Quando ero ragazzino, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, paranoia era una parola di moda. Il gergo degli hippie, dei fricchettoni, di quelli che assumevano droghe era ubiquitario, anche e soprattutto in settori della città abitati dal proletariato e dalla piccola borghesia. Questo gergo era nato circa un decennio prima, e si è evoluto fino ai nostri giorni. Farsi le paranoie indicava la condizione di chi, a tratti o in modo persistente, soffriva di manie di persecuzione. Indicava anche una preoccupazione eccessiva riguardo a un evento, o una contrazione generale del proprio rapporto con il mondo e con le cose del mondo. Essere in para dura, del resto, sembrava spesso più che giustificato. Esisteva un approccio “paranoico” anche all’espressione artistica e musicale. Del resto, le teorie di Salvador Dalì sull’arte vanno sotto il nome di “metodo paranoico-critico”. Ma a differenza dell’avanguardia storica mutata in accademia, la paranoia di cui si parlava e sotto l’influsso della quale si agiva in strada era un ambito molto quotidiano e poteva essere contenuta, ad esempio, in un approccio particolare, anticommerciale, rumoristico al rock. Si parlava di “musica paranoica”, non sempre in accezione negativa, e c’erano band che definivano il proprio suono “punk paranoico”. Un film, per parte sua, poteva ben essere “paranoico”.
Anche altre psicosi venivano utilizzate per indicare tipi umani e comportamenti connessi. Uno poteva essere “schizzato”, e questo si riferiva tanto all’uso di sostanze particolari, quanto a quello che, a quanto era dato supporre, doveva essere il comportamento di uno schizofrenico. Era come se gli strati giovanili dell’epoca cogliessero la deriva sempre più nettamente patologica che la società aveva intrapreso.
Il saggio di Luigi Zoja Paranoia. La follia che fa la storia (Bollati Boringhieri) analizza i risvolti politici, sociali e ideologici connessi alla follia lucida, che può apparire del tutto coerente, e che è spesso incarnata in personalità carismatiche, in leader politici e religiosi. Paranoia è un termine il cui etimo richiama una “mente andata al di là”, in un certo senso non costretta, una mente che oltrepassa una soglia e determinati limiti.
«La paranoia è infinitamente più difficile da stanare di altri disturbi della mente perché sa dissimularsi sia all’interno della personalità del paranoico… sia fra i soggetti circostanti.»
Non si tratta di un’analisi sulla paranoia clinica, individuale, ma sulle sue ricadute collettive e quindi storiche. Non si tratta di un uso metaforico del termine, perché all’interno di dinamiche storiche Zoja mostra come siano tecnicamente riconoscibili momenti che possono essere considerati come “contrassegni” della patologia. Non si tratta nemmeno di connettere la patologia di specifici leader del secolo scorso con la “pseudocomunità paranoide” che sostenne, irretita o costretta, le loro folli scelte, quanto di avvertire che un potenziale paranoico è presente in ognuno di noi, e che quindi ogni società è passibile di attraversare fasi, più o meno lunghe, segnate dalla paranoia collettiva.
Un esempio di para dura sono senza dubbio le dottrine che sostengono l’azione della superpotenza stellata negli anni recenti, oltre che lo svolgersi sul campo dell’azione. Il nocciolo patologico dell’ideologia bellica americana sembra oggi essere contenuta nel concetto di prevenzione. Il documento noto come Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti d’America (2002) suppone che lo scopo principale degli “stati canaglia” e dei gruppi terroristici sia procurarsi tecnologie offensive. Nel documento non si parla di attacchi all’America ma di una preparazione invisibile. (Le teorie del complotto sono sempre paranoiche). Gli Stati Uniti devono agire prima che la fase preparatoria si completi. “Non ci si propone di sconfiggere il nemico, ma i suoi piani (to defeat our enemies’ plans), anche se questi piani non sono conosciuti né conoscibili.” E’ la costruzione di una legalità internazionale assurda, rileva l’autore, basata su convinzioni soggettive.
Quindi nessuna società, nemmeno le democrazie occidentali, nemmeno noi “buoni”, sono/siamo al riparo dal pericolo di un “contagio” paranoico.
La parte forse più convincente del saggio di Zoja, insieme al senso di questo avvertimento, è quella che prende in analisi l’incredibile sequenza di eventi che condusse l’Europa al primo conflitto mondiale. Racconta fatti non notissimi, e l’analisi è centrata e avvincente. C’è un merito indubbio, nel libro di Zoja: nessuna forma di “feticismo della Storia” vi ha luogo. Ci sono strutture sociali e politiche segnate fin dall’inizio da un’ideologia in qualche modo paranoide, ci sono scelte sbagliate, indecisioni, punti di svolta che avrebbero potuto essere percorsi in altri modi. La storia non è che l’attività delle generazioni d’uomini che si susseguono, e questa attività può essere segnata da momenti di esaltazione o di depressione, allo stesso modo dell’arco vitale di un individuo.
Non c’è nel libro alcun richiamo a un’altra disposizione patologica della mente, che assieme alla paranoia del leader segna, a mio modo di vedere, esperienze storiche come il fascismo e il nazismo o la riemergenza di istanze fasciste e naziste nei partiti della destra populista contemporanea. Eppure l’analisi giunge fin sulla soglia: la scansione paranoia-nemico-guerra è ben delineata ed è quasi sorprendente che Zoja non compia il passo ulteriore e non prenda in esame gli investimenti libidici di stampo feticistico compiuti collettivamente tanto sul corpo del leader, quanto sul corpo del nemico. I corpi dei moderni “nemici”, gli immigrati, si suppongono forieri di ogni disgrazia, portatori di diversità inconciliabili, contaminanti, i corpi degli avversari di un tempo finiscono a pezzi sulla scrivania di una fanciulla in corrispondenza con il suo amato, al fronte. (E’ l’immagine scelta per la copertina del libro- una ragazza texana con il teschio di un fante giapponese sul tavolo. La foto è del 1944). Perché il meccanismo possa funzionare, c’è bisogno di una sacralizzazione-sessualizzazione tanto del corpo del Capo, quanto del corpo dell’avversario. L’oscuro avvertimento presente nella psicologia profonda dei populismi contemporanei viene deviato verso obiettivi mitici non solo dalla apparente coerenza del discorso paranoico del leader, elevato a dottrina, ma anche dall’irretimento e dalla stilizzazione dell’energia sessuale.
E non c’è nel libro nessuna analisi del conflitto come dato sociale, ambientale, come ambito onnipervasivo. Eppure, come rileva bene James Hillman, agli albori della civiltà occidentale Eraclito ci avverte che “Polemos di tutte le cose è il padre”, e nella fase attuale del pensiero occidentale Emmanuel Lévinas può dire “… l’essere si rivela al pensiero filosofico come guerra”. Zoja sembra aderire a una visione estremamente “larga” del termine paranoia. Chi pensa di avere dei nemici, in buona misura, è un paranoico. Questa definizione “larga” richiama quella buddista riguardo a odio e avversione, e sembra adombrare l’idea che il conflitto nella società sia una proiezione del conflitto, della scissione che l’individuo porta dentro di se’.
Io preferisco aderire a una posizione da “piccolo paranoico”. La maggior parte dei nemici che ci immaginiamo sono illusori, ma qualcuno di questi è ben reale, e ci fronteggia da molto, moltissimo tempo.
Wu Ming 5
CLIMA DI TENSIONE, Sanguemisto, 1994.
(…) Paura! L’odio manda in para
l’aria che respiro e’ tesa vera…
E quando si fa buio senti il canto delle iene
nella mia citta’ le strade sono piene
meglio stare accorti
dove me la giro me la giro sotto tiro
sono lo straniero nella mia nazione sai che c’e’
la repressione schiaccia e non fa piu’ per me (…)
(…) E questo e’ il clima di tensione
sale fumo scuro il gioco si fa duro
perche’ nessuno e’ piu’ al sicuro…
nelle case con le luci sempre accese
e fuori diecimila cani sciolti per le strade (…)
(…) Sai perche’ la storia e’ tesa? Rimango a bocca chiusa tra la gente
pensieri alla rinfusa nella mente
non mi lasciano capire chi sta dalla mia
ma chi e’ fuori resta fuori quasi sia
motivi di discordia scritti con il sangue
tira un aria strana
la scena si confonde
vivo coi fratelli questi tempi di guerra
sento la pressione che ci schiaccia per terra
e questa e’ la mia situazione
senza soluzione per il clima di tensione…
Vivo come vivo, clima di tensione negativo
sopra la mia pelle come un adesivo
la situazione non si affronta piu’
spilli nel mio corpo tipo rito voodoo
chico cazz’e’? Cazz’e’?
