L’aspra stagione: storie di Carlo Rivolta

L'aspra stagione

[WM1:] L’aspra stagione – d’ora in avanti LAS – è un libro scritto a quattro mani da Tommaso De Lorenzis (nome ben noto alla comunità di Giap) e dal giornalista Mauro Favale.
Né romanzo né saggio né biografia (autentico “oggetto narrativo non-identificato”), LAS racconta di Carlo Rivolta, giornalista d’inchiesta, cronista d’assalto, uomo di sinistra, compagno di strada dei movimenti degli anni Settanta.
Rivolta morì nel 1982, poco più che trentenne, ghermito dal drago dell’eroina. Morì a Roma, città che aveva raccontato in tanti articoli apparsi su “Paese sera”, “Repubblica” e “Lotta continua”, sempre tenendo il culo in strada, per quasi dieci anni vissuti pericolosamente, incrociando i percorsi dei movimenti, narrando ascesa e implosione del lottarmatismo, mappando lo spaccio di eroina, descrivendo in anticipo mutazioni che molti “nomi che contano” avrebbero inquadrato soltanto anni dopo.
Che LAS mi sia piaciuto è palese: in quarta di copertina firmo un breve testo di presentazione – come suol dirsi, un “blurb” – che a rileggerlo mi suona poeticante, effettistico… “wuminghistico”, ma almeno richiama l’attenzione in libreria. Ho buttato giù quelle righe dopo aver letto una stesura non definitiva del libro. Sapevo che TDL e MF stavano scrivendo un libro su Rivolta, ma non avevo idea di come stessero lavorando. A botta caldissima ho scritto un commento e l’ho inviato a Einaudi Stile Libero, cosa che avrà certamente sorpreso i direttori della collana, Paolo Repetti e Severino Cesari: nessuno mi aveva chiesto di scriver niente,  il pdf me l’avevano spedito Tommaso e Mauro – non la casa editrice – al solo scopo di chiedermi un parere. Aggiungo che, presso Einaudi, è inusuale che una “quarta” sia quasi interamente occupata dal testo firmato di un altro autore.
Insomma, tutto all’insegna dell’estemporaneità. Tutto… tranne il metodico, inesorabile lavoro di documentazione e scrittura compiuto dai due autori. Un lavoro intemporaneo, che merita attenzione e approfondimento critico.
Quella che segue è una lunga, densa intervista a De Lorenzis e Favale.

WM1. Quando avete sentito parlare per la prima volta di Rivolta? Chi ve ne ha parlato?

Ali di piomboTDL: Una sera, all’inizio della primavera del 2007, a Bologna, acquistai per caso Ali di piombo di Concetto Vecchio, giornalista de «la Repubblica». Confesso che ero prevenuto, perché il libro usciva nel trentennale del ’77, con l’esplicito intento di ricostruire gli eventi di un anno trattato spesso con approccio “feticistico”. Quasi fosse un’anomalia della Storia, slegata da un “prima” e da un “dopo”. Dodici mesi da celebrare più o meno in chiave liturgica, con l’inguaribile malinconia dei reduci. O, all’inverso, e ancora peggio, da maledire per esorcizzarne i fantasmi. Temevo che il prezzo pagato ai rituali dell’anniversario fosse esageratamente alto. In realtà, Ali di piombo muoveva da un dettagliatissimo lavoro di documentazione, incrociava storie diverse e faceva emergere un punto di vista particolare: ovvero la prospettiva dei giornalisti di carta stampata rispetto ai fatti del “doppio 7”. Tra le fonti e i personaggi di Concetto Vecchio figurava un giovane giornalista de «la Repubblica» che – tra il ’76, anno di fondazione del quotidiano, e il 1981 – aveva “coperto” i principali fatti della cronaca italiana: dalla cacciata di Luciano Lama all’agghiacciante vicenda di Alfredino Rampi. Quel cronista, approdato a soli ventisette anni al giornale di Eugenio Scalfari, era Rivolta. Il resto l’hanno fatto la straordinaria scrittura di Carlo e la lucida capacità di analisi con cui raccontò, interpretò, finanche anticipò, fenomeni complessi come la diffusione dell’eroina o la repressione generalizzata nella grande Emergenza di fine Settanta. Mancava un racconto che ne ricostruisse l’esistenza dolente e tormentata in rapporto a una stagione cruciale della storia di questo Paese. Ecco, quello fu l’inizio.

