Capitano cose strane di questi tempi. Anche stranissime.
A Bologna c’è un collettivo di studenti, ricercatori, giovani lavoratori precari, che si chiama “Bartleby” (da un celebre racconto di Herman Melville) e da due anni organizza iniziative culturali nei locali assegnatigli dall’Università di Bologna, in via San Petronio Vecchio. Da qualche tempo l’assegnazione è scaduta e l’ateneo ha deciso di non rinnovarla, poiché pare che in quegli stessi locali dovranno essere eseguiti lavori strutturali per ampliare gli spazi della Facoltà di Scienze Politiche. L’ateneo non intende offrire alternative al collettivo Bartleby: probabilmente non ritiene interessante né utile l’attività che svolge.
Ecco la prima stranezza.
Per quei due stanzoni di via San Petronio Vecchio (+ cortiletto) in questi mesi sono transitati musicisti, scrittori, artisti, docenti universitari, attivisti politici; quasi senza soluzione di continuità si sono tenute presentazioni di libri, reading di poesie, videoproiezioni, mostre di fumetti, dibattiti sull’attualità e sul mondo. Tutto questo senza finanziamenti, cioè a costo zero per la collettività.
Si tratta di un’esperienza che ha dimostrato una vitalità e una capacità di aggregazione di gran lunga eccedenti i locali messi a disposizione dall’università. Tuttavia pare che l’università preferisca sbarazzarsi di questi giovinastri rompiscatole, della loro creatività, del loro impegno (che evidentemente considera mal speso), dell’attività di promozione culturale che svolgono. Quella che in altre università europee sarebbe una realtà segnalata nelle guide d’ateneo, a Bologna è considerata alla stregua di una scomoda zavorra di cui disfarsi.
Perché? Forse perché si tratta di un soggetto che è anche conflittuale? Perché Bartleby è una delle realtà cittadine impegnate a contestare i tagli alla cultura imposti dal precedente governo – intercettando sia gli studenti sia i lavoratori del settore – nonché le attuali ricette economiche imposte dall’Unione Europea? Forse perché questi studenti criticano le politiche accademiche?
Viene da chiedersi cos’altro dovrebbe fare uno studente oggi. Non a caso, dalla Gran Bretagna al Cile, passando per Harvard (dove vengono boicottate le lezioni dei professori di economia neoliberisti) e giungendo fino in Italia, gli studenti sono mobilitati per rivendicare il libero accesso allo studio e alla cultura come parte integrante del welfare. Davvero qualcuno pensa che possano starsene zitti e piegati sui libri?
La seconda stranezza riguarda l’atteggiamento, non meno incomprensibile, dell’amministrazione comunale, che ha deciso di interrompere qualsiasi trattativa con il collettivo Bartleby.
Il motivo addotto è la partecipazione di Bartleby alla recente occupazione di un cinema dismesso da anni, praticata da diverse realtà di movimento bolognesi devote a “Santa Insolvenza”, e dove sono state indette alcune assemblee cittadine di mobilitazione sulla crisi, a cui hanno partecipato centinaia di persone. Un cinema sotterraneo, dal quale gli occupanti si sono lasciati sgomberare dopo cinque giorni senza colpo ferire.
A detta dell’Assessore alla Cultura l’occupazione avrebbe dimostrato la volontà di non portare avanti la trattativa da parte dei giovani melvilliani. Sarebbe questa l’onta imperdonabile.
Evidentemente l’Assessore non si è reso conto che l’occupazione del cinema non era finalizzata a trovare una nuova sede stabile per le attività di Bartleby, bensì ad aprire uno spazio pubblico temporaneo in cui il movimento e la cittadinanza potessero ritrovarsi a discutere sulle sorti collettive e sul da farsi, in un passaggio cruciale come quello che stiamo vivendo. Fino a quel momento infatti le assemblee cittadine si erano tenute presso la biblioteca comunale Sala Borsa, oltre l’orario di chiusura, con inevitabile disservizio per la struttura pubblica (e lì sono ritornate, dopo lo sgombero del cinema).
Viene da chiedersi se i nostri amministratori di centrosinistra si rendano conto che nel mondo esiste un movimento di cittadini che stanno reagendo alla crisi e contestano le ricette con cui si pretende di uscirne. Se gli occupanti di Zuccotti Park – che dopo lo sgombero da parte della polizia si sono fatti arrestare in duecento (!) sul Ponte di Brooklyn – ricevono la solidarietà dei più noti intellettuali mondiali e vengono indicati come esempi di impegno civico, è possibile che gli attivisti nostrani debbano essere trattati alla stregua di delinquentelli opportunisti? O addirittura dipinti come folli kamikaze che decidono di occupare un posto che sarebbe già stato loro assegnato – l’Assessore ha sostenuto anche questo – solo per il gusto di far saltare la trattativa con il Comune e ritrovarsi in mezzo a una strada?
Crediamo sia il caso di volare un po’ più alto. Il dato di fatto è che Bartleby è una risorsa a costo zero per la città. Non c’è reato di lesa maestà che debba essere scontato attraverso l’esclusione da qualunque dialogo con l’amministrazione. Non c’è motivo per cui una realtà collettiva che, nonostante i piccoli spazi, organizza continuamente eventi culturali insieme a un’infinità di persone, debba essere chiusa, sfrattata, cancellata dalla mappa di Bologna. Sembra incredibile che non ci sia un’istituzione cittadina disposta a risolvere l’emergenza locativa per consentire che quell’attività prosegua.
Evidentemente qualcuno ha deciso che Bartleby deve morire.
Invitiamo tutti gli intellettuali e gli artisti che hanno attraversato l’esperienza di Bartleby, e tutti coloro che credono si debba dare una chance al proseguimento di un’esperienza come quella, a prendere la parola pubblicamente contro l’ostracismo e in favore di una ripresa del dialogo.
Wu Ming
Bologna, 24 novembre 2011
***
INIZIATIVE CULTURALI DI BARTLEBY: ALCUNI ESEMPI
«MACCHINE MITOLOGICHE E CULTURA DI DESTRA»
Presentazione del numero della rivista Riga dedicato a Furio Jesi (1941-1980). Con il filosofo Enrico Manera (curatore del volume insieme a Marco Belpoliti) e Wu Ming 1. Bartleby, Bologna, 18 febbraio 2011.
Ascolta l’audio della serata (1h 32′ 58″).
«COSA FA UN FILOSOFO NELLA CASA DEI PAZZI?»
