Note su polvere da sparo, vendetta, letteratura.
di Wu Ming 4
« Le informazioni le ha già, tutti i nomi, le date, quello che vuole… Quello che le serve veramente è una storia.»
« Una storia può essere vera o falsa.»
« Questo lo lascio giudicare a lei.»
V per Vendetta di J. McTeigue e Wachowski brothers, 2005«Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti?»
H. Melville, Bartleby lo scrivano, 1853
1. Polvere da sparo
Il 5 novembre in Inghilterra si celebra una ricorrenza strana. E’ quella che si chiama una festa apotropaica. Si festeggia la sventata Congiura delle Polveri del 1605, che avrebbe fatto saltare in aria la Camera dei Lord, con il re e tutti i deputati dentro. Grazie a una soffiata dell’ultimo minuto, il congiurato Guy Fawkes venne sorpreso mentre stava per dare fuoco a 2.500 chili di polvere da sparo, piazzati nei sotterranei del Parlamento. Con britannico sense of humour, il 5 novembre si fanno scoppiare petardi, fuochi artificiali, e si fanno spettacoli pirotecnici (in certe località si brucia anche il fantoccio di Fawkes).
Cosa avessero fatto il monarca Giacomo I Stuart e i suoi parlamentari per meritare la morte col botto è storia nota. Avevano represso i cattolici. Quando infatti Fawkes fu trascinato nottetempo nelle stanze del re, confessò e motivò le proprie intenzioni dicendo di voler dare seguito alla scomunica papale sulla corona britannica e di voler liberare il trono dal giogo scozzese.
Insomma l’aspirante regicida era un papista xenofobo. Nondimeno la sua figura si è prestata a essere ammantata di anti-eroico romanticismo, in virtù del fatto che i successivi anni di regno rivelarono l’intenzione di Giacomo I di realizzare una monarchia di stampo assolutista. Giacomo sciolse per ben tre volte il Parlamento e di fatto creò le precondizioni per la guerra civile (1642-1660) e la prima rivoluzione inglese, guidata dai puritani, che avrebbero visto il suo secondogenito e successore Carlo I salire al patibolo. Insomma, col senno di poi, Fawkes aveva sì attentato alla vita del monarca e del Parlamento, ma di un monarca tirannico e di un Parlamento composto dall’alta borghesia anglicana emergente. Tutto sommato i poveracci potevano avere qualche istintivo moto di simpatia per Guy il dinamitardo.
Il testo della filastrocca popolare sulla Congiura delle Polveri contiene in effetti un’ambiguità implicita:
«Remember, remember,
the fifth of November,
Gunpowder, treason and plot.
I see no reason
why Gunpowder treason
Should ever be forgot!»
[trad.: Ricorda, ricorda/il cinque novembre/polvere da sparo, tradimento e complotto/Non vedo alcuna ragione/per cui la Congiura delle Polveri/dovrebbe mai essere dimenticata!]
Per quale ragione la congiura non dovrebbe mai essere dimenticata? Per ricordare il pericolo corso dalle più sacre istituzioni inglesi, certo. Ma paradossalmente questo ci dice anche che è sempre possibile minacciare tali istituzioni quando si “assolutizzano”. Il margine interpretativo rimane aperto. Come probabilmente è giusto che sia.
Questo, per altro, non dovrebbe stupire, se si pensa che la statua di un altro personaggio in grado di segnare davvero la storia politica inglese campeggia su un piedistallo proprio accanto all’ingresso laterale della House of Parliament. E’ quella di Oliver Cromwell, Lord Protettore, nonché unico grande dittatore che l’Inghilterra abbia conosciuto. Uno che, oltre ad avere fatto decapitare un re, entrò in quelle sale in armi e disse: “Il Parlamento sono io”. Oggi torreggia, libro e spada in pugno, sui deputati che passano lì sotto e ricorda loro che l’uomo forte potrebbe sempre tornare.
2. Vendetta
Negli anni Ottanta del secolo scorso, Alan Moore ha recuperato la figura di Guy Fawkes trasformandolo in eroe popolare, senza però sottrargli l’ambiguità di fondo. In questo caso non si tratta già del Fawkes storico, ma del protagonista del celeberrimo fumetto illustrato da David Lloyd, V per Vendetta, che di Fawkes indossa la maschera e gli abiti.
Con il suo predecessore, V condivide anche la passione per gli esplosivi. Per di più, lui riesce laddove l’antenato aveva fallito nei suoi intenti dinamitardi. Forse perché agisce come un vendicatore solitario, senza altri congiurati che possano farsi prendere dai rimorsi di coscienza e tradirlo. O forse perché, al contrario del Fawkes storico, che teneva per il papa contro il re, V è invece un anarchico dichiarato. Dopo il Parlamento fa saltare in aria l’Old Bailey, il tribunale di Londra, simbolo della Giustizia che lo ha tradito prostituendosi con la dittatura. V dichiara di averle preferito Anarchia. Quest’ultima non fa promesse e quindi non le infrange, è assolutamente onesta e garantisce assoluta libertà. E’ la vera giustizia. Una riflessione, questa di V, anche più ambigua della filastrocca sulla Congiura delle Polveri.
La vendetta per il tradimento della giustizia corrisponde allo scatenamento del caos, unica soluzione per una società e un’umanità che potranno redimersi soltanto passando attraverso la palingenesi delle fiamme. “Fidati di me, Evey, e cancelleremo tutto”, dice V alla sua giovane adepta. “Tutto il dolore, tutta la crudeltà, tutte le perdite. Ricominceremo da capo”.
Linguaggio e scenario del fumetto di Moore sono decisamente apocalittici, così come è inquietante la figura del vendicatore mascherato V, che con l’ultimo attentato si immola per innescare la miccia del caos, e consentire così ai costruttori che verranno dopo di riedificare una nuova società sopra le macerie di quella vecchia. Dopo il potere legislativo e quello giudiziario, quindi, colpisce il potere esecutivo, Downing Street, e dà l’ultima spallata al sistema.
La storia di Moore ha un finale tragico e aperto al tempo stesso. Il crollo istituzionale si realizza, ma non sappiamo se evolverà in anarchia consapevole, cioè in libertà organizzata, o se sfocerà semplicemente nella barbarie e nella sopraffazione indiscriminata. La maschera di V/Fawkes passa di mano e la sua missione quindi continua; tuttavia quello che ci viene mostrato nelle ultime vignette è un mondo popolato da relitti umani.
