Un Paese accidentato, le sue montagne. Wu Ming 2 intervista Marco Armiero


Negli ultimi tempi, su Giap, si è parlato spesso di montagne: dal Monte Kenya al Sentiero degli Dei, dalla Val di Susa a Guccini al dissesto idrogeologico. Dato l’interesse per l’argomento, Wu Ming 2 ha pensato di intervistare – in esclusiva per il blog – lo storico dell’ambiente Marco Armiero, attualmente di stanza a Barcellona, autore di A Rugged Nation. Mountains and the Making of Modern Italy: 19th and 20th Century.
Un libro sull’Italia, sul ruolo che hanno avuto le montagne nel suo divenire-nazione, pubblicato in inglese nell’anno del 150° da una casa editrice di Cambridge, la White Horse. C’è poco da stupirsi: la storia dell’ambiente, in Italia, non ha mai goduto di particolare fortuna, sia come materia di studio che come argomento divulgativo. Forse perché unisce in un unico campo di ricerca due materie molto maltrattate nell’Italia odierna: la storia e l’ambiente. La prima in quanto occasione di revisionismi, trafugamenti di cadaveri, amnesie selettive e celebrazioni monumentali; il secondo come piattaforma per grandi opere, svendite demaniali e business edilizio. Non a caso, tra tutti i paesi europei siamo quello che ha visto nascere e morire il meno ambientalista dei partiti verdi.
Nel libro di Marco Armiero si racconta una vicenda che spiega bene il rapporto tra storia e ambiente nel nostro paese. L’autore la utilizza come epilogo, io vorrei giocarmela come introduzione.
Nell’aprile 2009, dalle rovine dell’Archivio Nazionale dell’Aquila emergono sette armadietti metallici, stipati di faldoni e raccoglitori, scatole con campioni di roccia e modellini di una remota valle alpina. E’ l’archivio della strage del Vajont del 1963.
Un anno prima, nel 2008, l’Unesco ha inserito il caso del Vajont in una lista di “5 racconti precauzionali”, ovvero: i 5 peggiori disastri prodotti dagli umani.
Quarantanove anni prima, l’11 ottobre 1963, il compianto Giorgio Bocca scriveva su Il Giorno che

«In questi tempi atomici si può dire che questo [il Vajont] è un disastro pulito: gli umani non hanno fatto nulla, è stata la natura, e ciò non è né buono né cattivo, ma soltanto indifferente.»

Sei anni prima, nel 2003, utilizzando una parte dei soldi ottenuti come risarcimento legale, il comune di Longarone ha deciso di trasformare il cimitero delle vittime in un monumento nazionale, rispondendo così a un auspicio del Presidente della Repubblica. Per far questo, ha deciso di “restaurare” il vecchio cimitero di Fortogna e di cancellare per sempre dalla memoria lapidi come quella della famiglia Paiola, con i suoi sette morti:


Quattro anni prima, lo scrittore Mauro Corona, in un’intervista a Libero dichiarava:

«Sin dalla sua costruzione, la diga del Vajont ha diviso gli abitanti. Poi, dopo l’incidente, è nata una vera speculazione politica sul dolore di noialtri. Il Pci iniziò un’invasione politica ergendosi a difensore delle vittime e strumentalizzando il nostro dolore per colpire il governo Dc.»

Marco Armiero, dopo aver fatto notare la scelta del termine incidente per descrivere una strage annunciata, scrive:

«Certamente il PCI stava politicizzando il Vajont, sostenendo che il “disastro” non era solo il risultato di un errore di progettazione, di un’amministrazione pubblica corrotta e di esperti acquiescenti, ma anche il fallimento di un sistema basato sul profitto privato. Tuttavia, la politica non arrivò nella valle con i comunisti. Il paesaggio era già politico, plasmato da interessi economici, alleanze di partito, resistenza popolare. Della politica aveva avuto bisogno la SADE, per far approvare i suoi piani, e la politica aveva influenzato i giudizi degli esperti, addomesticando i dubbi. La politica aveva represso la resistenza degli abitanti e infine, dopo il massacro, la politica si presentò non solo con il PCI, ma anche con i rappresentanti del governo e delle istituzioni. Il Vajont fu – e rimarrà – un terreno di confronto politico e, come sempre, di memorie divise.»

Ambiente, memoria, storia, montagne, monumenti, guerre, conflitti.
Il libro di Marco Armiero racconta come tutto questo ha contribuito a formare l’Italia e il paesaggio italiano.
E ora, avanti con l’intervista.

WM2: Nell’introduzione al libro scrivi che «nazionalizzare le montagne implicò imporre significati, sfruttare risorse, rafforzare l’autorità statale, ridefinire i confini tra selvatico e addomesticato, razionale e irrazionale, bello e brutto; significò anche trasformare i montanari in cittadini, e a volte i cittadini in montanari, per tirar fuori gli italiani dal suolo e dalle rocce.»
Si potrebbe riassumere affermando che uno stato, oltre a inventarsi una tradizione, s’inventa pure il paesaggio. Ma così dicendo si riducono le caratteristiche naturali dell’ambiente a un sostrato passivo, sul quale si depositano i valori e le retoriche nazionali. Tu, invece, sostieni l’esistenza di un doppio processo: il territorio trasforma i suoi abitanti in cittadini ed essi a loro volta lo trasformano in paesaggio nazionale. Mi pare un punto molto delicato, perché dire questo significa dire che le nazioni non sono soltanto “un plebiscito quotidiano” e un prodotto della storia, ma anche il prodotto di un certo ambiente, di uno specifico territorio.