Presentazione della nuova edizione di Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault. Per la prima volta in Italia in versione integrale, coi due capitoli misteriosamente “saltati” nelle edizioni precedenti. Merito del curatore Mario Galzigna (filosofo, epistemologo clinico e storico della psichiatria, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia), che ha anche reinserito la prefazione di Foucault del 1961. La serata si è svolta il 28 ottobre 2011.
Qui l’audio integrale della serata.
Tra le varie iniziative in programma, segnaliamo questa:
30 novembre 2011, h. 18.00 incontro con Michael Hardt (docente alla Duke University e all’European Graduate School) e Anna Curcio. Presentazione del libro collettaneo Comune,comunità,comunismo. Teorie e pratiche dentro e oltre la crisi (Ombre Corte, a cura di Anna Curcio).
Bartleby, non si sa fino a quando, è in via S. Petronio Vecchio 30, Bologna.
E dite bene.
Prendere la parola pubblicamente.
Esporsi, prendere posizione.
Ce n’è bisogno.
Se no Bologna sprofonda.
e ora non resta altro che tradurre questa posizione in pratiche concrete a sostegno e difesa di bartleby.
L’esperienza di Bartleby è davvero una ricchezza per Bologna. La miopia dell’Università e dell’amministrazione comunale è, in questo caso, eclatante.
Non so in che modo la “trattativa” per gli spazi stia proseguendo, ma mi auguro che alla fine si riesca a giungere a una conclusione positiva.
Solidarizzo totalmente con il collettivo.
Oltre a lavorare come copywirter, faccio anche a tempo perso l’operatore culturale in una piccola realtà di provincia. So, o almeno credo di sapere, quanto sia importante per lo sviluppo culturale di una città e dei suoi abitanti avere realtà capaci di collegarsi al territorio, di viverlo e farlo vivere in una temperie culturale che non si riduca soltanto ai grandi eventi di cartello, ai nomi altisonanti che arrivano e se ne vanno lasciando tutto com’era e alle iniziative di plastica che giovano più ai bottegai che ai cervelli.
Per questo esprimo la mia solidarietà a Bartleby!
Ne approfittiamo per dire che oggi, h. 15, Aula I di Lettere, via Zamboni 38, Wu Ming 2 anima il seminario “Libia 1911-2011” del Laboratorio di autoformazione di Bartleby:
http://bartleby.info/content/laboratorio-di-autoformazione-lettere
Si tratta dell’incontro inizialmente programmato per il 17 novembre, poi rinviato per cause di forza maggiore.
l’ ultima volta ci sono stato in occasione del BIRRA http://www.bartleby.info/content/12-13-giugno-bartleby-ospita-birra, Bartleby è una realtà viva e attiva necessaria a bologna piantata nel territorio, va supportata, spero l’amministrazione comunale si renda conto di cosa sta perdendo e di quanto sia sbagliato investire per lo più in eventi volatili che passano in una sera.
La SIC sostiene e – così su due piedi – intanto, contribuisce nel suo piccolo con un’immaginetta: http://twitter.com/#!/sictwit/status/139666198727110657
E’ molto importante la vostra presa di parola in difesa di Bartleby. Come è utile un pizzico di retorica nei momenti critici. Ma visto che vi siete sempre sottratti a un tic della sinistra (tutta, non solo di quella storica) per il quale nei momenti difficili non bisogna andare troppo per il sottile, mi permetto di porvi una questione.
Prima di ogni cosa credo che Bartleby sia un collettivo politico che -come ha scritto e dichiarato- non ha rinunciato a fare movimento pur trovandosi nella delicata situazione di una trattativa in corso per la riassegnazione di uno spazio.
Spazio che in questi 2 anni ha funzionato da produttore e trasduttore culturale.
Tuttavia l’idea che Bartleby sia “una risorsa a costo zero per la città” mi pare pericolosa.
Non vorrei prestasse il fianco a un’idea di sussidiarietà ormai dominante anche nei discorsi del blocco progressista italiano.
Dopo la sussidiarietà sociale quella culturale. Volontariato culturale.
Spero non sia questo il ruolo degli spazi e il tipo di città che vogliamo immaginare.
@ Vince
un momento: noi non abbiamo scritto nulla di nuovo o di inedito. Una cultura autogestita e finanziata dal basso esiste nelle città italiane da decenni, con alti e bassi, continuità e discontinuità. Non c’entra con la sussidiarietà, c’entra semmai con l’agire la cultura come conflitto.
“Sussidiarietà” è spesso il nome di una ben confezionata truffa per far pagare a tutti i privilegi di qualcuno, facendo incetta di fondi pubblici per finanziare progetti privati destinati a pochi, spesso a un’élite ideologicamente nemica di qualunque nozione di bene comune. Si pensi alla “sussidiarietà” delle scuole private cattoliche, molte (moltissime) di CL, che si prendono fior di quattrini pubblici, spesso per allevare rampolli di una politica e di un associazionismo lobbyistico che ha appoggiato e praticato ogni smantellamento del welfare.
Bartleby, invece, è una delle tante realtà che in Italia, caparbiamente, fa iniziative culturali a bassissimo costo, anche grazie alla disponibilità di artisti e intellettuali che partecipano chiedendo solo il rimborso del treno e di poter mangiare un panino, magari in piedi chiacchierando, per poi dormire ospiti da un compagno.
L’unica cosa che Bartleby sta chiedendo è uno spazio dove continuare a fare cultura. Sta co-implicando le istituzioni cittadine, sta tirando loro la giacchetta e mostrando loro un problema che vorrebbero rimosso dal loro campo visivo. Sta cercando di responsabilizzarle a essere fino in fondo istituzioni pubbliche. Chiede che si attivino in tal senso senza ficcare la testa sotto la sabbia.
Con questa lotta, la “sussidiarietà” di cui sopra non c’entra niente.
@ Vince
A quanto detto dal mio socio aggiungo una cosa. Se in un’epoca di tagli indiscriminati alla cultura e di retorica sull’austerity si vuole fare fuori una situazione che produce cultura dal basso senza chiedere soldi e senza entrare in clientele politico-affaristiche, evidentemente si tratta di una decisione del tutto politica. Tanto da parte dell’ateneo quanto dell’amministrazione comunale.
Era questo che volevamo evidenziare.
Altre realtà di movimento cittadine infatti non subiscono lo stesso ostracismo, per fortuna loro. Alcune vengono lasciate vivere, sopportate (o addirittura premiate), là dove sono, con o senza assegnamenti, a prescindere dalle occupazioni a cui partecipano.