Non meraviglia dunque che Moore abbia misconosciuto il film che nel 2005 i fratelli Wachowski hanno tratto dal fumetto, il cui happy end tradisce del tutto lo spirito della storia originale. La maschera del V cinematografico si potrebbe collocare a mezza via tra quella di Zorro (anch’essa riportata in auge dal cinema alla fine del secolo scorso) e il passamontagna del Subcomandante Marcos.
Nell’ultima sequenza del film, una moltitudine in marcia, anonima e acefala, in cui tutti indossano la maschera e il costume di V/Fawkes, si riappropria della sovranità e assiste all’esplosione del Parlamento. Questo avviene al culmine di una catena consequenziale di eventi: gli attentati, la guerriglia comunicativa e le provocazioni di V causano fibrillazione, inquietudine, shock, presa di coscienza. Poi la scintilla, l’uccisione di una bambina da parte di uno sbirro nel quartiere londinese di Brixton, scatena i riot popolari. Il riot genera repressione poliziesca, che però non ottiene altro risultato se non quello di radicalizzare ulteriormente le coscienze. L’esercito non spara sulle migliaia di V che avanzano verso il Parlamento, perché la catena di comando è ormai decaduta, lo Stato semplicemente si dissolve e… cosa? Quale potere costituente fa da contraltare alla lapidaria affermazione iniziale “l’unico verdetto è vendicarsi”? Quale forma sociale si afferma nello spazio comune liberato? Il film si guarda bene dal dircelo.
Il finale aperto di Moore ci lasciava con un’incertezza problematica, in grado di retroagire su tutta la storia e restituirci il carico di contradditorietà dell’agire solitario di V. Il film invece ci mette davanti ai fuochi d’artificio del 5 novembre senza colpo ferire. La detonazione finale diventa una catarsi che fa evaporare il conflitto. L’errore era pensare che il Palazzo d’Inverno andasse conquistato, invece bastava farlo saltare in aria e subito sarebbero apparsi “cielo e terra nuovi”, come recita l’Apocalisse. I manifestanti si tolgono la maschera e sotto c’è ognuno di noi. Perché V siamo tutti e l’unica cosa che dobbiamo fare è riprenderci lo spazio del comune che le istituzioni falsamente rappresentative ci hanno tolto. Tanto i soldati non possono spararci… perché evidentemente anche i soldati siamo noi, possiamo passare incolumi attraverso di loro.
Nel fumetto il problema novecentesco della dialettica e della rappresentanza viene negato in favore di un azzeramento libertario che resta comunque un salto nel buio, ancorché presentato come necessario. Nel film invece la questione viene semplicemente elusa. “Non ci rappresenta nessuno” è una constatazione che diventa rivendicazione. Solo noi possiamo rappresentarci, quindi. E su quel “noi” che sta sotto la maschera partono i titoli di coda…
Pochi anni dopo, la stessa maschera assurge a icona ribelle nella crisi globale e “Anonymous” la usa per rivendicare azioni di hacking e guerriglia informatica contro gruppi finanziari e governi. Il ghigno beffardo di V/Fawkes ricompare nei pressi della House of Parliament in mezzo alle manifestazioni studentesche e la sua V cerchiata, sorta di simbolo anarchico rovesciato, diventa una firma collettiva, il marchio da lasciare sulle vetrine delle banche o nelle strade di tutto il mondo occidentale.
Ma la vendetta a cui quel segno allude non è già giustizia sociale. Come negare la rappresentabilità di un movimento non significa già incarnare l’alternativa di nuove istituzioni. I titoli di coda non hanno smesso di scorrere…
3. Fuori dalla galleria
Il protagonista del fumetto di Moore non è soltanto un dinamitardo. Il suo anarchismo, la sua spinta verso il reset sociale, si accompagna a una vena di conservatorismo romantico. V/Fawkes chiama il proprio nascondiglio “la galleria dell’ombra”, perché contiene cimeli e ricordi del tempo che fu. In particolare della cultura che fu. La sua casa non è altro che un museo dove si conservano libri, musica, film. C’è un vecchio juke-box che suona i dischi della Motown, mentre i grandi classici della narrativa, del teatro, della saggistica riempiono gli scaffali.
Dunque c’è qualcosa oltre il presente della detonazione che spezza il tempo storico in “prima” e “dopo”, ovvero in passato (conoscenza) e futuro (prospettiva). E’ ben difficile costruire una lotta senza far riverberare l’una nell’altra queste tre dimensioni temporali e V non sembra affatto ignorare questo aspetto della faccenda. Viene da sospettare che non si limiti a conservare la cultura come l’imperatore Adriano nel romanzo di Marguerite Yourcenar, in previsione di un lungo inverno della civiltà. Certo, c’è anche questo, ma V stesso è un parto narrativo, un vendicatore mascherato, una figura letteraria.
Nel film del 2005 di lui si dice che è “Edmond Dantès“. V è il Conte di Montecristo che fa piazza pulita di politicanti, mercanti e banchieri corrotti che l’hanno tradito. E’ un patrimonio narrativo condiviso a fornire una chiave di lettura, una cornice, all’agire pratico dell’eroe. E’ grazie all’applicabilità del racconto che la metafora prende vita fuori dalla pagina.
Così come Edmond Dantès mette il tesoro di Spada a disposizione della propria vendetta e della ricostruzione della propria vita, allo stesso modo la nuova incarnazione di V – l’adepta che è cresciuta per indossarne la maschera – dovrà aprire la galleria dell’ombra e mettere a disposizione dei ricostruttori il tesoro che contiene.
Fuori o dentro la metafora e i suoi riverberi, si mette a frutto la cultura, intesa non solo come narrazione, analisi scientifica, o produzione artistica, ma in generale come pratica dell’intelligenza collettiva. E’ quella la materia prima, la malta, con cui si costruisce la strada che attraversa il deserto. Pensare di trovare la via d’uscita con una geniale alchimia politica è assurdo almeno quanto pensare di produrre l’Evento dando semplicemente fuoco a una miccia. Si tratta piuttosto di scovare contraddizioni, di allargare crepe, di scegliere pratiche politiche e di relazione che alludano a una trasformazione possibile. Qualcosa che ha a che fare con il lavoro quotidiano piuttosto che con una Grande Detonazione o una Grande Alleanza, e che nondimeno non potrà eludere il conflitto, o vedere l’avversario dissolversi da sé. Anzi, proprio in virtù delle pratiche scelte l’avversario si farà cattivo, a prescindere dal suo colore politico. Quarantacinque anni dopo la Congiura delle Polveri, furono i rivoluzionari di Cromwell a spazzare via manu militari l’esperimento di coltivazione comunitaria fatto dagli Zappatori nel Surrey (1649). Questi erano coloro che mettevano in pratica l’affermazione più inaudita: non tutto è riducibile all’ordine economico del potere.