M.A.: Mettere insieme natura e nazione è una alchimia pericolosa. David Blackburn nel suo libro The Conquest of Nature – sul rapporto tra ambiente e nazione in Germania – non a caso scriveva che nessuno storico tedesco si è sentito a suo agio a parlare di queste cose per lungo tempo. Il determinismo della scuola geografica tedesca (Ratzel) e la narrativa nazista su suolo e sangue hanno occupato militarmente questi temi, rendendoli inservibili agli storici, almeno per un bel po’. Tuttavia, io credo che proprio il fatto di maneggiare una miscela esplosiva testimonia della rilevanza della questione. Come storico ambientale mi muovo sempre sulla lama del rasoio tra rivendicare ciò che nella storiografia USA chiamano «nature’s agency», cioè il ruolo attivo della natura, e il rifiuto del determinismo, delle spiegazioni monocausali, della naturalizzazione del sociale. La scommessa del libro è riuscire a stare su quella lama, consapevole dei rischi che si corrono. Gli/Le storic* hanno considerato ogni aspetto nella costruzione dell’identità nazionale – letteratura, arte, politica, cibo, religione, genere e mille altre cose – ma hanno finto che tutto questo avvenisse in un vuoto, in uno spazio senza nessun connotato. Non credo che la questione sia ritornare alla antropogeografia, magari con qualche raffinatezza bio-genetica legata alle nuove tecnologie della ricerca; con il mio libro non voglio certo riproporre l’idea dei confini naturali, del clima che determina le storie delle nazioni, o altra roba del genere. Al contrario, più che naturalizzare la nazione, mi interessa capire come nazione e natura siano state in una relazione dialettica. I processi di costruzione dell’identità nazionale hanno largamente usato la natura; la natura è entrata nelle narrative e nelle retoriche nazionali, oltre che nelle politiche di gestione e sfruttamento delle risorse. Con il mio libro ho voluto provare a guardare dentro questi processi, nello spazio della relazione, senza per questo proporre una visione deterministica o naturalistica della storia nazionale.

WM2: Parlare di montagne e nazione, significa porsi il problema di come una cultura affronta il concetto di selvatico & selvaggio. Le montagne, infatti, sono sempre vissute come un luogo “da addomesticare”, anche se spesso è proprio addomesticandole che le si rende più selvagge (vedi il taglio del bosco che produce frane, il dissesto idrogeologico, l’elettrificazione delle valli alpine).  Negli Stati Uniti l’idea di wild, wildness e wilderness ha avuto un ruolo chiave nella nascita della nazione. Qui da noi si può dire lo stesso?

M.A.: No, non si può. Il ruolo della wilderness, della natura selvaggia nella storia degli Stati Uniti è abbastanza unico. L’idea che la nazione USA – o, per dirla con il loro linguaggio, americana – sia nata dall’incontro tra pionieri e “Frontiera” era il principio fondante della tesi di Frederick Jackson Turner, lo storico USA padre della Western History. Non è un caso che gli USA siano anche la nazione che ha inventato i parchi nazionali; a differenza della vecchia Europa, dove chiese, palazzi nobiliari o comunque manufatti, custodiscono l’identità della nazione, negli Stati Uniti è la natura che diventa monumento nazionale, simbolo della novità di quella storia. Poi con Mount Rushmore la storia della nazione, quella ufficiale, ovviamente, viene letteralmente iscritta nella natura, con i volti di quattro presidenti scolpiti sul fianco della montagna. La storia ambientale USA ha lavorato molto sul concetto di wilderness e sulla sua invenzione; lo storico William Cronon è stato il primo a parlare della wilderness come una costruzione culturale, scatenando, per la verità, una ondata di critiche feroci alla sua tesi da parte degli ambientalisti. «Se la wilderness è una invenzione culturale, allora non c’è motivo di preservare nulla» – questa era la tesi di chi si scagliava contro Cronon e quello che veniva definito, in maniera un po’  dispregiativa, l’attacco post-modernista alla natura. Non voglio entrare troppo nel merito del dibattito USA sulla wilderness; mi interessa però sottolineare che l’idea tradizionale di wilderness era sostanzialmente razzista e eurocentrica, escludeva l’agenzia dei Nativo-Americani nella creazione della natura, ovvero, i nativi erano considerati o parte della natura o semplicemente sparivano dalla scena. Questo è quello che è storicamente avvenuto con la creazione dei parchi nazionali, che hanno sistematicamente espulso i nativi, ma più in generale, i subalterni, e trasformato pratiche di uso e accesso alle risorse in crimini. In Italia, e in genere in Europa, l’idea di natura selvaggia era molto meno presente. Un paese di antico popolamento e sovraffollato, con una stratificazione di culture e civilizzazioni, non lasciava grande spazio alla natura selvaggia. Da questo punto di vista, le montagne costituirono a lungo l’ultimo lembo di wilderness in un continente come quello europeo. E comunque l’idea di una natura selvatica non ha sempre avuto in valore positivo; da questo punto di vista, comunque la si voglia pensare, la wilderness è  una invenzione culturale, almeno sul piano dei significati che ad essa si vogliono attribuire. In Italia, storicamente, è sempre stato il paesaggio ad incarnare l’ideale di bellezza della penisola. Non mi voglio imbarcare in una discussione su cosa sia il paesaggio e le sue relazioni con altri concetti come quello di natura e ambiente; certo a me pare che il concetto di paesaggio sia il più antropico, incorporando in esso una più alta percentuale di lavoro umano. Dentro il paesaggio si mescolano culture, saperi, ma anche relazioni di potere e rapporti di produzione: non possiamo, forse, distinguere il paesaggio del latifondo, quello della mezzadria, quello delle Regole alpine e via distinguendo?