La minaccia di chiusura di Bartleby è un pessimo segnale. Pessimo, perché coinvolge come esecutore testamentario di uno spazio culturale tra i più vivaci del luogo (e non solo della città) un assessore che aveva dato, avendo bisogno di visibilità politica, ben altra immagine di sé. Pessimo, soprattutto, perché sembra che la giunta comunale di Bologna si stia arrogando il diritto di scegliere tra indignato e indignato, battezzandone alcuni come buoni e altri come cattivi.
@Vince
l’esperienza di Bartleby nasce anche interrogandosi sulle possibilità di produzione e cirolazione indipendente dei saperi e dell’arte in ogni sua forma. In questi anni abbiamo sempre ragionato attorno al valore politico della produzione artistica partendo dall’idea che chiudersi nel “ghetto” dell’autoproduzione non fosse una soluzione. Insomma l’idea di aprire un centro sociale e fare lì dentro la propria produzione artistica ci sembra riduttivo. Così come supplire gratuitamente a quello che le istituzioni non sono in grado di fare non è il nostro obiettivo primario. Da tempo cerchiamo di capire come si traduce uno slogan spesso utilizzato: “reddito per gli artisti”. Come un artista può decidere liberamente come impiegare le propire conoscenze e il proprio talento sottraendosi alle leggi di mercato e non facendosi mantenere da mammà? Per dare risposta a queste e altre domande ci siamo sempre guardati attorno e abbiamo dialogato con tanti e tante che si pongono lo stesso problema. Anche per questo venerdì 25/11 incontreremo a Bartleby quelli del Teatro Valle occupato di Roma e del teatro Marinoni di Venezia, insieme ad alcuni musicisti del teatro comunale e del conservatorio che hanno dato vita a Bologna all’associazione di musica classica Concordanze. Non è uno spot, ma l’invito a una discussione che portiamo avanti da tempo.
Bartebly must live! Partecipiamo e difendiamo quei luoghi di libero scambio di idee ed esperienze che sono continuamente disprezzati e minacciati da chi governa (con il manganello) le nostre città, persino le giunte di centrosinistra.
A Pisa, negli anni passati si è ripetuto lo stesso scenario di false promesse ed aperti attacchi verso Rebeldia ed altre realtà cittadine che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo di promozione della qualità della vita nei luoghi urbani (scuole di italiano per migranti, feste per tutte le diversità, presentazione di libri..Altai per esempio :)..e molto di più!). Grazie a tutti i collettivi per lottare con forza…avete reso i miei anni universitari in una città nuova un momento di crescita che non ha prezzo e che mi porterò sempre dentro.
@wm1 @ wm4
grazie per le precisazioni, ché ‘costo zero’ forse poteva dare adito a fraintendimenti.
ma ero certo che la pensaste così.
quando parlavo di sussidiarietà intendevo il tentativo della governance di scaricare il welfare sul volontariato…
la ricchezza culturale deve essere riconosciuta dalle istituzioni cittadine e dalla città che di questa ricchezza vive.
per ciò d’accordissimo con Modena1831 nel rilevare l’insufficienza dell’autoproduzione (e dei centri sociali anni ’90), quando dicevo “trasduttore” alludevo proprio a questo.
@ Vince
Ormai è storia, ma giusto perché si sappia, noi eravamo tra quelli che negli anni Novanta premevano per l’uscita dai ghetti dell’autoproduzione e ci abbiamo provato in tutti i modi. E non siamo nemmeno mai stati fautori dell’autoconservazione ad ogni costo. Lo sappiamo bene dove porta: alle riserve indiane e ai partitini.
Tuttavia, bisogna tenere conto che da quell’autoproduzione degli anni Novanta nacquero cose potenti e soprattutto, una parte di quella generazione poté formarsi, sviluppare e condividere saperi pratici, strutturarsi culturalmente, etc. Energie che sono poi state rimesse in gioco, non sono andate perdute. L’attitudine all’apertura, a spaziare su un campo ampio, è necessaria, ma, proprio per questo, bisogna anche saper valorizzare ciò che si ha e che si è.
Vivo in Piemonte, conosco il Bartleby solo di riflesso, per ciò che viene condiviso in rete, e non come spazio fisico.
Oltre a esplicitare la mia solidarietà alle persone che portano avanti l’esperienza e a quelle – e in qualche modo fra queste ci sono anch’io, anzi, ci siamo tutti – che non potranno più fruire delle iniziative proposte, volevo fare una microconsiderazione.
Mi sembra di intuire che quando si chiede la chiusura di determinati spazi – e tempi, la qualità del tempo vissuto in quegli spazi non dimentichiamola! – proprio il fatto che questi non vivano di aiuti economici pubblici sia una dei fattori scatenanti.
Cosa può chiedere in cambio, come contropartita, un comune a una realtà che si regge da sé, grazie al lavoro volontario e alla passione degli esseri umani che lo animano? Quali garanzie di fedeltà può dare questa? Quale assicurazione di non belligeranza? Nessuna.
Meglio pagare. Meglio alimentare il sistema. Meglio liberare lo spazio a favore di associazioni, gruppi, sette, confraternite che magari gravano sul bilancio, ma mettono il logo sul volantino e fanno intervenire l’assessore, il deputato, il sindaco a principio di ogni iniziativa. Meglio che ogni iniziativa culturale sia, per la sua stessa natura di iniziativa sovvenzionata, priva di ogni possibilità critica.
Il concetto in soldoni è questo: “ti do i soldi, ma non mi rompere i coglioni e fammi fare una bella figura.”
Dal ’95 a oggi ne ho vista passare di questa merda sopra e sotto i ponti, le esperienze che esulano dal sistema economico su cui si regge la cultura in questo nostro paese hanno sempre vita dura, il politico di turno non le può controllare.
La si potrebbe chiamare miopia, ma è lungimiranza: quante e quali cose può costringere a cambiare un’umanità che si frequenta e ragiona e si confronta senza paletti e senza la balia dei politici? In maniera, scusate la retorica, libera.
PS: Non mi si fraintenda, non intendo dire che la cultura sovvenzionata è di per sé asservita, intendo dire che di rado – capiamoci, è la mia esperienza – nelle istituzioni si fa un ragionamento su cultura e aggregazione che vada oltre un mero calcolo di ritorno di immagine.
