[La riflessione che segue prende le mosse dalla lettura di Bastardi senza storia, terzo libro di Valerio Gentili, già autore dei saggi La legione romana degli Arditi del Popolo (2009) e Roma combattente (2010). In BSS, Gentili recupera e “mette al lavoro” una grossa mole di materiali per troppo tempo ricoperti dalla polvere degli archivi e, con un taglio giustamente divulgativo (è un libro esplicitamente rivolto a chi tiene il culo in strada), racconta molte storie dimenticate. Protagoniste della ricostruzione sono quelle milizie di proletari (e sottoproletari) comunisti o socialisti – formazioni “cugine” dei nostrani Arditi del Popolo – che negli anni Venti e Trenta, in Germania, Austria, Francia e Belgio, cercarono di opporsi all’ascesa dei fascismi. Gentili passa in rassegna veri e propri eserciti della classe operaia, come lo Schutzbund (Lega di difesa repubblicana) della socialdemocrazia austriaca o la Reichsbanner Schwartz-Gold-Rot (Vessillo dell’Impero nero-rosso-oro) della socialdemocrazia tedesca, e formazioni forse meno numerose ma che ebbero un ruolo importante in seguito rimosso, come la RFKB (Lega dei combattenti rossi di prima linea) del partito comunista tedesco. Gentili racconta di come un simile arsenale di resistenza e contrattacco fu svuotato e mandato in malora, errore strategico dopo errore strategico, fino al compiersi della tragedia.
Lo scenario principale è, naturalmente, la Germania di Weimar. Fu in quella temperie inter-bellica che brillanti strateghi della contro-propaganda come Sergej Chakotin e artisti grafici come John Heartfield inventarono segni e simboli destinati a un successo planetario, come il saluto a pugno chiuso, la doppia bandiera rossa e nera dei movimenti “Antifa”, le tre frecce oblique etc. BSS ripercorre anche la traiettoria di questi segni, fino a ritrovarli nelle odierne sottoculture giovanili, o meglio: su una delle rive opposte del fiume di certe sottoculture, come quella skinhead. BSS è un’operazione che va salutata con favore e una lettura che consigliamo, pur sentendo necessari i rilievi critici che seguono.
Un’ultima chiosa prima dell’articolo vero e proprio: ci auguriamo che BSS esaurisca la tiratura e venga ristampato, ma al contempo ci auspichiamo che, prima di ristamparlo, la casa editrice passi sul testo quella “mano di editing” e correzione bozze che – molto evidentemente – è mancata al primo giro. Un autore ha diritto a che il suo testo venga trattato con la massima cura e attenzione, non gli si fa un favore prendendo il file, scagliando il testo nella gabbia grafica e inviando il tutto in tipografia a tempo di record.]
Nel corso della storia della specie, gli uomini hanno vissuto in sistemi complessi, piramidali, gerarchici, ossessivamente ritualizzati, e in società aperte, paritarie, nomadi, non-gerarchiche, fondamentalmente pacifiche, attraversando tutte le sfumature possibili tra i due estremi. Non c’è “un” modo per l’uomo di convivere. Significa che non c’è “un” modo di essere uomo, se non quello di vivere in società e di definirsi in relazione ad altri uomini.
Cadremmo nell’errore ideologico speculare a quello dei nostri avversari hobbesiani se ritenessimo l’uomo “buono” per natura; occorre prima di tutto sgombrare il campo da ogni equivoco in questo senso. L’uomo non è buono o cattivo; la sua “natura”, se si vuol esporre la questione in termini essenzialisti, è piuttosto quella di essere educabile. L’educabilità non presuppone la gerarchia; ci si può educare collettivamente, orizzontalmente, allargando a macchia d’olio il livello di consapevolezza generale: educare non è inculcare.
Potremmo esporre la questione in termini paradossali: nel DNA dell’uomo è inscritta, come principale caratteristica, quella di poter trascendere il livello istintuale e animale, o, meglio detto, di poter integrare pulsioni e istinti atavici in un personalità non-nociva, empatica, solidale. I nostri più prossimi parenti, gli scimpanzé, si impegnano in guerre, e anche tra i gruppi umani più a-gerarchici e pacifici esistono dinamiche in senso stretto “belliche”, ma assumere per questo che la guerra esisterà sempre, che la specie non riuscirà mai a superare la fase della propria storia caratterizzata dall’uccisione in massa degli avversari, assomiglia in qualche modo a una superstizione.
1. La guerra è ovunque (e non è una metafora)
Tra i temi meno praticati negli ultimi decenni, la riflessione materialista sulla guerra assume in questa temperie di crisi finale una valenza decisiva. Il nostro, il discorso di chi è impegnato in una prospettiva di cambiamento radicale in senso egualitario, è in larga misura un discorso sulla crisi e sul conflitto; il conflitto che, prima di essere propugnato o respinto, va prima di tutto riconosciuto. Occorre sapere cioè quali sono le dinamiche in senso stretto belliche, tra quelle che percorrono in modo conflittuale e potenzialmente antagonistico il campo sociale, e quali sono le dinamiche che possono essere assunte sotto la voce “guerra” solo forzando il significato del termine, allargandolo per cerchi concentrici fino a includere dimensioni apparentemente lontane. Attenzione, però: non si parla qui di un uso meramente metaforico della parola.
Un esempio di una connotazione larga, ma non-metaforica della parola guerra la troviamo nel modo in cui gli anglosassoni descrivono la dinamica antagonista che noi chiamiamo “Lotta di Classe”. La locuzione, in inglese, suona “Class War”. E andando a ripercorrere gli ultimi trent’anni della storia del pianeta, è difficile non cogliere la pregnanza della definizione. La guerra condotta dalle classi sociali dominanti, dagli oligarchi e dai loro più o meno consapevoli alleati è stata condotta con precisione meticolosa, su tutto il pianeta, mettendo in atto una macchina di propaganda gigantesca, muovendo divisioni, ricorrendo al sabotaggio, eccetera. L’ideologia del Mondo Libero, proponendosi come seconda natura, come orizzonte invalicabile e ineludibile, è una macchina di morte sempre in movimento, una dinamica che divora pianeta e defeca diseguaglianza, fame, ignoranza, guerra.
Il cerchio si chiude.
2. La sconfitta degli anni Venti
La macchina di propaganda, dunque: il cuore del libro di Valerio Gentili che ha fornito lo spunto per queste riflessioni è la descrizione di una macchina di propaganda volta al bene, nella direzione giusta, nella direzione appunto della lotta egualitaria, una macchina messa al servizio della parte dei senza parte.
La temperie di allora, la crisi di allora, erano gli anni dopo il carnaio della prima guerra mondiale. La rivoluzione d’ottobre aveva dimostrato che era possibile, per una classe, rovesciarne ed esautorarne un’altra. Paesi come l’Italia o la Germania, vincitori e vinti, erano usciti piegati, disarticolati, prostrati dal conflitto. Paesi sull’orlo della guerra civile. Le classi popolari avevano pagato un prezzo altissimo nel regolamento di conti che aveva opposto le potenze europee per cinque lunghi anni. Ora che i fantaccini tornavano, contadini e operai mutati in soldati, incontravano a casa situazioni pre-rivoluzionarie. Sembrava confermata la tesi di chi, tra i socialisti, gli anarchici, gli egualitari aveva propugnato l’intervento: la guerra aveva effettivamente portato l’Europa sulla soglia della Rivoluzione.
Il libro di Valerio Gentili è un lungo apologo che prende in esami i motivi per i quali l’Europa non la conobbe, la Rivoluzione, e subì piuttosto l’ascesa dei fascismi che portarono il mondo, un’altra volta, in conflitto. Il libro è di facile e piacevole lettura, e contiene una messe d’informazioni, centrato come è su una delle fasi più misconosciute e male interpretate della lotta contro il fascismo. Al centro della narrazione, le formazioni di combattenti rossi che si opposero strenuamente e spesso eroicamente all’ascesa della reazione travestita da rivoluzione, ai fascismi che piagarono l’Europa nel corso degli anni 20 e 30. Era tempo che questi combattenti entrassero con il ruolo e il rilievo che gli spetta nel nostro problematico album di famiglia, come era già accaduto per gli Arditi del Popolo, al centro dei precedenti lavori di Gentili.
Qui, però, non si tratta di una vera e propria recensione. Crediamo di rendere merito al valore del libro se ne sottolineiamo alcuni punti critici, e se, da compagni a compagni, esprimiamo un parere dissonante.
3. “I capi hanno tradito”
Esistono due modi speculari di intendere la lunga teoria di sconfitte che forma buona parte della storia della nostra fazione. Da una parte, il mito sconfittista più solido, che viene declinato in modi sempre nuovi ma che fondamentalmente si riduce a: I capi hanno tradito. E’ una tesi che percorre in modo nemmeno sotterraneo tutto il lavoro di Gentili, e che nello specifico della lotta politica degli anni venti contiene senz’altro una buona dose di verosimiglianza. Ancor più in Germania che in Italia, infatti, un potenziale immenso di volontà combattiva venne sprecato, rimase inutilizzato, venne frenato e impiegato solo per scopi difensivi, il che, in termini strategici, raramente è una scelta vincente. I capi hanno tradito è la spiegazione sconfittista prediletta di chi in strada ci va, e rischia, di chi affronta la prima linea, di chi assume la responsabilità del confronto fisico attraverso il proprio corpo, la propria persona. Nessuno si sogna di disconoscere il patrimonio morale, esemplare e pedagogico che le storie di questi Bastardi Senza Storia portano con sé. E’ il caso però di approfondire l’analisi, e di vedere se la tesi I capi hanno tradito regga davvero alla prova dei fatti.
4. “Le condizioni oggettive…”
C’è un atteggiamento speculare, quello dei teorici, degli studiosi di dottrina rivoluzionaria, e recita: le condizioni oggettive implicavano la sconfitta.
Al di là del valore intellettuale e della verosimiglianza dell’analisi a monte della conclusione, è facile comprendere come questo tipo di atteggiamento porti con sé il rischio grave dell’inazione.
Gentili ci dice invece che i fascismi avrebbero potuto essere fermati, che i rapporti di forze consentivano la vittoria, che le milizie socialdemocratiche e comuniste, in Germania, combattevano spesso il nemico sbagliato (cioè vedevano l’uno nell’altro il maggior pericolo), che l’ottusa difesa del parlamentarismo e della liberaldemocrazia (almeno da parte socialdemocratica in Germania, e socialista in Italia) era figlio dell’illusione che, attraverso metodi liberaldemocratici, fosse possibile contenere o addirittura sconfiggere il fascismo.
Tutto vero. Eppure qualcosa sfugge. Non c’erano limiti interni, strutturali a quelle esperienze di lotta, non c’era qualcosa oltre all’inettitudine del ceto politico a dirigere la nostra parte verso la sconfitta?
Non ho una controtesi da proporre, dicevo, solo alcuni punti critici da mettere in rilievo.
5. Lasciar fare ai “tecnici”?
Sergej Stepanovič Chakotin, la mente dietro la macchina di propaganda anti-fascista che diede simboli e parole d’ordine alle milizie antifasciste nella Germania degli anni ’20, aveva una formazione culturale che gli permetteva di capire chiaramente come funzionasse la macchina mitopoietica nazionalsocialista. Era un pavloviano (cioè era proprio un discepolo di Pavlov) e per lui gli umori della massa, essenzialmente passiva, andavano intercettati e diretti attraverso un uso scientifico dei simboli. Una posizione simile implica il rischio evidente di leggere le masse come mere unità di manovra, ambiti incapaci di produrre da soli istanze e metodologie di lotta.
Ciò che distingueva questo approccio da quello fascista e nazista era l’enfasi sulla scienza, tutta umana, della generazione ex nihilo di simboli. In altri termini, qui non si spacciava nulla per “non umano”, “risalente a una tradizione primordiale” eccetera eccetera. L’intelligenza umana poteva ben creare nuovi simboli per contrastare efficacemente simbologie spacciate come eterne, pregne di significati insondabili, esoterici. E’ il caso di una delle migliori creazioni di Chakotin, le tre frecce che scendono dall’alto, parallele, da destra verso sinistra, e che, se sovrapposte a una svastica, sembrano sempre prevalere, cancellare, annullare la croce uncinata.
Ora il punto è: può davvero una macchina di propaganda, con i contenuti intellettuali qui descritti, essere volta al bene? Non c’è una contraddizione palese tra l’approccio pavloviano alla Chakotin e la fiducia nella potenzialità creativa delle masse, che dovrebbe essere uno dei punti dirimenti per chiunque appartenga alla nostra tradizione? In fondo, il recupero dei simboli chakotiniani da parte di fazioni militanti all’interno della nostra tradizione non è esso stesso un processo che è sorto “dal basso”? E non è proprio questo che rende la riscoperta significativa e pregnante?
C’è un pericolo potenziale nell’assunzione acritica della tesi che percorre il libro: Se si fosse dato retta a Chakotin, tutto sarebbe stato diverso, che è un correlato in realtà della vecchia tesi i capi hanno tradito. I capi del movimento operaio, grazie alla genialità del “tecnicizzatore” Chakotin e a quella degli strateghi delle formazioni paramilitari, avrebbero avuto a disposizione la scienza necessaria a battere il fascismo, ma per loro inettitudine o attitudine al compromesso, avrebbero sprecato tutte le occasioni. E allora s’insinua il dubbio: che bisogno abbiamo dei capi politici, quando abbiamo a disposizione quelli “tecnici”?