Coltivare in comune il sapere, farlo gratuitamente, pubblicamente, restituirlo in forma di ricchezza sociale; uscire dalla logica ristretta di una famiglia, un clan, una cordata clientelare, un partito politico, un’adunata, per popolare uno spazio aperto; liberare luoghi e produrre occasioni di discussione sul fare comune, per organizzarlo; ritrovarsi, per sentirsi meno soli (il movente che, secondo C.S. Lewis, sta alla base della lettura, cioè del farsi raccontare una storia come del raccontarla). Tutto questo bisognerà attrezzarsi per difenderlo, altrimenti verrà chiuso e soffocato in fretta, proprio mentre si avrebbe la pretesa di alzare la posta fino al grande crack, al default, allo show down. Purtroppo o per fortuna le cose non andranno così, non ci sarà nessuna apocalisse, nessuna palingenesi. La catastrofe c’è già stata, è spalmata sui trent’anni che abbiamo alle spalle. Viviamo già tra le macerie, anche se c’è chi pensa che le ultime generazioni siano “senza trauma” (e invece sono quelle che nel crollo sono nate e cresciute, che l’hanno respirato e assorbito attraverso ogni poro della pelle, senza nemmeno avere un peccato originale da scontare). Da una piazza, da un parco pubblico, o da quattro vecchie mura, come dalle colline del Surrey tre secoli fa, riprendere il filo di una pratica e di una proposta politica è l’impresa titanica che ci fronteggia. E certo non riusciremo a farlo se non saremo almeno in grado di difendere le esperienze che mettiamo in piedi e di radicarle nello spazio e nel tempo.
Come alla fine del fumetto di Alan Moore, per qualcuno può trattarsi di “recuperare qualcosa… Questi zotici non sono molto, ma col tempo potremmo formare un piccolo esercito. Possiamo restaurare l’ordine.”
A tutti gli altri invece, pochi o tanti che siano, tocca affilare i cervelli come rasoi.
«Non so cosa sarà di noi, Tom Due Volte. Faccio come te e lo ripeto: non so. Tu hai visto troppo e sai troppo per tornare a essere un bambino qualunque. Io anche. Siamo uguali, in questo. Decideranno di noi, decideranno per noi.
A meno che…»
Beatrice Masini, Bambini nel bosco, 2010
Tutto ciò fa parte del grande gioco. La parte di popolazione tendente alla narcolessia si addormenta facilmente con una dose massiccia di TV, un’altra, quella formata dagli ostinati che continuano a tenere gli occhi aperti e a guardare la realtà, è necessario curarla con frustrazioni su frustrazioni fino a farla diventare cieca.
“Questo è l’unico mondo possibile”, la filastrocca che ci viene raccontata da decenni, ha un effetto totalmente diverso sulle due parti ma porta allo stesso risultato.
Ciechi in scenari apocalittici, proprio come raccontato da Saramago.
Wikipedia riporta un’interessante variante. http://it.wikipedia.org/wiki/Guy_Fawkes#Ricorrenza
In ‘if you can’t give us one, we’ll take two’ l’ambiguità di cui a 1.polvere da sparo si infittisce pare..
Scrissi il 5 Novembre:
Il Big Ben, mentre esplode, è metafora di un eternità interrotta, è la distruzione di un simbolo quale incentivazione al rovesciamento della società.
Viviamo ormai in un mondo nel quale la Scienza è disposta ogni giorno a scommettere su traguardi sempre più lontani e avveniristici: non temiamo infatti di ipotizzare viaggi interstellari, il teletrasporto o addirittura l’ immortalità.
Ma quando la stessa larghezza di vedute viene impiegata per ideare diversi meccanismi sociali allora siamo bombardati da ammonimenti per eccessiva speranza, accuse di ingenuità o ancor peggio insinuazioni all’ utopia.
E in una situazione che mostra come la nostra struttura sociale stia portando solo problemi, è ovvio che ciò che l’ Uomo vuole è innanzitutto boicottare questa idea di immutabilità storica, confutare il teorema dell’ impossibilità.
E non vi è modo più veloce e incisivo per colpire questo parassita se non abbattere i simboli, rappresentanti nell’ immaginario del potere perpetuo e imbattibile.
L’ esplosione del Big Ben è in quest’ ottica l’ inizio della vera insurrezione, quella ideologica, quella che partendo da una semplice allegoria può scatenare la consapevolezza di essere veri personaggi della Storia ed in quanto tali scrittori di essa.”
:)
http://www.liberarchia.net/blog/?p=448
Il compito di chi si definisce intellettuale dovrebbe essere quello di trasmettere l’importanza e il valore della cultura umanista a quelli che, per ragioni socio-economiche, non hanno potuto accedervi. Con scelte radicali e rischiando di perdere qualcosa della sostanza del discorso. Continuare a parlare in luoghi di un’autoreferenzialità asfissiante
risulta dannoso, oltrechè inutile. E quindi perché non allargare questo discorso a luoghi (telematici e fisici) diversi da quelli di sempre?
Quel che non manca mai di stupirmi sono le astute coincidenze, che probabilmente neanche sono tanto tali.
Leggendo il ragionamento di WM4 lo trovo di grande affinità con i due romanzi brevi di Jacques Spitz di recente pubblicati da Urania: “L’occhio del Purgatorio” e “Le mosche”.
Non a caso sia V per vendetta di Moore che i romanzi di Spitz si chiudono con scenari apocalittici o quasi.
In Sptiz il ragionamento si sviluppa sul piano filosofico (soprattutto in “L’occhio del Purgatorio”) ed antropologico (in “Le mosche”), laddove lo scritto di WM4 affonda le mani nella pratica politica (che pure la filosofia presuppone).
Ma l’elemento fondate che accomuna tutto è la necessità di recuperare e di riprenderci il tempo (ancora, “L’occhio del Purgatorio”) e lo spazio (ancora, “Le mosche”).
Così che la pratica e la proposta politica, la cui ricerca ed approfondimento è ormai diventata ineludibile, debba generare, generarsi ed rigenerarsi tanto sul piano della [auto]critica pratica e della pratica, quanto quello parallelo piano del corretto approccio filosofico.