Una prima risposta dell’assessore Ronchi:
http://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/politica/2011/11/24/625705-sala_borsa_ronchi_bartleby_rispetta_lavora.shtml
Al di là del tono un po’ piccato, di alcune argomentazioni… non fortissime e del frammento di monologo interiore sul finale, praticamente dice che il problema sono solo le assemblee in Sala Borsa. La premessa per riaprire il dialogo sarebbe dunque non riunirsi più in quel posto. A mio avviso, c’è da essere felici nel vedere la montagna della “linea dura” e della tolleranza zero partorire il topolino di una tanto blanda condicio sine qua non… Ma forse ho capito male. Comunque, tra le nebbie, qualche spostamento si sta verificando.
@Wu Ming 1
penso anch’io che l’assessore debba seguire lui stesso l’augurio di “modestia” che, devo dire, è veramente irritante: sembra attribuire al collettivo una volontà di un primato culturale che io non ho mai avvertito nelle loro pratiche.
Non è entusiasmante vedere un assessore alla cultura simile a un maestrino che bacchetta gli alunni un po’ saccenti a suo modo di vedere.
Ma nel merito:
– Se lo sblocco può esserci a partire dal non uso della Sala Borsa mi sembra non complicato. Anche se io, da cittadino che non fa parte del collettivo auspicherei che l’assessore facesse ogni sforzo perché la Sala Borsa dilati anche alla sera il suo orario in modo che possa svolgere a pieno il suo ruolo di piazza coperta e snodo culturale anche di chi potrebbe usufruirla solo dopo il lavoro.
Io fossi in lui chiederei al collettivo e agli altri di fare volontariato e tenerla aperta, la Sala Borsa altro che rivendicarne la chiusura all’orario prestabilito…
– Sul cambio di casacca. Li penso sia stato male informato, chiunque sia passato dal cinema ha percepito una pluralità di soggetti e una vivacità che non si vedeva da un pezzo e – a dirla tutta – se volessi muovergli una critica al collettivo (e con alcuni di loro l’ho fatto perché non riesco a tenermi niente) c’è un deficit di protagonismo da parte loro…
E’ frustrante veder che certe esperienze in questa città sono sempre valorizzate ex-post – vedere alcune dichiarazioni dell’assessore su esperienze che vengono dagli anni ’90 – forse perché depotenziate dal loro carattere innovativo? Perché ormai innocue? Forse lui non ricorda o non sa che alcune esperienze centrali per la cultura della città e credo del paese hanno preso le mosse da collettivi studenteschi e punk che, in confronto, Bartleby è un collettivo di educande…
E’ possibile che 1 volta, anche solo 1 volta, ci sia un amministrazione disponibile a mettersi in ascolto su frequenze che non conosce e che forse gli sono anche ostili?
Ma quando il paese inizierà veramente a saltare, ma quando dovranno affrontare situazioni reali di conflitto che verranno da generazioni dimenticate per anni senza futuro e prospettive, che faranno???
Scusate il pippone.
Siamo al ridicolo: una giunta che dice a centinaia di cittadini che si ritrovano in assemblea “dovete lasciare sala borsa” senza offrire alcuna alternativa. E dove le fanno le loro assemblee? Sul continuo gioco strumentale Bartleby/santa insolvenza c’è poco da dire ormai. Se le 400 persone che c’erano al cinema fossero tutte di Bartleby, beh, da tempo il collettivo avrebbe avuto bisogno di spazi ben più ampi di quelli di via san petronio vecchio, che comunque sono già stretti per la portata delle niniziative che si svolgono lì dentro.
Quoto Giangi.
Quelli sono stati sgomberati dal cinema occupato e adesso cacciati pure da Sala Borsa. Possibile che il Comune di Bologna non sia in grado di offrire una sala pubblica a un gruppo di cittadini che necessita di uno spazio per fare delle assemblee periodiche? Stiamo parlando di cose minime… Come dice Giangi, non si può fare una tempesta in un bicchier d’acqua, altrimenti come pensano di reagire questi amministratori quando i tempi si incattiviranno davvero e la questione sociale si aggraverà?
Noto anche che la nostra (e non solo nostra) presa di posizione non è passata inosservata all’assessore Ronchi:
“Infine l’ultima stoccata, alla luce degli appelli di scrittori e intellettuali a difesa di Bartleby: – ‘Dimensioniamo le cose, loro non sono il centro del mondo, in questa citta’ ci sono attivita’ culturali importanti e loro sono una delle tante. Cominciamo ad avere una diversa concezione di se’, cerchiamo di essere modesti’.”
Eh sì, è vero, in città ci sono varie persone che lavorano nell’ambito culturale, mica soltanto Bartleby. Invitarle a prendere la parola su questa faccenda non significa mettere Bartleby al centro del mondo, ma provare a esercitare solidarietà con chi si trova nelle peste. Una volta a sinistra questo era un valore aggiunto, cioè più o meno la base di ogni lotta. Non so adesso com’è.
Quanto alla modestia, sono d’accordo con Ronchi, direi che una ridimensionata all’ego farebbe bene a tutte le parti in campo. A partire dall’assessore.
Su Twitter il sindaco Merola (o chi per lui) ci ha scritto:
“La questione non è così limpida, leggete l’intervento di Ronchi.”
Gli ho fatto notare che lo avevamo già bello che letto e commentato, che di Bartleby e della situazione abbiamo una conoscenza diretta, e che se reagiscono in questo modo per vertenze così semplici, chissà che faranno con quel che ci riserva il futuro.
…ché poi pure io, leggendo l’intervento di Ronchi, ne ho concluso che la questione non è limpida :-D
Iniziamo a muovere il culo e far capire che non ci stiamo?
Io ho appena scritto a sindaco@comune.bologna.it, segrettore@unibo.it, alberto.Ronchi@comune.bologna.it la presente, che espunta dalle note individuali (chi sono e in occasione di quale incontro ho conosciuto il Bartleby, etc.) può costituire un esempio:
Salve,
[…]
Appare evidente a chiunque pratichi attività quali pensiero e osservazione come il Bartleby sia un vero e proprio fiore all’occhiello della cultura bolognese, che meriterebbe non precarietà ma premi – insomma, per farla breve: sbatterlo fuori sarebbe una mossa stolta, che solo danni farebbe alla città e all’Italia.
Con i migliori auguri di buon lavoro,
V.S.