Dietro la tensione chi c’e’,
chi vuole il buio tutto intorno a me? (…)
Qui il video.
http://www.youtube.com/watch?v=jNxh7TE3vNU
@ superpu
Perfetto. Sembra scritto oggi. O domani.
Il più grande album della storia dell’hip hop italiano.
Da lontano.
L.
E tre anni prima, più o meno la stessa gente, rappava:
“Panico sei tu, che giudichi e scegli,
le tue vittime i tuoi facili bersagli…”
“Là fuori non c’è una bestia furiosa
uscita nella notte da una tana misteriosa”
“Pagine e pagine di allarmismi letali,
di scuse, cordogli, ipotesi tutte uguali
a cui sfugge di nuovo la connessione sicura
la connessione c’è… è la paura! “
Da notare tra l’altro che qui ritorna la questione del conflitto inteso come morbo, infarto, paranoia, malattia autoimmune.
“Chi pensa di avere dei nemici, in buona misura, è un paranoico”. Al contrario, accettare e vivere il conflitto mi sembra la vera medicina contro la paranoia. Perché vivere il conflitto non è “pensare di avere dei nemici”, proiettare fantasmi sullo schermo del mondo (e spesso i propri fantasmi). Significa invece accettarne la natura e le potenzialità creative. Imparare a non aver paura della paura.
Disciplina del tempo più amministrazione della paura. Anni fa alcuni compagni greci, credo nell’imminenza del g8 di Genova, vennero fuori con del materiale in cui si parlava di “tromocrazia”, il governo del terrore. Non potemmo approfondire perchè la rivista era in greco, potevamo cogliere solo qualche parola che risuonava con i nostri studi passati. Ma la definizione, che si riferiva allo stato delle cose, ci sembrò evocativa, interessante. Oggi si tratta di una definizione pregnante.
E’ interessante notare come le tecnologie e i dispositivi di governance e di polizia discendano in modo diretto dalle dottrine che sostengono lo sforzo bellico recente. Cosa sono le proposte di Maroni se non una versione poliziesca della dottrina americana di guerra preventiva?
Un mio amico sostiene che arriveremo ai precog padani.
In questo post e nel precedente di Luca ho trovato l’idea che la paranoia è un tratto del potere che spinge la società a pensarsi come un organismo in guerra contro nemici/malattie che vengono dall’esterno.
Ne segue un conflitto ‘paranoico’ indirizzato contro falsi nemici (gli immigrati ecc), che soffoca l’esplosione di conflitti creativi (di classe ecc).
Il problema forse sta proprio nell’immaginare il corpo (nell’accezione politica e sociale del termine) come organismo. Mentre, come scriveva Artaud, l’organismo è nemico del corpo:
“Le corps est ! e corps/ il est seul/ et n’a pas besoin d’organe/ le corps n’est jamais un organisme/ les organismes sont les ennemis du corps”.
Vedo molto Deleuze/Guattari negli ultimi due post. E forse anche nel modo in cui voi Wu Ming vi immaginate coerentemente come collettivo animato da conflitti positivi e non come organismo preda di conflitti paranoici e ‘malattie’.
Parlare di queste cose è molto importante per identificare e combattere il fascismo che sta attorno a noi e in tutti noi, quello che ci fa desiderare di essere dominati e sfruttati, lasciandoci inermi di fronte al discorso paranoico del potere, al falso mito del corpo come organismo e alla tromocrazia imperante.
P.S.
a Luca: auguri di veloce guarigione.
Credo che andrebbe fatto anche un discorso sull’educazione al conflitto.
Tempo fa leggevo i risultati di non so più quale indagine IARD sui giovani italiani (mi pare la quinta, ma dovrei controllare): una percentuale bulgara degli under 36 dichiarava di trovarsi ( o di essersi trovata) “molto bene” in famiglia, con rapporti armoniosi, ecc. Andando a guardare le edizioni precedenti della stessa indagine (a partire dai primi anni ’80), si vedeva come l’immagine della famiglia come rifugio e luogo di certezze fosse in straordinario aumento rispetto a quella della famiglia come luogo di conflitti.
Sia chiaro che anch’io, da padre, mi auguro di vivere bene con i miei figli, ma questo “vivere bene” nella mia concezione, non prevede l’evitamento o l’occultamento del conflitto. Io non sogno una famiglia dove non si litiga mai.
Ne parlavamo tempo fa anche con WM4, che insieme a me tiene un corso all’Università di Urbino. In questo corso, già da due anni, diamo agli studenti una prova scritta dove esercitarsi con alcune strutture narrative. Quel che manca più spesso, negli elaborati finali, è proprio il conflitto.
Il protagonista, l’eroe, affronta i nemici, li sconfigge, ma non viene mai messo in crisi da questa battaglia: non ci perde nulla, non rinuncia a niente, tutt’al più impara qualcosa di nuovo, utile a ristabilire l’armonia turbata, ma senza che questo gli costi davvero qualcosa.
Il nemico difficilmente svolge quel ruolo di “ombra”, rappresentazione del lato oscuro dell’eroe, che in definitiva finisce per combattere contro (una parte di) sé stesso e per doverla accettare o sconfiggere con dolore.
Il sogno di una società organica, che elimini il conflitto grazie all’amore e alla tecnologia, mi sembra annidato nel cervello di molti. Ed è il rovescio della medaglia della paranoia sociale.
“Il nocciolo patologico dell’ideologia bellica americana sembra oggi essere contenuta nel concetto di prevenzione.”
La nozione di difesa preventiva americana induce alla creazione di un incubo permanente: una guerra cronologicamente illimitata, senza fine; uno scenario (esportabile, cioè contagioso) in cui all’orizzonte non compare mai il post-conflitto, il dopoguerra.
Sì, avete ragione, le indicazioni suggerite da Maroni non sono altro che la riproposizione in salsa padana di questa patologia connessa a un terrore invasivo e costante.
La paranoia americana tuttavia non è interamente ingiustificata. Un buon servizio segreto deve saper fare un uso intelligente delle proprie paranoie nazionali, se lo portano a prevedere i pericoli per la società. I problemi sorgono quando non si è capaci di distinguere le vere minacce da quelle irreali, costruite anche involontariamente.
Certo lo sfruttamento delle paure e dell’argomento della difesa nazionale sono facilmente usati per fini non propriamente diretti alla difesa del paese, pero’ non vanno nemmeno presi alla leggera. Gli Stati Uniti sono effettivamente più esposti ai “piani” e ai “complotti” (alcuni anche molto seri e non per forza inventati) di qualunque altro paese se non occidentale, perlomeno della NATO.
Una buona dose discettismo vis-à-vis di un discorso paranoico è dovuta, ma non deve condurre a sottovalutarne le potenziali basi di verità.
Inoltre mai fai fare discorsi del tipo “gli USA fanno questo”, perchè si raggruppa all’interno dell’insieme “USA” fini e azioni molto diversi tra loro.
Un funzionario del servizio di informazione americano puo’ raccogliere del materiale che suggerisca una certa intepretazione; ma altra cosa è l’uso che viene fatto di questo materiale, per esempio, dalla politica o da un qualche gruppo di interesse.
Insomma occhio a non essere paranoici criticando la paranoia degli altri.
@Wu Ming 2
ma infatti lo star bene in famiglia, i buoni rapporti coi genitori non implicano l’assenza di litigi e tensioni (e parlo da under 30 che vive ancora con mamma e papà), ciò che conta è come si risolvono i conflitti se si possono risolvere. Io credo che si litighi anche nelle famiglie dei ragazzi dell’indagine IARD. Chiedo scusa per il parziale OT
@ kammamuri
figurati, io per primo mi sono definito “piccolo paranoico”. Zoja dice che la paranoia appare spesso “giustificata”. Il punto di partenza di una deriva paranoica può essere legittimo. Aumentare il livello di attenzione in previsione di un attacco non è paranoia, è buon senso. Attaccare preventivamente invece è paranoico. Elevare l’attacco preventivo a dottrina e a diritto internazionale é qualcosa di mai visto prima.
Chissà per quali fini lavorano, poi, i servizi segreti di ogni paese. Chissà se la “sicurezza nazionale” è tra questi.
Ho appena esposto una considerazione paranoica.
@Wu Ming 5
Un’abbondante letteratura e un’ancor più abbondante cinematografia ci hanno abituato a una buona dose di perplessità verso l’azione dei servizi segreti (e il fatto che siano appunto segreti contribuisce ad intrattenerne l’alone negativo); in Italia poi il nostro rapporto col servizio segreto non è stato dei migliori.
