Abbiamo terminato da pochi giorni l’ultimo passaggio produttivo prima di mandare in stampa Timira, ovvero la copertina definitiva con i vari paratesti. Qui potete scaricare il PDF con il risultato finale, frutto del solito lavoro di squadra.
Abbiamo deciso di modificare la “vecchia” immagine di copertina, perché ci piaceva la composizione con le varie fotografie della protagonista/autrice, ma ci disturbava che fossero tutte virate in seppia, come in un unico stereotipo del passato. In un primo tentativo di affrancarci dal cliché, abbiamo provato a cambiare filtro, ma l’effetto ci è sembrato inutilmente lisergico. Allora ci siamo detti che la copertina doveva rispecchiare l’intento del romanzo, cioè far emergere da un passato uniforme, oleografico e stereotipato, la vicenda di Isabella Marincola. Quindi abbiamo deciso di tenere come sfondo le foto virate in seppia e di filtrare in blu solo quella più grande, in primo piano, per farla spiccare sulle altre con un diverso colore.
Ammetto che il blu è stato scelto per puro e semplice criterio estetico, ma a posteriori mi piace pensare che la storia di Timira si staglia sul passato come una blue note in una scala maggiore, un blues afroitaliano, una rapsodia di sofferenza e di riscatto.
Nella bandella destra (quella sinistra è riservata alle bio degli autori) abbiamo scelto di inserire un elenco di date significative, come già abbiamo fatto per New Thing e Manituana. L’ultima data della lista è molto recente:
«28 febbraio 2012, la corte europea dei diritti umani condanna l’Italia per aver respinto verso la Libia ventiquattro profughi somali ed eritrei intercettati in acque internazionali.»
Naturalmente non si tratta di un evento raccontato nel romanzo, ma di una risonanza con i suoi contenuti: il rapporto del nostro paese con le sue ex-colonie, lo “stato d’eccezione” di profughi e rifugiati, le politiche italiane sull’immigrazione.
Proprio la sera prima di chiudere il lavoro sulla copertina, Antar ed io siamo andati all’anteprima bolognese di Mare chiuso, il documentario che Andrea Segre e Stefano Liberti hanno girato su questa vicenda, con interviste ai profughi che hanno fatto ricorso alla Corte Europea, testimonianze al videofonino del loro viaggio verso le coste italiane, materiali d’archivio, telegiornali, sproloqui di politici del centrodestra. Il film è notevole, ma come al solito farà fatica a girare: ce ne sono in tutto quattro copie e in più dura soltanto un’ora, cioè un formato atipico per le sale cinematografiche. Non resta che sperare nella televisione italiana… Quindi, se vi capita di trovarlo in programmazione dalle vostre parti, precipitatevi a vederlo.
Tra gli intervistati, Segre e Liberti decidono di dare particolare risalto al caso di Semere Kahsay, un profugo eritreo respinto in Libia, fuggito in Tunisia e infine ospitato nel campo UNHCR di Shousha. La moglie di Semere, invece, è partita prima di lui, ha viaggiato incinta verso l’Italia, è riuscita a sbarcare e ha partorito una bimba. Semere, due anni dopo, riesce a ottenere un visto per l’Italia e gli autori decidono di filmare il momento del ricongiungimento familiare: scena molto toccante, dove non puoi fare a meno di emozionarti (specie se hai dei figli), ma allo stesso tempo non puoi fare a meno di pensare a certi format lacrimevoli della tivù nostrana. E con questo non voglio affatto dire che Segre e Liberti abbiano voluto “sfruttare” il dolore di Semere, al contrario è molto evidente quanto ne sono stati coinvolti, e tuttavia la resa cinematografica del momento non mi è sembrata così diversa, di per sé, da certi esempi di tutt’altra lega. La scelta quindi mi ha lasciato un po’ perplesso, ma è l’unico dubbio che mi è rimasto, rispetto a un film che ritengo necessario, importante e coraggioso.
Rispondendo alle domande del pubblico, gli autori hanno spiegato che Semere Kahsay non avrebbe mai ottenuto il permesso di venire in Italia dalla sua famiglia, se non fosse stato per una serie di casualità burocratiche e soprattutto l’interessamento – tramite gli stessi Liberti e Segre – di alcuni parlamentari italiani.
In modo non dissimile, per una serie di coincidenze, è solo grazie alla guerra in Libia che un gruppo di rifugiati respinti dall’Italia è riuscito a lasciare Tripoli e a mettere il proprio caso nelle mani di due avvocati che poi hanno fatto ricorso per loro alla Corte Europea dei Diritti Umani.
Il che getta un’ombra fitta sul significato di una sentenza che costituisce senza dubbio un precedente importante, ma a ben guardare evidenzia tutti i paradossi legati al concetto di “diritti umani” messi in luce, con prospettive diverse, da Giorgio Agamben, Alain Badiou e Jacques Rancière.