E’ paradossalmente l’introduzione surrettizia della tesi: lasciate fare ai tecnici, che con la nostra storia c’entra davvero poco.
6. Si combatte per non combattere mai più
Ci sono poi i rischi connessi all’assunzione del combattentismo come modus operandi nelle metropoli attuali. Il punto non è che i “i tempi sono cambiati”: è proprio per questo, proprio perché l’oscurità di questo tempo ricorda l’oscurità di tempi passati, che certe simbologie e certi modi di intendere la lotta si riaffacciano. Il punto è piuttosto che il combattentismo comporta il rischio della glorificazione della lotta in quanto tale. Glorificare la lotta in quanto tale comporta il rischio grave di glorificare la sconfitta, gloriosa e incolpevole. Da qui al vittimismo, che apre la strada a opzioni politiche opposte alle nostre, il passo non è lungo. Prego di intendere bene che il punto non sta, e non è mai stato nella scelta tra violenza e non-violenza. Questo fa parte piuttosto di recenti insensatezze, che per fortuna sembrano sorpassate. Il punto è che si combatte per vincere, e per non combattere mai più. La glorificazione della lotta in quanto tale va lasciata alle caste guerriere, e alle funeree ideologie che le caste guerriere producono.
Wu Ming 5
Valerio Gentili, Bastardi senza storia. Dagli Arditi del Popolo ai Combattenti Rossi di Prima Linea, la storia rimossa dell’antifascismo, Castelvecchi, Roma, 2011.
Libreria universitaria – Amazon.it
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LINK CORRELATI
BSS, un estratto dell’introduzione – Guerra di simboli e forme di mimetismo politico
Una recensione del libro con dibattito (acceso) + intervento dell’autore
Accesissima discussione su una “guerra di simboli” in corso a Roma
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Proponiamo di seguito, sottotitolato in italiano, un documentario già segnalato in passato, menzionato anche da Gentili nel suo libro: Antifa – chasseurs de skins. Vi si narra di come, negli anni ’80, bande di giovani “cacciatori di nazi” derattizzarono le strade di Parigi, rendendole più sicure per tutti i soggetti (immigrati, punk, gay etc.) che prima subivano minacce e aggressioni da parte dei neofascisti.
“I capi hanno tradito” e “Le condizioni non lo permettevano” sono davvero i due poli del “feticismo del fatto compiuto” quando si parla di sconfitte politiche.
Hai presentato la prima come la giustificazione dei “pratici” e la seconda dei “teorici”, ma questa credo che sia una semplificazione; pensiamo alla riflessione sulla Resistenza come rivoluzione tradita o mutilata, dove la manfrina sulle condizioni oggettive (“C’erano gli americani”, “La gente voleva la pace”, “Bisognava tenere insieme il fronte antifascista”) è il mantra prediletto dei sostenitori della svolta di Salerno, che si atteggiano a “pratici” e che in effetti hanno nella pratica guidato il movimento resistenziale; viceversa molti commentatori di ultrasinistra che all’epoca sono stati ai margini della lotta partigiana, per esempio i bordighisti, che definirei indubbiamente dei gran “teorici”, vedevano nell’antifascismo e nel suo esito tutto un grande tradimento dei capi.
A me pare che la costante sia che dopo una sconfitta chi si trovava in minoranza da una posizione più “dura” dia la colpa ai capi troppo morbidi (cioè, agli altri: “Se ci fossimo stati noi, avremmo vinto”); chi invece era in maggioranza da una posizione più moderata, e quindi esprimeva i capi, non potendo ragionevolmente accusare la minoranza (anche se spesso c’è anche questo elemento, per esempio in molti casi la maggioranza stalinista accusò la minoranza trotskista), accusa le condizioni oggettive, che è un po’ come dire… la sfiga. Le minoranze ancora più morbide dei capi, danno la colpa al presunto estremismo di questi ultimi (una variante de “I capi hanno tradito”: “I capi non hanno avuto il buon senso di tradire”).
Se uno dice che le condizioni oggettive non lo permettevano, la risposta razionale è dire che non esistono guerre dall’esito predeterminato, perché in tali casi la parte destinata alla sconfitta si arrende subito e non si arriva neppure allo scontro: gli scontri avvengono quando le due parti hanno entrambe buone probabilità di prevalere, e solo la prova dei fatti può decidere. Questo è il concetto marxista di “scontro di forze vive”, coerente con il superamento del determinismo che si è determinato anche in altri campi scientifici come la fisica con la teoria del caos e della complessità. Per dirla facile: la prova del budino è mangiarlo, e la prova della guerra è combatterla.
La liberazione delle grandi città ad opera dei partigiani prima dell’arrivo degli Alleati, per esempio, dimostra che forse una Resistenza diversa poteva vincere senza piegarsi agli angloamericani, così come la vittoria di Oltretorrente a Parma dimostra che forse gli Arditi del Popolo potevano impedire al fascismo di prendere il potere. Magari avremmo perso lo stesso, perché il nemico riusciva a vincere; se dal punto di vista dell’organizzazione e della linea politica era stato fatto il massimo possibile, si sarebbe trattata effettivamente di una sconfitta oggettiva, ma non della prova che bisognava arrendersi subito, più di quanto la sconfitta dell’Olanda ai mondiali di calcio non dimostri che avrebbero fatto meglio a non partecipare proprio.
Quel che sfugge spesso alle minoranze dure, di cui noialtri siamo soliti far parte (e quindi mi interessa di più), è che le due argomentazioni sono strettamente imparentate, e sono adatte a chi predica la passività e non a chi vuole fomentare la lotta. Infatti anche se i capi hanno tradito si tratta di una sconfitta all’interno di uno scontro di forze vive, e cioè la sconfitta delle idee della minoranza nel conquistare un ruolo egemone nel movimento. I capi in politica non tradiscono quasi mai nel senso “romanzesco” del termine, anche i tradimenti più clamorosi (per me il caso estremo è il patto Ribbentropp-Molotov) sono il frutto finale di una linea opportunista che ha delle basi materiali (in quel caso, il modo in cui concretamente era organizzata l’Unione Sovietica sotto Stalin e i privilegi di cui godeva la burocrazia sovietica). Il tradimento dei capi è un modo pittoresco di definire l’egemonia di posizioni opportuniste su un movimento; quei capi devono avere una base che consente loro di tradire, ed è in quella base che si è verificata la sconfitta soggettiva ancor prima che il tradimento sia consumato.
Il “patto di pacificazione” dei socialisti con Mussolini nell’estate del 1921 è stato un tradimento? Per me sì. Ma quel patto non sarebbe stato possibile se i capi socialisti non avessero goduto tra i lavoratori di una fiducia molto maggiore delle posizioni più rivoluzionarie. Era inevitabile che godessero di quella fiducia? Io credo di no, avevano quella fiducia perché erano stati più bravi dei loro antagonisti nel conquistarsela e conservarla, ovvero perché avevano vinto una guerra di idee. Purtroppo la loro vittoria nella guerra di idee ha comportato la sconfitta dell’intero movimento (loro inclusi) nella guerra armata.
@ Mauro Vanetti
Ben detto, si tratta di una semplificazione, introdotta perchè ci si potesse orientare agevolmente nello svolgersi dell’argomentazione. La polarizzazione tra “pratici” e “teorici” è introdotta a mo’ di mappatura preliminare, orientativa. E’ vero che esistono svariati esempi di figure militanti che mescolano le attitudini, tanto più che per scegliere la nostra parte, oltre e dopo l’avvertimento di una ingiustizia originaria che avvolge e determina ogni forma di rapporto sociale, occorre un momento di riflessione razionale, duri anche solo il lasso di tempo necessario per leggere un foglio di propaganda.
Gli esempi storici che porti sono pregnanti, e sono già un contributo importante alla discussione.
Penso -sento, per ora, visto che sono all’inizio di un percorso di analisi- che il “tradimento dei capi” sia inscritto in maniera quasi necessaria nelle concezioni strategico-militari (in senso lato) del partito. Parlo delle concezioni del partito di derivazione leninista, che hanno riverberato, peraltro, ben al di fuori della nostra tradizione di lotta. Intendo dire che la formazione di un ceto politico che tende alla perpetuazione è di per sè un “tradimento”. Qui c’è una impasse: costruire il partito come macchina da guerra implica la formazione di un ceto politico ed apre la strada, poi, alle tragiche burocrazie rosse del secolo scorso.
La concezione originaria del partito, quella propriamente marxiana, ha poco a che fare secondo me con quelle poi dominanti nel secolo xx. Bensaid analizza questo punto molto bene, con una prosa di rara trasparenza.
Sull’ultimo punto che affronti: I socialisti, nel 1921, misero in campo tutta la loro influenza quale partito tradizionale della classe, tutto il peso della loro storia, e forse anche la loro coerenza non-interventista di sei-sette anni prima. Non credo si possa affermare che vincessero, allora, una battaglia di idee. Giocarono male, malissimo una rendita di posizione.
Hai ragione sui socialisti nel ’21, quel che volevo dire è che chi si proponeva di sostituirli alla guida della classe (in primis i comunisti che si erano scissi pochi mesi prima) aveva sostanzialmente perso la battaglia di idee che avrebbe potuto condurre ad una sostituzione di quei capi con altri. E dico “capi” come sineddoche per dire direzione politica in un senso ampio, ovviamente non si trattava solo di cambiare il cognome del segretario del maggiore partito operaio da Serrati a Gramsci o Bordiga.
Sembra anche a me che la burocratizzazione sia una forma di “tradimento”, ovvero di sconfitta soggettiva che determina la degenerazione di una direzione politica. Vale a dire: il nemico ti contagia, sconfina nel tuo stesso campo e in questo modo ti rende inefficace – e quindi destinato presto o tardi a sconfitte oggettive (la Guerra di Spagna come raccontata da Orwell è un altro caso da manuale).
Sono invece perplesso sull’idea – che ha una sua nobile tradizione che include anche Rosa Luxemburg, fino ad essere diventata quasi un luogo comune nel nostro ambiente – che questa forma di sconfitta sia predeterminata per colpa del “modello leninista”, che tu ben descrivi sinteticamente come “costruire il partito come una macchina da guerra”. Se diciamo, come hai detto, che “la guerra è ovunque”, allora quella concezione sembra adeguata ai compiti – e in effetti direi che un buon risultato l’abbia portato a casa. Aggiungo che si è spesso molto semplificata quella che era la concezione leninista del partito, che era una concezione che non era solo fatta per condurre una efficace guerra guerreggiata, ma anche una efficace guerra di idee, all’esterno e all’interno; se si leggono i resoconti delle discussioni nel partito russo e nella Terza Internazionale si vedrà che prima della degenerazione stalinista c’erano in quelle riunioni una ricchezza e una varietà di posizioni molto lontane dalla visione trucemente monolitica che molti hanno del bolscevismo…
Secondo me la burocratizzazione è una possibilità, ma non una necessità; la burocratizzazione è una sconfitta, in una guerra di idee, di quella parte del partito che difende la vitalità e la democrazia dell’organizzazione: io per esempio leggo la burocratizzazione del partito bolscevico come una guerra che chi si opponeva a Stalin ha perso. Pierre Broué racconta molto bene ne “La rivoluzione perduta” (titolo perfetto alla luce di questa discussione) come questa guerra sia stata una guerra di idee ma anche di armi (nel decennale del ’17 in Russia c’era quasi la guerra civile tra stalinisti e Opposizione) e addirittura una guerra che andava oltre i confini della Russia perché ha coinvolto l’Europa e la Cina.
Faccio l’esempio più ovvio e classico (e foriero di conseguenze enormi) che riguarda il partito bolscevico, ma tutti sappiamo che esiste una burocrazia anche nei movimenti, nei sindacati, nelle associazioni e in qualsiasi altra struttura di lotta. Dire che siccome questo o quel modello si presta a degenerare, meglio evitare, non è ancora una volta sfuggire dal conflitto e dalle proprie responsabilità? In fondo c’è chi dalla burocratizzazione dell’URSS ha dedotto che non si dovesse fare la Rivoluzione d’Ottobre, chi dalla burocratizzazione del sindacato deduce che non si debba scioperare, chi dalla formazione di schiere di capetti isterici attorno a qualsiasi movimento giovanile deduce che non si debba partecipare a quelle lotte ecc. Io penso che anche lì si abbia uno scontro di forze vive, dove vale il motto “Di sconfitta in sconfitta fino alla vittoria finale”…
Il motto che citi alla fine è tra i miei preferiti! Avevo pensato di tatuarlo :-)
E’ che il modo ottocentesco, pre-seconda internazionale intendo, di concepire il partito è lontano dal nostro. Intendo dire proprio l'”idea” di partito. Per Marx, a quanto pare, il partito è qualcosa che accompagna, indirizza il movimento reale, non lo “dirige” e non lo “egemonizza”. Ti dico le cose come le ho capite io, ovviamente. La sua struttura è mutevole, può anche sparire dalla scena per lunghe fasi, come organizzazione vera e propria. Paradossalmente è più vicino a come i makhnovisti seguivano la formazione dei soviet libertari in ucraina che come i partiti comunisti di cui abbiamo memoria storica hanno operato nel corso del novecento.