Montagne ribelliWM2: In Italia – come del resto in tanti altri paesi – le montagne sono sempre state rifugio di ribelli ed eretici e dunque luoghi di guerriglia. Da Fra Dolcino ai giurisdavidici del Monte Amiata alle brigate partigiane durante la Resistenza. A differenza di altre, però, la nazione italiana si è formata combattendo una guerra durissima proprio contro un particolare genere di ribelli montanari: i briganti del Mezzogiorno. In che modo questo “evento critico” ha disegnato, secondo te, il paesaggio di quella fetta di territorio, l’Appennino meridionale, che ancora oggi viene considerato una specie di far west?

M.A: Nel libro parlo di montagne ribelli proprio per questo; c’è stata una sedimentazione di storie di resistenza sulle montagne italiane. Storie che si intrecciano e si rincorrono, con continui rimandi. Perché i paesaggi sono sempre fatti di ciò che si vede ma anche di ciò che si racconta. Mi hanno colpito ad esempio i continui rimandi alla vicenda di Dolcino e poi alla guerra partigiana nella Val di Susa in lotta; come avete scritto voi, le storie possono essere asce di guerra da dissotterrare. Un altro esempio di queste strane connessioni, di queste storie resistenti che si incarnano dentro paesaggi e comunità mi porta invece alle lotte per la giustizia ambientale nella Campania ostaggio dello “stato di emergenza permanente;” in molte manifestazioni a cui ho partecipato da ricercatore attivista si cantava la canzone dei briganti meridionali (più o meno reinventata). Scesi in strada a difendere le loro terre, gli/le attiviste campani/e hanno attinto all’armamentario del loro passato resistente. Non è certo facile parlare di brigantaggio meridionale, soprattutto oggi. Infatti, dopo una stagione storiografica che a partire dalla tradizione gramsciana aveva letto quella esperienza come frutto di una “mancata rivoluzione sociale”, negli ultimi anni il brigantaggio è stato occupato “militarmente” da schiere di studiosi neo-borbonici, spesso pubblicati per case editrici di destra. Nel mio libro parlo della guerra contro il brigantaggio come uno dei momenti in cui la  montagna si è rivelata alla nazione; combattendo sugli Appennini meridionali contro le bande di Carmine Crocco, Nico Nanco e gli altri mille briganti, i soldati e con loro l’intera nazione incontrarono la loro “frontiera”, il Wild South Show. Le cronache dell’epoca sono piene di rimandi agli “altri” estremi, dai Nativi Americani all’Africa. I briganti sono cannibali, incivili, primitivi; si mimetizzano nella foresta come animali; anzi sono il frutto della vita in montagna che li ha resi selvaggi. Insomma, non si trattava solo di una considerazione strategica – la montagna e le sue foreste come rifugio ideale per la guerriglia; la narrativa sul brigantaggio naturalizzava l’avversario, lo faceva diventare parte del paesaggio e ne faceva discendere vizi e ferocia dall’ambiente circostante. Domare la montagna, nazionalizzarla, sconfiggere la foresta – amica del brigante – erano gli obiettivi dell’esercito italiano; e fu una guerra sanguinosa e sporca, dove il confine tra belligeranti e popolazione civile era molto esile e poroso; una guerra combattuta con fucili e cannoni, ma anche con strumenti retorici e narrazioni che costruirono una visione binaria tra civiltà e barbarie, criminali e soldati, moderno e primitivo. Tuttavia, per il carattere speciale della guerra al brigantaggio, guerra sporca, rimossa per lungo tempo dalla memoria collettiva,quell’evento è anche un grande esempio di memorie contese, conflittuali, che si contendono gli spazi e le narrazioni. Mentre nella memoria comune dei contadini meridionali il brigantaggio è stato una presenza importante, che ha segnato le loro narrazioni e la loro costruzione dei luoghi (toponimi, segni, simboli ecc.), almeno fino al fascismo, come testimonia Carlo Levi, nella storia ufficiale, e di conseguenza nella geografia nazionale, il brigantaggio è stato essenzialmente rimosso. Nessuno aveva voglia di ricordare una sanguinosa guerra civile combattuta senza risparmiare crudeltà. Oggi, nella mercificazione globale di spazi e storie, anche il brigantaggio sta vivendo un suo revival; il marketing territoriale non fa ostaggi e una recente ondata di eventi, feste, commemorazioni hanno invaso i paesi dell’Appennino. Quanto tutto questo contribuisca a riappropriarsi di un racconto contro-egemonico della propria storia e dei propri luoghi, o, al contrario, sia solo l’ennesimo processo di nazionalizzazione e mercificazione in grado di macinare tutto, anche la guerra cafona del Sud, è una questione che meriterebbe una riflessione più attenta e, soprattutto, diversificata.

WM2: All’opposto dell’Appennino meridionale, stanno invece le Alpi, i sacri confini della Patria, marginali eppure centrali per la sua difesa e la sua storia, luogo di eroiche battaglie e di mille monumenti, cippi, memoriali. Le Alpi hanno modellato la Grande Guerra e i suoi soldati, e allo stesso tempo i soldati e la guerra hanno modellato le Alpi. Soprattutto, quella guerra ha cambiato la percezione sociale del montanaro: da individuo burbero, che nell’adattarsi all’ambiente selvatico si disadatta a quello civile, a eroe combattente, alpino, uomo nuovo che sa dominare un ambiente ostile. Una retorica che troverà il suo uso politico durante il fascismo.

