Noblesse Oblige: immagini di classe in Tolkien

Sul sito dell’Associazione Romana Studi Tolkieniani trovate il testo tradotto di una conferenza di Tom Shippey – tenuta in Olanda quasi vent’anni fa – nel quale l’autore passa in rassegna la rappresentazione delle classi sociali nella Terra di Mezzo. Benché si tratti di un intervento d’occasione, l’importanza della riflessione di Shippey è duplice.

Innanzi tutto dà indirettamente conto di quali articolazioni abbia il dibattito “ideologico” su Tolkien a casa sua, cioè nel mondo anglofono (anni luce distante da quello che si è sviluppato in Italia). In sostanza Shippey ribatte all’accusa che lo scrittore inglese Michael Moorcock muove al collega Tolkien di essere uno scrittore “borghese”, difensore dei valori della middle class britannica e di una favoleggiata Merrie England, che sarebbero rispecchiati dalla società degli Hobbit. Accusa alla quale uno studioso come Shippey risponde con una disamina linguistica, in pieno stile tolkieniano. In sostanza lo studioso inglese sostiene che nella narrativa di Tolkien i valori borghesi sono senz’altro centrali, ma sono ben lungi dall’essere acriticamente esaltati. Al contrario sono continuamente messi alla prova e indagati. Lo stesso, per altro, accade per quanto riguarda i valori aristocratici.

Tom Shippey

In secondo luogo, seguendo il percorso proposto da Shippey ci si rende conto di quanti e quali punti di contatto l’opera di Tolkien – troppo spesso considerata come una sorta di unicum a sé stante – abbia con la letteratura moderna e contemporanea, oltre che con quella medievale. Quando si leggono certe dozzinali presentazioni italiane di Tolkien come di un autore totalmente rivolto al passato, che avrebbe avuto in odio la letteratura posteriore a Chaucer, ispirato esclusivamente dalle saghe medievali, etc. bisognerebbe ricordare che uno degli scrittori da cui trasse maggiore ispirazione fu William Morris. E magari anche che nel documentario televisivo girato cinque anni prima di morire, Tolkien in Oxford (1968), Tolkien spiega la chiave (keyspring) del Signore degli Anelli citando un passo di Simone de Beauvoir (qui, al minuto 3.16, per chi riesce a capire l’inglese biascicato del professore).
Detto questo, dal momento che si tratta dell’articolo di un filologo, il consiglio è di non lasciarsi spaventare dalle citazioni in lingue nordiche che Shippey ogni tanto inserisce… Il senso del discorso si capisce lo stesso, anche senza conoscere l’islandese e il norvegese. L’apparato di note ha dovuto essere ampliato, giacché, come si sa, la traduzione italiana del Signore degli Anelli fa acqua da tutte le parti e spesso si sono dovuti tappare i buchi.
Dunque, a chi avrà voglia, buona lettura. Per quanto riguarda gli eventuali commenti… di là o di qua, come preferite.

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18 commenti su “Noblesse Oblige: immagini di classe in Tolkien

  1. Perché fare accuse del genere ad uno scrittore che ha dato vita ad un opera, o meglio ad una serie di opere, che tutto fanno fuorchè esaltare la “middle class”? Credo sia palese che, per quanto gli scritti di Tolkien siano frutto della sua esperienza di vita, non hanno nessun fine “politico”. Come se io mi rifiutassi di leggere e studiare Dante per le sue idee sociali o politiche, che pur si evincono da quanto scrive (non so se ho fatto un esempio sensato!).

    Seconda domanda OT a Wu Ming 4: è una cutiosità personale questa, esiste un vocabolario della lingua elfica creata da Tolkien, o qualcosa di “ufficiale” che gli si avvicini?

    • Sulla prima osservazione dico che benché nelle sue opere Tolkien non “esalti” la middle class, è innegabile che al centro dei suoi due romanzi si collochino gli hobbit, le creature più “borghesi” e più moderne del suo universo narrativo. Ed è proprio questo che facilita l’immedesimazione di noi lettori con loro. Sono assolutamente convinto che senza hobbit la Terra di Mezzo non avrebbe esercitato lo stesso fascino.

      Sulla seconda osservazione, posso dirti che un vocabolario ufficiale non credo esista, se non altro perché Tolkien non ha mai sistematizzato le sue lingue. Tuttavia esistono ricostruzioni fatte da altri mettendo assieme tutto l’elfico che Tolkien ha lasciato a nostra disposizione. Io qui ho E.J. Kloczko, “Lingue Elfiche – dizionario, grammatica, storia del Quenya”, Tre Editori, 2002.