Questo introduce un altro ragionamento. Siamo sicuri che una macchina da guerra efficace abbia bisogno di articolazioni definite al suo interno? In certi casi sembrerebbe di si, in altri no. La burocratizzazione, la divisione dei ruoli eccetera non sembra essere inevitabile. L’esperienza dei comunisti libertari ucraini, ancora una volta, è illuminante. La fazione makhnovista non perde perchè “meno efficace” dell’Armata Rossa come capacità tattico strategica e volontà combattiva: perde perchè i rapporti di forza sono del tutto sbilanciati a favore dei bolscevichi.
E’ interessante notare che Marx ed Engels salutarono l’esperienza della Comune di Parigi come esempio di “dittatura del proletariato”. L’accezione novecentesca del termine, che è quella che abbiamo in mente, sembra molto lontana da quel tipo di esperienza. Sono pagine, quelle, che valgono una rilettura.
Mi spiace parecchio di essere sommerso di lavoro e non potere dire la mia in questa discussione. Di osservazioni da fare (su Lenin, sulla forma-partito, sulla rovina della Comune di Parigi e sui limiti intrinseci a quell’exploit secondo Badiou etc.) ne avrei eccome, ma il tempo manca. D’altronde, non vorrei nemmeno rendere questo scambio ancora più “erudito” di quanto non sia. Non tutti conoscono a menadito la storia del movimento operaio internazionale. Purtroppo :-) E mi metto tra quanti dovrebbero saperne di più, perché ho troppe lacune.
[Della serie “Erano altri tempi”, ricordo en passant che nel 1971 il Comune di Bologna commemorò *ufficialmente* (nella sala del consiglio comunale!) il 100esimo anniversario della Comune di Parigi, e chiamò nientemeno che Lelio Basso a tenere una conferenza, che oggi è disponibile in rete ed è una lettura parecchio interessante:
http://www.controlacrisi.org/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=12686&catid=41&Itemid=68 ]
Comunque, invito a lasciare anche commenti più nello specifico del libro di Gentili e degli argomenti che tratta. So che diversi giapster lo hanno già letto, non sarebbe male se intervenissero.
Mi piace il modo in cui è stata impostata la recensione (appunti per una franca discussione) e sono riconoscente al fatto che essa solleva -non limitandosi ad una trattazione accademica del passato- questioni che non possono essere eluse, nel presente, dalle forze in sviluppo per una futura ridefinizione tattico-strategica complessiva della lotta.
Essa coglie la natura stessa del libro che ha un piglio chiaramente militante e si propone, per parte sua e nel suo piccolo, di essere propedeutico all’azione.
In questo senso, organizzazione, estetica ed etica militante, soggetti sociali di riferimento, immaginario costituiscono punti problematici non trascurabili.
Il libro li affronta raccontando una storia oscura, contraddittoria e maledetta avventurandosi, quindi, su un crinale “pericoloso”, così pericoloso da giungere, infine, a misurarsi con la cattiva coscienza della Casa Madre stessa, la Sinistra, con tanto di aggettivazione “rivoluzionaria” e “di Classe”.
Adoro ascoltare il punto di vista altrui, soprattutto quando l’interlocutore è di spessore. Quindi, dal momento che la recensione si dipana rigettando la variabile dicotomica -ex post- delle suddette problematiche ( in “i capi hanno tradito” e “le condizioni oggettive..”), vi pongo le seguenti questioni:
è davvero ineludibile la lettura dei concetti di “creatività delle masse” e “azione d’elite dell’Avanguardia” (strutturata gerarchicamente secondo una disciplina di tipo militare) secondo una chiave dicotomica?
In questo senso, è davvero possibile contrapporre il feticcio del Makhno “libertario” a quello del Lenin “burocrate”?
Per Malatesta, Makhno era un burocrate di tara leninista in quanto sostenitore dei principi della “responsabilità collettiva” e del “centralismo democratico” (polemica organizzativa, a più riprese, sull’ ‘”Umanità Nova” cogli anarchici ucraini).
Non da meno, la makhnovicina era un’organizzazione militare strutturata, diciamo così, secondo principi non proprio “libertari” (stando a quella che è la vulgata libertaria del III millennio).
Infine, l’esaltazione del ruolo dell’Avanguardia, nella prassi e teoria bakuninista, non presuppone in partenza una svalutazione del ruolo della “massa”? Se la categoria leninista di Partito-Avanguardia e quella bakuninista di Elite-Cospirativa (che sempre Avanguardia è) si distinguono nel metodo -in itinere-, nel merito -in potenza- non si fondano sul medesimo assunto?
L’esaltazione dello spontaneismo, della creatività delle masse, del libertarismo (tutte ottime qualità) in contrapposizione – furiosa e indotta- al demone organizzativo non rappresentano la foglia di fico per un’Estrema Sinistra ridotta, da un ventennio, ad un ruolo di second’ordine nella società?
Grazie a Valerio per l’intervento. Per ora, piu’ che segnalare testi io non posso fare, e allora questo faccio.
Se si parla di critica al verticismo cospirativo bakunista (e ancor piu’ necaeviano), tutto il durissimo dibattito dell’epoca tra Herzen, Marx-Engels, Bakunin etc. è raccolto in un libro d’antan molto illuminante, a cura di Vittorio Strada (nel frattempo diventato un ultrareazionario della madosca, ma all’epoca brillante studioso di storia e cultura russa).
Aleksandr I. HERZEN, A un vecchio compagno, Einaudi, 1977.
E’ fuori catalogo ma si puo’ cercare in biblioteca. Consigliato perché demolisce molti luoghi comuni sullo scontro tra marxisti e anarchici nella Prima Internazionale. E solo demolendo i luoghi comuni che ancora fioriscono su entrambi i lati di quella frattura storica (crepaccio nel frattempo riempito di cadaveri) che si può sperare di superarla (non di “ricomporla”, concetto invero triste, ma di andare proprio *oltre* essa).
una domanda a voi che ne sapete molto piu’ di me. qual e’ oggi in russia e in ukraina l’ influenza del makhnovismo sui movimenti anarchici e anarco/comunisti? ad esempio un movimento come “autonomous action” (quello in cui militava anastasija babourova) ha qualche tipo di legame con quell’ esperienza?
@ tuco
“una domanda a voi che ne sapete molto piu’ di me”
sei sempre simpatico quando prendi per il culo :-)
beh, allora diciamo: “una domanda a voi che ne sapete quanto me” :-)
comunque un po’ di tempo fa ho visto in tv un documentario su babourova e makhelov. c’era anche una breve carrellata sui movimenti neonazisti e sulla disperata resistenza degli antifascisti anarchici e comunisti libertari. ho la sensazione che per capirci qualcosa di piu’ in questa storia (la sconfitta degli antifascisti europei negli anni venti e trenta) bisognerebbe veramente avere lo stomaco di guardare quel che succede in russia oggi (e viceversa).
ah si’, per chiarire meglio. non intendo dire che ci siano dei parallelismi. intendo dire che la situazione disperata in cui si trovano oggi gli antifascisti russi e’ la conseguenza ultima di tutte le dinamiche di cui hanno parlato wm5 , gentili e vanetti.
@ Valerio Gentili
Ringrazio per l’intervento, devo dire in tutta franchezza che ci speravo.
Chiarisco ulteriormente la mia posizione, che è tanto politica quanto esistenziale.
Ritengo che il pensiero libertario funzioni, per chi proviene da una matrice marxista, come pensiero del limite, nel senso che aiuta a comprendere limiti, cattive interpretazioni, modi di sviluppare l’analisi costipati, e che aiuti a superare quell’eccesso di analisi che porta all’inazione o addirittura, per qualcuno, a illudersi circa l’inutilità, o la supefluità del momento di rottura del tempo disciplinare, l’illusione che il comunismo sia possibile “senza” rivoluzione. Il dibattito pubblico in questo paese ha spesso costretto a una sorta di autocensura, di autofalsificazione. Per questo ritengo che sia doveroso, oggi, dire chiaramente ciò che si pensa, e se si manca il punto non sarà per pusillanimità.
Quando poni la domanda fondamentale: “è davvero ineludibile la lettura dei concetti di “creatività delle masse” e “azione d’elite dell’Avanguardia” (strutturata gerarchicamente secondo una disciplina di tipo militare) secondo una chiave dicotomica?
rispondo allora che se la dicotomia è vera, ineludibile, allora abbiamo perso. Io penso per l’appunto che la dicotomia sia apparente. Appaia come tale, cioè, in base alle condizioni che si sono determinate storicamente. Si tratta per l’appunto, in altri termini, di superarla, ‘sta dicotomia. E sono quindi d’accordo con la tua chiusura, che trovo assai abile anche dal punto vista retorico.
@ wm5, gentili
Sempre in vena di domande e/o consigli di lettura. Perché non avete citato il libro del Marchi sulla Teppa (ed. Castelvecchi)? In particolare il capitolo su Gang contro il Nazismo (da cui poi arrivai al Sergio Bologna di Nazismo e classe operaia).
Di sconfitta in sconfitta fino alla vittoria finale della Teppa ;)
Forse uno dei pregi di Lenin è quello di aver intuito in che modo il capitale avrebbe organizzato la produzione e la società.
Intuizione che gli permise di organizzare il partito in maniera tale da poter interagire (e poter contrastare) quel trend.
Il più grande difetto di Lenin credo sia di non aver capito che quella struttura, quella forma organizzativa, non andava più bene dopo la rivoluzione, che avrebbe contrinuito a strutturare la società postrivoluzionaria in maniera molto simile a quella capitalistica.
Il più grande difetto dei leninisti di oggi invece, è quello di non aver affatto capito che la società capitalistica e la produzione sono organizzate in maniera molto diversa rispetto ad allora e che gli scritti di Lenin non sono la Bibbia, il Talmud o il Corano. E non essendo testi sacri vanno messi in discussione, perché non sono più adatti per comprendere e agire all’interno della società.
Però credo sia molto complesso discutere di tutte le tematiche messe sul piatto.
Io su Stalin e lo stalinismo, per esempio, non ho un’idea precisa, soprattutto quando ci si riferisce all’Italia.
A volte sono portato a credere che Stalin non fosse poi così diverso da Roberspierre e “che, terrore o no, la rivoluzione francese era stata una cosa giusta”.
Altre mi sembra solo un pazzo fottuto…
Anche sullo stalinismo italiano ho gli stessi dubbi.
Una delle sue vittime più illustri fu Pietro Secchia, considerato a quei tempi *lo stalinista*. Dopo un consulto con Mosca tentò di estromettere Togliatti dalla guida del Pci, fu isolato dal partito e morì solo dopo un viaggio in Cile, convinto di essere stato avvelenato.
Sino al suo ultimo giorno sognò la rivoluzione e mantenne rapporti con anarchici e comunisti che non militavano nel Pci. Gente che frequentava, e stimava, dai tempi della Resistenza.
A volte poi, sono portato a pensare che di “più realisti del re” ce ne sono molti e che non sono solo i capi a tradire ma, a volte, quel tradimento è dettato dal tradimento della struttura che forse si può definire burocratica.
Il primo esempio che mi viene in mente è piazza Statuto nel ’62.
Pochi giorni dopo l’insurrezione Rinascita, il mensile del Pci, dedicò ampio spazio a quei fatti, e la posizione di Togliatti discordava parecchio dalle altre, che bollavano gli insorti come “facinorosi”, “teppisti”, ecc. (il primo che mi dice che sto difendendo Togliatti lo meno! :-) )
Saltando di palo in frasca…
Leggendo questa discussione mi è venuto in mente Buenaventura Durruti, ma forse soltanto perché su di lui ho letto e riletto molto, mentre di Machno so poco. Mi verrebbe da azzardare un paragone… però non so se si può davvero.
Altro salto carpiato.
Mi è piaciuto molto l’intervento di Tuco. Condivido quel che pensa della Russia. Probabilmente quello è un laboratorio per esperimenti che in maniera forse più goffa, ma non meno pericolosa, sono in atto anche da queste parti…
a proposito di machno e antifa in ukraina. i got it:
http://www.youtube.com/watch?v=Xl8pLS0rpVE
@ radio suburra
vero, il riferimento ci sta tutto. Grazie per l’integrazione
Le domande che pone Valerio Gentili sono da un milione di dollari l’una. In particolare questa:
“L’esaltazione dello spontaneismo, della creatività delle masse, del libertarismo (tutte ottime qualità) in contrapposizione – furiosa e indotta – al demone organizzativo non rappresentano la foglia di fico per un’Estrema Sinistra ridotta, da un ventennio, ad un ruolo di second’ordine nella società?”
Certo io non ho una risposta netta. Mi limito a constatare problematicamente che anche quelle formazioni dell’estrema sinistra che sono rimaste fedeli a un modello più strutturato e organizzativo hanno comunque finito per incidere sempre meno nella società occidentale, divenendo, da un trentennio a questa parte, parecchio marginali. La “foglia di fico”, quindi, mi pare agire nelle due direzioni. Il problema irrisolto, alla cui soluzione ci si può forse soltanto approssimare per difetto, è quello di riuscire a valorizzare la creatività, la libertà e le differenze interne alle “masse”, senza che questo diventi ostacolo insormontabile per l’efficacia dell’azione politica (o per l’autodifesa dagli attacchi della destra). E’ in effetti il lascito irrisolto del Novecento.