M.A.: Si, è proprio così. Se l’Appennino sembra il luogo della ribellione e dei ribelli, le Alpi hanno invece incarnato lo spazio della nazione in armi e del soldato. Pochi ricordano che la Grande Guerra in Italia è stata soprattutto guerra di montagna, combattuta sulle Alpi. Il rapporto tra guerra e natura mi ha sempre molto affascinato. Sarà che quando mi chiedono cosa è la storia ambientale, tutti si aspettano che sia qualcosa che abbia a che fare con quello che si ritiene essere “natura”. Insomma, che uno storico ambientale si occupi di parchi nazionali, di inquinamento e di caccia va bene, ma se si occupa di guerre mondiali, nation-state building e fascismo, allora c’è qualcosa che non va. L’idea di fondo è che la storia, quella vera, importante, è un’altra; al massimo alla storia ambientale si può dedicare una di quelle finestre che si vedono sui libri di testo e che nessuno legge. Una roba marginale e, soprattutto, separata. Invece, io credo che la natura sia mischiata a tutte queste cose; non si tratta di cercare una specie di fondale immobile sul quale si svolgono le storie ufficiali, quelle importanti; la natura del mio libro non è né solo una costruzione culturale né solo ecologia. È un ibrido. L’esempio della Grande Guerra, secondo me, funziona molto bene per illustrare questo approccio. Nel libro provo a raccontare come uno spazio geografico diventi uno spazio narrativo e storico al tempo stesso; la guerra nazionalizza le Alpi, le politicizza, trasforma i montanari in alpini, rompendo la tradizione romantica della montagna ribelle. Al contrario, in questa nuova narrativa la montagna insegna l’obbedienza, la gerarchia e la rassegnazione. Tuttavia, la guerra non trasforma solo l’immaginario delle Alpi, ma anche le montagne in carne e roccia; nel libro racconto delle mine che sfigurano pareti e picchi alpini, della foreste distrutte dalle bombe e poi dagli insetti che si inseriscono nel ecologia post bellica e ne traggono vantaggio, delle teleferiche, mulattiere, e altre infrastrutture che arrivate lì con la guerra, ci rimangono per sempre; e poi cosa sono il rosario di sacrari alpini e monumenti ai caduti che vanno a ridisegnare il paesaggio alpino, iscrivendo per sempre la memoria della guerra dentro quel territorio?

Sburàn!WM2: A proposito di fascismo: nel libro tu illustri molto bene la retorica del Regime intorno alle montagne. Una retorica ambivalente, perché da una parte il montanaro è visto come alternativa virtuosa al cittadino pigro e poco prolifico, dall’altra però è anche colui che con la sua ignoranza (e le sue capre) rischia di mandare in rovina le montagne stesse. L’alpinismo diventa palestra di ardimento e doti guerriere, ma questo non ha nulla di intrinsecamente fascista: anche diverse associazioni di lavoratori videro nella montagna un luogo dove forgiare i muscoli e il carattere. D’altra parte, i monti vengono anche inquadrati in un’ottica da Strapaese, – come luoghi di pace, armonia, vita sana – non molto diversamente da quel che si sente dire oggi, a mezza via tra Decrescita e Slow Food. Come sempre il fascismo pescò elementi retorici di varia derivazione per ottenerne un mix peculiare. Cosa c’era, secondo te, di esplicitamente fascista, nella retorica fascista sulle montagne e i montanari?

M.A.: Come dici tu stesso, il fascismo ha una grande capacità digestiva, metabolica: assorbe molto dell’Italia prefascista e la rielabora. Questo avviene anche sul fronte delle culture e delle politiche ambientali e, più specificamente per quel che attiene alle montagne. Ad esempio, il culto dei caduti della Grande Guerra non è certo una istituzione fascista, ma il fascismo se ne appropria in maniera profonda; la festa degli alberi, invenzione americana importata in Italia già in epoca liberale, diviene una festa fascista, con Arnaldo Mussolini prima grande cerimoniere e poi, dopo morto, celebrato come nume tutelare delle “foreste italiche”; e, infine, la madre di tutte le narrative fasciste sulla natura, l’idea della Bonifica integrale, non è certo una idea nuova nella penisola, anche se il regime riesce a trasformarla in qualcosa di suo, esclusivo, con la bonifica delle Paludi Pontine che diventa l’emblema della nuova redenzione della terra. In tutte queste esperienze di fagocitazione, digestione e metabolizzazione mi sembra che ci sia un tratto comune: l’imposizione di un unico modello, di un’unica prassi, di un’unica narrativa, come nel caso dei sacrari di guerra, che vanno regolamentati e uniformati secondo regole fissate dal centro, ma anche come avviene con la festa degli alberi, che diviene una celebrazione del regime e dell’impero (piantare i boschi dell’impero sarà uno degli slogan di queste cerimonie). Lo stesso avviene con le scelte in materia forestale, con la militarizzazione del Corpo Forestale e del suo carattere repressivo, e ancora una volta con l’imposizione di norme uniformi e identiche a tutte le latitudini, come quelle sulle capre, a prescindere dalle differenze ambientali o culturali. Tuttavia, uniformare e regolamentare non sono neppure queste caratteristiche proprie solo del regime fascista; come spiega bene James Scott, scienziato politico esperto di resistenze contadine, queste sono le caratteristiche tipiche di ogni progetto modernista di costruzione statale, che mira, appunto, a semplificare, a trasformare la complessità in qualcosa di facilmente leggibile. Credo che con il fascismo quello che avviene sia da una parte la possibilità concreta di realizzare questo progetto di semplificazione e uniformazione grazie al forte indebolimento del corpo sociale sottoposto ad un cospicuo trattamento autoritario/repressivo (quello che non era stato possibile realizzare nei regimi liberali diventa possibile nell’Italia compressa tra olio di ricino e moschetto). In più aggiungerei che il fascismo mischia insieme il discorso sulla natura e quello sulla razza; e lo fa, ovviamente, quando impone l’arianizzazione del Club Alpino, ad esempio, espellendo i soci ebrei dall’associazione, ma lo fa anche quando indica i montanari come i custodi della vera razza italica, perché immuni da ibridazioni, oppure quando propone il rurale italiano come modello o l’alpinismo come palestra dello spirito. Hai ragione, anche associazioni operaie e socialiste avevano proposto l’alpinismo come attività ricreativa contro l’ozio e le osterie, ma con il fascismo si inizia a parlare dell’animo; gente come Julius Evola parla dell’andare in montagna come strumento per plasmare il nuovo italiano, nel corpo e nello spirito. Nel libro ho provato a ricostruire queste retoriche e a metterle in relazione con le pratiche e le politiche: esce fuori una immagine fortemente contraddittoria di un regime che mentre celebra il montanaro, lo chiude nel “ghetto montano”, proibisce l’emigrazione, da le sue terre e i suoi pascoli alle compagnie idroelettriche, gli toglie le capre e lo spedisce al fronte o a morire nella bonifica.