Certo è difficilissimo stabilire per quali fini lavorino o per i fini di chi; io credo che per la loro stessa struttura i servizi segreti di tutto li mondo sono particolarmente propensi ad essere usati per i fini più disparati, ma credo anche che il lavoro quotidiano che svolgono abbia salvato le chiappe di non poche persone.
Due esempi positivi (dato l’argomento non possono essere esempi totalmente positivi, ma comunque…). 1: il ruolo dei servizi nello smantellamento del terrorismo italiano negli anni 70; 2: il recente “affaire” dell’attentato iraniano ai danni dell’ambasciatore saudita.
Riguardo alla dottrina dell’attacco preventivo credo che l’esempio massimo sia la 1a guerra mondiale. Le dottrine militari dell’epoca, soprattutto quelle tedesche (ma non solo) facevano della paranoia una giustificazione perfetta per l’attacco preventivo inteso non come tattica militare, ma come vera e propria “visione” geopolitica: la Germania sentiva un’immensa pressione su di sé, e i tedeschi erano sinceramente convinti che se non fossero stati loro i primi, presto la Francia o più probabilmente la Russia li avrebbero attaccati; e non è che avessero tutti i torti.
Poi c’è stato l’attentato.
Volendo indietreggiare ancora di più, la dottrina dell’attacco preventivo (o noi o loro) è uno dei cardini ideologici delle guerre puniche.
Questa cosa della rimozione/negazione del conflitto mi sembra in primo luogo un tentativo di rimozione della contraddittorietà, e dunque della complessità. Addebitare “il male” a cause e/o soggetti che sono sempre esterni da sé credo sia oramai una pratica corrente, sia per molti individui sia per soggetti collettivi (italiani vs. extracomunitari, cristiani vs. mussulmani, ma anche “indignati buoni” vs. “indignati violenti”, e via dicendo). Per stare ai temi dibattuti nei vostri ultimi post, addebitare a una minoranza esterna la responsabilità delle violenze di piazza è in fondo un modo per rimuovere un problema che in realtà riguarda in pieno sé stessi, le proprie pratiche, le proprie idee. Dire che i violenti non hanno nulla a che fare con te, che sono degli infiltrati, dei provocatori, o al massimo dei pazzi che hanno interpretato in maniera sbagliata le ragioni della lotta, vuol dire far finta di non avere zone d’ombra, ambiguità. Assolversi dalle proprie responsabilità, e in primo luogo dal dovere (morale e politico, mi verrebbe voglia di dire) di esercitare il proprio spirito critico, rivolgendolo anche contro sé stessi. Ecco, a me pare che uno dei mali fondamentali di questo nostro spazio-tempo sia la riduzione di qualsiasi cosa a una logica binaria, dentro/fuori, amico/nemico, dove una parte (la nostra) concentra il positivo e l’altra il negativo. Logiche di questo tipo producono almeno tre effetti: 1) spettacolarizzano conflitti apparenti, ossia fra opposte fazioni che in realtà hanno molti più elementi in comune di quanto vogliano mostrare; 2) permettono di nascondere sotto il tappeto la complessità del reale, la sua conflittualità e ambiguità; 3) producono identità statiche e immutabili, concepite come dati acquisiti e non come perenne work in progress. Come se avere un’identità fosse sommare appartenenze, e come se ciascuna di queste appartenenze contenesse solo del bianco o solo del nero, mai dello squallido grigino.
@ kammamuri
superfluo, per chiunque ci conosca, precisare che sul ruolo “positivo” dei Servizi italiani negli anni delle leggi speciali (e della strategia della tensione) la pensiamo in un modo che non potrebbe essere più diverso dal tuo. Ma poiché c’è pure chi non ci conosce e non sa quale sia il nostro percorso, consigliamo di cercare su google “Luther Blissett Nemici dello Stato” e di leggere almeno l’introduzione di quel libro. Oggi non la scriveremmo più così, ma il “succo” resta più o meno quello. Chiudiamola qui altrimenti diventa un OT faticoso e dispendioso per tutti.
@paolo z
Assolutamente si.
Pero’ credo che quanto dici non sia legato al presente ma abbia radici molto più antiche.
Su si è parlato di guerre puniche: ecco sono un buon esempio di soluzione esterna di conflitti interni.
Trovare un nemico permette di quietare le contraddizioni interne (per la manifestazione si è voluta dare la colpa alla polizia, ai violenti o ai media).
Sinceramente non so nemmeno se condannare questi moti istintivi perchè sono appunto istinitivi e parte della nostra psicologia.
Salve a tutti, è la prima volta che scrivo qui e volevo ringraziare i WM per lo spazio messo a disposizione.
Vengo subito al punto. Appena ho finito di leggere lo scritto sul saggio di Luigi Zoja mi è tornato alla mente un libro letto qualche anno fa e che forse potrebbe rappresentare uno spunto per la discussione. Il titolo è “La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del del Novecento”, di S. Audoin-Rouzeau e A. Becker, introduzione di A. Gibelli, Einaudi.
E proprio nell’introduzione ho trovato l’assonanza con la “sacralizzazione” di cui sopra si scriveva, cito:
“Su questo punto [il rapporto tra consenso e rifiuto nel mondo combattente e i quello civile] gli autori scrivono pagine importanti per spingerci a guardare in faccia e a delineare senza eufemismi la realtà spaventosa della «guerra santa» europea, la tremenda forza delle pulsioni di odio, la gravità dell’inquinamento ideologico ed emotivo derivante dall’interiorizzazione del paradigma amico-nemico: senza tutto questo […] il grande macello non sarebbe potuto cominciare e soprattutto continuare così a lungo. […] non si apprezza appieno la gravità del disastro se non si punta lo sguardo sull’aspetto fascinoso delle idee da cui prese le mosse. Essi fanno osservare giustamente come non sia appropriato in questo senso parlare di «propaganda», come se si fosse trattato di una costruzione artificiale, imposta dall’alto e priva di riscontri negli umori diffusi, nelle emozioni, nelle paure di larghi strati di popolazione. Fu soprattutto la maschera orrenda di un nemico dai lineamenti sempre più disumani, disegnatasi anche in seguito al dilagare delle atrocità commesse davvero o di quelle semplicemente immaginate, dall’una e dall’altra parte (ma il paradigma resta quello delle atrocità tedesche della prima ora in Belgio e in Francia), a rendere possibile mantenere e riattizzare un’aggressività altrimenti destinata ad attenuarsi o a spegnersi col prolungarsi del conflitto. Ma questa costruzione stereotipica a forti tinte si alimentò grazie al contributo di schiere assai vaste di sostenitori e promotori […] sinceramente convinti di doversi impegnare in una sacrosanta battaglia di civiltà […]. E trovò grande ascolto perché rispondeva a stati d’animo collettivi pre-esistenti. L’incendio fu insomma vasto perché il materiale combustibile abbondava, il contagio rapido perché l’organismo era predisposto anche in termini di immaginario e di emozioni collettive.”
Scusate se mi sono dilungato oltre modo.
@Wu Ming 1
leggero’
Possiamo vedere nell’inasprimento dei dispositivi di controllo e nella limitazione delle libertà una versione “verso l’interno” della guerra preventiva, cioè repressione preventiva. Come si oltrepassano in armi i propri confini non per vincere un nemico ma per combatterne i presunti piani, così con le tecnologie del controllo e le legislazioni restrittive si attaccano non le reali minacce ma le possibilità di dissenso interno.
Entro questa cornice l’opposizione diretta (sullo stesso campo di battaglia e nei tempi prestabiliti) alle due direzioni di azione non consente di sottrarsi alla logica paranoica. Bisogna scardinare i concetti di *dentro* e *fuori*, riferimenti che sostengono l’ideologia della prevenzione.
Forse non è casuale, almeno sul piano simbolico, che oggi i conflitti *positivi*, che hanno più potenzialità creative come diceva Wu Ming 2, avvengano proprio sulle linee di separazione dentro/fuori come le reti di demarcazione dei cantieri in Val di Susa.
@marco_b
Forse potremmo dire che esitono due tipi di prevenzione, una paranoica e una sana. Quella sana agisce sul soggetto e cerca di fornirgli le competenze necessarie per affrontare un eventuale rischio (penso all’informazione corretta sulle sostanze psicoattive, alla riduzione del danno, al lavoro sulle life skills degli adolescenti, ecc.). Quella paranoica identifica un nemico e lo colpisce “finché si è in tempo” (penso ad esempio alle pubblicità ministeriali “contro la droga”). Quella sana lavora tutta sul *dentro*. Quella paranoica lavora per impedire al *fuori* di entrare *dentro*.