Ritengo, ad esempio, che buona parte della fascinazione europea per un’esperienza come quella dello zapatismo messicano, tra anni Novanta e anni Zero, fosse dovuta precisamente al fatto che in quell’esperimento si leggeva un tentativo di superamento o soluzione del suddetto problema. E mi azzardo a dire che forse già la particolare assunzione della rivoluzione culturale cinese che si ebbe in Italia e in Francia negli anni Sessanta, era ispirata – a ragione o a torto – dalla stessa esigenza. Non ho ancora letto il libro di Gentili, ma mi sembra che la sua ricerca divulgativa abbia la particolarità di tornare a interrogare la storia sommersa europea, cioè a fare i conti con la nostra storia e il nostro album di famiglia, anziché rivolgersi ad esperienze esotiche (absit iniuria).
Vengo a un altro punto problematico, e lo faccio con un accostamento che potrà sembrare spericolato, ma forse lo è meno di quanto possa apparire.
Qualche mese fa ho scritto una lunga recensione sul romanzo di A. Byatt “Il libro dei bambini” (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=3163), nel quale, tra le altre cose, viene ripercorsa la lotta delle suffragette inglesi, a cavallo tra XIX e XX secolo. Quel romanzo racconta di una battaglia – in quel caso vincente – che pur non avendo connotazioni di classe, ed essendo limitata all’ambito dei diritti, tuttavia venne condotta anche in strada e con punte di cruenza non irrilevanti (nonché con violente spaccature interne tra suffragette e suffragiste).
Potrei citare anche le grandi manifestazioni femminili a Pietrogrado, per la Giornata Internazionale della Donna, che diedero avvio alla rivoluzione del febbraio 1917, prodromo di quella d’ottobre.
Mezzo secolo dopo la vittoria del movimento suffragista inglese, le operaie degli stabilimenti Ford britannici condussero una battaglia – anch’essa vincente e autorganizzata dal basso – per la parità salariale, immortalata nel film “We want sex” di Nigel Cole. In quel caso questione di genere e lotta di classe coincidevano (anche se non esclusivamente, e con molte contraddizioni, come il film è attento a far notare).
Questi esempi mi servono a porre la questione dei modelli “combattentisti”. Mi chiedo cioè se un limite interno alle esperienze riportate alla luce da Gentili – ed eventualmente di quelle che oggi potrebbero ancora trarre ispirazione da quelle strategie e tattiche militanti – non possa essere una certa esclusività di genere. Sia chiaro che non intendo indulgere in semplificazioni all’acqua di rose: il Novecento pullula di esempi di efficacissime “soldatesse rivoluzionarie”, ma questo non elimina il fatto che anch’esse aderissero a una modalità tutta virile della militanza, magari anche declinandola in forme peculiari, ma pur sempre interne e – di fatto – subalterne a un dato modello. Mi chiedo in sostanza se in certe forme dell’organizzazione e della lotta politica la soggettività femminile non risulti compressa, anziché esaltata, perdendo così la possibilità di un apporto determinante per il successo delle lotte stesse.
Va da sé che questo problema si estende a tutti i movimenti politici che si sono proposti e si propongono di cambiare lo stato di cose presente.
@WuMing1
grazie per le segnalazioni, soprattutto Lelio Basso sulla Comune;
@Wu Ming4
credo tu abbia centrato un punto fondamentale; ho seguito la discussione fin qui con una sensazione di schizofrenia, da un lato interessata al recupero di parti della storia della sinistra combattente, dall’altro sentendomi in parte respinta da quella storia e da quella simbologia. Notando tra l’altro lo scarso intervento di donne quando si affrontano questi temi. E chiedendomi nel contempo se questa sensazione di leggera repulsione fosse da ascrivere solo a una “sensibilità” personale o a qualcosa di più ampio. Ma mi sembra davvero che pur sentendo la necessità di riscoprire e studiare con attenzione le vicende di cui si sta parlando, manchi proprio un pezzo, e cioè quel pezzo che la sinistra – rivoluzionaria o meno che fosse, e per quanto riguarda l’italia già l’uso del termine rivoluzionario a me sembra debba essere molto cauto – ha spesso rimosso, o usato a seconda delle situazioni contingenti, ma mai davvero inglobato. Tutta la parte della storia in cui le donne non sono previste, fatte salve le non rare eccezioni che però si sono manifestate dentro un contesto, un linguaggio, una simbologia assolutamente mutuate dal mondo virile, si riconosce con molta fatica in quelle vicende, credo che si senta proprio respinta, allontanata. Non c’è stato, nè allora, nè oggi credo, nessun processo di osmosi che abbia saputo creare un patrimonio davvero comune, un ambito in cui anche dal punto di vista simbolico le lotte diventassero patrimonio di un comune conflitto. Ecco, se penso a tutta l’iconografia della sinistra – rivoluzionaria o riformista che fosse – la rappresentazione del femminile è quasi peggio di quella del mondo cattolico più bigotto, al limte del caricaturale. Allora faccio fatica, sia dal punto di vista intimo, che afferisce alla mia biografia, sia dal punto di vista della ricerca storica, fatico dicevo a trovare una collocazione “utile” alla simbologia tutta maschile e guerresca della prima metà del novecento.
Con ciò non intendo affatto dire che la ricerca e la riflessione sia inutili, chiaro, ma solo che gli manca un pezzo, pezzo che credo si debba cercare insieme, non accampando solo le differenze di genere usate come manganello.
(scritto di fretta e d’impulso)
Premetto che non ho letto (ancora) il libro di Gentili e per questo il mio commento non potrà che essere più che generale e vago, e per nulla attinente al libro.
Il punto di cui parla WM4 è davvero fondamentale, e non si tratta solo di un limite del “combattentismo”, ma anche di un pericolo.
Le dinamiche identitarie che si attivano quando prende piede una visione rivoluzionaria di quel tipo generano assai spesso dei mostri (di cui ha parlato benissimo WM5 al punto 6). Si va dall’innocua – per modo di dire – autoesaltazione che si è vista in certi ambienti dopo il 14 dicembre, ad esperienze limite come quella dell’Iran, dove si è passati direttamente dalla spinta rivoluzionaria al suicidio sui campi minati di ragazzini di 12 anni. Lo so che tra i due estremi c’è un abisso, ma un minimo comune denominatore di fondo, tra le tantissime e ovvie differenze, io ce lo vedo.
Io ritengo anche che un certo combattentismo sia necessario perché – perdonatemi la boutade – gli uomini al momento sono fatti così. E la “foglia di fico” è a mio avviso anche qualcosa che copre un bisogno di un’identità forte, autoreferenziale, in cui cercare un rifugio.
Non avevo ancora letto il commento di Paola Signorino quando ho postato. Condivido in pieno, al 100%. Io poi vabbè raggiungo livelli quasi patologici, ad esempio non sono mai riuscita a parlare ad un’assemblea universitaria in cui si respiravano atmosfere del genere (praticamente tutte quelle a cui ho partecipato). Quando ho visto che in altre circostanze non avevo alcun problema a parlare in pubblico, ho capito che non era proprio tutto un problema mio.
Non resisto, devo prendermi una pausa perché sento di avere qualcosa di utile da aggiungere alla discussione :-)
Sulla questione combattentismo e genere:
delle vicende raccontate da Gentili nel suo libro, noi abbiamo moltissime testimonianze di parte fascista, nazionalsocialista, reazionaria, combattentistica di destra. Membri dei Freikorps, delle SA, degli Elmetti d’Acciaio (Stahlelm) scrissero lettere, diari, romanzi autobiografici, anche memorie difensive nei pochi casi in cui la giustizia borghese di Weimar mise qualcuno di loro sotto processo. In essi si racconta la guerra controrivoluzionaria, la repressione dello spartachismo, le scorribande punitive per una Germania attraversata da moti, insurrezioni e temporanee conquiste del potere da parte della classe operaia (la repubblica sovietica di Monaco di Baviera).
Questo gigantesco corpus di documenti lo analizzò negli anni Settanta Klaus Theweleit (strana figura di psicologo/psicanalista, sociologo, critico culturale, storico del fascismo). Nel 1977 ne nacque un libro che io ritengo fondamentale, che consiglio da anni e che consiglierò fino alla noia: Männerphantasien (in italiano Fantasie virili. Donne flussi corpi storia, Il Saggiatore, 1997).
Bene, Theweleit nella sua grande esplorazione dimostra che per i fascisti che combattevano contro lo spartachismo, contro la RFKB, contro le formazioni militari di sinistra, il vero nemico e il vero incubo erano (rullo di tamburi…) le donne. I fascisti andavano fuori di testa vedendo le donne spartachiste, socialiste, ma soprattutto proletarie prendere parte alla rivoluzione, stare sulle barricate, servire come infermiere.
[N.B. C’è un’autentica ossessione fobica nei confronti dell’Infermiera Rossa, che in realtà è la Puttana Rossa: il fascista sospetta che tra i “servizi” che ella rende ai feriti ci siano anche quelli sessuali. Anzi, ne è sicuro. Anzi, lo ha visto coi suoi occhi, quando dopo una strage di “rossi” ha trovato cadaveri maschili e femminili nudi e avvinghiati in pose inequivocabili.
All’Infermiera Rossa, troia e infìda, il fascista contrappone l’Infermiera Bianca, idealtipo di donna angelica e desessualizzata che assiste i patrioti amorevolmente, senza pensieri “sporchi”.]
Le donne proletarie sono autentiche Furie, Erinni, Amazzoni assetate di sangue, ovviamente isteriche, spesso immaginate nude in cerimonie orgiastiche coi loro maschi comunisti, a volte ostentanti la loro nudità in modo provocatorio per umiliare il fascista. Tutte queste fantasticherie si trovano nei materiali analizzati da Theweleit, e derivano dall’aver visto le donne partecipare alla rivoluzione.
Le esagerazioni nella descrizione fascista della donna “rossa” non sono soltanto di questa natura. Ve ne sono di più interessanti.
Il disagio sessuale causato da queste donne in una comunità tutta maschile, virilistica, misogina e anche alquanto omofila (cioè quella militaresca-fascista) ha un curioso e intrigante effetto nella memorialistica di destra: la condizione femminile nell’esercito rosso è descritta come più paritaria di quanto non fosse. Nei diari dei Freikorps si trovano “testimonianze” su donne ufficiali di alto rango nell’esercito rosso (dato purtroppo falso), di spartachiste che caricano i fascisti a cavallo impugnando una pistola in ciascuna mano (cosa mai avvenuta) etc.
Ecco, spero che queste informazioni gettino una luce un po’ diversa su questa discussione.
Non cambierei una virgola del messaggio lasciato da Paola Signorino.
Una leggera sensazione di repulsione esiste anche per me.
Ed esiste, credo, per una miriade di motivi che confluiscono in un diverso linguaggio, in un diverso approccio al problema e alla ricerca della soluzione e del metodo per raggiungerla. Perfino, sembrerà stupido, mi rendo conto, in una diversa postura quando ci si ritrova a parlare insieme, fisicamente.
Non credo di aggiungere niente di nuovo, né di illuminante, alla questione ma finché le rivolte femminili resteranno un sottogenere delle rivolte, (un po’ come è sottogenere della narrativa la presunta narrativa femminile), finché la presenza delle donne verrà percepita e vissuta come una specie di orpello figlio e vittima di quella divisione in ruoli, che provoca non pochi danni nella quotidianità così come nelle eccezionalità, gli eventuali risultati ottenuti restano monchi.
Perché se nelle dinamiche della ribellione (grande o piccola che sia) le donne sono un passo indietro (metaforicamente parlando, spero si capisca cosa intendo) rispetto all’uomo, si potranno guadagnare quanti metri vogliamo, ma quel metaforico passo indietro non muterà di un centimetro. Come mancasse sempre, davvero, un pezzo.
E questa distinzione di ruoli esiste a destra così come a sinistra (con le dovute differenze, sia chiaro), anche in quella più estrema (uff). Con l’aggravante che a sinistra crea un gran casino nella comunicazione, nella condivisione e nella crescita collettiva dell’esperienza. Come un perenne non detto, come una questione non risolta che aleggia nell’aria. Come qualcosa che non viene percepito come un problema reale con delle reali conseguenze. O che non si vuole percepire in questo modo. Da entrambe le parti, naturalmente.
grazie a @WM1 per la segnalazione, e la nuova prospettiva.
grazie, soprattutto, alle due donne che mi hanno preceduto: condivido il vostro “sentire”!!
metto insieme le due cose: WM1, ci ha detto qualcosa di come i fascisti vedevano le donne coinvolte nella rivoluzione. Ho nella mente echi del romanzo di Antonio Scurati sulle 5 giornate di Milano, che è pieno zeppo di donne sulle barricate (e, tra l’altro, sono donne sporche, brutte, di strada, eccetto l’algida Aspasia: il modello permane…).
Ma, mi verrebbe da domandare, come i compagni guardano alle compagne? Come i compagni raccontano le compagne? Come le ascoltano? Come lottano con loro (cioè, con noi).