WM2: Con la Resistenza, le montagne diventano un sinonimo di “scelta”. “Sono andato in montagna”, nel racconto dei partigiani, non ha tanto una connotazione geografica, significa piuttosto “ho imbracciato il fucile, mi sono ribellato”. Tu sostieni, alla fine del libro, che le montagne sono sparite dalla storia nazionale recente e sempre più vengono dimenticate nella commemorazione del passato. Pensi che ci sia un legame tra questo loro dissolversi e il ruolo marginale che la Resistenza, con la sua epica montanara, occupa ormai nella memoria nazionale?

Tina Merlin

Tina Merlin

M.A.: Forse ho sbagliato a parlare di una sparizione della montagna dall’Italia contemporanea. In realtà la montagna si è prima dissolta nel dopoguerra e negli anni del “miracolo” con l’ultima grande ondata migratoria che ha definitivamente svuotato il ghetto montano, trasformando la dorsale appenninica in una miriade di villaggi fantasma; ma poi anche la montagna è stata inglobata nella mercificazione globale di memorie, territori e risorse. Le settimane bianche, le seconde case nei condomini accessibili al ceto medio, piste per tutti e una monocultura turistica che tiene aperte le montagne giusto per le ferie, come un grande parco a tema. Insomma gli/le italian* hanno creduto, forse, di conoscere la montagna di più negli ultimi anni, perché ancora una volta la hanno presa, addomesticata, senza conoscerla. Non è un caso che questa conquista della montagna è andata di pari passo con due fenomeni: da una parte la dissoluzione materiale, direi geologica, della montagna italiana, sottoposta ad un estensivo dissesto idrogeologico (effetto della congiunta conquista della montagna e della definitiva fine della agenzia di controllo e manutenzione delle comunità locali), dall’altra la rimozione della memoria della montagna ribelle – e più in generale di ogni memoria resistente – che male si sposava con la banalizzazione delle sagre paesane e della folclorizzazione museale della “civiltà contadina”. Certo fa impressione che la storia del Vajont, “genocidio dei poveri” come lo ha definito l’avvocato di parte civile Sandro Canestrini, sia rimasta praticamente assente dalla nostra memoria collettiva, almeno fino allo spettacolo teatrale di Marco Paolini. Un autore/attore di teatro e non uno storico hanno restituito quella storia alla memoria collettiva. E comunque, ancora oggi, una donna come Tina Merlin non è parte integrante del panteon delle culture ambientaliste italiane, a segnare con drammaticità l’assenza in Italia di una forte tradizione di giustizia ambientale, in grado di coniugare lotte sociali e lotte ecologiche. Perché la storia del Vajont non è solo storia dello strapotere di una grande impresa idroelettrica e dei crimini commessi in nome del profitto e della modernizzazione; è anche una storia di saperi e pratiche resistenti. Eppure la memoria resiste. Resiste in Val di Susa dove chi si oppone alla TAV non a caso riscopre/reinventa la storia di una valle resistente, collegandosi a memorie iscritte nel paesaggio e nella capacità di leggerlo e attraversarlo. Penso qui a quando i comitati locali sono riusciti ad aggirare la militarizzazione della valle percorrendo i sentieri dei partigiani ma pure alle iniziative che esplicitamente mirano a ricongiungere la resistenza presente e quella passata, come il Valsusa Filmfest dedicato ai partigiani oppure l’archivio delle resistenza promosso dal comitato Spinta dal Bass. Che la memoria è uno strumento potente lo sa bene chi in questi anni a lavorato per distruggerla, per equiparare i repubblichini ai partigiani, per normalizzare i libri di testo di storia nelle scuole, per annullare anche solo l’esistenza di passati alternativi in modo da celebrare la fine della storia. Per uccidere la speranza di futuri diversi hanno provato a cancellare anche i passati alternativi. Come dice Naomi Klein in apertura del documentario ispirato al suo Shock Doctrine:

«Uno shock non è solo quando ci accade qualcosa di brutto, ma anche quando perdiamo le nostre storie, la nostra narrativa, quando siamo disorientati. Quello che ci da orientamento e ci fa stare lontani da uno stato di shock è la nostra storia.»

Se il mio libro fosse riuscito almeno un po’ a contribuire a questa memoria resistente, allora sarebbe per me un buon risultato. Una casa editrice italiana che lo ha valutato per la traduzione ha detto che era asistematico e scritto in maniera poco accademica; che sia un buon segno?

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

59 commenti su “Un Paese accidentato, le sue montagne. Wu Ming 2 intervista Marco Armiero

  1. a proposito della grande guerra, se capitate su nel far-north-east, fate un salto in slovenia al museo della guerra di kobarid (la famigerata caporetto, karfreit in tedesco). e’ molto interessante, perche’ in quel museo non c’e’ spazio per la retorica. al contrario: tutto il museo e’ pensato per mostrare la... → [Continua a leggere]
  2. Voglio solo ricordare che la storia del cimitero di Fortogna è raccontata in un bellissimo libro di Lucia Vastano ,Vajont, l’onda lunga. Quarantacinque anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica (2008).