[LOL se provo ad andare nel Resto del Carlino mi dice “Il sito web http://www.ilrestodelcarlino.it è stato segnalato come sito malevolo ed è stato bloccato sulla base delle impostazioni di sicurezza correnti.” – le macchine hanno finalmente acquisito coscienza ^__^]
Centinaia di cittadini bolognesi chiedono una sala per riunirsi in assemblea. Fino ad ora l’hanno fatto in sala borsa, poi al cinema arcobaleno. Risposta del comune? Cinema sgomberato e nessuna offerta alternativa. Ora queste persone dicono, non ci interessa sala borsa, ma un luogo dove riunirci. Risposta del comune? Prima fate atto di sottomissione: chiedete scusa e poi forse saremo magnanimi. C’è un modo migliore per far incazzare le persone? Questo atteggiamento paternalista da PCI ha fatto il suo tempo.
Del resto è quel che accade anche su altri fronti. 3700 firme per aprire un’istruttoria sul people mover, risposta?: la facciam lo stesso, decide il sindaco. Decine e decine di persone dormono per strada al gelo, risposta?: pronto il piano freddo, eppure per strada queste persone ci dormono ancora!
L’atteggiamento paternalisa del dover chiedere scusa è inaccettabile, tanto quanto l’ipocrisia quando si tirano in ballo i lavoratori di sala borsa maltrattati da chi in quel luogo vuole fare assemblea. Vogliamo davvero parlare delle centinaia di tirocinanti che lavorano nelle istutuzioni e non vengono pagate??? Vuole dirci l’assessore quante persone gratuitamente mandano avanti i festival di questa città? Quanti tirocinanti ci sono in cineteca? Al mambo? ecc ecc ecc.? Quanti contratti a termine, a progetto, ecc.?
Sono i cittadini bolognesi che vogliono runirsi in assemblea il problema di Bologna?
A quante associazioni che vivono con l’acqua alla gola il comune chiederà di mettere i propri eventi dentro al prossimo festival estivo, con zero finanziamenti ma un bel marchio del comune di Bologna?
A tirare la corda si finisce col culo a terra. Lo dicono dalle mie parti almeno.
Lo dico da ex cittadino bolognese, che però a Bologna ogni tanto ci capita (per inciso, ma non per caso: ero alla processione di Santa Insolvenza anch’io, senza tessere e senza cambio di casacca): fosse il solo sindaco Merola, non ci sarebbe di che stupirsi. Sono tradizioni, e le tradizioni non si rinnegano, no? Però questa maggioranza aveva, se ben ricordo, cercato di presentarsi con qualche indice di diversità. Aveva manifestato aperture, volontà di dialogo. Lo stesso composito carattere della maggioranza doveva indicare una diversa attenzione verso l’area che oggi si definisce “dell’indignazione”. Credo sia stata una novità assoluta l’organizzazione di un dibattito elettorale all’interno di uno dei molti centri sociali bolognesi. E lo stesso Ronchi, dopo aver denunciato il metodo spartitorio che lo aveva portato fuori dalla giunta regionale (lo stesso che lo aveva portato dentro, peraltro), si era proposto come alfiere di una politica diversa. A distanza di pochi mesi, quello che a pochi km di distanza vedo è una giunta che dialoga, in forme piuttosto patetiche (il drago-Merola, per dire: in quel caso le casacche messe e dismesse non sembra siano state notate) con un solo centro sociale “buono”, guarda caso quello che si è speso nelle primarie e in campagna elettorale, sbattendo la porta in faccia alle altre realtà. Un assessore il cui segno di discontinuità immediato è stato l’ascolto dei cittadini che non vogliono i bar aperti dopo mezzanotte, e che adesso, da assessore alla cultura, poco ci manca che non rievochi il “culturame” mandando a dire agli esponenti del mondo culturale bolognese che devono ridimensionarsi: dal cui invito, come minimo, dovrebbe conseguire, visti i tempi di vacche magre, il taglio del suo assessorato per ridimensionare i bilanci del comune.
Prima di tutto: essendo io uno dei pisquani di bartleby ringrazio tutt* quanti, i Wu Ming che hanno scritto questo bellissimo post e tutt* quelli che stanno scrivendo in queste ore.
E’ un ringraziamento di due righe e non vale molto, però è sentito.
Se Bartleby non vi ha ancora ringraziato ufficialmente è perché le gatte da pelare sono molte.
Detto ciò provo a fare un piccolo passetto in avanti:
1) l’attacco dell’università, perché adesso si parla solo di Ronchi, ma tutto parte da Dionigi e Nicoletti e più in generale dall’università, come giustamente hanno sottolineato i Wu Ming.
C’è una strana concezione in questo paese: il sapere è una cosa che il tuo maestrino ti dà, lo metti in una scatolina e lo conservi, poi lo darai ai posteri, immacolato così com’è.
Non serve Foucault per capire che questa è una minchiata.
Il sapere è mobile, deve essere messo in discussione, e i momenti in cui ciò avviene sono spesso momenti di conflitto. E’ questo che l’università italiana non capisce: la lezioncina imparata a memoria non basta più. Quindi non ci si può aspettare un luogo in cui si invitino scrittori e personaggi della cultura e basta. Se il confronto è vero, questi incontri generano idee, e con buona pace dell’università queste idee sono spesso sovversive.
Al di là del fatto che nell’università italiana avere delle idee è sovversivo di per sé.
Il concetto di “cultura” così come sponsorizzato da molti è totalmente privato del suo fondo politico. Sembra che fare cultura equivalga a far passare il tempo alle persone in maniera divertente e un po’ raffinata. Sia chiaro, questo aspetto esiste, ma si va anche ben oltre. Si parla di come migliorare le proprie condizioni di vita, di confrontarsi insieme per capire quello che ci accade intorno e (omioddio) reagire.
Insomma, la cultura è una cosa seria.
2) l’attacco del comune.
Al di là delle ultime affermazioni di Ronchi rivolte agli ex occupanti del Cinema Arcobaleno di Santa Insolvenza (“pentitevi”…no, non è una gag, l’ha detto veramente). Il problema anche più ampio. Il nodo che l’amministrazione sta attaccando (anche strumentalmente, figurarsi) sono le occupazioni in sé.
Non è un caso che Wu Ming citi Zuccotti park: esiste un movimento mondiale che si dà come parola d’ordine “occupyeverywhere”
E quindi si occupa dappertutto: chiunque occupa dappertutto, con dei risultati di confusione che per chi fa movimento sono esaltanti: l’altro ieri hanno occupato un’aula in via Zamboni 32, un professorone mi ferma e mi dice “Ma che cazzo avete fatto?”.
“No, guardi, io non c’entro niente, ne so quanto lei”.
“Non mi interessa, siete sempre voi che fate queste cose”.