La sentenza della corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a risarcire i ricorrenti con 15 mila euro ciascuno, in quanto rifugiati che avevano diritto ad essere accolti in Italia e non respinti verso uno stato terzo (la Libia) nel quale hanno subito maltrattamenti e torture.
A parte la cifra ridicola, che già la dice lunga su quanto vale in Europa la vita di un negro, a me pare chiaro che:
1) Oltre ai ricorrenti, centinaia di rifugiati de facto sono stati respinti allo stesso modo in base al trattato di collaborazione italo-libico (approvato, come fa notare Mare chiuso, non dal solo Berlusconi, ma dall’87% dei nostri deputati, PD compreso). Eppure, gli unici che verranno “risarciti” sono coloro che hanno fatto ricorso. Non credo proprio che la Corte Europea richiederà all’Italia i dati anagrafici di tutti coloro che ha respinto, se mai sono stati identificati, per poi ottenere un risarcimento per conto di coloro che avevano diritto ad essere protetti. Tra l’altro, l’Italia non avrebbe alcun interesse a fornire un simile elenco, ed è tuttavia l’unico stato che potrebbe fornirlo. Il che sarà forse molto naturale per chi bazzica i tribunali, ma in parole povere significa che i diritti umani sono tali solo per chi è in grado di farli valere. Le convenzioni internazionali che hanno fatto condannare l’Italia erano valide anche prima del ricorso, e tutti sapevano che l’Italia intendeva procedere con una politica di respingimenti indiscriminati in alto mare, eppure, a parte alcuni ammonimenti verbali, nulla è stato fatto in sede europea affinché il nostro paese non infrangesse i diritti umani – il che dimostra quale riguardo si abbia dei medesimi.
2) Il parere del giudice Pinto de Albuquerque, in calce alla sentenza, dichiara illegale qualunque forma di respingimento collettivo di migranti, perché nel gruppo dei respinti potrebbero sempre esserci dei rifugiati, ovvero persone che nel loro paese d’origine, – o anche nello stato terzo dove verrebbero respinti – andrebbero incontro a persecuzioni di varia natura. L’argomentazione è basata quindi sull’appartenenza di certi individui a una certa categoria protetta, quella di rifugiati.
L’Italia ha risposto che nel trattato stretto con la Libia erano previste garanzie sul trattamento degli individui respinti, e in particolare che i rifugiandi non sarebbero stati rispediti nei rispettivi paesi d’origine. A questo la Corte ha obiettato che l’Italia non ha fatto abbastanza per verificare il rispetto di quelle garanzie – anzi: aveva tutti gli elementi per dubitarne – e in secondo luogo che i respinti, in quanto imbarcati su una nave italiana in alto mare, sono entrati di fatto in territorio italiano e dunque dovevano essere accolti dall’Italia. Il diritto dei rifugiati, mi par di capire, ruota tutto intorno al giudizio che la Corte Europea dà delle condizioni di vita e di trattamento degli esseri umani in determinati stati.
Se l’Italia identificasse in alto mare un singolo cittadino senegalese, e lo scaricasse in Tunisia sulla base di un accordo tra i due stati, questa pratica sarebbe del tutto legale perché l’Uomo Bianco Illuminista Europeo ha deciso che i Negri al potere in Senegal sono Negri Buoni e che gli Arabi al potere in Tunisia sono arabi buoni. Invece, se respingi in alto mare un eritreo e lo porti in Siria, questo non si può fare perché Isaias Afewerki, il Negro al potere in Eritrea, è un Negro Cattivo – per quanto legato all’Italia da speciali accordi di coperazione – e Asad, l’Arabo al potere in Siria, è un arabo cattivo.
E’ difficle dar torto a Badiou quando critica l’etica dei diritti dell’uomo, sostenendo che dietro il suo piegarsi sulla miseria del mondo, dietro il suo Uomo Vittima, si nasconde sempre l’Uomo Buono, l’Uomo Bianco, l’intervento civilizzatore che non può fare a meno di disprezzare le vittime, nel momento stesso in cui le aiuta. L’impressione aumenta leggendo la conclusione del parere del giudice Pinto:
«I rifugiati che tentano di scappare dall’Africa non reclamano il diritto di essere ammessi in Europa. Essi domandano solo che l’Europa, la culla dell’idea stessa di diritti umani e la terra natale del diritto, smetta di chiudere le porte in faccia a gente disperata che fugge dall’arbitrio e dalla brutalità.»