  3. @Tuco:la prima volta che sono stata in montagna, io venuta dalla palude, è stato sul carso (ma non ricordo esattamente dove). avevo dieci anni, e non sapevo niente di montagna né di storia. ma poi ho visto quelle distese infinite di frammenti di gavette e lattine, di polvere di sacchi... → [Continua a leggere]
  4. Bellissima intervista, e ora con un po’ di sforzo ci si procura il libro.Notavo soprattutto il rapporto dialettico fra guerra e montagna. Mi vien da pensare che in alcune valli la guerra non è finita, e.g., in Val di Cembra (Trentino). Dove si cava il porfido le bombe non hanno... → [Continua a leggere]
  5. @dzzzquando avevo 16 anni, negli anni ottanta, io e alcuni amici in vena di cazzate ogni tanto andavamo in carso o sul collio a cercare bombe a mano inesplose e poi le facevamo saltare sul greto del fiume. dopo i temporali, nelle vigne si trovavano ancora ossa di soldati con... → [Continua a leggere]
  6. @Tuco:grazie per i racconti, in particolare per quello di tua nonna, che mi ha dato i brividi. a leggerlo mi sono ricordata di un’immagine, che era legata a parole che non ricordavo, e che poi sono riemerse: sono quelle di ‘le dormeur du val’, un sonetto di rimbaud sull’incontro con... → [Continua a leggere]
  7. @ippogrifo, e riguardo al post in generale:un altro esempio sono forse le cave delle apuane, colle loro “vie di lizza”. qui una descrizione (molto patetica) di cos’erano e come funzionavano: http://www.apuane2007.it/italiano/marmo/lizzatura.phpe qui un richiamo alla necessità di trovare un equilibrio sensato (“situato”) fra “uso” della montagna e “conservazione del patrimonio”... → [Continua a leggere]
  8. L’esempio della maestra di Tuco è proprio un “caso di scuola” per capire come i cittadini trasformano l’ambiente in paesaggio nazionale, e questo a sua volta retroagisce sui cittadini stessi, stabilendo “pratiche sociali” del guardare il territorio. Il sommaco rosso, i muretti bianchi e i pini verdi del Carso vengono... → [Continua a leggere]
  9. @ wu ming2:certo! non intendevo mica fare l’apologia delle cave! :) è da quando le conosco che ne sento smadonnare… tu scrivi: “Eppure il marmo di Carrara … continua a farla da padrone nell’immaginario e in qualche modo a giustificare lo scempio ambientale dovuto a un’iperproduzione devastante. Un altro esempio... → [Continua a leggere]
  10. @dzzz Il tuo commento era chiaro, la mia voleva essere solo un’aggiunta, per dire come una narrazione può avere un effetto concretissimo sul territorio. Distruggono le Apuane? Che ci vuoi fare, il pregiatissimo marmo di Carrara si trova solo lì, e sono secoli che lo estraggono, fa parte della storia... → [Continua a leggere]
  11. Ciao a tutti, un intervista molto interessante; mi permetto di porre alla vostra attenzione un elemento che definire “inquietante” è un disfemismo bello e buono: http://corrierealpi.gelocal.it/cronaca/2011/02/12/news/centrale-vajont-i-comuni-firmano-l-accordo-inizia-l-iter-del-progetto-1.929665 Credo sia emblematico per capire il presente in cui viviamo; di come ormai non vi sia morale, principio o Ricordo che non possa essere... → [Continua a leggere]
  12. torno ora. dopo tutto mi dicevo comunque che il mio discorso forse non era chiaro. nel mio esempio erano “le vie di lizza” il paesaggio montano “naturale” eventualmente da preservare (ma non da musealizzare): “naturale” proprio in quanto “paesaggio”, cioé una sistemazione del territorio che ormai è percepita come a... → [Continua a leggere]
  13. Mi fa sempre uno strano effetto leggere le parole di Bocca e scoprirvi la forte risonanza con quelle con cui Montanelli e Buzzati, nei giorni successivi all’eccidio, liquidarono lo stesso come la tragica cronaca di un sasso finito in uno smisurato bicchiere, con l’acqua rovesciata sulla tovaglia con le millenovecentodiciassette... → [Continua a leggere]
  14. @mattpumpkin “Ragionando su quanto dice giustamente Armiero a tal proposito, sembra quasi che il lavoro sporco sia stato fatto dopo l’eccidio, *nei confronti proprio della possibile memoria di quelle pratiche resistenti*, di quell’unica possibilità di riappropriarsi della montagna come senso della propria esistenza, se non come territorio.”Andando sempre d’analogie, ho... → [Continua a leggere]
  15. Da oggi, come in molti altri blog, su Giap sarà possibile “ramificare” i commenti, ovvero rispondere a un commento specifico usando il tasto azzurro “Reply” nella relativa finestrella, senza bisogno di premettere a chi sia indirizzata la replica. In parole povere, non occorre scrivere “@ mattpumpkin”, “@ Wu Ming 1”... → [Continua a leggere]
  16. Mi interessa molto il discorso sul brigantaggio meridionale, sulla sua repressione ad opera dello stato italiano unitario, e sulla sua successiva rimozione dalla memoria collettiva. Anni fa, sul vecchio sito, WM1 recensì un romanzo di Luigi Guarnieri che affrontava la questione:http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/nandropausa14.htm#guarnieriE’ esatto quanto dice Armiero nell’intervista: c’è in corso da... → [Continua a leggere]
  17. Volevo soffermarmi sul potere dell’immagine: la foto con cui si apre questa intervista, i tre alpini sulla cresta del monte, rappresenta tutto ciò che la prima guerra mondiale non è stata. Non le trincee, non il fango, le malattie, le migliaia di cadaveri nelle terre di nessuno, non i pidocchi... → [Continua a leggere]
    • La foto d’apertura è quella che compare sulla copertina del libro. L’autore, in un paragrafo specifico, si sofferma proprio su quella che chiama “narrativa bucolica” della Grande Guerra, dove le montagne diventano la scusa per ingentilire la descrizione delle trincee e della morte “in batteria”. “Oh pacifico cittadino – scrive... → [Continua a leggere]
    • Si come ha ricordato Wu Ming2, nel libro provo a raccontare di questa retorica eroica della “guerra bianca”: la guerra come sfida alla montagna, eroi e atleti invece dei fanti delle trincee. Le copertine della Domenica del Corriere sono esemplari di questo tipo di discorso (specie quelle di Achille Beltrame).... → [Continua a leggere]
      • “Cosa invece pensassero i montanari della guerra ad alta quota […] è ovviamente un’altra storia”, e aggiungo io che è la storia che voglio sentire raccontare e che mi ha incuriosito. In un certo senso è la storia che è rimasta fuori dalla narrazione raccontata dalla foto in copertina, o... → [Continua a leggere]
  18. Sto leggendo “Beni Comuni” di Ugo Mattei mentre esce questo post nel quale, tra l’altro, si parla dei montanari, degli “indigeni”, visti come ignoranti e selvaggi. Riporto qualche passo: “…che lo si voglia vedere come un aspetto negativo (Locke) o come un aspetto positivo (Rousseau) il selvaggio non conosce la... → [Continua a leggere]
  19. Speriamo davvero che venga presto pubblicato in Italia. Abbiamo assoluto bisogno di narrazioni contro egemoniche, che possano essere una guida “emotiva” per tutte le vertenze ambientali in giro per la penisola. Scrivo da Taranto e, schematizzando in maniera brutale, ciò che più manca alle mobilitazioni nel mio contesto sociale è... → [Continua a leggere]
    • Sono assolutamente d’accordo. Mi so occupando da un po’ di lotte per la giustizia ambientale in Campania e sto costruendo un archivio sulla conflittualità ecologica che raccoglie le storie degli/lle attivist* che si battono contro la logica emergenziale. Da poco abbiamo costruito un sito web artigianale dedicato alle ricerche su... → [Continua a leggere]
      • Il lavoro è interessantissimo, Non solo per la materia in oggetto, e per il modo di trattarla. Ma anche come metodo di ricerca, aperto e disponibile. Anche il mondo dell’ambientalismo, ahinoi, vive – ad ogni latitudine – di protagonismi, invidie, personalismi. Ancor di più per il fatto di risultare materia... → [Continua a leggere]
  20. @VecioBaeordoVolevo solo aggiungere, per confermare, che la stessa sorte delle montagne del cuneese sta toccando a zone collinari-montuose delle mia parte (Marche del sud), dai monti della laga ai sibillini e immagino in tante altre zone. Territori una volta condivisi tra natura e uomo e ora lasciati a se stessi... → [Continua a leggere]
  21. Segnalo qui un libro – Montagne Tristi – che è la sintesi di una riflessione/ricerca sociologica sulle montagne, o meglio sugli abitanti contemporanei delle Alpi. E’ una riflessione a mio parere importante perché prova a mettere in connessione i discorsi sull’invenzione delle montagne, in particolare delle Alpi, con le condizioni... → [Continua a leggere]
    • Segnalazione molto importante! Da correggere solo la piccola svista sul titolo, che è “Tristi montagne”.
      Diversi estratti del libro si possono leggere su Nazione Indiana:
      http://www.nazioneindiana.com/2010/06/14/tristi-montagne-guida-ai-malesseri-alpini/