Non si capiva bene se “voi” era Bartleby, gli studenti, le persone del mondo della cultura o la gente che fa movimento…mah!
Sta di fatto che è assolutamente positivo che questa pratica si diffonda e che la gente inizi a prendersi ciò che le istituzioni non danno, né mai daranno.
Però il fatto è che il caso Bartleby insegna delle strategie losche: colpirne uno per educarne cento.
Sia chiaro, se il movimento è questo sarà impossibile per qualunque struttura organizzata starne fuori e ovunque si organizzeranno occupazioni: teatri, cinema, casermoni, ospedali, case, tutto questo, nei prossimi mesi\anni, sarà occupato. O meglio, liberato.
I centri sociali sono dentro ai movimenti e vi partecipano, mettono al servizio la propria esperienza (non mi riferisco solo a Bartleby, sia chiaro), e riescono a essere centro propulsore dei movimenti.
Quando non fanno da blocco, ma questa è un’altra storia.
Colpire uno di questi vuol dire colpire immediatamente il movimento. Ricattare uno di questi vuol dire ricattare contro chi lotta contro la crisi. Il problema quindi non è solo Bartleby, ma siamo tutti quanti.
E’ il primo dei tanti attacchi del dopo-Berlusconi che ci dobbiamo aspettare. Non che con Berlusconi la cosa fosse più liscia, ma Berlusconi era anche questa magmatica icona mediatica che accentrava su di sé tutta la cattiveria del mondo e che univa tutti quanti nel dargli contro.
Oggi la situazione è cambiata e i nodi vengono al pettine: il PD appoggia il governo delle banche e le banche promuovono la crisi. Chi è contro il governo delle banche deve essere represso e il PD l’ha detto per mesi: siamo disposti a fare il lavoro sporco. Ecco il primo piccolo, piccolissimo tassello di questo lavoro sporco.
L’attacco a questo movimento è un esempio: oggi tocca a Bartleby, ma domani toccherà a qualcun altro e non si tratterà necessariamente di un centro sociale.
Forse la spiega è un po’ troppo lunga, ma potrei continuare per ore ;-)
@ plv
quanto al ringraziare… come dice il Batman di Nolan: “Non dovrai mai farlo” :-)
Quanto all’analisi sul momento politico, penso che hai centrato il punto. Piatto del giorno: cazzi amari.
Ciò nonostante i passi avanti vanno fatti non solo sul piano dell’analisi di fase, ma anche sul piano della prassi. Come cercavo di dire nel post precedente a questo, – dove prendevo a pretesto la maschera di V per Vendetta – bisogna riuscire a far sopravvivere certe esperienze oltre l’attimo fuggente, a traghettarle oltre le strettoie e le trappole che adesso vengono tese, quindi a farle crescere. Nel caso specifico io credo che il compito di chiunque abbia a cuore una certa idea del fare cultura e politica a Bologna – e non solo a Bologna – sia questo. Uno può esprimere tutta la radicalità del mondo, ma proprio il grado di radicalità si esprime nella capacità di concretizzare le cose (e di superare i trappoloni e i tombini che ti si spalancano davanti ai piedi).
Occupy Everywhere è un movimento che attraversa il mondo occidentale in lungo e in largo e che a Bologna si è manifestato ad esempio con l’occupazione del cinema Arcobaleno e di Sala Borsa per farci delle assemblee cittadine.
Bartleby fa parte di quel movimento, ma di per sé non è un posto occupato, ovvero lo è “suo malgrado”. La convenzione con l’Università è stata fatta scadere e non rinnovata, per i motivi politici che tu stesso spieghi. Ma c’era, anche se obtorto collo. E’ qui che casca l’asino: la mia sensazione è che l’amministrazione stia scatenando questa tempesta in un bicchier d’acqua (dicendo che Santa Insolvenza è Bartleby sotto mentite spoglie, che siete dei narcisisti accentratori, che costringete le due povere guardie giurate di Sala Borsa a fare gli straordinari e non avete rispetto per i lavoratori, che siete degli infingardi, che avete occupato un posto che vi sarebbe stato assegnato, che avete occupato un posto che “non” vi sarebbe stato assegnato, che dovete chiedere perdono, e domani diranno che dovete salire in ginocchio fino a San Luca, vedrai…) perché in realtà è in difficoltà a trattarvi come vorrebbe. Perché, pur con tutti i limiti, siete una realtà interessante e mobile, attraversata da parecchia gente eterogenea, e alla quale con ogni evidenza bisognerebbe dare una risposta seria, anziché queste bizze.
Ma, come facevano notare filosottile e girolamo nei loro commenti più sopra, non siete riducibili, rompete i coglioni, non siete in una cordata elettorale, etc. etc.
In soldoni ponete, anzi riproponete, l’annosa, mai risolta, questione della popolazione studentesca e post-studentesca cittadina, della sua irrapresentabilità, delle sue forme di espressione e rivendicazione. E riproponendola adesso, in questo passaggio storico, l’annosa questione si unisce alle istanze del movimento “indignato”, alla promessa di un futuro che nessuno può più contrarre, men che meno questa sinistra ridotta a esecutrice testamentaria dell’Europa. E così il cerchio si chiude.
Perciò, sono d’accordo con te sull’esemplarità del caso Bartleby. E aggiungo che anche se fortunatamente il movimento bolognese va ben oltre Bartleby, tuttavia, per quanto detto fin qui, dal superamento di questa strettoia dipendono in gran parte le sorti del movimento stesso in città. Altrimenti si verrà nuovamente ridotti alla marginalità da una parte e alle cordate politiche dall’altra, cioè alla solita vecchia merda che ricomincia da capo dopo ogni sconfitta.
“Siete sempre voi che fate queste cose!”
Ebbene sì. Diceva un tale che conoscevo: “Siamo nuovi, ma siamo quelli di sempre”.
;-)
Nel corso della mattinata, mentre eravamo riuniti a scalettare il nuovo romanzo, il sindaco Merola ci ha indirizzato parecchi commenti via Twitter. Ogni tanto gli smartofoni facevano “Ting!”, uno controllava e diceva: “Oi, règaz, è ancora Merola!”.
In realtà era sempre lo stesso commento, con (poche) varianti nel fraseggio. All’osso: “Quelli di Santa Insolvenza hanno maltrattato i lavoratori di Sala Borsa costringendoli a restare al lavoro anche dopo l’orario”.
Questo sembra essere rimasto l’unico argomento dell’Amministrazione.