  2. Pur essendo molto distanti sia sul piano letterario che ideologico, Moorcock e Tolkien sono entrambi fra i miei autori preferiti.
    Il giudizio di Moorcock su Tolkien non mi trova d’accordo, ma per motivi opposti rispetto a quelli di Tom Shippey.
    “Constato che i valori di Tolkien erano nel complesso quelli del ceto medio […], tuttavia io non credo che la classe o i suoi valori siano in bancarotta morale”, sostiene Shippey nelle conclusioni.
    Io invece penso il contrario. Ritengo cioè che, nonostante Tolkien fosse politicamente un conservatore (anche se sui generis), la sua opera letteraria sia in realtà molto distante dall’orizzonte morale del ceto medio, e si incentri invece su una critica radicale del potere nel mondo contemporaneo, paragonabile a quella espressa da Orwell in “1984”.
    E sono allo stesso tempo convinto che il ceto medio, in Inghilterra come altrove, sia in effetti in bancarotta morale, e non da oggi. La Contea, con tutti i suoi limiti, mi sembra un posto molto più “umano” rispetto al mondo piccolo-borghese che conosco.

    • @ Giacomo
      Nemmeno io sposo in toto le conclusioni di Shippey. E sono piuttosto d’accordo con te. Ma ho anche l’impressione che Shippey e Moorcock non si intendano proprio sul concetto di “bancarotta morale” del ceto medio. Ma questi, come dire, sono problemi loro… Certo è che i valori del ceto medio sono quelli che weberianamente si sono imposti nella modernità occidentale, quella che domina culturalmente il mondo, e quindi bisognerebbe capire, appunto, cosa intendere per “bancarotta”.
      A me però interessa di più il ragionamento su Tolkien, devo essere sincero. Come dici: “La Contea, con tutti i suoi limiti, mi sembra un posto molto più umano rispetto al mondo piccolo-borghese che conosco”. Sì, ma Tolkien mette in relazione la Contea con il resto della Terra di Mezzo, cioè con il passato, con i valori aristocratici e guerrieri, etc. etc. E alla fine è costretto ad ammettere che la Contea può sopravvivere soltanto se chiusa, mantenuta intonsa, sotto una campana di vetro. E’ precisamente quello che decreta Aragorn quando diventa re. Ciò che invece muove la storia e produce gli eventi che portano alla sconfitta di Sauron è proprio il contrasto, l’attrito, l’incontro, tra la visione “borghese/moderna” hobbit e quella “aristocratica/antica” degli altri popoli: in particolare l’innesto degli hobbit nella storia della Terra di Mezzo. Insomma a me pare che in Tolkien – ed è qui che concordo con Shippey – ci sia “una consapevolezza molto più chiara della relatività storica, linguistica e culturale di tutte queste concezioni dell’onore e del rango sociale, di quanto siano cambiate nel corso dei secoli, e di quali alternative la società inglese abbia espresso in una data epoca o nell’altra. Sono queste contraddizioni a essere messe in scena dai contrasti culturali nel Signore degli Anelli.”
      In definitiva non mi pare che nella narrativa di Tolkien vengano sposati alcuni valori di classe a discapito di altri, ma che appunto venga messo in scena il confronto continuo tra essi. E da questo punto di vista – dice sempre Shippey, e mi sembra ancora di poter concordare con lui – la società inglese in cui Tolkien è vissuto era ed è un buon ambiente “tipo”, con il suo miscuglio di modernità e arcaismo.

  3. @ WM4

    Le parole che citi di Shippey a proposito della relatività storica in Tolkien trovano d’accordo anche me, però io sono convinto che nel Signore degli Anelli l’organizzazione sociale di questo o di quel popolo sia per lo più un pretesto, uno sfondo immaginario e fiabesco adeguato alla vicenda di Frodo e a tutto ciò che gli gira intorno, che è il vero centro del romanzo.
    La campagna degli hobbit è idealizzata, così come lo è il suo “medioevo”, e questo proprio perché Tolkien non aveva intenzione di proporre questo e quel modello politico arcaico in contrapposizione alla modernità (come certe letture fascistoidi continuano a sostenere), ma perché quella della Terra-di-Mezzo è l’ambientazione che meglio si presta per raccontare la storia dell’Anello, incentrata sulle questioni generali del dominio, del controllo, e più ancora della morte e dell’immortalità.
    Forse l’unico modello politico presente nel romanzo che trova un evidente legame con la realtà storica è il “socialismo reale/capitalismo di stato” di Sharkey, a cui però l’autore non contrappone nessun ideale politico alternativo, che non sia il mondo “fiabesco” precedente.