      • Mi scuso della svista, perché di svista trattasi ma “pesante”: il titolo “Tristi Montagne” infatti è un rimando esplicito al testo ben più noto “Tristi Tropici” di Claude Lévi-Strauss. Ad apertura del “Capitolo V – Ovvero tristi montagne” Arnoldi, tra l’altro, riporta la seguente citazione di Michel Leiris riferita proprio... → [Continua a leggere]
      • Finalmente è disponibile, per chi fosse interessato, la registrazione audio della presentazione di Tristi Montagne che si è tenuta un mesetto fa a Pisogne (Brescia) in presenza dell’autore Christian Arnoldi.

        La potete trovare qui: http://vallecamonica.radiondadurto.org/

    • Cerco subito il libro, grazie per la segnalazione. Segnalo a mia volta un testo molto utile, oltre che molto leggibile, che rappresenta l’altra faccia della medaglia: il racconto dell'”invenzione” delle montagne (a prescindere da chi ci viveva). “Come le montagne conquistarono gli uomini”, Robert MacFarlane (titolo originale, migliore: “Mountains Of... → [Continua a leggere]
    • In vena di segnalazioni, per chi e’ appassionato di storia della montagna e soprattutto del nesso tra l’invenzione culturale della montagna e la sua dimensione materiale, direi che una lettura importante sia Mountain Gloom and Mountain Glory. The Development of the Aesthetics of the Infinite di MARJORIE HOPE NICOLSON.... → [Continua a leggere]
  22. Grazie a intervistatore e intervistato per il pezzo. Fra i molto spunti offerti, provo a coglierne uno in particolare che è emerso in due o tre commenti e che, anche per deformazione professionale, mi interessa particolarmente: la giustizia ambientale.Tema molto poco conosciuto e dibattuto in Italia, dove, per tradizioni, la... → [Continua a leggere]
    • Grazie a Bocio per aver citato questo volume di Martinez Alier di cui ho curato l’edizione italiana. Sono assolutamente d’accordo con lui quando dice che qualcosa sta cambiando con le lotte recenti in Italia. E credo anche che bisognerebbe ristudiare il rapporto tra conflitto sociale e conflitto ambientale. E’ chiaro... → [Continua a leggere]
  23. A proposito del Vajont, gravissimo atto di censura, intimidazione, attentato alla memoria:
    http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/02/17/15560/

  24. Pazzesco. La foto della lapide nel cimitero di Fortogna, inserita nel post, l’ho presa proprio dal sito censurato, vajont.info, una vera miniera di informazioni sulla strage. Da quel che ho capito, l’autore ha già subito anche in passato provvedimenti del genere, ma nessuno in maniera definitiva.