@paolo1984
Ho controllato, per evitare citazioni a memoria.
Sia il quinto che il sesto rilevamento IARD sulla condizione giovanile in Italia sottolineano la mancanza di un conflitto generazionale interno alle famiglie. Le spiegazioni possono essere le più varie: ci si accomoda in vista della lunga permanenza dei figli in famiglia, ci sono più libertà, più spazi, meno incombenze. In generale si assiste a un ripiegarsi sui valori della “socialità ristretta” e dunque tale socialità viene vissuta più come nido e rifugio, che come stimolo e confronto.
Io trovo convincente la lettura che hanno dato Benasayag e Schmit nel loro testo “L’epoca delle passioni tristi”. Il cuore del problema, secondo questi autori, sarebbe l’incapacità dell’adulto di presentare al figlio/giovane una promessa di futuro. Ma senza la capacità di fare questa promessa, l’adulto perde qualsiasi autorevolezza e si ritrova di fronte a un bivio: o la minaccia e la coercizione (“Fai questo, se no”) o la seduzione e il mercato (“Se tu fai questo, ti do questo”). Entrambe le strade, però, non si rivelano educative. La minaccia non fa crescere l’individuo, ma gli impone solo delle armature. La seduzione, invece, distrugge ogni asimmetria relazionale. In nessuno dei casi si ha una reale educazione al conflitto. E il risultato costringerebbe gli adolescenti a “fare il loro Edipo” fuori dalla famiglia. A scuola, per strada, con la polizia…
Comunque, sulle tematiche intrecciate del conflitto, della paranoia e dell’educazione, consiglio a chi non l’ha visto la visione di “Carnage”, l’ultimo film di Polanski, che ruota proprio tutto intorno a questi temi.
Forse una cosa che diminisce il conflitto generazionale e` soprattutto che oggi la societa` sta cambiando meno di una volta e quanto meno i cambiamenti in direzione libertaria sono fermi al palo degli anni 70. Penso fossero questi che creassero la maggior parte di conflitti generazionali, e forse e` anche per questo che oggi in famiglia ce ne sono meno.
Anche perche` forse l’educazione al conflitto e` diminuita e puo` anche esserci un rimosso del conflitto…. ma siamo sicuri che ci sia una diminuzione di rissosita`?
@marco_b
Hai perfettamente ragione riguardo alla questione dell’uso delle tecnologie di controllo e le nuove forme di repressione che mi vengono in mente pensando al 15 ottobre, concretizzate nella minaccia di ricorrere all’attuazione di norme speciali che servono non a contrastare, ma ad uccidere sul nascere la possibilità di creare conflitto attraverso restrizioni della partecipazione ai cortei per certi individui: il diritto da collettivo diviene individuale. Come tu appunto dicevi, lo scopo non è sconfiggere veri o (per lo più) presunti nemici “esterni”, ma piuttosto contrastare sul nascere dissensi intestini. Aggiungo un’ulteriore questione che, a mio avviso, risulta legata a doppio filo con l’aumento del controllo: la paranoia, il timore verso l’ignoto e pericoloso, strano (stessa derivazione linguistica della parola “straniero”) serve a sedare gli animi nella certezza di avere bisogno di quel potere superiore per essere protetto. Si crea il virus e si propone l’antidoto. Controllo, repressione. Il tutto condito con una buona dose di sana disinformazione. Si plagiano le menti che entrano in una spirale paranoide in cui non si distingue più il vero e il falso e ci si beve ogni cosa ci venga proposta. Questo, a mio avviso, è lo scopo del controllo: creare ad hoc dei conflitti idonei alle proprie armi di risposta.
@pedrilla
L’aumento della rissosità (che mi pare innegabile) fa proprio da contraltare all’incapacità di confliggere.
Il conflitto è una prospettiva di lunga durata, che esige lotte di largo respiro e creatività.
La rissa è una scarica immediata, il cui solo orizzonte sono i dieci minuti della sua stessa durata. Fino alla prossima occasione.
@WuMing2
Alla luce delle tue considerazioni capisco ora che non è necessario un sovvertimento tout court dello schema dentro/fuori. Bisogna lavorare per un diverso rapporto tra l’interno e l’esterno attraverso una prevenzione che non produca barriere ma anticorpi per affrontare una contaminazione (e il rischio del conflitto).
La complessità e il conflitto che da essa scaturisce sono materia viva e pulsante. E ce l’ha ricordato Luca di quanto tutto ciò abbia a che fare col corpo. Sarebbe interessante incrociare i risultati statistici riportati da Wu Ming 2 a quelli, per esempio, relativi all’insorgenza dei disturbi alimentari tra i giovani (e non solo fra di essi). Il parallelo che faceva Luca a proposito dell’infarto io l’ho fatto anni fa, e sempre a mie spese, a proposito dell’anoressia. Perché il conflitto non segue mai un percorso lineare e scannarsi con i propri genitori spesso non è sufficiente a insegnarci come non fare /farci male. La sempre crescente atomizzazione e la mancanza di una dimensione sociale e costruttiva per la lotta non hanno contribuito soltanto a proiettare il “nemico” fuori di sé, ma, per chi era già a stretto contatto con le proprie ombre, hanno contribuito a ingigantire e a rendere sempre più pericoloso il nemico interno. L’anoressica/o sa perfettamente che il conflitto “è una prospettiva di lunga durata, che esige lotte di largo respiro e creatività”. Di fatto non vive che di quello, fino alla morte (letteralmente). Non voglio addentrarmi oltre; il discorso non è semplice e richiede accortezza. Ma attenzione a non scambiarlo per un discorso “personale”, isolato, scollegato dal resto. Anche questo, come tutte le cose che mi circondano, mi parla di temi cruciali e mi spinge a riflessioni cui non posso sottrarmi se voglio tener alto il livello di guardia del mio spirito critico. Se la maggior parte dei giovani italiani under 36 non fa più del nucleo familiare un territorio di stimolo e confronto, c’è da chiedersi dove e soprattutto con quali modalità (quante diverse ce ne sono…) tutta una generazione fa ora i conti con sé stessa e con gli altri. C’è chi la violenza e la rabbia la brucia in un pomeriggio, c’è chi riesce a trasformarla, e c’è chi si trasforma per lei. Fino ad annientarsi.
@marco_b
Quindi l’antidoto alla paranoia è l’anello di Moebius!
Hai presente?
Se tu ritagli una striscia di carta, ottieni un oggetto con due facce (sopra e sotto). Se poi incolli le due estremità ottieni un anello con due superfici (dentro e fuori). Ma se prima di incollare le due estremità, tu ne prendi una e la sottoponi a una torsione di 180°, quando la incolli all’altra ottieni un anello di Moebius, cioè una figura che non ha un lato interno e uno esterno, ma un’unica superficie continua e dentrofuori.
Più facile da spiegare mostrando che scrivendo:
http://www.youtube.com/watch?v=iukpJoipypc
L’animazione, ispirata a una stampa di Escher, mostra come le formiche possano passare dentro e fuori dal nastro senza mai attraversarne il bordo e questo perché il nastro di Moebius, dal punto di vista topologico, ha un lato solo.
Per percorrerne tutta la superficie disponibile, non c’è bisogno di attraversare un confine, da dentro a fuori: basta camminare…
http://www.youtube.com/watch?v=pqs3X7VMwOc
Mi sembra un compendio dei risultati ottenuti con le ultime discussioni, compresa questa sul conflitto…
Però facciamo quanto prima la pars construens, obiettivi chiari, metodi chiari, una società nuova in testa. Perchè senza quella, senza l’idea di un conflitto che ponga un termine ai conflitti (almeno quelli di classe, quelli psichici teniamoceli cari), non si capisce chi siamo e cosa vogliamo.
vabbè, risultati… dico un compendio delle convinzioni che mi sono fatto informandomi soprattutto qua; e un’ulteriore evidenza di quello che per me manca: un’idea nuova del mondo. Dove non ci siano sfruttati e sfruttatori.
Altrimenti in ogni caso tornerà valida la citazione di Eraclito (completa): “Il conflitto è padre di tutte le cose, di tutte re, gli uni rende dei, gli altri uomini, gli uni fa liberi, gli altri schiavi.”
@WuMing 2
Basta camminare. Già. O come dice Deleuze “scivolare”.