In definitiva, al di là del fastidio di Maroni & compagnia, non credo che questa sentenza abbia un valore politico assoluto. Certo, essa censura in maniera inequivocabile la pratica dei respingimenti in alto mare, ma lo fa in nome di un consenso già unanime, almeno sulla carta: l’appartenenza di determinati individui a una determinata categoria, con determinati diritti. La politica, invece, consiste nel dissenso, nel prendere la parte di chi non ha parte, nell’attaccare una situazione perché include i soggetti ma non riconosce loro alcuna appartenenza. La politica dovrebbe respingere i respingimenti in nome dei profughi che non hanno diritto ad essere profughi.
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Tornando a Timira, abbiamo cominciato a ricevere le prime richieste per incontri e serate. In particolare da Roma e dintorni ce ne sono già arrivate quattro ed è probabile che saremo in zona a fine maggio, il 30 e 31 del mese. Siamo molto felici, grazie all’invito di Strike e Zona Rischio, di poter presentare Timira anche a Casal Bertone, il quartiere dove Isabella ha vissuto con la famiglia. Tra l’altro, proprio nei giorni scorsi, quel quartiere è stato teatro di aggressioni e menzogne fasciste, motivo per il quale siamo doppiamente contenti di dare il nostro contributo a chi da anni svolge sul territorio un importante lavoro sociale. A proposito di questo, come “secondo preludio” al nostro romanzo, vi proponiamo un video amatoriale su Giorgio e Isabella Marincola, realizzato dagli alunni della III U, della scuola L.Radice di Casal Bertone, in collaborazione con Strike e ANPI.
Buona Visione.
Torino, Mercoledì 28 Marzo 2012: MARE CHIUSO
h.19.30: aperitivo senegalese
(piatto a 5 Euro)
h. 21.30: proiezione documentario in anteprima piemontese!
(ingresso a offerta minima di 3 Euro)
Circolo Arci Officine Corsare, Via Pallavicino 35
Grazie della segnalazione.
Qui trovate il calendario delle proiezioni nelle varie città:
http://marechiuso.blogspot.it/2012/03/calendario-proiezioni.html
Andrea Segre è un vecchio amico de Il lavoro culturale, dove venerdì 23 marzo ha presentato Mare Chiuso.
Qui ripropongo un’intervista che lo scorso anno Segre ha rilasciato agli animatori del seminario. Benché si parli de Il Sangue Verde (il doc precedente di Andrea), le questioni sollevate entrano in risonanza con il post.
http://www.lavoroculturale.org/spip.php?article118
Informazione di servizio: quando dovrebbe uscire il libro?
Ancora non abbiamo una data precisa, ma l’uscita dovrebbe essere tra il 30 aprile e la prima settimana di maggio.
Speravo prima, in modo da farmelo regalare per il mio compleanno… ma va bene lo stesso. ;-)
Anche noi speravamo prima, ma siamo andati un po’ lunghi. Tra l’altro a inizio maggio c’è pure il salone di Torino, 25^ edizione, evento-monstre che noi preferiamo evitare, e dunque anche l’uscita del libro slitterà al dopo-monstre, perché in quei giorni l’attenzione è tutta per i libri che vengono presentati lì e gli altri è come se non esistessero. Dunque ci accomodiamo volentieri alla settimana centrale di maggio, tanto questa storia ce la portiamo in grembo da nove anni e una settimana in più, ormai, non ci fa differenza.
Fondamentali queste righe che avete scritto. Se la cultura di lotta e Resistenza in Italia è ancora vincente è anche grazie ai Wu Ming. E alla loro capacità di tenere sempre la bussola bene a sinistra. Casal Bertone ha un gran significato a Roma in questi giorni: l’aggressione fascista ha visto una bella e sana reazione dei residenti, una sollevazione popolare fatta da bella gente, da compagne e compagni che non si arrendono a consegnare Roma alla fogna fascista che sta esplodendo dai tombini… Vi segnalo, se non lo sapete già, che proprio a Casal Bertone, la fabbrica che confina con lo Strike è in occupazione (occupa#rsi) da febbraio. Si tratta dei lavoratori dei treni notte RSI, ex Wagon Lits, lasciati a casa perché al posto della fabbrica di carrozze di treni ora vogliono far nascere palazzine e un centro commerciale. Me ne sono occupato qui: http://www.liberaroma.it/word/lavoro/occuparsi-le-tute-blu-difendono-il-lavoro/
Raccontare l’immigrazione è cosa dura, specialmente se il narratore appartiene alla nazione-mèta dei migranti. La spettacolarizzazione dell’immigrato clandestino ha creato numerosi generi e personaggi:
– L’immigrato-zombie, l’Altro-da-noi-ma-uguale-a-noi che ritorna dall’Altro mondo per vendicarsi delle nostre colpe. Razzismi, Populismi e Xenofobia. Prime pagine memorabile de La Padania
– L’immigrato-baule, su cui investiamo tutto il nostro *multiculturalismo* fanstasmatico (nell’accezione che Said chiama “orientalismo”) ma che alla lunga è un modo per sdribblare gli orrori del nostro passato/presente politico e pepare la nostra giornata con qualche rimorso che religione o ideologia saprà stemperare.