In aggiunta, il sindaco ci proponeva il link alla risposta di Ronchi già pluri-commentata qui sopra
[link cliccando il quale veniamo informati che il sito del Carlino è “malevolo” – fuck yeah!].
Noialtri abbiamo risposto che:
1) proprio per evitare disagi in Sala Borsa il movimento aveva occupato temporaneamente (a scopo assemblee) il cinema Arcobaleno, sgomberato con magno gaudio dell’Amministrazione;
2) è commovente questa repentina empatia coi lavoratori di Sala Borsa, che arriva fino a trasformare un paio di guardie giurate in unici eroi del proletariato. Commovente ma un tantino limitante
[e, aggiungiamo qui, poco convincente, su questo rimandiamo a quanto scritto in questo thread da modena1831]
3) Le assemblee in Sala Borsa, a quanto ci risulta, non si fanno più e quindi il pretesto è vecchio;
4) In ogni caso, come linea del Piave su cui attestarsi è sconclusionata e l’amministrazione farebbe meglio a sbloccarsi;
5) Infine, il problema non si risolve dialogando con noi su Twitter ma dialogando con Bartleby e i movimenti in città.
Secondo alcuni, a scrivere quei tweet non sarebbe il sindaco in persona ma un suo “stagista” (è il termine con cui su Twitter si indicano i lavoratori, spesso precari, che gestiscono i profili di politici e VIP sui social network). Infatti Santa Insolvenza ha scritto:
“Merola, solidarietà allo stagista che gestisce il tuo profilo e che in questi giorni è costretto a straordinari non retribuiti.”
A onor del vero, anche noi qualche giorno fa avevamo scritto:
“Stagista di Merola, ribellati! Chi te lo fa fare? Fight the power! Autoriduciti il biglietto al concerto dei Radiohead!”
[Un po’ di background per i non bolognesi: quello che i Radiohead faranno in Piazza Maggiore il 3 luglio 2012 è per molti versi un concerto “della discordia”. All’inizio del suo mandato l’assessore Ronchi si era detto contrario ai “mega-eventi” che in città non lasciano niente, e favorevole a una molteplicità di iniziative che valorizzassero il rapporto dei cittadini con gli spazi urbani e il territorio. Del tutto coerentemente, si è subito messo all’opra per organizzare un mega-evento che per una sera sottrarrà alla cittadinanza la piazza più grande di Bologna (da sempre luogo di eventi culturali gratuiti, come il cinema su megaschermo per quasi tutta l’estate), consentendo l’accesso solo a chi avrà sborsato un cinquantello di euro. Poi dice la crisi… Almeno, nel 1980, i Clash in Piazza Maggiore avevano suonato gratis.
Chiaramente, il problema non sono i Radiohead, band che – come molti sanno – stimiamo molto. Il problema è che scelte di questo genere non contrastano la tendenza sempre più spinta a privatizzare in un modo o nell’altro gli spazi, sottraendoli a una fruizione non mercificata. Il centro di Bologna è in gran parte in mano a banche e multinazionali, via Rizzoli è tutto un logo di mega-corporation, persino gli interventi sul verde e l’arredo urbano li decide il potere finanziario (si veda l’abbattimento di alcuni grandi alberi in Piazza Minghetti perché rovinavano il colpo d’occhio a una banca)… L’ex-cinema Arcobaleno che Santa Insolvenza aveva occupato sta proprio su questa linea del fronte, tra Piazza Re Enzo e via Rizzoli. Per qualche sera il cinema è stato riaperto e restituito alla cittadinanza: oltre alle assemblee, ci sono state proiezioni di corti, di cinema ultraindipendente, e la sala era sempre piena. Santa Insolvenza è l’unica ad aver contrastato nella prassi la privatizzazione dell’ombelico di Bologna. Aggiunge insulto a insulto il fatto che l’assessore Ronchi l’abbia accusata di essersi impossessata del cinema per… “farne un uso privatistico” (testuale).]
L’accusa dell’uso privatistico di uno spazio occupato è quanto di più ipocrita ci sia al mondo, dato che presuppone che ci sia una pluralità di soggetti pronta a usufruire di quegli spazi occupati per farci chissà quali attività, quando, nei fatti, la cosa è più che falsa.
In ogni caso questa vicenda e in generale tutte le occupazioni nate nei luoghi della cultura e a partire da mobilitazioni del lavoro culturale di questi mesi e anni hanno il merito di porre in evidenza quanto un certo modello di cultura sia collegato e determini le condizioni di lavoro e di vita di chi vi è coinvolto.
C’è un nesso tra il precariato e la cultura concepita come grande evento, poiché quando si concepisce quest’ultima in questi termini (massima appetibilità per il pubblico, semplificazione strema dei contenuti, massimizzazione dell’investimento, focalizzazione sul profitto, ecc.) si concepisce il lavoro collegato come accessorio, non direttamente coinvolto nello sviluppo di un progetto coerente di ricerca, ma come semplice manovalanza.
A questo punto mi aspetto che il sindaco Merola scriva tempestivamente al collega Alemanno per invitarlo a dichiarare pubblicamente che gli occupanti del teatro valle fanno un uso privatistico di quel luogo. In tempi di unità nazionale mi pare giusto scambiarsi buoni consigli. Per il bene del Paese.
ehm, occhio a dare certi suggerimenti, magari non ci aveva ancora pensato ;)
Il mio socio Wu Ming 2 ha avuto un’illuminazione.
Noi altri ingrati bastardi non abbiamo capito niente. Con l’incasso del concerto dei Radiohead il Comune intendeva acquisire il Cinema Arcobaleno, demolirlo e costruire al suo posto un centro polifunzionale da dare in gestione a Bartleby (con cappella dedicata a Santa Insolvenza). Peccato però che quegli stronzi dei melvilliani, l’abbiano occupato… e così non se ne può più fare niente. Non resta che recitare il Mea Culpa con la Santa…
Bartleby non morirà. a proposito, regà, ho lasciato lì tutte le mie foto, sono in un borsone blu dell’ikea, niente, volevo dirvi che in casi estremi, visto che sono lamelle di alluminio, potete usarle come scudo. Non vi suggerisco certo di lanciarle a mo di fresbee perchè diventano armi pericolosissime. Certo se me le tenete da parte sono contento lo stesso, ma usare l’arte come arma di difesa è un bel concetto. ;)
@ El_Pinta,
mi hai preceduto!
