazione. Leggere queste discussioni mi prende molto ma mi affatica anche, perché forse non ho tutti i mezzi necessari per interpretarvi culturalmente. Sono perfettamente cosciente di come questo sia un problema mio e di come non si trovi un manuale semplificatorio chiamato: “ventunesimo secolo per niubbi”.
    Ma veniamo al dunque: quanta altra gente è sfiancata da una vita modesta e magari non si sogna nemmeno di informarsi e passa il tempo libero (tra un lavoro e l’altro) sulla colonna destra di repubblica? Ci sarebbe da chiedersi: quanta di questa gente è disposta a farsi principio attivo di una presa di coscienza che va ben oltre una manifestazione ogni tanto?
    Dove sbagliamo? Come si possono intercettare quelle persone? Quanta gente c’è che vive in una palla di vetro?
    Quanta di questa gente – e non si può fare sempre e solo affidamento alla militanza, non ora almeno – è disposta a mettere in discussione la propria idea del mondo e come può in poco tempo acquisire gli strumenti necessari per comprendere e agire?
    Mi/vi faccio queste domande perché bisognerebbe fare il salto di qualità e io non ho abbastanza cervello per capire come rompere l’acquario.

  134. Delle lotte in Usa ho letto davvero poco. Per quanto riguarda la Spagna la ventata di freschezza e’ paradossalmente dovuta all’inesistenza della sinistra antagonista spagnola e al fatto che il Psoe sia al governo. Gli indignados hanno avuto la necessita’ di definire un vocabolario nuovo.
    Noi invece siamo ancora al Frame dell’antiberlusconismo (Repubblica, il Fatto) oppure siamo ancora alla ricombinazione della sinistra.
    Ma eviterei letture miopi. Non dimenticherei che c’e’ una domanda politica fortissima, lo sciopero generale , l’esito del referndum sull’acqua sono in potenza un programma politica.
    L’evoluzione culturale della Fiom la trovo straordinaria, dimostra che non e’ obbligatorio praticare sempre lo stesso gioco di ruolo.
    Personalmente l’evoluzione culturale della Fiom negli ultimi anni la trovo straordinaria.
    Sono convinto che nel nostro paese stiano saltando, anche a sinistra, tutti gli equilibri politici precedenti.
    Credo che si possa riaprire una partita. Con giudizio ovviamente. Ma anche senza cenere sul capo.
    Se c’e’ un paese, in Europa, in cui i movimenti possono produrre politica e’ l’Italia.
    Quando e’ avvenuto gli effetti sono stati dirompenti.

  135. …sulla inutilita’ della dicotomia opinione pubblica , militanza proprio no.
    Non riesco a pensare la politica se non come presa di parola contro il senso comune. Per me questo si chiama militare.
    D’altronde riaprire lo scontro lavoro vivo vs capitale richiede militanti.
    La reazione di Adrianaa dimostra quanto questa operazione sia difficile.
    Prima o poi dovremo riuscire a spiegare che non esiste un interesse nazionale ma un interesse di parte.
    Un interesse da giocare contro il loro.

  136. Aspè aspè saint-just, mi sa che non ci siamo capiti. In primis perché io mi sono inserita nella discussione a babbo e senza afferrare che il mio discorso non c’entrava nulla.
    Quello che volevo dire è che alcuni discorsi sentiti in ambiente studentesco mi paiono dimostrare che il circolo Grande Evento-reducismo-identità è tutt’altro che superato, nonostante il bisogno di uscire dalla modalità dell’identità-rifugio, dato il momento critico in cui ci troviamo, mi paia particolarmente urgente.
    Io credo che se c’è una cosa di cui non abbiamo bisogno è di un’estetizzazione del 15O ad uso e consumo di pochi. Chiusa parentesi misunderstanding.

  137. Ok. Ovviamente le tue ultime considerazioni sono di buon senso.

  138. Le TV degli Stati Uniti sono tutte puntate su perugia per il processo alla bella amanda.
    Bene.
    Le TV e i media mainstream USA, tutti, hanno deciso per strategia comune di silenziare e oscurare il movement che monta nelle strade e ingrossa, oltre ogni possibile attesa, le proprie fila.
    Mentre uno dopo l’altro arrivano gli endorsement di sindacati di lavoratori di ogni settore. Mentre ogni tipo di ceto sociale impoverito comincia a riempire e traboccare fuori da Liberty Plaza.
    Molto bene. Perchè?
    Perchè gli americani, in ossequio ai canoni del proprio cinema, molto spesso amano fare la ‘cazzata’ topica, quella che costituisce la svolta della sceneggiatura, e cambia il corso del film.
    L’oscurità permette il mescolamento.
    Il silenzio unisce, compatta, rafforza.
    Leggere il pezzo di Michael Moore che girava ieri è illuminante. Così come altri intellettuali coraggiosi che si vanno aggiungendo.
    Il ciccione, con tutti i suoi limiti (chi non ne ha), ha fiuto.
    E ha fiutato l’osso anche stavolta.
    La ruzzola gira. E non smetterà.
    Il Movement ci darà sorprese, credo grosse.
    Guardate la frequenza con cui, da quelle parti e non solo, comincia a girare la parola “Class”.
    Guardate le strane convergenze che si vanno formando
    Infine, guardate un po’ cosa succede da stamattina e per i prossimi giorni sui fatidici ‘mercati’. Perchè adesso i bluff ‘di parola’, -Metteremo tremila miliardi!-, durano manco ‘na settimana, e poi la merda sale molto più di prima.
    La ruzzola gira.
    Lasciamo stare il 15 Ottobre.
    Pensiamo al 14. E al 16.
    Mi sa che se ne riparlerà a breve.
    L.

  139. The times they are changing..oggi su Repubblica facevano parlare persino un insengnante del cpusa..
    In ogni caso la costituzione politica e economica dell’occidente sta per cambiare.
    Anche il 15 va letto in questo contesto, non e’ la soluzione, ma l’inizio.
    Addio al postmoderno. Spazio al vintage, crisi , lotta di classe, progetto politico, organizzazione e militanza.