– L’immigrato-delinquente, quello che è stato accolto ma non si è allineato con usi, costumi e leggi vigenti. Interessa l’area dei moderati e il fascismo che ne deriva è appunto “moderato” (così non passa per fascismo). “Io non sono razzista, però…” e “Nei loro paesi sono peggio che da noi”: gli incipit che vanno per la maggiore.
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E ci sono molte altre sfaccettature che passano attraverso un uso direi “scorretto” del linguaggio. Certo, se le immagini o i racconti sono duri, è bene testimoniare quella durezza ma – citando il personaggio di una mia storia “un conto è raccontarsi storie dell’orrore, un conto è accettare l’orrore, conviverci giorno dopo giorno.”
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Siamo davvero pronti a raccogliere la valanga di merda che si nasconde dietro alla storia colonialista del nostro paese? Se sì, non rischiamo l’overdose? O peggio ancora: trattare la merda (cioè gli immigrati, metaforicamente parlando) come merda? (ovvero rinfilarla a forza nel buco del cesso).
Una cosa è certa: cinismo e buonismo non ci aiuteranno.
Molta retorica razziale e colonialista si nasconde nelle parole di chi a parole non è razzista, e magari non lo è nemmeno nei fatti, né mai sottoscriverebbe una qualche forma di apartheid. Eppure, poiché il razzismo è una questione di cornici, e le cornici concettuali sono fatte di retorica, non dobbiamo dar tregua – fuori e dentro noi stessi – a certe figure e narrazioni tossiche, soprattutto quando si ammantano di tolleranza, diritti umani e multiculti.
Penso che la valanga di merda del nostro colonialismo, una volta portata in superficie e raccontata, possa evitarci l’effetto che descrivi se puntiamo l’attenzione non tanto ai singoli episodi, quanto alla mentalità che li produsse, giustificò, minimizzò e nascose sotto il tappeto. Mostrare che quella merda siamo (ancora) noi, e non una roba che puoi buttare nel cesso, pena il suicidio.
Non poche volte, raccontando in giro per l’Italia la storia di Giorgio Marincola, mi sono imbattuto in antifascisti convinti, gente venuta per applaudire l’eroico partigiano dalla pelle nera, salvo però affermare che “in fondo in Africa abbiamo fatto anche del bene”, i ponti, le strade, “tante persone in buona fede”, “mio padre ci andò per lavorare, non era certo un colonialista” e via distinguendo, giustificando, con artifici retorici degni della riabilitazione dei ragazzi di Salò.
Oggi, 12 aprile, tre appuntamenti di fila, che mettiamo idealmente tra i preludi a Timira:
1) Alle 12.30, Antar Mohamed e Wu Ming 2, intervengono nella trasmissione “L’Antipasto”, su Radio Città Fujiko (streaming: http://www.radiocittafujiko.it/rcfdiretta), per parlare di Giorgio e Isabella Marincola.
2) Alle 18, presso la biblioteca di Villa Spada “Tassinari Clò” (Bologna), Antar Mohamed e Wu Ming 2 intervengono alla presentazione di “Razza Partigiana – Storia di Giorgio Marincola”, organizzata da ANPI e quartiere Saragozza.
3) Alle 21.30, al Centro Sociale TPO di Bologna, si proietta il documentario “Benvenuti in Italia”, con intervento finale di Hevi Dilara, una delle registe del film.
Noi lo abbiamo visto un paio di mesi fa, quando venne presentato in 5 città diverse, durante il giorno della memoria.
E’ un documentario in cinque episodi, filmati e raccontati da cinque registi migranti, intorno a diversi aspetti dell’essere stranieri in Italia. Ci eravamo ripromessi di parlarne qui su Giap, con un post dedicato, e lo faremo a breve. Nel frattempo, consigliamo a tutti di andarlo a vedere: anche questo, come “Mare chiuso”, è uno di quei film che non “esce” nelle sale e purtroppo non c’è un calendario completo delle proiezioni. Sul sito dell’Archivio delle Memorie Migranti trovate però l’annuncio, con qualche giorno d’anticipo, delle serate previste, e pure un contatto per organizzare visioni collettive: http://www.archiviomemoriemigranti.net
Imminente l’uscita di “Timira” di WM2 & Antar Mohamed. Scheda sul sito di @EinaudiEditore:
http://www.einaudi.it/libri/libro/wu-ming-2-antar-mohamed-marincola/timira/978880620592