Del post di WM4, oltre al ragionamento finale sulla necessita di coltivare il sapere nei termini di bene comune come forma di resistenza alla catastrofe che ci ha già colpito, apprezzo soprattutto la prima parte perché è estremamente utile dal punto di vista tattico. Proprio sull’iconografia di V for Vendetta ho discusso la scorsa settimana con un amico su twitter, che si diceva infastidito dall’uso di questa iconografia nei recenti cortei studenteschi, in quanto derivata da un prodotto del capitalismo (il film) e quindi, sostanzialmente, a esso “collusa”.
Qui mi pare che si faccia una genealogia di quel simbolo in grado di sottolineare un passaggio importante: e cioè che il senso di un simbolo nasce sempre da una negoziazione tra questo e l’uso che se ne fa.
L’impreparazione politica (e culturale) al cambiamento si sta rivelando tragica in Egitto…
Articolo davvero molto bello, complimenti a WM4. Qualche anno fa, per una serie di curiose circostanze “di curriculum”, mi sono trovato a studiare la storia della Congiura delle Polveri, e da allora mi sono sempre un po’ stupito della ripresa in chiave anarchica/movimentista della maschera di Guy Fawkes… che se non ricordo male era alla fine un mercenario, arruolato in Belgio dai papisti per portare a termine l’impresa contro Giacomo I, reo di aver tradito le aspettative dei cattolici.
Condivido l’analisi, che oltre tutto ha il grande pregio di mantenere una prospettiva “aperta”. In particolare penso ci sia molto da riflettere su questo passaggio:
“Da una piazza, da un parco pubblico, o da quattro vecchie mura, come dalle colline del Surrey tre secoli fa, riprendere il filo di una pratica e di una proposta politica è l’impresa titanica che ci fronteggia. E certo non riusciremo a farlo se non saremo almeno in grado di difendere le esperienze che mettiamo in piedi e di radicarle nello spazio e nel tempo.”
Il radicamento “nello spazio e nel tempo” è la chiave di volta di ogni mobilitazione. Quindi lancio la solita questione: è possibile un radicamento di questo tipo senza una prospettiva politica “forte”, che sia in grado di costruire un’alternativa radicale e di proiettare la varietà e la molteplicità delle lotte verso un obiettivo convergente?
Ormai mi trovo a porre (e pormi) questo problema con tanta insistenza quanta mi sembra essere la tendenza generale ad eluderlo (…è solo una mia impressione?). E sempre più spesso, di fronte a certe tendenze del movimentismo sia italiano che internazionale, mi tornano in mente le parole del padre spirituale dell’opportunismo, quello che Lenin apostrofa come “il rinnegato Bernstein”: “lo scopo finale, qualunque esso sia, è nulla; il movimento è tutto”.
“affilare i cervelli come rasoi” – mi piace un sacco.
Credo sia questa la sola prospettiva politica “forte” che ci venga concessa dai tempi correnti.
Bellissimo articolo, comunque.
Non conoscevo la vera storia di Guy Fawkes – è davvero interessante.
Grazie
e
segnalo questo documentario/intervista su Alan Moore:
http://www.youtube.com/watch?v=rZXoinYCReE
Magari l’avete già visto, magari no
comunque non male.
Salut
Sono molto confuso; soprattutto perchè condivido la riflessione degli ultimi due paragrafi a proposito del “che fare”. L’eterno dibattito, sempre fecondo (com’è giusto che sia, ecché).
A volte mi chiedo provocatoriamente: ma se ci fosse davvero un movimento attraverso il quale scorgere una società futura, le forme con cui affrontiamo l’annosa questione esposta nell’articolo di WM4 non rischierebbero di suonare come cigolii di vecchi battenti lasciati alle spalle?
E se quei semi di futuro già esistessero? Màh. Alle volte dalla piccola Italia è difficile pensare.
A tal proposito, consiglio di lettura:
http://www.internazionale.it/opinioni/slavoj-zizek/2011/11/03/l%e2%80%99illusione-della-democrazia/
L’articolo di Zizek è molto interessante, anche se bisognerebbe chiedergli cosa ne pensava degli abominevoli processi democratici quando si candidò a presidente della repubblica slovena col Partito Democratico Liberale nel 1990 :-)
Alessandro
Anche io concordo, l’articolo mi piace molto, soprattutto per la digressione genealogica puntuale che fa da base ad un dire sensato.
Mentre ero immersa nella lettura di questo post mi è però saltato alla mente il ricordo di un frammento di puntata della trasmissione di santoro dell’altro giorno che volevo condividere: una tipa del cantiere di milano faceva le veci del collettivo che rappresenta il dissenso per la crisi e la protesta degli indignados, il collegamento è perchè indossava la maschera di V, che diceva belle parole tipo “il 99 per cento produce e l’un per cento ne gode ecc.”, che mi sta bene, mi trova d’accordo nelle sue invettive, ma… mi ha lasciato con un non_so_spiegare_bene_cosa, ma comunque con qualcosa di veramente plasticoso in testa. Più avanti, verso la fine della puntata, santoro passa la palla a un’operaia la cui fabbrica nelle marche ha chiuso la produzione da un giorno all’altro lasciando a casa più di un centinaio di lavoratori, feriti nella dignità. “Agli operai ancora oggi chiedono un senso di responsabilità verso queste persone dicendo loro di non occupare la fabbrica, sarei contenta di vedere queste persone in galera e le chiavi buttate via, con due ranci al giorno” diceva indignata. Mi ha colpito sentirmi più vicina alla lavoratrice che raccontava la sua “vita” e non alla studentessa che inneggiava a slogan sentiti perchè frequenta i centri sociali (e frequento anche io regolarmente i centri sociali e noto che gli studenti che rimangono attivi politicamente dopo la scuola o l’università sono molto pochi rispetto a quanti lo frequentavano).
Si è detto con ragione che i movimenti devono radicarsi nel tempo e nello spazio, giusto, altrimenti perdono gran parte della loro credibilità, che anche se dalla bocca della ragazza uscivano belle parole, dietro alla maschera ho avuto l’impressione che ci stesse il vuoto più totale. Queste due facce della società, lavoratori e studenti, non potranno mai essere conciliate?
@militant
tieni conto che nel 1990 la slovenia non era ancora indipendente, esisteva ancora la sfrj, e a lubiana si tentava il primo esperimento di multipartitismo. la carica di presidente della repubblica di slovenia era piu’ che altro simbolica, accessoria, non rientrava nell’ architettura politica del sistema. in quegli anni e in quei luoghi le parole avevano un significato diverso da quello che hanno oggi.