E’ buffo perché anch’io stavo pensando al nastro di Moebius. E mi tornavano alla mente le pagine di Deleuze in “Logica del senso”. Parlando infatti degli “effetti di superficie” (e di Lewis Carrol) D. cita proprio l’anello di Moebius e afferma: “non più sprofondare, ma scivolare[…] E’ a forza di scivolare che si passerà dall’altro lato, perché quell’altro lato non è altro che il senso inverso. “ Me lo sto rileggendo ed è incredibilmente calzante!
ehi, pero’ attenti a non giocare troppo con la topologia :-)
“A Möbius band has a single boundary curve, and only one side. It is non-orientable, which means that it contains a path for which it is impossible to define a left- and right-hand side in a consistent global way.”
http://www.geom.uiuc.edu/docs/dpvc/Glossary/MoebiusBand.html
uno degli effetti della non-orientabilita’ del nastro di möbius e’ l’ impossibilita’ di definire in modo consistente cosa siano la destra e la sinistra. e questo a noi non ci piace. :-)
@tuttoattaccato…
Non a caso ne parla pure Agamben, in quel bellissimo scritto che s’intitola “Al di là dei diritti dell’uomo”. Purtroppo al momento l’ho trovato solo in inglese:
In a similar sense, we could look to Europe not as an impossible “Europe of nations,” whose catastrophic results can already be perceived in the short term, but as an aterritorial or extraterritorial space in which all the residents of the European states (citizens and noncitizens) would be in a position of exodus or refuge, and the status of European would mean the citizen’s being-in-exodus (obviously also immobile). The European space would thus represent an unbridgeable gap between birth and nation, in which the old concept of people (which, as is well known, is always a minority) could again find a political sense by decisively opposing the concept of nation (which until now has unduly usurped it).
This space would not coincide with any homogeneous national territory, nor with their topographical sum, but would act on these territories, making holes in them and dividing them topologically like in a Leiden jar or in a Moebius strip, where exterior and interior are indeterminate.
@wm2
senza niente togliere ad agamben, credo che quando scriveva “leiden jar” in realta’ intendesse “klein bottle”
http://www.geom.uiuc.edu/docs/dpvc/Glossary/KleinBottle.html
che secondo me, come rappresentazione del discorso dentro/fuori funziona meglio del nastro di moebius (fermo restando lo sgradevole contrattempo dell’ impossibilita’ di definire la destra e la sinistra :-)).
p.s. scusami se faccio il pignolo, ma come matematico non posso fare a meno di notare certe incongruenze nell’ uso di immagini e concetti presi in prestito dalla geometria. secondo me pero’ non e’ solo un fare la punta agli stronzi: questo fatto dell’ impossibilita’ di definire in modo consistente destra e sinistra in una struttura topologica di quel tipo credo abbia una qualche controparte filosofica anche nel discorso che stiamo facendo.
@tuco
grande osservazione che mi convince parecchio.
Il fatto di non poter dire destra e sinistra come conseguenza di poter dire dentro e fuori mi sembra consistente con sia con la topologia che con realta` politica. D’altronde se dai una classificazione la puoi dare quando esiste il concetto di dentro e fuori altrimenti non la puoi dare.
Continuando il gioco dei rimandi e delle corrispondenze:
ho trovato questa interessante intervista ad Agamben (Marzo 2008) in cui, guarda un po’, si parla della gestione dei conflitti. Ne copio un passaggio, mentre l’intervista integrale è qui:
http://eddyburg.it/article/articleview/10895/0/283/
“Intervistatore: La crisi di rappresentanza comporta sempre di più, dunque, una ‘dislocazione’ dei conflitti: i quali, inevitabilmente, finiscono per assumere forme altre – o di aperta ribellione o di chiusure corporative o anche di derive spiritualiste; mentre all”interno’, nel ceto politico, si afferma la cultura del «voto utile». Comunque a vincere sono sempre più gli spiriti animali del Mercato. C’è ancora un modo per ridare centralità alla politica?
Agamben: La tendenza inarrestabile della macchina governamentale, sia essa nelle mani della destra o della sinistra, è che l’attività della macchina non incontra altri limiti che quelli interni alla macchina stessa. Anzi, nella prospettiva della governamentalità, destra e sinistra non possono che perdere i loro caratteri distintivi e tendere, come di fatto è avvenuto dovunque in occidente, verso una zona di indifferenza e di opacità. Che questo prenda la forma di una grande coalizione, com’è avvenuto in Germania e come si annuncia in Italia, o di un’alternanza fra due partiti quasi indistinguibili, non fa molta differenza. La cultura del «voto utile» si iscrive in questa prospettiva. Naturalmente, la negazione dell’esteriorità lascia un’ombra, o, come voi dite, produce una dislocazione dei conflitti. Queste ombre inassimilabili sono il terrorismo da una parte e l’integralismo religioso dall’altra, che tendono idealmente a coincidere. Benché il terrorismo si presenti a prima vista come qualcosa di assolutamente ingovernabile, esso non è esterno al sistema governamentale, ma ne costituisce, per così dire, il centro segreto. Credo che un’analisi della politica interna italiana durante gli anni di piombo e della politica estera degli Stati Uniti dopo l’11 settembre ne fornirebbe una prova eloquente. Il governo del terrorismo – cioè l’inclusione dell’ingovernabile – è, in questo senso, la forma-limite del sistema governamentale. L’ossessiva insistenza sulla sicurezza, divenuta oggi quasi l’unico slogan politico, va vista in questa prospettiva. Ed è significativo che l’ombra del terrorismo finisca col ricoprire lo stesso corpo sociale nel suo complesso, nel senso che i governi tendono oggi a trattare ogni cittadino come un terrorista in potenza, assoggettandolo in modo normale a quei dispositivi di sicurezza di tipo biometrico che erano stati inventati per i criminali recidivi.”
@Tuco: è facile lasciarsi trascinare dalla forza delle immagini e hai ragione a metterci in guardia. L’appunto sull’indistinguibilità della destra dalla sinistra mi ha sempre assillato e ogni tanto anch’io ho avuto l’impressione di dover fare l’equilibrista…Ora infatti mi butto sul materasso di sicurezza ché a quest’ora faccio fatica a mettere un piede dietro l’altro (e le idee in fila!)
@pedrilla@tuttoattaccato…@wm2
il fatto e’ che per me la necessita’ di distinguere tra la destra e la sinistra (o meglio: tra il discorso della destra e quello della sinistra) e’ uno dei pochi punti fermi che mi sono sempre imposto di mantenere. e’ un bel casino, non c’e’ che dire. io per me sono disposto ad accettare delle inconsistenze su altri punti, pur di mantenere fermo questo.
@tuco
Sai che non riesco proprio a capire il senso del tuo appunto?
In che senso i *contenuti* dei discorsi di destra e di sinistra avrebbero a che fare con la metafora spaziale che ad essi associamo? Ovvero: perché la perdita di orientamento spaziale destra/sinistra dovrebbe portare a una perdita di orientamento sui contenuti di quei discorsi? Non me lo spiego proprio.
Quanto alla bottiglia di Leida, come primordiale condensatore, mi sa che Agamben intendeva parlare proprio di quella, ma per esserne certo devo andare a riprendere il libro di Heilbron sulla storia dell’elettricità.
Magari domani, bimbi permettendo.
@tuco
Non temere. La mia idea di destra e sinistra, tagliando con la motosega, deriva dalla dicotomia bobbiana esclusione/inclusione. La destra esclude, in molti modi; la sinistra (in teoria) include.
Giustamente, diceva WM2 molto sopra, la striscia di Moebius è antidoto alla paranoia, perchè non avendo che una superficie non esclude nulla che (col suo tentativo di entrare) faccia scattare la para dura. Quindi non è che non si riconosce destra e sinistra: politicamente, se è tutta inclusione, è tutta sinistra… Wow. in teoria.
Noto però: anche la Terra, sfera imperfetta, ha una sola superficie. Questo non impedisce agli stronzi di riempirla di confini difesi con la doppietta. Non avrebbero problemi manco se il pianeta avesse una forma a striscia di moebius, di klein bottle, non ne ebbero quand’era piatta con sette cieli cogli angeli occhiuti a far capolino…
@WM2 ah-a. allora non ero solo io che stavo sviaggionando :D
“Il nemico difficilmente svolge quel ruolo di “ombra”, rappresentazione del lato oscuro dell’eroe, che in definitiva finisce per combattere contro (una parte di) sé stesso e per doverla accettare o sconfiggere con dolore.”