Credo che, in sottofondo, tra le righe, sia questo il senso degli interventi di @paola signorino e @Adrianaaaa (o, almeno, così l’ho sentito io…)
scrivevo mentre anche @blockmia scriveva…
Mi rendo conto, rileggendo il mio commento e quelli che lo attorniano, di avere lasciato troppo implicita la “lezione” che traggo dalla trans-lettura di Gentili e Theweleit:
i combattenti rossi di cui Gentili narra le gesta – e che è sacrosanto strappare all’oblio, perché quelli sono i nostri bisnonni e trisavoli culturali, e per i più attempati di noi sono i nonni – pensavano di essere l’incubo del fascista. Si rappresentavano come incubo del fascista. La loro iconografia e simbologia, il loro linguaggio verbale e corporeo, tutto proclamava a gran voce: Noi siamo l’incubo del fascista. Colpire il fascista ovunque si trovi. Il fascista deve sognarci di notte. Il fascista deve guardarsi le spalle in ogni momento. L’esercito rosso, presto o tardi, gli metterà le mani addosso. Anche le tre frecce dicono questo: vi cancelleremo. Caleremo su di voi con punte acuminate (bel riferimento fallico, tra l’altro!)
Tutto giusto, condivisibile, anche entusiasmante, non lo nego. Uno – ripeto: uno – legge quelle cronache, vede quei pugni chiusi (all’epoca erano disegnati a nocche in avanti, cioè: Questo ti arriva sul grugno!) e pensa: cazzo, questi davvero avrebbero potuto fermare il nazismo.
Tutto giusto, ma… parziale.
Parziale, perché poi è venuto fuori che l’incubo del fascista (in senso metaforico ma anche letterale) non erano tanto i combattenti rossi, ma le donne che li affiancavano.
E i fascisti avevano ragione. Il vero pericolo per loro è la partecipazione femminile. Tanto che ne ingigantiscono la portata: negli schieramenti rossi della Germania anni Venti la posizione delle donne rimaneva subordinata (non a caso erano nell’esercito come infermiere, ruolo importantissimo ma non combattente), ma per il fascista non era così, lui non la vedeva così. Già il fatto che quelle sfrontate, quelle autentiche baldracche non fossero a casa a fare la calzetta, bensì in prossimità dello scontro, lo mandava fuori di testa. Figurarsi se il ruolo delle donne fosse stato meno subordinato, se ci fosse stato più protagonismo femminile, se ci fossero state più dirigenti donne come Rosa Luxemburg… Chissà, forse l’ossessione fobica sarebbe divenuta, in molti reazionari, terrore paralizzante. Nessuno può dirlo, ma una cosa si può senz’altro dire, ed è questa:
più si imporranno a sinistra modelli non escludenti dal punto di vista del genere, meno saranno possibili ambigui, nauseanti “rispecchiamenti” tra destra e sinistra.
I “rossobruni” sono possibili in quell’interzona dove le “fantasie virili” dei due campi si confondono tra loro.
Boh, spero di essermi fatto capire. Non è facile, per un maschio, maneggiare queste cose.
@wm1
“I “rossobruni” sono possibili in quell’interzone dove le “fantasie virili” dei due campi si confondono tra loro.”
recentemente su un blog ho assistito a uno scontro tra un compagno e un fascio, i quali, dopo essersi “scannati” per ore su tito, foibe ecc., hanno finito per “fraternizzare” scambiandosi aneddoti sul servizio militare e sulle rispettive imprese erotiche. :-S queste dinamiche scompaiono quando alla discussione partecipano delle compagne, soprattutto se sono delle “bad girls”. invece si autoalimentano se alla discussione partecipano delle donne, diciamo cosi’, “benpensanti”.
(credo che sarebbe utile fare un lavoro simile a quello di theweleit, ma su materiale italiano. credo che le “fantasie virili” cambino a seconda delle varie culture. ad esempio non sono sicuro che tra i fascisti italiani ci fosse una omosessualita’ latente cosi’ diffusa come tra i nazisti)
In questo momento non posso intervenire anche se vorrei, mi limito a fare una domanda: secondo voi qual è la fantasia di sconfitta peggiore concepibile per i fascisti? Credo che rispondere a questo possa dire molto su quale tipo di simbologia ma soprattutto di organizzazione ci serva davvero.
(Questo thread contiene una quantità mostruosa di argomenti diversi. Aggiungere carne al fuoco, forza!! E magari leggiamoci pure il libro di Valerio. :-) )
Va detto che Theweleit critica l’espressione “omosessualità latente”, dice che spiega troppo poco. Dopo aver letto il suo libro, certa omofilia diffusa tra i fascisti tedeschi mi sembra (ripeto: sembra) più una conseguenza della misoginia.
L’esperienza di guerra e il cameratismo emergono come una specie di “ritirata” esistenziale e sessuale di fronte alla minaccia femminile: molti soldati descrivono – inconsciamente o intenzionalmente – la guerra controrivoluzionaria come un sollievo rispetto al dover passare il tempo con la promessa sposa.
E il più delle volte la donna è del tutto rimossa: un fascista nei suoi scritti snocciolerà nomi e cognomi di tutti i commilitoni e a volte anche dei nemici, dei prigionieri, ma – è la primissima cosa che Theweleit fa notare – non veniamo mai a sapere il nome di sua moglie o di sua figlia. Mai, nemmeno quando parla di lei. Resta innominata: “la mia sposa”, “mia moglie”, “conobbi quella che sarebbe diventata mia moglie” etc.
Leggendo certi deliri fascisti sulle donne (che raggiungono l’apoteosi quando si parla delle donne “rosse”), pare di cogliere i tratti di un’omofilia priva di eros e nutrita di risentimento: “Si sta meglio tra uomini, troppo difficile e rischioso avere a che fare con quelle stronze che ci pongono limiti, mettono in crisi le nostre certezze, hanno sensibilità estranee alla nostra. E’ molto più comoda la scomodità della guerra, è una scomodità fatta di certezze”.
Ho sempre usato verbi come “pare”, “sembra”, “si ha la sensazione”, perché questo è un terreno difficile, anzi, è un campo minato. Quel che volevo dire è: magari nei fascisti italiani ci sono tratti secondari diversi (ammesso e non concesso che l’omofilia fascista sia, come azzardavo sopra, un tratto “secondario”, derivato), magari – chessò – gli squadristi e i boia repubblichini italiani trombavano di più (ma con chi? nei bordelli?), però l’odio per la “Puttana Rossa” non mi sembra affatto assente dalla mentalità dei fascisti nostrani, anzi. Si pensi al loro odio per Franca Rame negli anni ’70, che ebbe conseguenze concrete molto, molto brutte.
@ Mauro
l’umiliazione/castrazione da parte delle donne nemiche. Questo è molto chiaro, almeno per quanto riguarda i fascisti tedeschi di cui sopra.
@wu ming 1,
capito.
E direi che
“più si imporranno a sinistra modelli non escludenti dal punto di vista del genere, meno saranno possibili ambigui, nauseanti “rispecchiamenti” tra destra e sinistra.
I “rossobruni” sono possibili in quell’interzona dove le “fantasie virili” dei due campi si confondono tra loro”
è un concetto che, come si dice a Firenze, non fa una grinza.
E concordo anche con il “cogliere i tratti di un’omofilia priva di eros e nutrita di risentimento”.
Diciamo che le parole che hai citato, “si sta meglio tra uomini etc”, assomigliano molto a quello che si può leggere/sentire adesso da parte di alcuni maschietti, parole piene, sopratutto, di risentimento. Con tutte le conseguenze del caso.
E, per inciso, ho rotto il porcellino, che qui tocca incrementare la libreria!
@WM1 più si imporranno a sinistra modelli
non esclusiviinclusivi ;-) dal punto di vista del genere, meno saranno possibili ambigui, nauseanti “rispecchiamenti” tra destra e sinistrae, generalizzando, non solo del genere, anche della razza (gli immigrati), della qualità delle relazioni che la persona tesse (gentilezza/attenzione, cura, empatia,parresia…), direi proprio che il “co-” il “co-m-“, il “più collettivamente possibile”, sia una delle caratteristiche peculiari della nostra parte.
Si diceva su giap che la Resistenza ha proposto storie di partecipazione femminili (contrariamente agli anni ’20), però mi sembra che siano sempre state relegate al ruolo di staffette, cuoche. Ho presente solo Tina Anselmi che, pattugliando la sua città, Castelfranco Veneto, punta la pistola alla schiena e arresta suo padre, che cammina di notte per strada e non sa la parola d’ordine [da: “Storia di una passione politica” Tina Anselmi con Anna Vinci], ignoro se le donne hanno avuto altri ruoli.
@WM1
Credo anch’io che il loro incubo sia quello. Dal che deduco che ciò che fa loro paura non sono né un loro doppio (esercito di maschioni cattivoni ma comunisti) né un loro opposto (girotondo di donne mansuete) ma qualcosa che per loro è una vera e propria aberrazione, ovvero una donna che si fa combattente o, per meglio dire, un esercito capace di includere delle donne senza per questo smettere di essere un esercito.
Stiamo attenti a non chiudere neppure noi (compagne e compagni) le donne in un ruolo che non è genetico ma sociale. Le donne sono da sempre capacissime di combattere, quello che sono meno brave a fare (fortunatamente) è di combattere come bestie o di “far gara a chi ce l’ha più lungo” – specialità tipicamente fascista.
@wm1
infatti l’ odio per la “puttana rossa” e’ una costante. sarebbe anche interessante indagare le “fantasie virili” dei macellai di bolzaneto.
@ mauro vanetti
difficile rispondere. ad esempio c’e’ un fascista, a monfalcone, che e’ ossessionato dagli operai bengalesi che si scaccolano i piedi seduti sulle panchine del giardino pubblico. :-)
penso che un fascista oggi si senta sconfitto davanti a due uomini o a due donne che si baciano liberamente camminando per strada, o davanti a una donna che smaschera la sua (di lui) natura di uomo sessualmente represso (v. “indagine su un cittadino…”), o davanti a un uomo e una donna che hanno un rapporto paritario, tutti e due a testa alta. e poi davanti a una coppia mista, lui africano e lei italiana (ma non viceversa)….
@tuco
Noi ce ne avevamo alcuni che erano così in fissa sugli ebrei che avevamo cominciato a sostenere nei forum pubblici di avere tutti origini ebraiche e loschi agganci con cospirazioni giudaico-bolsceviche, chiamandoci con nomi biblici e facendo richiami cabalistici. Scleravano di brutto. Sono convinto che a Pavia ci sia più di un nazi certissimo che avevo un nonno rabbino.
@ blockmia
eh, purtroppo Fantasie virili è da tempo fuori catalogo. Il Saggiatore non lo ha più ristampato. Se ne trovano copie nelle librerie dei remainders, oppure in biblioteca :-(
@Wu Ming 1
‘azz, si apre un’altra caccia al libro perduto, ormai mi sta capitando sempre più spesso … vedrò di contattare qualche spacciatore di libri …
@tuco e tutti,
“penso che un fascista oggi si senta sconfitto davanti a due uomini o a due donne che si baciano liberamente….”
Manco a farlo apposta, ecco una notizia di cronaca di oggi da Repubblica Milano
http://bit.ly/okOYGS
In breve: Milano, era al ristorante con la compagna
“Un uomo l’ha aggredita perché è lesbica”
La descrizione dell’aggressore è abbastanza significativa:
“Ci siamo girate e abbiamo visto un uomo robusto, sui 35 anni, pelato e tatuato, con un fisico davvero imponente, prendere a pugni una ragazza”
ma ancora di più forse la dinamica dell’aggressione:
“È stata pestata perché mentre faceva una foto con la fidanzata, dal tavolo accanto questo tizio, che per tutta la sera le importunava con occhiate e battute chiaramente omofobe, l’ha appellata molto poco carinamente e lei ha risposto”. “Gli ha detto ‘ma non sei gay anche tu?’. Quanto è bastato a farlo andare su tutte le furie”
Complimenti a tutti per il post e la discussione, ora so qual è il prossimo libro che compro.
Non ho molto da aggiungere a tutto questo dibattito sul ruolo della donna nel movimento, però volevo segnalare del materiale, a mio avviso interessante, inerente al libro “Bastardi senza storia”.
Innanzitutto, per rispondere a uno dei punti sollevati nel post iniziale, volevo dire che una riprova dell’effettiva efficacia delle tecniche propagandistiche di Sergej Chakotin e dei suoi collaboratori è riscontrabile anche nei pamphlet che circolavano tra gli addetti alla propaganda del Partito Nazional-Socialista, vedi per esempio http://www.calvin.edu/academic/cas/gpa/wilweg02.htm. Anche il resto del materiale nel sito (liberamente consultabile) è estremamente interessante, e aiuta a capire quanto la superiorità dei nazisti al livello di propaganda e comunicazione sopperisse alle loro grandi mancanze a livello politico (e qui il parallelismo con Casapound, che si regge unicamente sul marketing e la sovraesposizione mediatica, è fin troppo facile).
Secondo, volevo segnalare due libri sull’argomento che ho da poco ordinato e che mi sono stati consigliati:
– Neighbors and Enemies: The Culture of Radicalism in Berlin, 1929-1933 di Pamela Swett, che analizza il discorso accennato da Valerio nel suo libro sulla diffusione delle gang di strada, il radicamento del KPD più tra il lumpenproletariat che nelle fabbriche, il ruolo centrale delle birrerie nella vita sociale e via così. In google.books.com si trova facilmente una preview.
– Beating the Fascists?: The German Communists and Political Violence 1929-1933 di Even Rosenhaft, che tramite rapporti di polizia, articoli di giornale e testimonianze varie tenta di ricostruire questa stagione di violenti scontri nelle strade, nonchè le motivazioni e il background culturale di chi ve ne prendeva parte. Anche in questo caso è presente una preview, per chi fosse interessato.