(e adesso che sto leggendo stephen king, mi viene naturale pensare che forse sarebbero stati possibili esiti diversi)
@ maxmagnus
L’articolo di Zizek è interessante, però perplime assai.
Sottintendere che un movimento che si da degli obiettivi, che pone delle richieste è già “sotto padrone” (come sembra suggerire la citazione di Lacan) equivale in tutto e per tutto a riproporre, ad un livello diverso, l'”illusione democratica”.
Rispetto al sistema democratico, allo stato nazionale borghese, all’economia capitalistica, le mobilitazioni sul genere di Occupy Wall Street si limitano in un certo senso a “sospendere il giudizio”. Ne denunciano sì le iniquità e le storture, ma non prefigurano un percorso per il loro superamento; come dire: di tutto questo, rifiutiamo con decisione la parte “cattiva” (le imprese sfruttatrici, i bonus esagerati dei banchieri, l’inquinamento ecc.), ma una vera alternativa non ce l’abbiamo… anzi: costruiamola insieme nelle assemblee.
Secondo me dal quadro liberaldemocratico non si esce sul serio e nei fatti, fino a che non si individua (e si costruisce) un percorso rivoluzionario capace di “spezzare il quadro”. E per portare a compimento percorso del genere c’è comunque bisogno, oltre che di condizioni propizie, di un soggetto in grado di tradurre le rivendicazioni contro il sistema in pratica rivoluzionaria…
Zizek, tra l’altro, mi sembra che distorca un po’ le tesi di Marx (e dei marxisti) sullo Stato. L’idea secondo cui “cambiare i rapporti di produzione” significa tornare al livello dei rapporti economici “pre-politici” è semmai una tesi anarchica. Marx, al contrario, mi pare sostenga che l’unico modo per arrivare sul lungo termine ad una società senza classi sia quello di distruggere lo Stato borghese e sostituirlo con uno Stato proletario, che instauri il socialismo inteso come dominio di classe del proletariato sulla borghesia. Questa, almeno, è l’interpretazione che della dottrina marxiana sullo Stato dà Lenin in “Stato e rivoluzione”.
Ora, io non voglio dare a tutti i costi ragione a Lenin. Però mi pare che il discorso di Zizek sia un po’… furbetto, ecco. Un colpo al cerchio (spezzare l’illusione democratica) e un colpo alla botte (in fondo i manifestanti fanno bene a non avanzare rivendicazioni e a non costruire un percorso rivoluzionario in senso “classico”). D’altra parte l’articolo è pubblicato su Internazionale… :-)
La figura del nostro mi sembra assai complessa, sia dal punto di vista storico che da quello letterario-cinematografico-fumettistico.
Non c’è dubbio che, utilizzando un vecchio adagio anarchico, il buon Guy sia stato l’unico uomo entrato con le giuste intenzioni in un parlamento, anche Pietro Micca utilizzò dinamite a volontà.
Allora tuttavia la “pedagogia del fatto ” aveva la sua ragion d’essere oggi la gente culturalmente è più avanti….o no?!??!
@ Tuco
Si si era una battuta, anche se Zizek è stato un militante della liberaldemocrazia slovena fino al 2002 (a detta di wikipedia e mai smentita dal filosofo). Insomma, al di là del 1990 e delle caotiche giornate dell’indipendenza slovena, rimase militante di un partito liberale fino a pochissimi anni fa…
Alessandro
@militant
si’, solo che in slovenia negli anni ’90 il partito liberaldemocratico era quello di centrosinistra, mentre il partito socialdemocratico di jansa era quello di centrodestra (che casin, ah?). poi c’era la lista unita dei socialdemocratici, che aveva raccolto formalmente l’eredita’ del vecchio partito comunista. e infine vari partiti conservatori tradizionalisti. in quel momento chi avesse voluto fare politica attiva a sinistra in slovenia, avrebbe dovuto scegliere tra i liberaldemocratici e la lista unita, che pero’ era forte solo nel litorale. la situazione politica slovena era (e’) abbastanza incasinata, ricorda un po’ quella italiana. in croazia e serbia pero’ era (e’) peggio. ricordo un meeting organizzato da jusos a zagabria nel 1997, a cui partecipai come rappresentante dell’ udu-sinistra giovanile di trieste/trst, durante i miei due anni di militanza nel pds. appena sceso dal treno, la polizia mi fermo’ e mi trattenne per un’ ora, facendomi un sacco di domande sui motivi del mio viaggio, di cui in realta’ sapeva gia’ tutto. in quel meeting poi incontrai anche alcuni ragazzi serbi che stavano tentando disperatamente di organizzare un’ opposizione giovanile di sinistra a miloševič, ispirandosi all’ eurocomunismo di berlinguer.
Ehm… Parecchio interessante, questo scambio, ma… non stiamo andando *leggermente* OT?
Sarà anche un liberale, ma l’articolo merita egualmente. Almeno, a me piace ;)
@Don Cave
Al di là delle digressioni marxi-ste/ane penso che l’argomentazione di Zizek si riferisca ad un contesto ben preciso, quello statunitense, e ad una realtà ben determinata, ovvero il movimento proteiforme di Occupy, e in particolare alle assemblee newyorchesi. Chi è stato almeno una volta negli USA negli ultimi anni sa quanto ivi sia infimo il livello di “dibattito pubblico” (inteso nei media mainstream), specialmente su quei temi di ampio respiro quali lo sviluppo economico della nazione. Conoscendolo un poco, non posso che essere estremamente felice che un “qualcosa” ne spezzi la monotonia.
Inoltre, credo che lo sloveno avanzi l’idea di ciò che tu chiami “botte” – ovvero la non positività di un programma politico – in riferimento ad un contesto dato; ovvero, ad una critica che è mossa sempre più insistentemente dai media al movimento: “cazzo, siamo nella merda, ma com’è che protestate tanto e non avete alcuna ricetta per uscirne? Con quale diritto vi dichiarate migliori di persone assai stimate quali Alan Greenspan, ecc..?”
Io credo di essere d’accordo con Zizek nel contenuto di questo articolo nel suo dato contesto.
Non si può dire che c’è un problema della gestione del potere nella società contemporanea senza addurre nella pratica forme differenti di gestione della protesta, nè si può pretendere che i movimenti abbiano ricette pronte o – come dici tu – “percorsi rivoluzionari” (ammesso che siano mai esistiti, e che possano esisterne di “classici”). Si contestano le forme della gestione del potere (in particolare finanziario) e la sua sostanza, ed è nel farlo che si piantano i semi di una società futura. Sennò sarebbe troppo facile!