Questa parte mi ha ricordato il viaggio dell’eroe di cristopher vogler…
Uhm… Troppa “spazialità” nelle metafore che state usando. Veniamo da una lunga fase storica in cui la teoria radicale ha sofferto di un “eccesso di spazializzazione”, tendenza che ha accentuato, nelle descrizioni, i tratti *sistemici* (e perciò ineludibili) del dominio, favorendo la sfiducia nell’azione costruttiva. Parlando troppo in termini spaziali si comprime la dimensione del tempo, necessaria a qualunque fondazione. Per fare l’esempio degli esempi, quando si parla del capitalismo, anziché di un “dentro” e un “fuori” (impostazione falsante), sarebbe meglio parlare di un “prima” e un “dopo”. Il capitalismo è una formazione sociale storica, e come ha avuto un inizio, così avrà una fine. Ecco che, esprimendoci in termini meno spaziali e più temporali (inizio, fine, diversi tempi verbali), il superamento del capitalismo torna a essere *pensabile*, cosa che invece non accade se parliamo di “dentro”, “fuori”, “esodo”, “TAZ” o che altro. E se ci fate caso, parlando in termini spazializzanti si è anche spinti a usare prevalentemente un tempo verbale: il presente indicativo. Che è il tempo dello stato di cose esistente, il tempo della mera constatazione di quel che c’è. La tirannia di questo presente rende difficile pensare *progettualmente*. In fondo al vicolo chiuso della teoria sovra-spazializzata, ci sono solo riots ciechi di rabbia o parolaismo imbelle. Non sto stigmatizzando la discussione, faccio solo notare che il conflitto è anche questione di *tempi*, *tempistiche*, *tempismi*, e che negli ultimi vostri scambi tutta l’enfasi è posta su stringenti metafore spaziali, su cui rischiate di arrotolarvi, restando sempre sulla stessa superficie, come le formiche di cui parlava WM2. Parliamo anche di tempi. Lo ripeto sempre, a costo di spaccare i maroni.
@wm2
quel che volevo dire e’ che noi stiamo usando lo spazio come metafora di relazioni psicologiche, sociali e politiche (l’ anello di moebius come antidoto alla paranoia, il dentro e il fuori come rappresentazione della dicotomia inclusione/esclusione, ecc.). volevo far notare (partendo proprio dalla topologia) che il prezzo che si paga quando si sta su un nastro di moebius o su una bottiglia di klein (rispetto a cui non ci sono piu’ un dentro e un fuori) e’ la perdita di orientamento. riportando il discorso sul piano delle relazioni sociali e politiche, questa perdita di orientamento a me pone dei problemi. cioe’: in realta’ i problemi che mi pone sono piu’ che altro teorici, perche’ quando mi trovo di fronte a situazioni reali, con un po’ di sforzo l’ orientamento lo trovo. ma perche’ lo trovo? giuro che non riesco a capirlo. forse e’ una questione di “tempo”, come dice wm1. oppure, come dici tu, di “contenuti”. in ogni caso, si tratta di qualcosa di extra, qualcosa che e’ rimasto *fuori* dalla (non “nella”) metafora spaziale.
E’ vero che sulle superfici *non orientabili* non è possibile definire una direzione di movimento e di osservazione privilegiata, non esiste un orizzonte assoluto. Ma ciò comporta anche che, ad ogni passo, la formica debba adattare lo sguardo ad una diversa angolazione. Dopo aver percorso parte della traiettoria avrà raggiunto un inedito punto di osservazione. Forse la metafora si risolveva in questo, superare la paranoia camminando con lo sguardo obliquo.
Un esperimento utile sarebbe prendere tutto l’impianto metaforico spazializzato di derivazione deleuzo-guattariana (spazio liscio, spazio striato, deterritorializzazione, parete bianca/buco nero, rizoma, concatenamento macchinico etc.) e “tradurlo” in termini temporali. Avevo azzardato qualcosa in questa direzione ai tempi del memorandum sul NIE, ma non se n’è accorto quasi nessuno (ovviamente!), e soprattutto – a parte Girolamo, Dimitri Chimenti, Maurizio Vito e, mi sembra, Flavio Pintarelli – non se ne sono accorti i deleuziani :-)
@ marco_b
perfetto, in questo modo si recupera e valorizza la dimensione *temporale* dell’esempio di WM2: durante il percorso, lungo il cammino, a un certo momento, darsi il tempo di orientarsi.
@marco_b
comunque c’e un fatto rassicurante: qualunque superficie, anche quella scaturita dalla mente di un matematico in acido, e’ *localmente* orientabile. cioe’ per ogni punto, esiste un intorno su cui e’ possibile definire un orientamento. i casini nascono quando uno cerca di costruire un orientamento globale incollando uno vicino al’ altro gli orientamenti locali. in questo caso, come nella striscia di moebius, dopo un giro completo ci si ritrova con l’ orientamento invertito. allora forse la metafora ci insegna a diffidare delle teorie “globali”, quelle che pretendono di spiegare tutto. in questo senso e’ una buona metafora.
aggiungo ancora una cosa, che in matematica ha un senso preciso, e che ha senso anche nella trasposizione metaforica che stiamo facendo: il prezzo da pagare, per poter pensare un orientamento globale, e’ quello di accettare che ci siano delle discontinuita’.
L’esempio del nastro di Moebius – rispetto all’opposizione dentro/fuori – aveva proprio il senso di *eliminare* quella dicotomia grazie allo scorrere del tempo, come illustrano bene le nostre formichine.
Disorientare le metafore spaziali non significa rinunciare a un orientamento: prendete ad esempio la metafora spaziale alto/basso con la quale siamo soliti parlare di moralità (“un colpo basso”, “un comportamento elevato”). Se noi rinunciamo a questa metafora, ne abbiamo tante altre per “riempire” il nostro concetto di moralità (perché occhio: non possiamo rinunciare a *tutte* le metafore. Le metafore non sono solo poesia. Le metafore danno sostanza ai nostri concetti). Possiamo passare alla dicotomia pulito/sporco, luce/buio, puro/marcio, salute/malattia, forza/debolezza, dritto/storto. Possiamo provare a rinunciare alle metafore dicotomiche e via discorrendo…
Destra/sinistra è una metafora (peraltro nemmeno primaria, ma culturale) che porta con sè diversi difetti. Ad esempio, se la trasferiamo su una linea retta, ci fa pensare che esista un “centro”, una zona che sta in mezzo tra le due estremità, dove si collocherebbero gli elettori “moderati”. Ma chi sarebbero ‘sti moderati (si chiede ad es. Lakoff)? Gente che crede un pochino in certe idee? Sappiamo bene che non è così. In realtà i cosiddetti moderati albergano nel cervello un mix di idee, conservatrici e progressiste, e dunque la strategia elettorale nei loro confronti non è quella di “moderare” i propri contenuti, per andar loro incontro lungo la famigerata linea retta, ma di far leva sulle loro idee progressiste. Il deleterio inseguimento del centro da parte della sinistra, è forse il figlio più indesiderabile di una metafora spaziale.
@tuco
La questione della discontinuità mi interessa molto. Se hai tempo, mi dai qualche dritta in più?
@Tyler
Centro! Vogler (“Il viaggio dell’eroe”) e quindi Campbell (“L’eroe dai mille volti”) forniscono una delle strutture narrative che facciamo utilizzare agli studenti per i loro elaborati.
Sì, è impossibile rinunciare alle metafore spaziali, sono alla base del nostro pensiero (proprio alla base neurologica). Ma anche le metafore temporali sono alla base del nostro pensiero. Noi non esperiamo mai lo spazio senza esperire il tempo e viceversa. Siamo immersi nello spazio e nel tempo. Si tratta quindi di riconfigurare, di spostare qualche accento, di restituire alla dimensione temporale il ruolo cruciale che un tempo aveva nel pensiero critico e rivoluzionario. In Marx, ma anche (un nome a caso) in Ernst Bloch, le metafore temporali mi sembrano sovrastare per numero e qualità quelle spaziali. Nel tardo Novecento, il rapporto si è invertito. Certo, non bisogna tornare a “feticizzare la Storia”, ma un equilibrio si può trovare.
Anche la metafora spaziale destra/sinistra, una volta “temporalizzata” (cioè, banalmente, storicizzata) si libera delle costrizioni che giustamente segnala WM2 riprendendo Lakoff. E qui copio degli appunti che sto prendendo in questi giorni, in vista della stesura di un articolo:
——
Negli ultimi tempi si sente sempre più spesso la frase: «Non siamo di destra né di sinistra». A volte l’ordine dei fattori è invertito: «Non siamo di sinistra né di destra». In giro per l’Europa, movimenti e soggetti collettivi diversi tra loro – dal nostrano «Movimento 5 Stelle» ai «Partiti dei Pirati» che hanno ottenuto sorprendenti risultati elettorali in Germania e altri paesi, fino ad arrivare ai cosiddetti «Indignados», a partire dal «Movimento 15 Maggio» spagnolo – ci tengono a dichiarare questa non-appartenenza.