    • @ Giacomo

      Per la verità proprio rispetto al modello imposto da Sharkey nella Contea, Tolkien negava i riferimenti allegorici al presente che molti si accanivano a rintracciare. Ma questo non è così importante, dato che in definitiva uno scrittore prende sempre spunto da ciò che vede intorno a sé e da ciò che studia.
      Non sono sicuro quanto te che le società della Terra di Mezzo siano soltanto pretesti, meri sfondi fiabeschi per ambientare la storia di Frodo e dell’Anello. Sia chiaro: non penso nemmeno che siano modelli sociali di riferimento, come vorrebbero i lettori “tradizionalisti” o quelli “catto-chestertoniani”. Però è vero che – come dice Shippey – ognuno di quei contesti racconta qualcosa di diverso, ovvero rideclina criticamente le medesime problematiche e dilemmi etici nel proprio sistema valoriale. Da questo punto di vista non è secondario che Rohan si ispiri alla società germanica dell’Alto Medioevo e Gondor a quella feudale del Basso Medioevo. Così come la Contea prende elementi dall’età moderna pre-industriale. Torno a ripetere, a scanso di equivoci: nessuna di queste ambientazioni va letta come storica (giustamente Shippey fa notare che nell’eddica Rohan non compare la classe servile, nella Contea non governa nessuno, a Gondor c’è la nobiltà ma non la monarchia), ma ciascuna di esse ha un sistema di classe e un corrispettivo sistema valoriale che non è affatto immaginario, bensì desunto dall’ambito di studi di Tolkien e – secondo l’ipotesi di Shippey – dalla sua stessa appartenenza di classe.
      Un esempio: ci sono almeno due personaggi nel SdA che stridono quanto gli hobbit con il contesto valoriale nel quale si trovano, e appartengono entrambi alla razza umana, cioè Faramir ed Eowyn.
      Tanto il portato critico di Faramir rispetto ai valori eroico-aristocratici che reggono la società di Gondor, quanto quello di Eowyn sulla questione di genere nella società “germanica” di Rohan, sono importanti proprio perché non vengono dall’esterno, non si producono per contrasto, ma nascono da contraddizioni interne. Mostrare le contraddizioni interne a quei sistemi valoriali e sociali è una cosa che secondo me trascende l’aspetto fiabesco dell’ambientazione.
      Ad esempio è interessante notare come siano i figli cadetti a ereditare il potere alla fine della guerra, e non i primogeniti designati e cresciuti con quella aspettativa in base alla legge feudale. Questo vale tanto per Faramir quanto per Eomer. E si potrebbe fare una riflessione analoga per i concetti borghesi di “rispettabilità” e di “gentilhobbit”, che in realtà proprio personaggi come Bilbo, Frodo e Sam mettono in crisi.
      Insomma, io credo che nelle opere di Tolkien una riflessione più o meno implicita sui modelli etico-sociali ci sia. Solo che non è una riflessione propriamente politica, perché la Terra di Mezzo non è un’allegoria. E per fortuna.

  4. Io penso che le rappresentazioni sociali, più o meno marcate, fanno sentire i lettori a proprio “agio” nel mondo virtuale. Già cozzare con regole magiche, nomi improponibili e abitudini bizzarre impegni molto, aggiungere all’ordito confusione sull’ordine sociale eqivarrebbe ad una destabilizzazione troppo marcata e forse l’opera non avrebbe avuto la sua attuale diffusione. Io ho notato molto nel signore degli anelli una caratteristica comune con Orwell, l’assoluta mancanza di speranza, senza speranze 1984 e senza speranze chiunque abbia avuto a che fare con l’anello, sicuramente legati in questo dal segno del periodo in cui sono vissuti, fa venire i brividi pensare che forse tutti in quel periodo avevano perso la speranza.

    • @contorni
      Dissento dalla tua affermazione che ne “il Signore degli Anelli” non vi sia speranza.
      Denethor non spera e muore di-sperato; per lui la speranza di Gandalf è solo ignoranza e la vittoria di Sauron certa.

      Al contrario la “missione” di Gandalf è proprio riaccendere la speranza (anche grazie all’anello Narya – l’anello di fuoco).
      A Theoden dice (parafraso) che per lui ha parole di speranza, se vuole udirle, e gli consiglia di “avere fede”.

      Infine guarda Sam. Alla fine, quando si trova in un vulcano in eruzione scosso da terremoti, si rifiuta di di-sperare (forsè perché Samwise cioè saggio solo a metà) e convince Frodo a fare lostesso. Grazie alla sua speranza continuano a camminare e raggiungono una collina di cenere ove poi vengono rinvenuti esanimi dalle aquile.