@wm1
si’, e’ decisamente ot. chiedo scusa.
Non “decisamente”: leggermente :-) E figurarsi se c’è da chiedere scusa…
Perdon per l’OT
@ Tuco…ho discendenze jugoslave, ho casa da quelle parti (in Istria) e ci vado più o meno costantemente da quasi trent’anni, ho presente ho presente…:-)
Saluti
[…] Rete. Tra cui non potevano mancare gli Anonymous che, dietro l’effigie altrettanto simbolica di Guy Fawkes (esondata dalla Rete alla realtà nelle piazze di tutto il mondo), hanno dichiarato guerra al […]
Grazie alle precisazioni di Wu Ming, vedo ora qualcosa che mi sfuggiva, ovvero quanto la realta` di Anonymous (il gruppo di “cosiddetti” hacker) sia assolutamente coerente con il simbolo che utilizzano, la maschera del V cinematografico. Quello che dice the frontpage, spiace dirlo, sono boiate pazzesche.
-Non sono un gruppo organizzato. Il contrario. E` un`aggregazione spontanea e MOMENTANEA di anonimi che in rete si riuniscono intorno a una proposta operativa, se questa richiede una massa critica per essere messa in atto. Ma Anonymous puo` benissimo nascondere (in un certo momento per una certa proposta) un solo vero hacker.
-Da sopra, segue che non hanno alcuna proposta stabile, alcuna ideologia condivisa, NEMMENO quella del “for teh lulz”. Compaiono per difendere Wikileaks, poi per falsare un sondaggio e mandare Justin Bieber in Corea del Nord, poi per trollare Oprah, poi per riempire youtube di porno, poi per mettere alla gogna i pedofili, poi per supportare OWS, poi per denigrarlo. Forse si poteva riassumere il loro pensiero citando il Joker di Nolan “Some people just want to watch the world burn”. Appena e` parso che ci fosse un consenso su questo, la frase e` stata ridicolizzata.
-Nessuno li puo` rappresentare. Nessuno puo` dire cosa vogliono, anche solo pensare che ci sia una volonta`, una linea, non ha senso. Chi viene preso dalla polizia non e` piu` “Anonimo” quindi viene ridicolizzato e abbandonato a se stesso.
Tenendo a mente questo: che stupidata ignorante e` stata, prendere un simbolo del genere, che non per caso e` stato usato cosi` , e usarlo per qualcosa che si vorrebbe seria come OWS o i vari indignados? E` un`incomprensione casuale? O una certa depressione atmosferica ideologica ha da se` attirato, per il principio dell` horror vacui, un simbolo che evidenziasse proprio questi limiti?
Un grazie ai Wu Ming per la vivisezione quotidiana, si vede quanto ce n`e` bisogno.
p.s. non e` che stia condannando la distruzione fine a se stessa, il film V o che so io. Anzi, sono cose che mi attraggono molto. Pero` non me ne voglia Zizek, bisogna superare la fase donna isterica vs autorita` maschile e arrivare a quella Lorena Bobbit (se vogliamo continuare con questa sottile metafa che per me e` ridicola).
@ rapa
scrivi: “che stupidata ignorante e` stata, prendere un simbolo del genere, che non per caso e` stato usato cosi` , e usarlo per qualcosa che si vorrebbe seria come OWS o i vari indignados? E` un`incomprensione casuale? O una certa depressione atmosferica ideologica ha da se` attirato, per il principio dell` horror vacui, un simbolo che evidenziasse proprio questi limiti?”
La seconda che hai detto, secondo me.
Ciò su cui mi sento di insistere è che il passaggio dalla negazione della rappresentanza alla negazione della rappresentabilità è labile (se non conseguente). Lo svuotamento di senso della rappresentanza, che in certi casi viene percepita come il costituirsi di una “casta”, è un dato di fatto pesante, che permea di sé il tempo in cui stiamo vivendo. Così come lo condiziona l’atmosfera apocalittica, la sensazione di un crollo imminente. In qualunque accezione la si voglia leggere (e proprio perché ce n’è più di una) la maschera di V è molto più adatta all’oggi che agli anni Ottanta in cui è stata concepita.
“il passaggio dalla negazione della rappresentanza alla negazione della rappresentabilità è labile (se non conseguente)”
Assolutamente d’accordo, anzi la mia sensazione e` che il salto logico sia stato gia` fatto: ci troviamo a mezz`aria, e rischiamo di arrivare di faccia.
Come evitarlo? Io vi ho presi in parola cari Wu Ming e anche se il mio cervello piu` che un bisturi da affilare vuole essere una mazza ferrata, sto cercando una soluzione che salvi i due principi. Arrogante eh? ma credo di aver trovato qualcosa del genere tra gli scarti dei laboratori piu` importanti della scienza politica: Atene dell`epoca classica, Machiavelli, i primi anni post1789. Sto lavorando a una trattazione esauriente di quest`idea, ma intanto prendo fiato ed espongo a grandi linee:
Un`assemblea non di eletti, ma di sorteggiati, con un sorteggio pesato in modo proporzionale alla composizione della societa`. Un`assemblea dell`ordine di migliaia di persone, persone comuni, non sociopatici e scala-gerarchie. Persone che avranno la possibilita` e il dovere, prima e durante il mandato, di studiare i problemi secondo tutti i punti di vista, e potranno decidere in coscienza, senza doversi preoccupare di blandire masse di milioni di elettori, coltivare clientele, racimolare tangenti, bucare il video.
Il tutto ovviamente a tempo. Il tutto condito da elezione interna del potere esecutivo, e dai piu` vari referendum estesi a tutta la cittadinanza; ho pensato pure a un referendum “ostracismo” nei confronti degli elementi oziosi o profittatori che verrebbero inevitabilmente sorteggiati all`interno di tale assemblea. Da li in poi la mia fantasia vola fino a canali satellitari Democratsat 24/24, sondaggi via internet e tutto l`immaginabile.
Torna poi a terra, nel rendersi conto che bisogna proporre insieme a una soluzione istituzionale, una economico-politica valida a livello mondiale. Sara` la seconda parte… Intanto ditemi se suona come una cazzata e conviene lasciare perdere, o se ci sono potenzialita`. E scusate per l`ot …
@ rapa
il problema, secondo me, non è il suo suonare o meno come una cazzata.
Il problema è che affrontare un problema che affligge lotte reali e concrete disegnando a tavolino istituzioni mi è sempre parso equivalente ad affrontare il problema dei senza casa (quelli veri, in carne e ossa, che incontri per strada) dedicandosi a un modellino di “città perfetta” in cui i senza casa non esistano.