Io propongo questa tesi: a seconda del soggetto collettivo che enuncia la frase, del contesto in cui viene usata e delle pratiche a cui si accompagna, il significato di tale non-appartenenza si trasforma in maniera radicale. Una volta lo scrittore francese Serge Quadruppani ha detto: «Ci sono due modi di non essere né di destra né di sinistra: un modo di destra e uno di sinistra». L’apparente paradosso spaziale – di primo acchito, roba da disegno di Escher! – può aiutarci a trovare l’orientamento nel territorio dei nuovi movimenti. La frase «Non sono di destra né di sinistra» può aiutarci a capire quali tra i movimenti «non-appartenenti» appartengano al phylum che – per comodità, pigrizia o consapevole richiamo a una tradizione – chiamiamo «sinistra», e quali invece al phylum che chiamiamo «destra».
Il corollario della mia tesi è che ogni variante della frase (verbo coniugato al singolare o al plurale, ordine dei fattori etc.) riveli qualcosa sul movimento che la dice. Per dirla papale papale: secondo me gli Indignados spagnoli sono un movimento di sinistra (perché anticapitalista ed egualitario), mentre il «grillismo» è un movimento di destra (perché diversivo, poujadista, a volte forcaiolo, se non addirittura cripto-fascista).
Esistono discorsi e circostanze in cui il concetto di “sinistra” è messo in discussione «da sinistra», in quanto insufficiente, inadeguato, eccessivamente inscritto in una rappresentazione parlamentare o para-parlamentare. Il filosofo Alain Badiou, in una celebre conferenza sulla Comune di Parigi, ha proposto di chiamare «sinistra» «l’insieme del personale politico parlamentare che si dichiara il solo capace di assumere le conseguenze generali di un movimento politico popolare singolare. O, in un lessico più contemporaneo, il solo capace di fornire un ‘esito politico’ ai ‘movimenti sociali’.»
In questo senso, la Comune di Parigi fu una rottura con la sinistra, poiché «non rim[ise] il proprio destino nelle mani dei politici competenti» salvo poi lamentarsi del loro «tradimento». Per Badiou «questa volta, quest’unica volta, il tradimento è invocato come uno stato di cose, al quale ci si deve finalmente sottrarre e non come una conseguenza disgraziata di quanto si è scelto».
Il linguista cognitivista George Lakoff ha più volte criticato la rappresentazione destra-sinistra, perché fa pensare che le persone siano allineate l’una l’accanto all’altra su un piano bidimensionale, e che si possa procedere con continuità da “quello più a destra” a “quello più a sinistra”. Invece, dice Lakoff, la realtà è multilineare e multidimensionale, il modo in cui si formano le nostre idee è complesso ed esistono molte persone «biconcettuali», ovvero progressiste su alcuni temi e conservatrici su altri.
La rottura prodotta dagli Indignados nei confronti della sinistra spagnola sembra sintetizzare in modo precario, transitorio, queste due impostazioni: sottrarsi al tradimento come stato di cose, e al tempo stesso parlare a più persone, raggiungere le parti «progressiste» dei cervelli biconcettuali.
Il difetto del discorso di Lakoff è che in esso non sembra esserci posto per la storia. Lakoff in questo è tipicamente americano, il suo è un mondo tutto “sincronico”, addossato all’adesso.
L’importanza del concetto di “sinistra” può essere capito solo con un approccio “diacronico”, cioè storicizzante (“Storicizzare sempre!”, intimava Fredric Jameson, con tanto di punto esclamativo, all’inizio del suo capolavoro L’inconscio politico). Un approccio che ne ripercorra la genealogia e le trasformazioni. “Sinistra” è qualcosa che discende i fili del tempo in un certo modo, viene da un certo posto nel passato dove si è lottato per qualcosa e vuole andare in un certo posto nel futuro dove, mutatis mutandis, ancora si lotterà per quella cosa.
Io stesso penso che “sinistra” non basti a descrivere le mie posizioni, nel senso che trovo necessario aggiungere precisazioni e qualificazioni. Io non sono semplicemente “di sinistra”: io mi riconosco in un phylum di idee rivoluzionarie e di lotte per l’uguaglianza che attraversa i secoli; penso che la specie umana – previa una rottura radicale nella temporalità in cui siamo immersi – debba avviare la fuoriuscita dal capitalismo; penso che l’obiettivo da realizzare sia la società senza classi etc. etc.
Però, è chiaro che se devo semplificare e voglio evitare di aprire troppe parentesi, non mi faccio troppi problemi a dire che sono di sinistra.
Il punto, comunque, è che in alcuni casi il concetto di “sinistra” è criticato per la sua insufficienza da punti di vista che si sono formati nel phylum della sinistra rivoluzionaria. (gli anarchici, gli zapatisti)
Un mio amico usava dire: “Io non sono di sinistra: sono comunista!”
Di solito, in questi casi, la dichiarazione di «non-appartenenza lineare» segue delle prassi precise.
[…]
—-
Dopodiché, negli appunti passo ad analizzare l’utilizzo (largamente maggioritario) *qualunquista* e cripto-fascista della dichiarazione di non-appartenenza ai due campi.
@wm2
provo a spiegare in maniera semplice. in matematica uno dei concetti fondamentali e’ quello di “funzione continua”. si dice che una grandezza f(x) dipende in modo continuo dalla variabile x se la variazione della f(x) al variare di x puo’ essere resa piccola quanto si vuole, a patto che anche la variazione della x sia sufficientemente piccola. questo concetto esprime ad esempio l’ atto di tracciare una linea continua su un foglio.
quando si parla di orientamento di una superficie, in termini matematici questo viene espresso attraverso una certa funzione definita sulla superficie stessa. questa funzione deve essere continua. cio’ che accade sul nastro di moebius o sulla bottiglia di klein e’ che *non esiste* una funzione continua definita su queste superfici, che soddisfi le proprieta’ di struttura che devono caratterizzare un “orientamento”. tuttavia possono esistere funzioni che siano orientamenti, e che siano definite su tutto il nastro eccetto ad esempio un segmento che attraversa la striscia da parte a parte. in prossimita’ di quella linea di frattura la funzione di orientamento si comporta in modo discontinuo, e non c’e’ modo di rimediare.
provo a spiegare con un esempio cosa succede sul nastro di moebius: pensa di avere un nastro di moebius costruito con un foglio trasparente. pensa di avere due orologi a lancette supersottili e trasparenti. li appoggii uno sopra l’ altro in un punto della striscia di moebius, in modo che le lancette girino nello stesso verso. poi fai scivolare uno dei due orologi lungo la striscia e gli fai compiere un giro completo fino a sovrapporlo nuovamente al primo. a quel punto le lancette dei due orologi non gireranno piu’ nello stesso verso (merda!). pero’ se lungo il tragitto introduciamo una discontinuita’ (arriva qualcuno e capovolge uno dei due orologi, oppure l’ orologio si capovolge da solo con una capriola), alla fine i due orologi si ritroveranno di nuovo a girare nello stesso verso.
oì, spero di essere stato almeno un po’ comprensibile.
(comunque la topologia e’ forse la piu’ difficile tra le varie branche della matematica, ed e’ in grado di formalizzare configuarzioni estremamente complesse. io pero’ non sono un topologo, sono un umile analista, una specie di operaio nella gerarchia sociale della matematica :-))
(queste metafore tratte dalla matematica in realta’ sono potenzialmente molto piu’ ricche di quel che si crede, e vale la pena esplorarle fino in fondo. pero’ c’e’ anche il rischio di prendere qualche cantonata. ad esempio a volte ho sentito usare il termine “vettoriale” in contrapposizione a “lineare”, mentre in realta’ i due termini sono esattamente sinonimi)
@WM1
>>Invece, dice Lakoff, la realtà è multilineare e multidimensionale, il modo in cui si formano le nostre idee è complesso ed esistono molte persone «biconcettuali», ovvero progressiste su alcuni temi e conservatrici su altri.
Verissimo se guardo un porno sono assolutamente di destra, nel senso che mi piace di più un ambientazione alto borghese con donne bellissime in ville lussuose con piscina. Il porno campagnolo con le infrattate fra i trattori mi ha sempre fatto schifo.
Per il resto sono di sinistra :-)
@tuco (con grande grande deviazione ot): il discorso sulle metafore matematiche applicate alla politica mi interessa molto.