      Speranza che è (anche) una delle tre virtù teologali

      Buona giornata

      • Certo, infatti ho detto “chiunque abbia avuto a che fare con l’anello”, la gente marcata e senza speranza, a tratti spenta negli occhi. Tolkien rispetto a Orwell ha speranza, ma non per chi ha vissuto lo scempio, ma per gli altri. Quello che mi ha colpito è la sorte a loro riservata, del tipo per chi a visto l’orrore non c’è redenzione, apocalittica!

        • @contorni
          Scusa, avevo capito male.
          Però continuo a non capire. Cosa intendi con “chiunque abbia avuto a che fare con l’anello”? Chi lo ha indossato? Chi gli è stato vicino?

          Sam, Isildur (e Tom Bombadil) non sono disperati quando mettono l’Anello – in effetti su Tom sembra non avere alcun effetto.
          Bilbo riesce a liberarsene e si sente subito meglio.

          Gollum è disperato solo quando lo perde, malgrado lo odii.

          Tra “chi è stato vicino” all’Anello abbiamo Boromir che ne è corrotto (temporaneamente), Gandalf che resiste il desiderio (secondo capitolo, quando Frodo glielo offre) così come Galadriel.
          Elrond, Gimli, Aragorn e Merry (per fare qualche nome) sembrano non sentire minimamente il potere, la tentazione a usare l’Anello.

          Grazie e buona giornata

        • @Norbert
          Intendo la fine di chi ha portato l’anello, Tom Bombadill è una spece di forza della natura non soggetto a leggi proprie del mondo, Sam che lo ha portato per un piccolo tratto, ha una vita felice ma anche lui alla fine di colpo sparisce, Bilbo si allontana dal mondo con gli altri, come se non ci fosse posto per chi è contaminato, chi ha avuto a che fare con l’anello non ha speranza di vita normale, è segnato, e in questo vedo “chi ha vissuto l’orrore” quindi al di là della stretta chiusura di un libro, ci vedo in fatto che gli autori, chi ha visto l’orrore, non vedono speranza, forse la vedono per gli altri, come Tolkien, ma non per se stessi, non per chi ha vissuto quei periodi. L’anello è sostituibile all’orrore, al peggio dentro ognuno che viene fuori, quello che succede nelle guerre. Forse è un po fuori ma è quello che ho pensato dopo aver letto i due autori.
          Ciao, e scusa il ritardo, ma non sono spesso su internet :-)

    • @Contorni
      Secondo me la “caratteristica comune” che dici è proprio quella che differenzia Orwell da Tolkien. Perchè mentre 1984 è del tutto pessimista, vedi la fine del protagonista che in fondo aveva osato “sperare”, Il Signore degli Anelli invece vede trionfare la speranza, l’anello viene distrutto, Sauron sconfitto. Mentre Orwell aveva perso ogni speranza, Tolkien in fondo ci credeva ancora.
      Insomma io la vedo così..

      • @ Filippo
        Mica solo 1984 è pessimista. Pensa anche ad altre opere di Orwell, come Giorni in Birmania, Fiorirà l’Aspidistra, La Fattoria degli Animali… Direi che è un tratto distintivo dell’autore. Concordo sul fatto che in Tolkien il pessimismo è bilanciato dalla speranza (virtù teologale, ci ricorda Norbert), ancorché “senza garanzie”, come ebbe a scrivere il professore.

        • Si in effetti io ho parlato del particolare dei due autori ma è una questione che ben si allaccia anche al generale.

          Personalmente mi rispecchio molto nella speranza di Tolkien, una speranza senza illusioni ma essenziale per “andare avanti”, perchè se credessimo che le cose non cambieranno mai tanto vale restarsene a casa a braccia conserte. In un certo senso questo tipo di Speranza è anche motore del mondo, ovvero degli uomini.

  5. @WM4 “Insomma, io credo che nelle opere di Tolkien una riflessione più o meno implicita sui modelli etico-sociali ci sia. Solo che non è una riflessione propriamente politica, perché la Terra di Mezzo non è un’allegoria. E per fortuna.”

    Invece Moorcock vede proprio un’allegoria nel mondo di Tolkien? Se no come spiegare che uno scrittore affermato come lui possa muovere queste critiche ad un collega, non credo sia gelosia..