Insomma, vedo un po’ di confusione tra il problema hic et nunc e la sua proiezione iperuranea…
Credo che diverse e più democratiche forme di rappresentanza possano emergere solo dalle lotte stesse, nella loro concretezza e dimensione collettiva. Più che a modelli astratti, dovremmo pensare a una quotidiana battaglia per l’autoformazione, l’autoeducazione, la consapevolezza teorica ed etica dei movimenti.
p.s. in seguito ho scoperto di non essere l`unico ad aver fatto questo pensierino in tempi recentissimi http://www.masslbp.com/download/sorted.pdf.
@Wu Ming 1 capisco benissimo quello che intendi dire, non vorrei mai cadere in quella trappola; pero` mi sembra che da un eccesso, quello platonico che vuole costruire appunto la citta` perfetta… solo nella sua testa e per la sua testa… siamo passati all`eccesso opposto in cui si raduna una folla e si dice: ognuno prenda un mattone, ognuno studi ingegneria e architettura e statica, cominciamo e man mano vedremo cosa uscira`. Quest`ultima mi sembra non una cosa cattiva in se, quanto un po` inefficiente nel momento in cui il nostro avversario progetta a suon di think tank infiniti universi di sfruttamento, uno peggiore dell`altro. Cioe`: facciamo anche un po` di progetti su carta, insieme con partecipazione educazione auto-educazione ecc., poi se vediamo che le fondamenta non reggono, benissimo, cambiamo all`istante. Ma non possiamo improvvisare troppo. O no?
@ rapa
purché non si ricada nell’idealismo, ecco. Inteso proprio nel senso filosofico.
Della serie “Quando l’eroe anarco-romantico fa il passo più lungo della gamba”:
http://www.thefrontpage.it/2011/11/24/the-dark-side-of-the-web/
Non conoscevo la storia di Guy Fawkes, ma avevo letto con interesse il fumetto di “V per vendetta” e poi guardato (con molto meno trasporto) il film.
Il sapere che la maschera raffiguri un bombarolo papista e sia stata ripresa per prima da un fumetto anarcoide e dopo da una schiera di persone che manifestano in giro per l’Occidente (le quali credo però si rifacciano più al film, non fosse altro perché il fumetto ha quasi trent’anni) mi ha fatto subito alzare gli occhi dallo schermo con un sorriso che implicava una serie di questioni.
Insomma già a prima vista la contraddizione congiurato-cattolico/eroe-anarchico è esplosiva, passatemi il termine. Manda in corto la narrazione fin da subito. Però, mentre il fumetto è coerente con un modo di pensare che si è sviluppato tra fine Ottocento e inizio Novecento, il film si annacqua in salsa zorro-zapatista come giustamente fa notare Wu Ming 4 che poi scrive: “Il finale aperto di Moore ci lasciava con un’incertezza problematica, in grado di retroagire su tutta la storia e restituirci il carico di contradditorietà dell’agire solitario di V. Il film invece ci mette davanti ai fuochi d’artificio del 5 novembre senza colpo ferire. La detonazione finale diventa una catarsi che fa evaporare il conflitto.” Quindi se lo strumento della vendetta per entrambe le opere è l’esplosione, l’esito apocalittico-palingenetico è ben diverso, ma è anch’esso sempre presente.
E qui sta il punto che per me è fondamentale e che è il ragionamento finale di Wu Ming 4: non c’è apocalisse né palingenesi, ma ci sono trent’anni di catastrofi su cui cerchiamo di costruire qualcosa, insieme, come individui e come collettività.
A questo discorso lego anche altri due post qui letti che sono quello sulla manifestazione del 15 ottobre e quello sul feticismo della merce digitale: il primo per un discorso che riguarda come agire insieme nello spazio e nel tempo, ovvero lasciar perdere il “grande evento” per abbracciare pratiche più vicine alla nostra vita di tutti i giorni, o meglio dotare queste pratiche quotidiane di un ampio respiro, ovvero liberarle e liberarsi attraverso queste. Lego invece il post sul feticismo a questo su Fawkes/V per il fatto che (come scrive Wu Ming 1) porre la questione in termini di “apocalittici/integrati” come lo stare contro o con il sistema è fuorviante (non c’è un dentro e un fuori, ogni cosa, tutti noi siamo permeati da questo sistema, bisogna decidere però come starci). Cosa ne pensate?
in attesa di leggere il post con calma linko questa intervista recentissima a Moore:
“This was just something I made up because I thought it would make an interesting adventure story. Thirty years go by and you find yourself living it.”
http://www.guardian.co.uk/books/2011/nov/27/alan-moore-v-vendetta-mask-protest
[OT]
He has a tricky relationship with Time Warner, umbrella company to both DC Comics, which published V for Vendetta in its graphic novel form, and Warner Brothers, the studio behind the big-screen version. (…) by the time V for Vendetta had been adapted for the screen, in 2006, he wanted his name removed from the credits; perhaps even from future editions of the graphic novel too. At the time an interviewer asked Moore if he might be “throwing out the baby with the bathwater”, and he gave the sort of strolling, storyteller’s response that ought to be laminated and distributed to any artist uncertain about giving over their creations to Hollywood. “Well, I don’t own the baby any more,” said Moore. “During a drunken night it turned out that I’d sold it to the Gypsies and they had turned my baby to a life of prostitution. Occasionally they would send me glossy pictures of my child as she now was, and they would very, very kindly send me a cut of the earnings…”
[fine OT] ;-)
Una piccola parentesi sul rapporto film/fumetto V per Vendetta.
Il regime cui V si ribella è stato instaurato dopo alcuni attentati terroristici di matrice non chiara. Questi attentati a base di armi chimiche e batteriologiche hanno fatto decine di migliaia di morti subito prima delle elezioni, mandando al potere chi prometteva una svolta securitaria e legalista.
La regia, la sceneggiatura e la produzione del film sono americane – l’ispirazione è dei fratelli Wachowski di Matrix- mentre il fumetto è inglese. Nel film è dato molto più risalto alla vicenda degli attentati di quanto non sia fatto nel fumetto. Inoltre, nel film, compare una categoria di nemici del regime particolare -i musulmani- che nel fumetto mi pare non vengano mai citati.
Per farla breve, credo che nello spirito, il film, a differenza del fumetto, sia abbastanza chiaramente riferito all’11 settembre. Quello che vuole suggerire è che la reale matrice degli attentati sia interna, o che comunque parti dell’amministrazione americana, leggi Bush e C.I.A., abbiano avuto un ruolo attivo nel portare a compimento gli attentati alle torri e al pentagono.