Esiste anche un libro fotografico, forse edito nella DDR, con foto di divise, gagliardetti, marce e raduni della RFKB, ma più che averlo visto di sfuggita su Ebay non so altro.
Per il discorso gang di strada invece sarebbe interessante approfondire la Swingjugend (http://en.wikipedia.org/wiki/Swing_Kids), gli Edelweißpiraten (http://en.wikipedia.org/wiki/Edelweiss_Pirates) e le “Leipzing Meuten” (http://libcom.org/forums/history/leipzig-meuten-anti-nazi-germans-24062006), forse le forme più evidenti e “ribelli” di antifascismo dal basso (più o meno consapevole) nella Germania nazista.
Consiglio inoltre la graphic novel Berlin di Jason Lutes, che oltre a essere veramente ben fatta riproduce fedelmente alcuni spaccati della Germania di allora (il giornalista intellettuale, la scena “alternativa” berlinese, la famiglia ebrea, gli scontri in strada tra comunisti e SA e via così). Per ora ne sono usciti due volumi, del terzo ancora non si sa niente.
A proposito di nazismo e di cultura anti-femminile “millenaria” delle classi dominanti vi segnalo l’ottimo “Cromwell e Afrodite. Democrazia e culture alternative” di Giorgio Galli: http://www.kaosedizioni.com/schgalli_cromwell.htm
Molto interessanti le segnalazioni del post sopra.
Rosenhaft e Lutes -chi a parole chi a disegni- colgono proprio lo zeitgeist dell’epoca (e il “vendicatore rosso” tutto tatuato non si batte).
Mi permetto di aggiungere alla lista, la raccolta fotografica “Die KPD in kampf gegen faschismus und krieg”, data alle stampe nella DDR degli anni ’80 su carta riciclabile!
Sarebbe interessante, rispetto al dibattito, guardare proprio al ruolo attivo conquistato dalle donne nella vita politica sociale e culturale della “maschia” DDR (qualcosa di tutt’ora imponderabile per la nostra società).
Le sorprese più piacevoli si incontrano proprio dove non ti aspetti di trovarle (e lo dico da non comunista).
E qui, vengo alla questione del contributo dato dalle donne alla causa del “combattentismo rosso” ricordando -a titolo d’esempio- l’esperienza nostrana delle “Ardite rosse”, battaglione autonomo degli Arditi di Ambrosini. Una componente che, se maggiormente indagata, potrebbe sovvertire il ruolo di infermiere (e/o “angeli del ciclostile”) cui la storiografia ex post le ha costrette. Per di più su un terreno apparentemente “machista”, tutto pugni ostentati e parate in divisa.
Curiosità: nel film monumentale di Maetzig “Ernst Thalmann, Fuhrer seiner Klasse” (c’è per intero su youtube) potete notare donne in divisa della RFKB prendere regolarmente parte agli scontri di strada col nemico 80 anni fa, ai tempi di Weimar.
Finzione postuma?
Sono iscritta a diverse comunità web dedicate a crossdresser e transgender. Da questo particolare osservatorio mi è capitato di notare che sono in perenne crescita nick tipo “centurionenero”, “falangista”, ecc. Si tratta di maschi che non fanno mistero d’essere fascisti e che cercano incontri sessuali con travestiti, crossdresser e trans.
In qualche occasione la mia vena antropologica mi ha spinto alla chiacchiera in chat e mi sono trovata spesso spiazzata: vomitano senza soluzioni di continuità luoghi comuni machisti, pretesa cavalleria (come quelli che pensano di essere femministi perché aprono la portiera alla compagna) e a tessere le lodi di ciò che hanno fra le gambe. Non trovano contraddizioni fra l’essere fascisti e il desiderare un rapporto sessuale con persone biologicamnete dello stesso sesso. Per un periodo sono stata iscritta a Facebook e lì le avances di militari di carriera, esponenti pdl e fascisti generici erano numericamente imbarazzanti. Non so che contributo possa portare questa mia testimonianza alla discussione, ma credo che un’indagine su sogni e incubi fascisti potrebbe essere in qualche caso illuminata da uno studio che si occupi di ciò.
@ valerio
finzione non credo, perché le donne c’erano, ed è proprio questo il punto: se i fascisti non le avessero viste per strada e dietro le barricate, non ne sarebbero rimasti tanto ossessionati, al punto di renderle onnipresenti e ingigantirne addirittura ruoli ed exploit. Finzione no, ma è più una questione di enfasi (nel senso proprio di accentazione), e lo dico da romanziere storico. In un romanzo o film storico, ogni scena diventa *esemplare*. Se mostro una situazione in cui le donne combattono in una situazione di completa parità con gli uomini, quella verrà percepita come la norma, a meno che io non la presenti esplicitamente come fatto singolare e poco frequente. Se nelle foto di quelle milizie si vedono quasi solo maschi e se nell’indice dei nomi del tuo libro ci sono solo nomi maschili, e se una delle chiavi più importanti è il reducismo organizzato (lo “spirito delle trincee”), io tendo a pensare che la donna combattente fosse una figura rara. Esistente e attiva, ma rara.
Anch’io tendo a pensare che la donna combattente fosse una figura rara, molto più rara dell’uomo non-combattente, uno che mena la mani malvolentieri e che dalla figura del guerriero non si sente per nulla affascinato. Io ad es. sono fatto così, e l’imbarazzo raccontato da molte donne qui su Giap per certi entusiasmi e certe pratiche di lotta o assemblea, lo condivido in pieno, prima di pancia che di cervello. Trovo interessantissima la ricerca di Gentili – e non vedo l’ora di leggere il suo libro – ma sono affascinato, come al solito, dal cono d’ombra della Storia, dal punto di vista sghembo sulla lotta antifascista, mentre non sento particolare attrazione per le forme di quella lotta. Ho notato che spesso, se una donna esprime un opinione del genere, la si accetta in quanto “punto di vista femminile”, salvo poi non tenerne conto alla prima occasione. Se il commento invece lo fa un uomo, allora è uno che tiene il culo sulla poltrona e non in strada, che è un po’ l’equivalente di quando da piccolo ti dicevano che piangere è una roba da femminucce.
alcuni pensieri sparsi
non so se possa rientrare nel discorso sui “bastardi senza storia”, ma tra gli antifascisti degli anni trenta mi piace ricordare anche la lincoln brigade, che combatte’ in spagna nella zona di madrid, e che fu guidata per un periodo dal militante comunista afroamericano oliver law.
[a proposito di america (e dell’ educazione dei bambini, e di quel che scriveva wm4 piu’ sopra): mi ha sempre fatto impressione pensare che mark twain scrisse “the adventures of huckleberry finn” piu’ o meno negli stessi anni in cui collodi scriveva “pinocchio”. per associazione di idee mi viene in mente la descrizione che thomas mann aveva fatto nei buddenbrook di una tipica giornata in una scuola prussiana di quello stesso periodo. ]
sul rapporto dei fascisti con la sessualita’, mi e’ venuto in mente “l’ infanzia di un capo” di sartre. e mi sono ricordato di uno strano episodio. una quindicina di anni fa, per due anni, sono stato un militante del pds (spero che dopo questo outing non mi buttiate fuori dal blog :-)). per un periodo mi sono occupato di tesseramento. un giorno si presenta un tipo strano: era uno skin, era pieno di tic nervosi, ed era chiaramente gay. voleva iscriversi al partito. gli chiedo se avesse gia’ militato in altri partiti, e lui risponde: si’, in fiamma tricolore. trasecolo, gli chiedo perche’ se ne fosse andato, e lui risponde: perche’ mi hanno fatto delle cose brutte (sic!). io gli dico che per il momento non posso fargli la tessera, ma che intanto puo’ provare a partecipare a qualche riunione. non l’ho piu’ rivisto.
@ tuco
minchia, che aneddoto! Allargando uno spunto così, Stephen King scriverebbe un romanzo di 800 pagine.
e poi ti toccherebbe tradurlo
@ Wu Ming 2 e @tutti
Girando per la rete mi sono imbattuto in un documentario che a prima vista mi sembra molto interessante (non l’ho ancora visto), “Innamorate della libertà” di Remo Schellino.
http://www.youtube.com/watch?v=B2QFz83NtI4
Parla di donne nella Resistenza italiana.
Si citano anche dei dati, e secondo loro le donne combattenti furono circa 30mila (escludendo le staffette).
Una delle frasi che più mi ha colpito guardando il trailer si riferisce al modo di raccontare quell’esperienza da parte di quelle donne (nel lancio ci sono anche alcune testimonianze), che “evitano i toni eroici del soldato tornato vittorioso dalla guerra”.
Forse, ma questo penso possa spiegarlo molto meglio una donna, per loro la guerra non è un’impresa, è una necessità alla quale devono piegarsi…
Però la fanno…
Un episodio che mi ha molto colpito della Resistenza italiana riguarda Carla Capponi.
I suo compagni gappisti le negavano un’arma, preferivano riservare alle donne azioni di supporto. Per procurarsene una, e forse per dimostrare ai suoi compagni di che stoffa era fatta, rubò una pistola a un fascista della Guardia nazionale repubblicana che stava accanto a lei in un autobus affollatissimo…
Ci furono distaccamenti partigiani interamente composti da donne, e molte giunsero a guidare alcune brigate.
Io però non penso che fosse questo a spaventare i fascisti. A terrorizzarli forse non era la figura della “donna combattente”, o almeno non solo.
A spaventare i fascisti di ogni risma credo sia la donna libera, perché una donna libera mina alla base tutto l’ordinamento sociale nel quale un fascista (ma anche un conservatore) crede e per il quale combatte.
A spaventarli è quel “No!” che gli gridano in faccia, perché quel rifiuto si riferisce a tante cose e implica un coraggio che loro non hanno.
I fascisti italiani probabilmente cercarono di reagire a quella paura, forse pensarono che la donna fascista non dovesse essere da meno di quella antifascista.
E nonostante Mussolini sostenesse che il complito primario delle donne fosse quello di procreare ed educare i figli, la figura della donna combattente fa parte anche della mitologia fascista.
Al fianco dei repubblichini combattè il servizio ausiliario femminile.
Una terapia di gruppo che probabilmente non funzionò. E ai giorni nostri, cercando qualche video che le riguardava su youtube, mi sono imbattuto in questa discussione che conferma quello di cui stiamo discutendo:
DecimaMAS82: “ecco le ULTIME VERE DONNE,MADRI E MOGLI. doverose,operose,infaticabili. quando ancora si conosceva e rispettava la FEDELTà. ( sempre e comunque). FEDELI PER LA PATRIA,PER IL DUCE E PER IL PROPRIO MARITO. Donne che con 100 lire al mese portavano avanti la famiglia..! oggi vogliono libertà assoluta,soldi,la bmw per fare la spesa…. e poi non sanno fare un’uovo fritto! il formaggio gli puzza,quello gli impuzzolisce i capelli,quello così,quello cosà….. ma che razza di donne ci sono oggi???”
KimCaputMundi: “@DecimaMAS82 migliori di te, retrograda!!!!! Ancora con questa anacronistica idea dell’angelo del focolare… in famiglia si collabora, marito e moglie sono un unica realtà una squadra invincibile, equivalenti e autonomi”
DecimaMAS82: “@KimCaputMundi chi è lei scusi? abbiamo fatto la scuola insieme? mangiamo nello stesso piatto??? non mi risulta. si moderi e non si prenda confidenza,nessuno l’ha contattata. abbassi la cresta”
KimCaputMundi: “@DecimaMAS82 Grazie al Cielo non mangiamo insieme e non abbiamo nemmeno fatto la scuola insieme… non abbasso la cresta, combatto contro i pazzi fascisti! A MORTE TUTTI I FASCISTI. Vi auguro sofferenza, dolore, malattie, lacrime di sangue”
DecimaMAS82: “@KimCaputMundi dammi il tuo indirizzo….che ti vengo a prendere a casa…. e ti sparo. brutta troia. sucami la michia puttana di merda”
[…]
KimCaputMundi: “@DecimaMAS82 non ti scaldare coglione…. sei un fascista di merda e le tue parole non mi offendono minimamente… invece le mie hanno colpito nel segno… perché sei maschio, sei fascista e sei un coglione… un cocktail perfetto… che paura che mi fai COGLIONE.
ECCO COSA è IL FASCISMO: pazzi violenti esaltati e TROGLODITI… se qualcosa gli da fastidio UCCIDONO… non sono degni di vivere tra i civili ( e io non sarò “civile” con loro)”
DecimaMAS82: “@KimCaputMundi TACI PUTTANELLA SCIACQUALATTUGA, VAI A LAVARE I PIATTI CHE è MEGLIO. ESCI DA CASA E VAI A FARE IL TUO MESTIERE…. 5 EURO A POMPINO… TANTO VALI. ABBASSA LA CRESTA CHE ME NE STRAFOTTO CHE SEI DONNA….DIMMI DOVI ABITI….CHE TE LO DICO IO… DIMMELO TROIA.. COSì MI DIVERTO UN PO. TI FACCIO PROVARE IL MANGANELLO CHIODATO DI MIO NONNO. SICURAMENTE NEL TUO BUCO DEL CULO SFONDATO…CI SCIVOLA CHE è UNA BELLEZZA. SUCA FORTE PUTTANELLA DA 4 SOLDI”
KimCaputMundi: “@DecimaMAS82 ahahahahahahah mi fa ridere…. non riesci nemmeno a offendermi… sei ridicolo!!! continua… renditi ancora ridicolo, pubblicamente: dimostra a tutti cosa significa essere fascista ECCO QUESTO è UN FASCISTA!!!!”