C’è da una parte una grande voglia di utilizzare metafore di carattere scientifico (a casaccio: Lacan, Irigaray, Agamben, Deleuze, …), nel mezzo un terreno irto di fraintendimenti (con tutte le sue contraddizioni, il caso Sokal) e dall’altra una quasi totale incapacità di offrirsi alla narrazione politica della matematica (molti i matematici che fanno politica, rari ed effimeri i topoi matematici introdotti con efficacia nel discorso).
A me, da matematicante e comunicante, credo farebbe bene una seria riflessione sulla questione, ma non ho ancora trovato la giusta chiave.
Scusatemi del mega OT, capirei perfettamente il mio commento non trovasse spazio.
http://www.youtube.com/watch?v=Btp8BpYFSBs
@ippogrifo
in compenso ci sono matematici che cagano fuori dal bucal (=”vaso” in triestino) in maniera veramente imbarazzante. il caso piu’ famoso e’ quello del russo fomenko ( http://en.wikipedia.org/wiki/Anatoly_Fomenko ), che ha proposto una revisione complessiva della cronologia dell’ intera storia umana, basandosi anche sul cosiddetto “codice della torah”. queste teorie “revisioniste” hanno trovato una certa fortuna nell’ estrema destra russa (ça va sans dire).
non so che dire, credo che sulla psiche di certe persone la matematica abbia degli effetti devastanti.
comunque io sono sempre un po’ perplesso riguardo all’ uso di metafore prese dalla matematica. pur non essendo chissa’ che profondo nei miei studi, ne capisco abbastanza per rendermi conto che spesso queste metafore non colgono il nocciolo del concetto matematico a cui fanno riferimento. uno che ci sapeva fare era bateson, che aveva usato la teoria dei tipi logici di russell per proporre un’ analisi logica dellle relazioni schizofrenogene all’ interno di una famiglia (double bind, ecc.).
@tuco: Ti ringrazio per il Fomenko, che non conoscevo. Purtroppo di Fomenki è pieno il mondo, non solo la combriccola dei matematici. Mi sembra che nessuno degli attuali parlamentari di maggioranza (nemmeno di minoranza) sia un matematico, tanto per dire. Sul rapporto di causa effetto fra pazzia e matematica c’è da investigare, ‘ché spesso la matematica è
Perfettamente perplesso pur io, credo, ma forse sbaglio, che il problema sia acuito dall’incapacità dei matematici (di tanti) di proporre loro una narrazione metaforica, lasciando l’incarico a chi la matematica la conosce poco o punto. Altri scienziati ed altri intellettuali hanno, giustamente, meno remore a proporre letture metaforiche (sempre limitate) della realtà. Discorso paranoico da “eterno incompreso”?
@tuco
forse OT: su Bateson drizzo le orecchie. L’ho letto tutto anni fa e mi aveva preso bene, soprattutto per l’importanza che dà alla metafora (per cui adesso che sto leggendo Lakoff continua a tornarmi in mente, anche se la parentela mi sembra remota).
Quando dici “ci sapeva fare” significa che gli attribuisci una sua particolare abilità nel “non cogliere il nocciolo del concetto matematico a cui fanno riferimento”?
@vecio baeordo
no no, al contrario. bateson ha usato russell in modo magistrale.
@ippogrifo
sai cos’e’, e’ che un matematico che elabora metafore di solito e’ come un ferroviere che racconta barzellette (absit iniuria): finisce per perdersi in mille dettagli e alla fine non riesce a quagliare.
i Sangue Misto ce li siamo già giocati, ma restando in tema di psicopatologia applicato alla lotta mi piaceva postare quest’altro contributo musicale (incluso in uno di quelli che reputo essere fra i più bei dischi italiani degli anni ’90)
http://bit.ly/p9h9kL
di seguito ciò che del testo mi può ancora essere utile
Mi sveglio e voglio il meglio da
Ogni giorno
Resto attento e se sto pronto
Magari ce la posto fare
A non farmi acciuffare
Dal malumore
Devo prendere bene le distanze
(…)
Il nemico ci vuole tutti sotto botta
Sotto depressione
Non morirmi amore
è tempo di dare una grande
Lezione
Aprirci come le rose
(…)
Ma se non ti dai il tempo
Non hai il tempo per gli altri
La mia felicita
Sempre in tensione
Naviga fiera
E ora rido
Con il riso di chi gli ordini li ignora
La mia felicita
Non si paga si strappa
Chi ci vuole sotto botta?
La mia felicita
Non si paga si strappa
Chi ci vuole sotto botta?
La gioia allarga l’anima
E mi spinge a dare
Non siamo nati per soffrire
La gioia allarga l’anima
E mi spinge
A darci dentro a dare
A volte si alza un vento
Di tempesta
Un uragano mentale
Dentro la mia testa
Devo star bene adesso basta
Ma c’è qualcosa di intrigante
Nelle notti rubate
(…)
Ad aspettare domani
Ballando come Sciamani
Capisci bene perché io vado avanti
Questione di idee
(…)
Però me ne sto fuori volentieri
E me ne vado in giro
In cerca di colori
Non aspetto da nessuno regali
In città
Non mi chiudo nel rifugio
Degli avari
Per avere un po’ di tranquillità
Che c’è?
Ci vuole sotto botta
(…)
Vanno a materializzarsi
Non può essere felice
Chi cammina
Con la legge sulle nostre facce
Assalti Frontali, Sottobotta, Conflitto, 1996
@tuco
Grazie della spiegazione, sei stato molto chiaro (io poi son figlio di un umile analista, quindi forse il DNA mi aiuta un po’… )
Ah, poi mi sa che avevi ragione: Agamben fa l’esempio della bottiglia di Leida, ma in realtà voleva intendere la bottiglia di Klein. Non ti dico come m’ero spiegato il riferimento fino ad oggi… Meglio se vado a nanna.
@veciobaeordo@altri
a proposito di bateson, mi e’ venuta in mente questa storiella della tradizione ebraica che ho trovato in un libro per bambini, raccontata da moni ovadia.
in breve: il figlio di un re un giorno si sveglia convinto di essere un pollo. si denuda completamente e si piazza carponi sotto un tavolo, accettando di mangiare solo chicchi di grano. il re convoca tutti i piu’ grandi saggi d’oriente e d’occidente, ma nessuno riesce a guarirlo. ormai il re si e’ rassegnato. ma un giorno si presenta un vecchio che promette di guarire il ragazzo, a patto di avere a disposizione tutto il tempo necessario. il re accetta. il vecchio allora si denuda e si mette anche lui carponi sotto il tavolo, e comincia a becchettare i chicchi di grano. il principe e’ molto contento di avere un po’ di compagnia. dopo molto tempo, il vecchio chiede al re che gli siano portati del formaggio e del pane, e li mangia con gusto. il principe pollo e’ molto stupito, ma il vecchio gli spiega: dove sta scritto che un pollo non possa mangiare pane e formaggio? dopo qualche giorno, anche il principe chiede di mangiare pane e formaggio. e cosi’ via, fino alla completa guarigione.
si tratta di un “double bind” terapeutico: se il principe accetta il pane e il formaggio, di fatto rinuncia a comportarsi da pollo. ma se per coerenza con la sua pollitudine rifiuta di mangiare pane e formaggio, deve rinunciare anche al rispecchiamento nel suo amico pollo, e questo mette comunque in crisi la sua pollitudine. nella storia alla fine vince la necessita’ del rispecchiamento. (pero’ se il principe fosse stato veramente chiuso in una pollitudine autistica, non ci sarebbe stata guarigione).
(che dite, e’ abbastanza obliquo come sguardo?)
Il sospetto del soggetto paranoico, anticipa e costruisce con questa stessa previsione, i segni che la confermerebbero. Ogni regime totalitario tende in effetti ad assumere l’assioma paranoico “tutto è segno” come presupposto delle proprie pratiche repressive.
Nel lavoro di Fornari l’aggressività paranoica è descritta come un *antilutto*. Essa presuppone lo scatenamento della violenza e della guerra e consiste in uno spostamento proiettivo del reale scabroso, non elaborabile simbolicamente, nel vicino nemico, accusato di aver causato la perdita e la morte dei cari a noi prossimi. La violenza paranoica viene al posto di un lavoro del lutto impossibile da compiere; l’oggetto perduto viene trasformato in un oggetto sottratto dal godimento maligno dell’Altro (vd #11sett). Gli antropologi ci ricordano che la tribù che subisce il trauma di una perdita tende ad attribuire alle manovre aggressive di uno sciamano di un’altra tribù la colpa di questo evento doloroso.
Sì, sono paranoico. Ma sono abbastanza paranoico? (scusate la citazione)