Penso che ci sia una buona dose di ingenuità politica dietro alle mobilitazioni che si fregiano del simbolo di V. Forse bisognerebbe anche riflettere sul perchè sia il mondo del fumetto e del cinema ad essere chiamato a fornire simboli di mobilitazione, mentre le tradizioni politiche sembrano non fornirne più di validi (a livello di massa, intendo; nel piccolo ci sono nicchie che hanno operato ricerche molto profonde, penso ai simboli del Rash di Roma) Oltre che per i simboli, lo stesso accade per i cori nelle manifestazioni. Ricordano i cori degli stadi (“noi la crisi non la paghiamo”, avete presente?). A volte temo che le curve siano rimaste gli unici luoghi in cui si fa aggregazione antagonistica, e che l’unica cultura condivisa sia quella cinematografica…
“One penny for the Old Guy”.
“We are the hollow men.”
Eliot.
Tardi, sempre “dopo” arrivo a “contribuire”. Mi spiace, mi sarebbe piacuto arrivare a dialogo attivo, ma pazienza: tanto questi sono i temi che ovunque si ritrovano, e tentare di buttar già qualche spunto per iscritto può tornare utile per la prossima volta.
Nei miei studi recenti ho notato una fortissima connessione fra la nostra situazione attuale e le analisi di altri dei tempi passati, non per ultimo Eliot, il quale ha avuto il pregio di porre molto della nostra condizione in un linguaggio poetico.
Tuttavia, sono giunto ad una situazione di blocco che vorrei condividere poichè mi pare che sia la stessa che traspare fin da “La quadratura dei cerchi concentrici”: l’assenza di una ricetta [nel senso positivo del termine].
Il “culo in strada”, la ricerca di nuovi paradigmi d’azione che non siano mere speculazioni, porta con sé , insieme a una buona iniezione di vitalità, il germe dell’incapacità d’azione regolata: se da una parte vi è la mera speculazione, dall’altra vi è il prassismo.
Molte sono le ragioni e le chiavi di lettura di questo fatto. Per parte mia mi pare che il paradigma fondamentale, pur con tutti i livelli e le precisazioni che non è possibile svolgere al momento, sia ancora quello fra la catarsi “poetico-telestetica” e quella “etica”. La prima, rivolgendosi a pratiche dall’immediato riscontro “fisico” tendono a risolversi nel “Grande Gesto Catartico”: che sia uno spettacolo teatrale, o l’azione concreta vissuta COME spettacolo teatrale [su cui la mass media* ha ben gioco di proliferare] essa si risolve sempre con una grande azione risolutiva. Il principe salva la principessa, il Parlamento esplode e, se il fine non supera quel livello, passano i titoli di coda con un bel “The End”.
Per questo piccolissimo difetto, già Porfirio poneva questo livello come “aiuto” per un’elevazione spirituale, non come suo fondamento.
Il fondamento è da sempre l’etica, la riflessione del nostro “vicino sconosciuto” in noi stessi. L’Avvento catartico nel Dialogo e per il Dialogo. “Il culo in strada” come ormai non siamo più abituati a fare.
E se per la catarsi poetica è sufficiente un’opera ben fatta, un testo ben scritto e uno spirito sensibile che la condivida, per la seconda catarsi, quella Etica, ciò non basta più: lo Spirito Sensibile non solo deve essere esteticamente sensibile, ma deve essere sensibile anche al nostro modo di rapportarci col mondo, e ciò deve essere corrisposto. Se in un primissimo approccio le similitudini si offrono sostegno alla fiducia, in un secondo momento sono le differenze che tastano il vero grado d’immedesimazione e di corrispondenza.
E qui crolla il Nostro Mondo.
Qui giacciono le macerie su cui tutta la Nostra società, il Nostro Passato e i nostri Difetti, come cecchini nazisti freddano qualsiasi moto di riflessione col Vicino. Bloccati nel gelo della Siberia, il Vicino diviene un volgare “Altro” fra i tanti. Senza alcuna prospettiva, senza alcun progetto o un qualunque punto di riferimento che non debba essere ri-evocato da qualche vetusto componimento come la Divina Commedia -non perchè ritenga sbagliato questo approccio, ma perchè l’evocazione in tal senso richiede ancora più energie del rapportarsi col Vicino, e in ogni caso non esauriscono l’essenza di un’esperienza comunitaria-,ci appoggiamo, nel migliore dei casi, a qualche spunto creativo, qualche riflessione teoretica, qualche analisi sull’associazionismo, qualche disquisizione economica. Altrimenti, abbandonando qualsiasi fiducia verso il Prossimo e verso coloro, quei Vicini, che prevedendo uomini impagliati sigillarono, come meglio poterono, impressero con le parole la loro strada, ci volgiamo a chiedere il risultato dell’ultima partita di calcio. E allarghiamo la pandemia a livello esponenziale.
Dunque il problema si pone come Decisivo: in assenza di una comune pratica che riesca a cogliere nelle differenze lo Spirito Unico che anima la nostra vita e che desidera, con tutte le sue forze, emergere, qualunque discussione a priori sullo stato delle prassi risulta essere distorto in partenza. Ma qui, purtroppo, il divario fra l’intuito e il meditato diventa così grande da impedirmi, allo stato attuale, di procedere seriamente. Se la ricomprensione delle varie prassi necessita di un orizzonte spirituale più profondo al fine di superare le singole contingenze, d’altra parte trovo molto difficoltoso immaginare una progetto condiviso che s’incentri concretamente sul raggiungimento di una dialettica interna di Dialogo. Per ciò, bisognerebbe parlare in primissima persona, magari di fronte a una buona birra [o magari un caffè].
ps: perdonate la lunghezza e la divagazione ma ci tenevo a porre questi quattro appunti in croce. Se qualcosa non fosse chiaro chiedete pure -non è detto che sia in grado di rispondere, ma un tentativo lo si fa xD-.
* da leggere in rigoroso dialetto italiota.
In un’intervista uscita per XL David Lloyd ( il disegnatore di V for vendetta) dice ” credo che sia fantastico. La V e la maschera sono diventati un simbolo universale di protesta, di resistenza contro ogni forma di oppressione. Non c’è un concetto strettamente politico alle spalle, non c’è ideologia.Solo una risposta dal basso a una necessitò di rivolta. Non è comunismo, non è marxismo. E’ la gente che dice :” Basta!””