Detto questo però, vorrei dire un’ultima cosa: sono molto spaventato dall’analizzare l’adesione a un’ideolgia dal punto di vista della “devianza”. Anche se l’ideologia è quella del nemico.
Il rischio è quello di eguagliare o superare la sua barbarie…
@ punco
un appunto: ma è proprio necessario riportare certi *florilegi* qui nel nostro blog? Non credo che il sessismo fascista abbia bisogno di esempi. Non qui, almeno. Sinceramente io ne farei volentieri a meno e lascerei certa spazzatura là dove si trova (poi se qualcuno vuole leggersela in loco, fatti suoi).
Le parole usate da Mussolini nell’inaugurare il monumento di Anita Garibaldi sul Gianicolo, sembrano dar ragione all’analisi di Punco. Non la donna in quanto combattente terrorizza il fascista, ma la donna combattente in quanto libera. Mussolini esalta l’Anita guerriera, a patto di ricordare che combatteva a fianco del marito e senza dimenticare i suoi doveri di madre:
“Il governo Fascista ha voluto dedicare alla memoria di Anita, la presenza galoppante, nell’atteggiamento di guerriera che insegue il nemico e di madre che protegge il figlio. L’artista insigne, che ha così dato oltre l’effige lo spirito di Anita, che conciliò sempre, durante la rapida avventurosa sua vita, i doveri alti della madre con quelli della combattente intrepida al fianco di Garibaldi.”
@ punco
l’ultima tua constatazione è proprio quella da cui prende le mosse Theweleit nel rifiutare il discorso della “omosessualità latente”. E’ un problema di cultura misogina, di un ordine sociale basato sull’odio per la donna e su una rigida divisione del lavoro tra i generi. L’omofilia reattiva e rancorosa del fascista, quando c’è, è una conseguenza. Il fascismo è il luogo in cui l’odio per la donna raggiunge la massima concentrazione e le forme più parossistiche, ma in questo non c’è nessuna “devianza”, il percorso è di una coerenza assoluta.
Sull’altra questione, sono molto d’accordo sul fatto che a spaventare i fascisti non sia la “donna combattente” bensì la donna libera. E quindi: combattente perché libera, perché ha scelto di combattere. Ma anche avesse scelto di partecipare alla lotta in altro modo, il fascista ne avrebbe paura, basti vedere tutti i racconti sull’Infermiera/Puttana Rossa.
Provo a integrare le tue osservazioni: credo che l’immaginario combattente della Resistenza sia molto, molto diverso da quello dell’antifascismo armato degli anni Venti.
Negli anni Venti nell’Europa continentale dominava il “Frontkaempfergeist” (lo spirito del combattente al fronte), c’era una cultura maschile totalmente impregnata dal reducismo della Grande Guerra e dall’esperienza della trincea. In Italia c’era l’arditismo, e in Germania il suo equivalente per quella cultura nazionale. Da ogni parte c’era revanscismo: per la sconfitta o per la “vittoria mutilata”. Tutto questo formava una cultura virile guerresca che – a destra ma anche a sinistra – lasciava davvero poco spazio per declinazioni al femminile. Ovviamente, ne lasciava di più a sinistra, ma sempre troppo poco.
Invece la Resistenza parte da un rifiuto della guerra fascista e – più sulla lunga gittata – dal rifiuto dell’educazione ricevuta durante il Ventennio (il Sabato fascista e tutte quelle cagate pseudo-marziali). L’arditismo è un ricordo lontano, ed è forte l’idea di – per dirla con WM5 – “combattere per vincere e non combattere mai più”: “Torna a casa il fiero partigian“. Finita la guerriglia, si torna a casa. Si fa la guerra ma si vuole la pace.
Inoltre, la guerriglia è un modo di fare la guerra molto diverso dallo scontro campale. Non si passano in rassegna le truppe, non ci sono parate, nelle foto di gruppo si è spesso in canottiera e bragolini, spettinati… Il mordi-e-fuggi, la necessità di essere invisibili, il muoversi tra la popolazione civile “come un pesce nel mare”, la molteplicità degli scenari (in montagna, in pianura, in città)… Tutto questo è militare ma non militaresco.
Nel frattempo, mentre gli uomini erano al fronte, le donne sono diventate operaie, muratrici, carrettiere, guardiane notturne… Era già successo durante la Grande Guerra, ma durante la seconda guerra mondiale il fenomeno ha avuto proporzioni ben più ingenti. Le donne sono uscite dai loro spazi tradizionali, e hanno ruoli attivi in sfere prima impensate.
Tutto questo lascia più spazio alle donne. E dove ce n’è poco lo allargano, come fa la Capponi.
@Wu Ming 4
Mi dispiace molto.
Ti capisco perché è lo stesso fastidio che ho provato io leggendo quei commenti, ma pensavo potesse essere utile leggerli…
Forse ho sbagliato… Però non volevo mettere in risalto solo il sessismo di un fascista. Mi interessava evidenzare come un fascista perde la testa di fronte a una donna che gli risponde a tono e il tono di quella donna.
Però, se ritenete sia il caso di rimuoverla, per me non c’è alcun problema. Non griderò di certo alla censura.
Anche perché l’aver scelto di riportare stralci di quella discussione invece di linkare il video con tutti i commenti è stanta anche da parte mia una scelta censorea…
per rendere più chiara la citazione di WM2 sul monumento di Anita (fatto da M.Rutelli… sì, sì, è parente), qui lo si può vedere da tutti i lati:
http://www.tesoridiroma.net/curiosita/anita_garibaldi.html
@Punco,
in effetti quel “florilegio” è un tantino disturbante, però, in compenso, il video di youtube che hai linkato mi ha davvero commosso…
E’ interessante quanto dico quelle donne: “dovevano fare qualcosa”, “non potevano non fare qualcosa”.
Lo conosco assai bene, questo impulso istintivo all’azione che le donne possono avere: a fronte di un’apparente passività, remissività, quando la misura è colma, quando è il momento, molte donne “fanno”, “agiscono”.
Sono convinta che la posizione che la visione patriarcale della società impone alle donne (custode del focolare=della famiglia=della società=della nazione=della Legge…e così via, con sfumature e accenti diversi), e di conseguenza all’uomo, sia in realtà scardinabile solo dalle donne (meglio: da una prospettiva femminile).
Di conseguenza, è abbastanza logico che ideologie fortemente “maschiliste” siano messe in crisi da donne libere, donne cioè che di quelle regole e imposizioni se ne fregano “beatamente” (uso l’avverbio *alla romana*, in modo iperbolico e paradossale)…
non so se e in che modo può contribuire alla discussione
sulla questione donne combattenti e mentalità fascista: dato però che avete tirato in ballo King :) mi viene in mente il capitolo intitolato “Beverly Rogan le busca” di IT e l'”orripilante paura di non esserci” provata da Tom Rogan, quando prende atto che Beverly non ha più paura delle sue cinghiate, e anzi reagisce e lo fa soccombere.
Il nichilismo-sessismo-fascismo di Tom che viene nullificato dalla resistenza di Beverly mi pare un perfetto contrappasso, oltre che un gran bel godimento.
@ zvanen
beh, a parte che la staffetta è un ruolo per niente secondario in una guerriglia, pericolosissimo, che richiede nervi saldi, destrezza, capacità di improvvisare etc. di partigiane morte in battaglia se ne contano svariate, penso a Iris Versari che, ferita, si uccide per non rallentare la fuga dei compagni (che comunque non ce la faranno), penso alla durezza di Carla Capponi evocata sopra, e ogni zona del Paese può fornire i suoi esempi. A Bologna, tra le foto del Sacrario di Piazza Re Enzo, le donne non sono certo poche, e io le indico sempre a mia figlia, e dico: queste sono le partigiane, e sono morte per liberarci.
@ punco e wm1
ok, mi avete convinto. l’ espressione “omosessualita’ latente” che ho usato io era fuorviante. a mia discolpa, vorrei dire che non intendevo usarla per indicare una forma di devianza, come paventato da punco, quanto piuttosto una condizione di sofferenza, dovuta ai modelli educativi che presero piede durante il IX secolo. da qui la mia catena di associazioni di idee che mi ha fatto venire in mente thomas mann, sartre, e ora ci aggiungo anche il guenter grass di “gatto e topo”. e poi, per contrasto, mi e’ venuto in mente mark twain, l’ amicizia tra huck e lo schiavo fuggiasco jim, e huck che si traveste da ragazza, e l’ incredibile sensazione di liberta’ che quel libro mi da’ ogni volta che lo prendo in mano.
una storia triestina:
ALMA VIVODA.
Alma (Amabile all’Anagrafe) Vivoda nacque a Chiampore, una località nei pressi della cittadina di Muggia, il 23/1/11. Negli anni Trenta gestì assieme al marito Luciano Santalesa l’osteria “La Tappa”, che divenne un punto di ritrovo per gli antifascisti della zona. Santalesa fu arrestato nel 1940 e l’anno dopo la polizia impose la chiusura del locale. A quel punto Alma Vivoda iniziò a tenere i contatti con le formazioni partigiane italiane e slovene; successivamente il marito, gravemente malato, fu ricoverato nel sanatorio di Aurisina, ed Alma dovette affidare il figlio Sergio, di otto anni, in un collegio di Udine. Nel gennaio 1943, dopo la spiata di un delatore, fu costretta ad entrare in clandestinità; aiutò il marito ad evadere dal sanatorio ed a raggiungere le file partigiane in Istria. Alma fu uccisa il pomeriggio del 28 giugno 1943, mentre, assieme alla compagna Pierina Chinchio, si recava ad un appuntamento con la staffetta Ondina Peteani. Così Pierina Chinchio ricorda quel tragico pomeriggio.
“… Alma ed io salivamo per la via Pindemonte. Incontrammo un milite della Polizia Ferroviaria, voltammo il viso per non essere riconosciute. Scorgemmo allora, tra i cespugli, un carabiniere a noi ben noto, di servizio a Muggia. Tutto accadde repentinamente. Il carabiniere cominciò a sparare, per fermarci. Alma estrasse una pistola e una bomba a mano, forse per dare anche a me un’arma per difenderci. Il carabiniere continuò a sparare all’impazzata e colpì Alma alla tempia. Io ero a terra, insanguinata. Egli mi affrontò (forse per eliminare l’unico testimone). Gli gridai se fosse impazzito. Intervenne il milite della Polizia Ferroviaria; il carabiniere gli ordinò di tenermi sotto tiro. Arrivò la Croce Rossa. Ritrovai Alma all’ospedale. Fino all’ultimo le restai vicina, tenendole la mano. Il suo sguardo in quell’istante non era di odio verso il suo assassino, ma di profonda tristezza, come di una madre che vede un proprio figlio su una mala strada (…)”.
Il carabiniere si chiamava Antonio Di Lauro e fu insignito, per questa azione, della medaglia di bronzo al valore militare: ma non fu l’Italia di Mussolini a dargli questa onorificenza, bensì la Repubblica italiana nata dalla Resistenza, addirittura nel 1958. Nel Supplemento alla Gazzetta Ufficiale n. 259 del 13/10/58 leggiamo la motivazione di questa medaglia:
“DI LAURO Antonio (…) classe 1920, carabiniere, legione carabinieri di Trieste. Con prontezza di spirito e repida (sic) decisione non disgiunta da coraggio, reagiva a reiterata azione di fuoco da parte di un pericoloso ricercato riuscendo ad ucciderlo ed a catturare, dopo averlo ferito, altro delinquente. Trieste, 28 giugno 1943”.
Nessuna medaglia ha ricevuto Alma Vivoda alla memoria, nessuna via le è stata dedicata nella città di Trieste; la lapide che ricorda il luogo del suo sacrificio è stata ripetutamente imbrattata da teppisti fascisti. E, come ultimo spregio alla sua memoria, nella motivazione della medaglia data a colui che la uccise, non le fu neppure riconosciuto il ricordo del suo sesso, visto che fu indicata al maschile, “un pericoloso ricercato”, così come la sua compagna divenne un “altro delinquente”, pure maschio.
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-le_foto_del_25_aprile_nel_rione_di_guardiella..php
Bel post e bella discussione.
Comprerò il libro :)
Voglio solo segnalare @ zvanen alcuni libri, su/di partigiane piemontesi, che ho letto per un progetto teatrale (che è piaciuto tantissimo ma…) :
Bianca Guidetti Serra “Bianca la Rossa” ed Einaudi
http://www.libreriauniversitaria.it/bianca-rossa-guidetti-serra-bianca/libro/9788806196653
Giovanni De Luna “Donne in oggetto” ed Bollati Boringhieri
http://www.libreriauniversitaria.it/donne-oggetto-antifascismo-societa-italiana/libro/9788833909325
AA VV prefazione di Anna Bravo “ La resistenza taciuta “ ed Bollati Boringhieri
http://www.astilibri.it/cultura/resistenza_taciuta.htm
@ grazie, tuco!