    Ps. Grazie per l’informazione sul libro di Kloczko, penso di farlo mio non appena avrò possibilità =)

    • @ Filippo

      Moorcock vede nella narrativa di Tolkien il rimpianto per una fantomatica Merrie England, conservatrice, anti-moderna, socialmente basata su una borghesia rurale. Accomuna Tolkien e Lewis a Grahame, Milne, Nesbit, Adams, etc., e li considera più o meno tutti semplici scrittori per l’infanzia, con una prosa e uno stile poveri, ma soprattutto accomunati da una visione fortemente religiosa e, in prima o ultima istanza, conservatrice e borghese.
      Escluderei trattarsi di invidia, credo che Moorcock sia profondamente convinto di quanto afferma. Del resto questo è il suo stile di giudizio: su Heinlein e Lovecraft ha scritto cose ancora più pesanti, cioè più o meno che i loro romanzi sono propaganda nazista.
      Non ho letto i romanzi di Moorcock, non so come lui agisca narrativamente (per quanto ne so potrebbe anche essere il più grande scrittore del mondo), quindi mi limito a dire che trovo il suo giudizio critico poco accorto. E però in parte lo capisco. O meglio, credo di capire cosa possa implicare essere un autore inglese di fantastico e avere alle spalle quella gente lì, i “padri fondatori”. Immagino possa essere snervante dover fare i conti con autori e autrici che appartengono a un’epoca ormai completamente tramontata, a un’Inghilterra che non solo oggi non esiste più, ma che probabilmente non esisteva già più quando loro scrivevano (o comunque era in via di estinzione) e nondimeno rappresentano ancora un punto di riferimento, una specie di canone.
      Inoltre, almeno su una cosa si fa fatica a non dare ragione a Moorcock: quella letteratura glorificava l’Inghilterra rurale, letteralmente la campagna inglese, le forme di produzione preindustriali, etc.. Era una vera e propria esaltazione di quel paesaggio e di uno stile di vita non urbanizzato. Che si tratti del Vento nei Salici, del Bosco dei Cento Acri, della Contea o della collina dei conigli, non c’è dubbio che le città e l’industrializzazione sono lontanissime e generalmente viste di malocchio. Nel secolo della grande spinta industrializzatrice e urbanizzatrice, proprio in Gran Bretagna – cioè quello tra la metà del XIX e la metà del XX – una serie di autori inglesi si rifugiò in un paesaggio nient’affatto arcaico o naturale, ma antropizzato, costruito nel corso del tempo, e considerato più a misura d’uomo.
      Ora, io non sono un esperto di letteratura inglese, ma ho l’impressione che solo alla luce del movimento culturale e artistico dell’Arts and Crafts è possibile capire quegli autori. Un movimento che coinvolse e influenzò scrittori confessionali e non, conservatori e socialisti, con un atteggiamento rispetto al passato (Medioevo) e alla composizione delle classi forse difficile da cogliere alla nostra longitudine.
      Mi meraviglio che un intellettuale britannico come Moorcock non tenga conto proprio di questa complessità, forzando tutto dentro una lettura manichea.
      Comunque, accanto al famoso saggio di Moorcock Epic Pooh (1978), consiglio di leggere, come contraltare, il saggio di H. Carpenter (già segnalato qui su Giap) Secret Gardens – A Study of the Golden Age of Children Literature (1985).

  6. forse OT ma…
    se la traduzione di Quirino Principe (tra l’altro, noto preside reazionario di scuole milanesi negli anni 70, oltre che traduttore di Tolkien…) fa acqua da tutte le parti, non è che “qualcuno” potrebbe lanciare una wiki-neo-traduzione? come stiamo messi a diritti sull’originale inglese? ed è possibile ritradurre senza che Bompiani possa mettersi di mezzo?

    • @ frost
      Mani legate. L’editore inglese, Harper & Collins, tratta direttamente con l’editore italiano, Bompiani (come dire il Gatto e la Volpe, per capirci…). La traduzione di Alliata di Villafranca, a suo tempo supervisionata da Principe, è stata in parte rivista alcuni anni fa, ma avanzano ancora almeno duecento correzioni non acquisite. In rete si trovano diversi siti che collezionano gli errori di traduzione.
      Aggiungo che la politica di riduzione del danno praticata da alcuni volenterosi appassionati di Tolkien che si sono messi gratuitamente al servizio di Bompiani per segnalare gli errori, secondo me non poteva bastare. La traduzione andrebbe completamente rifatta, non solo emendata. Questo perché, oltre agli errori, c’è un evidente problema di resa dei registri linguistici e di stratificazione lessicale, che nella datatissima traduzione italiana sono andati perduti (la traduttrice era adolescente quando la fece). Personalmente a questo punto credo che sia più facile riuscire a far leggere il romanzo direttamente in inglese che ottenere una ritraduzione.