  25. Con un proxy dovrebbe essere possibile raggiungere il sito sul Vajont censurato http://bit.ly/AzjzEz

    Il sito è stato censurato ordinando agli ISP italiani di renderlo irraggiungibile, quindi teoricamente dovrebbe esserlo ancora dall’estero. (Siamo messi peggio che l’Iran.)

    • Sì, confermo, dall’estero è raggiungibile

      • anche da qui.
        segue domanda technodummy: ma esiste un modo per rigirare almeno il contenuto del sito verso altri accessibili anche in italia?
        intendo, almeno le singole pagine, se non la navigabilità. e se si’, c’è modo di ‘riaggiornarle’ periodicamente in maniera facile?

  26. Il sito in questione era (usare il passato e’ allucinante) una miniera di informazioni, un archivio prezioso, e se a questo aggiungete che Tiziano Dal Farra lo faceva da volontario, senza nessun sostegno, anzi pagando di tasca sua con una continua persecuzione, bene la cosa e’ davvero odiosa. Devo... → [Continua a leggere]
  27. Come suol dirsi in questi casi: “Tango down”. Anonymous occupa il sito di Paniz:
    http://www.mauriziopaniz.it/public/
    #OccupyPaniz

  28. Due parole sul caso Paniz/Vajont:il comunicato di Anonymous riporta la versione corrente in rete a partire da ieri sera, secondo cui la frase incriminata sarebbe quella della montagna (di merda) e di Paniz e Scilipoti “guide alpine”.Certamente è la frase più pittoresca, tuttavia, come riportato nei dettagli in un commento... → [Continua a leggere]
    • Anche quello che afferma l’avvocato è inesatto, mi permetto di osservare.
      La magistratura si è già esibita in castronerie analoghe; qui trovate un elenco, per altro non esaustivo, di interventi tecnicamente analoghi ordinati dallo zelota di turno:

      http://blog.bofh.it/id_419

  29. Aggiungo che con questa mossa non si è oscurato soltanto vajont.info. Il giudice ha costretto i provider a bloccare l’accesso all’IP virtuale, con questo bel risultato:«L’ordinanza del GIP ha infatti costretto il provider GoDaddy, così come i principali provider italiani, a bloccare l’accesso all’indirizzo IP cui fa riferimento il dominio... → [Continua a leggere]
    • Quoto in pieno WuMing1. Soprattutto ribadendo che più che l’azione di Paniz, su cui molti internauti sembrano concentrarsi sull’onda di un effetto Streisand già in atto, a sconcertare è la scelta del Gip di Belluno (città natale di Paniz, in cui ha lavorato come coordinatore provinciale per il Pdl e... → [Continua a leggere]
    • E’ desolante constatare come i giornalisti non capiscano un’acca. IP virtuale in quel contesto non significa nulla, è un virtual host, semmai, ovvero su uno stesso indirizzo IP rispondono decine e decine di siti web. Per altro, GoDaddy non ha fatto proprio nulla, sono stati i provider italiani ad impedire... → [Continua a leggere]
      • E’ giusto essere precisi, hai fatto bene a intervenire. Detto ciò, a parte la descrizione tagliata con l’accetta e l’imprecisione tecnica, in soldoni è successo quel che dice l’articolo: è stato inibito l’accesso a una grande quantità di siti. Un atto stupido ancor prima che autoritario, che avrà un effetto-boomerang... → [Continua a leggere]
  30. Mi rendo conto che magari possa sembrare specioso, ma il mio intervento precedente non lo è. L’effetto finale è sicuramente quello di interdire l’accesso a molti siti, ma le modalità sono importanti. Un magistrato avrebbe il dovere di comprendere fino in fondo le implicazioni di un proprio atto. l’insipienza tecnica... → [Continua a leggere]
  31. Tanto per completare la discussione su vajont e dintorni. Ecco il monumento alle vittime di Fortogna pic.twitter.com/pkk5LlSN

  32. […] Ho ritrovato una bella intervista a Marco Armiero, storico dell’ambiente, autore di A Rugged Nation. Mountains and the Making of Modern Italy: 19th and 20th Century: “un libro sull’Italia, sul ruolo che hanno avuto le montagne nel suo divenire nazione”. Potete leggerla qui: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=7008 […]

  33. Domenica 30 settembre h.18 all’XM24 di Bologna, Marco Armiero presenta il suo libro “A Rugged Nation” insieme a WM2, Santo Peli, Patrizia Dogliani e altri.
    http://www.casoesse.org/2012/09/23/presentazione-a-rugged-nation/

  34. #montagna Audio della presentazione bolognese di “A Rugged Nation”, con l’autore Marco Armiero, Patrizia Dogliani, WM2, Santo Peli, WM1 e Il Caso S., 30/09/2012
    http://www.casoesse.org/2012/10/18/presentazione-a-rugged-nation-podcast-audio/

  35. […]  Un paese accidentato, le sue montagne – Intervista a Marco Armiero Note    (↵ returns to text) […]