…chissà se è del tutto casuale l’uso del maschile, nella motivazione della medaglia…
E poi, interessante il commento di Pierina: “Il suo sguardo in quell’istante non era di odio verso il suo assassino, ma di profonda tristezza, come di una madre che vede un proprio figlio su una mala strada”.
Non so… mi sembra di vedere quello sguardo: forse, più che di tristezza, di stupore? (alle donne, questa storia che in amore e in guerra vale tutto forse non piace granché…)
Interessante anche che la memoria di queste donne non è “ufficiale” (strade, medaglie), ma in gran parte è nel racconto che si tramanda: nel loro, se sono sopravvissute; in quello di altre donne, se sono morte (in battaglia, o dopo); in quello degli uomini, che passeggiando con le proprie figlie le raccontano.
Le storie delle donne della Resistenza sono bellissime perché sono storie di combattimento, e se siamo attenti, e pazienti, e mettiamo una cosa dietro l’altra, ci fanno vedere che non c’è la Resistenza degli uomini “e” quella delle donne…
e le donne fasciste allora?
E gli operai che votano Berlusconi?
E i neri che osteggiarono il movimento per i diritti civili?
E tutti gli uomini e le donne che si crogiolano nella loro comoda, rassicurante oppressione, senza contestarla?
Non è che se una è donna, allora è automaticamente per la libertà femminile e contro il patriarcato.
Non è che se uno è un operaio, allora sa quali siano gli interessi degli operai e non si fa irretire dai padroni. Anzi, la “falsa coscienza” degli operai è uno dei fenomeni più rilevanti descritti da Marx.
Non è che se uno è un essere umano, allora è per l’emancipazione umana.
Altrimenti non saremmo mica messi così.
Comunque, in Italia il fascismo fece molto per coinvolgere le donne nel sostegno al regime, mise in piedi associazioni femminili etc. Tuttavia, mirò sempre a coinvolgerle in una determinata cornice, dov’era costantemente riproposto il loro ruolo stereotipato di angeli del focolare, madri della nazione, madri di futuri guerrieri, madri della fiera razza italica etc. E nel frattempo osteggiò ogni forma di libertà femminile che mettesse in discussione quel ruolo.
Però questo duplice movimento, questo ambiguo coinvolgimento nella vita pubblica, produsse delle contraddizioni interessanti: il regime creò involontariamente degli spazi in cui la donna era qualcosa di più dello stereotipo caro alla propaganda. E le conseguenze si videro durante la guerra e poi nella Resistenza.
Pensando alla peggior sconfitta per un fascista mi è venuta in mente una scena del film di Monicelli “Cari fottutissimi amici”.
Al pranzo del matrimonio di un grande partigiano i protagonisti vengono arrestati per tentata strage e fatti accomodare al muro. A comandare il plotone è la novella sposa, vestita da combattente col velo. Dopo molti ‘ultimi desideri’ e pianti, al momento decisivo i fucili sparano per aria. Sardonico il commiato dello sposo: “E ora fuori dai coglioni, e ringraziate che ho una moglie col senso dell’umorismo”.
I protagonisti ovviamente non erano fascisti (a parte una donna con la testa rasata), ma poveracci qualunque.
Ma il momento fatale, l’arrivo della gloriosa morte da martire rovinato dalla presa in giro di un capo donna (e stronza) dev’essere tremendo per la mentalità fascista. :D
@wm1 e mostrofame
e’ un po’ quel che era accaduto coi “sindacati” fascisti. eugenio curiel aveva capito che li’ si sarebbero potute aprire delle crepe, e aveva lavorato “dall’ interno” per mettere in moto un processo di quel tipo.
@ Tuco
è anche quel che accadde con l’alpinismo, uno degli sport più strumentalizzati, supportati e strombazzati dal regime: imprese “maschie”, ardite, eroiche, la Conquista della Vetta, guardare l’Italia dall’alto, spiritualità guerriera e chi più ne ha più ne metta. Durante il Ventennio si fece di tutto per portare la gente in montagna, e vai con le arrampicate domenicali, con l’apertura di nuove vie, con la costruzione di nuovi rifugi da parte di un CAI completamente fascistizzato. Si costruì un “know-how” alpinistico e una rete di sentieri e rifugi, e tutto questo fu poi usato… dai partigiani.
@wm1
e a proposito di alpinismo, c’e’ un racconto di primo levi (“ferro” ne “il sistema periodico”) che secondo me illumina quel cono d’ombra. parlando delle sue scorribande sulle montagne insieme all’ amico Sandro Delmastro (che poi divento’ partigiano di GL), Primo Levi conclude con queste parole:
«Era questa la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha donato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino».
@tuco @wm1
su alpinismo e fascismo, ho trovato questa http://www.comune.bolzano.it/UploadDocs/2407_Ermanno_Filippi_ita.pdf breve biografia di Guido Rey che mi pare riassumere bene la retorica di cui parlate e la genesi del rapporto tra fascismo e alpinismo.
(Quella stessa retorica caratterizzò, ben dopo la caduta del fascismo, la prima salita del K2 e le menzogne “di regime” durate per decenni sul ruolo di Bonatti).
Scusate l’OT :-)
@ Vecio Baeordo
«Sono stato uno dei primi a dare un taglio all’alpinismo eroico, nato nei primi decenni del secolo in Italia e Germania – non a caso culle del fascismo europeo – sopravvissuto anche dopo la seconda guerra mondiale e in parte vivo ancora oggi. E sono stato il primo a dire: io non porto bandiere in vetta, la mia bandiera è il mio fazzoletto; venendo per questo fischiato e insultato. Non condivido neppure la filosofia secondo cui un alpinista che muore in montagna è in qualche sorta un eroe. No: se l’alpinista muore è solo una disgrazia. E la sola cosa da fare è prendersi cura di chi ha lasciato».
Reinhold Messner, novembre 2009
Sul rapporto tra alpinismo, fascismo e nazismo, consiglio:
Roberto e Matteo Serafin, Scarpone e moschetto. Alpinismo in camicia nera, Centro Documentazione Alpina, 2002
Alessandro Pastore, Alpinismo e storia d’Italia. Dall’Unità alla Resistenza, Il Mulino, 2003
Michel Mestre, Le Alpi contese. Alpinismo e nazionalismi, Centro Documentazione Alpina, 2000
Da tempo sto studiando queste cose, per il progetto nato dalla salita al Monte Kenya nel 2010, agli ordini del comandante Cienfuegos.
guardate cosa ho trovato on line?
http://www.ibs.it/code/9788874800193/lopez-marugagrav/corde-ribelli-ritratti.html
“Corde ribelli. Ritratti di donne alpiniste”. Non l’ho letto, provo a procurarmelo (così come leggerò i testi consigliati da @WM1). Andare in montagna mi piace moltissimo, e solo ora sto cominciando a pensare che in effetti la montagna ben si presta a modelli di arditezza tutta maschile…
Dovrò tornarci, e mettere insieme queste riflessioni con la mia esperienza diretta. Subito, mi viene in mente che la prima difficoltà che potevano avere le donne a fare una scalata…era l’abbigliamento. Difficile salire con le gonne lunghe e i corsetti stretti…
@veciobaeordo, wm1 e danae
quello che mi sembra importante nel racconto autobiografico di primo levi e’ che dei ragazzi (perche’ si trattava di ragazzi) cresciuti in mezzo a quella retorica dell’ alpinismo, nel momento in cui rigettano quella retorica, non rigettano l’ alpinismo, e anzi proprio nell’ alpinismo, praticato al di fuori delle associazioni di regime, sperimentano per la prima volta la possibilita’ di una vita in cui si e’ “forti e liberi, liberi anche di sbagliare”.
@ Tuco
esatto, io ritengo che sia proprio questa la chiave. Anzi, senza questa chiave, non mi sarebbe nemmeno possibile scrivere l’oggetto narrativo su alpinismo, fascismo, Benuzzi, Kenya, Mau Mau etc.
ma c’è stata qualche forma di conflitto, dall’interno, di donne fasciste a questo tipo di visione?
qualche operaio si sente tradito dal “suo” berlusconi, ma di conflitto manco l’ombra
@ mostrofame
a una domanda del genere può risponderti solo chi ha fatto studi sull’argomento ben più specifici dei miei. Io su questo arrivo fino alle “grandi linee”, poi mi fermo. Ho letto qualche articolo, visto qualche documentario, ascoltato compagne che sapevano di queste cose, e stop.
So che negli ultimi vent’anni sono usciti diversi libri sul rapporto tra donne, modernità, società di massa e regime fascista, ma non li ho letti. Del resto, non si può leggere tutto :-(
@ tuco,
certamente sì!
“liberi di sbagliare, e padroni del proprio del destino”: niente di più antiretorico…
una bellissima intervista a giovanni pesce e nori brambilla:
http://www.youtube.com/watch?v=juVRew6WIL0
Ecco, per i miei gusti su Giap ci mancava solo che si parlasse di alpinismo. Adesso sono un uomo felice: c’è proprio tutto! :-)
@wm1
grazie per i consigli di lettura.
Se interessa qualche altra fonte, oltre a Messner, sul recupero dell’alpinismo da parte della cultura di sinistra negli anni ’70, oserei consigliare (nella quasi certezza che sia superfluo) gli scritti di Gianpiero Motti.
@ VecioBaeordo
se tanto mi dà tanto, il 2012 dovrebbe riservarti alcune sorprese positive :-)
@wm1
forse lo conosci gia’, ma ti segnalo “Cime irredente. Un tempestoso caso storico-alpinistico” del triestino Livio Isaak Sirovich.
qui c’e’ una recensione:
http://archiviostorico.corriere.it/1997/febbraio/27/Alpe_mormoro_non_passa_sloveno_co_0_97022712358.shtml
io non l’ho letto, ma mi hanno detto che e’ interessante. da quel che ho capito si tratta di un “uno” che racconta dal di dentro la storia dell’ intreccio tra alpinismo, irredentismo e fascismo sul confine nordorientale dai primi anni del secolo fino agli anni ottanta.
@wm1
Ci ho messo un tot, ma alla fine sono riuscito a capire sia la spedizione Cienfuegos del 2010 che la storia di Benuzzi, che non conoscevo e che mi intriga molto. Per restare nel thread, la prima cosa che mi è venuta in mente è un vago confronto tra la prigionia di Benuzzi e quella di Levi, tra l’altro entrambi alpinisti: difficile ipotizzare che nei campi nazisti una fuga di quel tipo fosse anche solo concepibile…
E adesso aspetto il 2012: “tra un bicchiere di neve e un caffè come si deve quest’inverno passerà”.
Circa l’uso strumentale dell’alpinismo con finalità propagandistiche consiglierei la visione del film “North Face – Una storia vera”
http://www.imdb.com/title/tt0844457/
Sebbene nel film gli aspiranti conquistatori delle vette innevate siano i nazisti, presumo che un’azione del genere abbia avuto per il governo fascista la medesima spendibilità simbolica.
[…] Written on 12/09/2011 at 2:00 am by Wu Ming Versione stampabile / Print this post Previous post → […]
Riporto qui un brano di Sessualità e Nazionalismo, di Mosse:
” Il nazionalismo, fatta propria l’aspirazione maschile all’amicizia e alla vita in comune, passò nei primi decenni del XIX secolo ad assimilare i nuovi ideali della femminilità, e li enfatizzò creando dei simboli femminili della nazione, quali Germania, Britannia e Marianna. […] Il nazionalismo, e la società che con esso si identificò, usarono l’esempio della donna pura, casta e modesta per esibire le proprie virtuose aspirazioni, rafforzando, in questo processo, gli ideali borghesi di rispettabilità che avevano permeato tutte le classi della società nel XIX secolo.
Benché idealizzata, la donna rimase, nello stesso tempo, cristallizzata nel suo ruolo. quelle che non si adeguavano a tale modello minacciavano la societò e la nazione, insidiando l’ordine stabilito che si pensava dovessero invece mantenere; ne scaturì un odio profondo per le donne come figure rivoluzionarie, che quasi superava il biasimo riservato ai maschi rivoluzionari dalla società ufficiale. la donna come simbolo di libertà e di rivoluzione, “Marianna in battaglia”, contraddiceva i valori “femminili” di radicata rispettabilità, e fu rapidamente soggiogata o spodestata.
Nelle sempre più nettamente definite differenze tra maschi e femmine, l’androginìa, per esempio, lodata un tempo come simbolo di unità, divenne ripugnante”.
Aggiungo che questo rischio non c’è solo nella nazione, ma c’è ovunque ci sia una comunità chiusa definita da confini morali, come è – mi sembra – qualunque esercito.
@adrianaaaa
credo che tu abbia toccato un punto importante. mi e’ balenata in mente un’ immagine di abu ghraib, e mi sono spaventato pensando al particolare compito che era riservato alle donne soldato in quella struttura: quello di umiliare i guerriglieri irakeni, imbevuti di cultura maschilista. un esempio di come in quel luogo abbiamo perso tutti quanti, nessuno escluso.
ho riaperto il salvadanaio di mio figlio e sono andato in libreria a fare qualche acquisto
Qui:
http://classecontreclasse.org/viewtopic.php?f=12&t=12045#p71031
una traduzione francese di questo post (con discussione tra redskin francesi sulle “Tre frecce” di Chakotin).
[…] alla pubblicazione di Bastardi senza storia di Valerio Gentili. Per chi volesse approfondire: qui e qui); Argo […]