Quello del concerto dei Radiohead potrebbe essere un OT, e invece non lo è. Conosciuto, grazie al post di WM1, il background recente, e avendo un pelo di ricordi e di conoscenze su come funziona lo show-biz, mi viene da osservare che un conto è organizzare il mega-evento accettando in modo supino ogni codicillo del sistema, un altro è compartecipare alla gestione dell’evento (sempre per i vecchi bolognesi: nella seconda metà degli anni Ottanta , direi 87 o 88, ci fu un mega-concerto di artisti africani, tra i quali Miriam Makeba, alla cui gestione parteciparono diverse realtà che si muovevano da pionieri sul terreno dell’immigrazione, terreno che all’epoca chiamavamo “meticciato”). Come sa chiunque stia cercando di acquistare i biglietti, un paio d’ore dopo l’inizio della vendita on line Bologna è andata sold-out a causa della concentrazione di acquisti operati dalle grandi agenzie, che si accaparrano pacchetti di centinaia di posti per poi rivenderli in via ufficiale con comodo (e in via non ufficiale, delegando dei finti abusivi, un po’ come i finti falsari della moda vendono maglie pseudo-taroccate). Ulteriore beffa: dal va-e-vieni dei biglietti disponibili nelle altre tre date si evince che la speculazione si è concentrata tutta su Bologna.
Credo che a Bologna ci siano decine di persone che, per esperienza e professionalità dimostrabili, avrebbero potuto essere delegate a una gestione diversa dell’evento (bastava incaricarne una o due).
Il che pone almeno due problemi a chi si vorrebbe occupare di politiche culturali: quello dell’apertura mentale, prima ancora che contrattuale, alla città come deposito di esperienze e capacità (mica dico che bisognava incaricare Bartleby di gestire il concerto dei Radiohead: ma se non ti poni il problema dell’altro come interlocutore, il risultato è poi questo); e la qualità degli eventi che organizzi. Alberto Ronchi ha al suo attivo, recita il suo curriculum ufficiale, la rassegna “Ferrara sotto le stelle”: che è un bel fiore all’occhiello, sotto le cui radici giace però tutto quello che a Ferrara è stato sepolto dai concerti in piazza Castello, divenuti sempre meno gratuiti e sempre più a pagamento, dunque mega-eventi (tra i quali ancora i Radiohead) che hanno assorbito ogni risorsa facendo di fatto morire il medio e il piccolo. In un’ottica collaborativa, dare spazio e spazi ai movimenti dovrebbe suggerire alla giunta comunale una via di fuga dalle grandi rassegne, i grandi eventi, i grandi festival; Bologna ha visto morire alla fine degli anni Settanta l’esperienza delle centinaia di cantine musicali (al cui posto sono sorti i grandi studi di registrazione riservati ai musicisti mainstream come Dalla e Carboni), e all’inizio degli anni Novanta l’esperienza delle decine di rassegne estive diffuse su tutto il territorio (stroncate da un orrore a forma di banana al parco Nord): sarebbe già un segno di discontinuità non replicare sui centri sociali le esperienze passate.
PS: a scanso di equivoci, io sono uno di quelli che sui Radiohead al momento si sta chiedendo se aspettare in una finestra di vendita su Bologna o puntare su Codroipo. Il che, essendo noto l’anagramma del paesello furlano, mi sembra una beffa…
Leggendo dei radiohead, mi è venuta un brano di questa canzone:
Ed anche qui nel rito
c’è la contraddizione
nella felicità
la nuova repressione
il parco è ormai nascosto
è tutto una lattina
abbiamo fatto il punto
e niente è come prima.
Gianfranco Manfredi, Zombie di tutto il mondo unitevi (1977)
Merola è ri-intervenuto su Twitter dicendo che, al posto di Sala Borsa, il movimento avrebbe dovuto prenotare una sala comunale o di quartiere.
Verrebbe da dire che un movimento di massa nel pieno della sua crescita e nel vortice delle sue attività ha le sue urgenze, i suoi tempi, che spesso non coincidono con quelli della burocrazia e dell’amministrazione, e ha i suoi numeri, per i quali non tutte le sale sono all’altezza.
Verrebbe anche da dire che Sala Borsa è una vera e propria piazza della città, una piazza coperta, e la cittadinanza avrebbe diritto a usarla anche di sera.
Tuttavia, risposte così implicherebbero l’accettazione del frame, del modo in cui il Comune continua a inquadrare la querelle, suonando sempre lo stesso grappolo di note stridule, come un disco rotto.
Il problema *non* è Sala Borsa, non sono le due povere guardie giurate trasformate in scudi umani da un potere locale che, nonostante queste sparate da paladini dei lavoratori, tutti i giorni esternalizza, precarizza etc.
Il movimento non sta più facendo assemblee in Sala Borsa, quell’appiglio non c’è più.
Inoltre, ostracizzare Bartleby perché partecipa a un movimento di massa è una mossa di corto respiro.
Lasciar spegnere un’esperienza culturale importante per quella che a molti appare una ripicca sarebbe una madornale idiozia.
E avrebbe molto presto un effetto boomerang.
@wuming1
rimane il fatto che la Sala Borsa deve essere una piazza coperta, aperta a tutti anche la sera…. Frame o non frame, quello è il suo ruolo principe.
Poi che diventi sovversivo praticare l’ovvio – riunire centinaia di persone in una piazza – be’ è un vecchio vizio italiano/bolognese.
La mia rabbia è che non si da, per l’ennesima volta, la possibilità ad uno spazio politico/culturale di morire per errori propri o crescere, diventare altro per meriti propri.
Per l’ennesima volta si rischia di aspettare la prossima generazione per assaporare aria fresca.
Ma perché non posso misurarmi – non possono misurarsi – con loro nel merito di quello che dicono, che fanno, che fanno fare? Perché non posso anche confliggere con loro nel merito delle cose?
Perché mi devo sempre misurare con il pericolo di estinzione?
… Lo intuisco il perché ma mi fa incazzare ogni volta!
@ giangi
chiarisco: che Sala Borsa sia una piazza e che tutti noi abbiamo diritto a viverla, anche forzando l’angustia degli orari stabiliti dall’amministrazione, dobbiamo dirlo chiaro e forte. Su questo sono pienamente d’accordo.
Quel che intendo dire è che in questo frangente non dobbiamo accettare il frame “salaborsacentrico”. Perché non è quello il problema (è solo un appiglio, probabilmente ne stanno già cercando un altro), e anche perché porteremmo acqua al mulino di chi fa intenzionalmente confusione tra la vertenza di Bartleby per il suo spazio e le esigenze di spazio del movimento.