MF: Era l’estate del 2004, stavo facendo uno stage a «Repubblica», quando la sede era ancora quella storica di piazza Indipendenza, a due passi dalla stazione Termini e dalla Sapienza. Nei momenti morti della giornata, mi chiudevo in archivio e spulciavo i primi numeri del giornale. Guardavo le cronache del 1977, un periodo che mi ha sempre incuriosito, di cui volevo sapere di più. Arrivavo dall’università di Bologna, dove il ’77 è – come dire – un mito fondativo. E poi l’anno prima avevo assistito in città alle riprese di Lavorare con lentezza (che uscì proprio alla fine di quell’estate). Insomma, mi misi a sfogliare quei numeri. Leggevo i pezzi di Giorgio Bocca dedicati al Convegno sulla repressione a Bologna, nel settembre di quell’anno. Così scoprii la firma di Rivolta. Poi, in occasione del trentennale del ’77, rilessi il suo nome sullo speciale pubblicato da «Repubblica», sotto le cronache della cacciata di Lama dalla Sapienza occupata. Infine, nell’aprile 2007, a Bologna, in piazza Aldrovandi, al bar degli “Illusi” (un nome, un progetto di vita…), Tommaso mi parlò del libro di Concetto Vecchio e di questo giornalista di “Repubblica” dalla vita breve e pazzesca, terminata tragicamente nel febbraio del 1982. Direi che per me è nato tutto lì.

WM1. Quando avete deciso di scrivere il libro e come vi siete divisi il lavoro? Com’è cresciuto il progetto?

MF. Sono passati mesi: io vivevo già a Roma da un anno e mezzo, Tommaso era ancora a Bologna. Diciamo che non era il momento giusto. Il 30 dicembre 2007, va in onda sulla Rai uno speciale de «La grande storia» dedicato al ’77. Il Tg2 intervistava Carlo Rivolta dopo la manifestazione in cui venne uccisa Giorgiana Masi. È stata la prima volta che abbiamo visto Rivolta in video. [Qui al minuto 33:27, N.d.R.] Dopo capodanno, a Roma, iniziai a recuperare gli articoli di Carlo e, parallelamente, a sentire qualche collega che ci segnalasse altri colleghi, amici, parenti, donne che gli erano state accanto: in altre parole chiunque potesse raccontarci aneddoti su Rivolta, storie di quegli anni, curiosità, fatti. Intanto, in tre mesi siamo riusciti ad avere praticamente la produzione completa di Carlo su «Repubblica». Il progetto è cresciuto così, leggendo i suoi pezzi, avendo un quadro completo della sua vita professionale che, tra la metà dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, ha coinciso con i fatti di cronaca più importanti accaduti in Italia, quelli che hanno colpito di più l’opinione pubblica. Abbiamo pensato che potesse essere un modo diverso per raccontare un frammento di storia italiana da un punto di vista inedito. E quando abbiamo iniziato a parlare con chi l’aveva conosciuto, amato, frequantato, abbiamo capito che questa era anche una storia di passioni forti e di umane debolezze.

La Repubblica durante il sequestro Moro

TDL: Il confronto con le fonti, dirette e indirette, era imprescindibile per il tipo di registro che avevamo intenzione di praticare: cioè quello di una narrazione che poggiasse su documenti, materiali, resoconti. Va detto che, nel maggio del 2008, furono resi pubblici dal Senato gli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia. Quegli incartamenti, in cui figuravano informative di pubblica sicurezza, processi verbali di testimonio, verbali di sequestro, ci mettevano nella condizione di avere un “controcampo” tanto prezioso quanto fosco. Cioè di conoscere la prospettiva degli organi inquirenti e delle forze di polizia. Insieme agli articoli di Carlo (praticamente la totalità dei pezzi pubblicati su «la Repubblica» e, a partire dal 1981, su «Lotta continua»), quei documenti ci consentivano di misurarci con una molteplicità di punti di vista. Ed è quello che abbiamo fatto con un laborioso lavoro di montaggio.
LAS
non è una biografia in senso stretto. La “camera” non rimane fissa sull’oggetto del racconto, ma si sposta di continuo su comprimari e comparse, personaggi secondari e “personaggi storici”, se volessimo usare un’espressione da romanzo. Peraltro, nella struttura del libro, uno dei tre piani narrativi, che si sviluppano in alternanza secondo una sequenza A-B-C/A-B-C, è rappresentato da una selezione di articoli di Rivolta. Quindi potremmo dire che il protagonista del narrare diventa anche voce narrante. Questa ricerca ossessiva delle inquadrature e della loro successione ci ha impegnato in sessioni lunghissime. La definizione della scaletta è stata la vera scommessa. Non ci interessava un’esposizione lineare. Volevamo puntare sulla coralità e l’effetto centrifuga. Ci sembrava l’unico modo per restituire la plastica aderenza al contesto temporale, perché – alla fine – l’elemento decisivo è proprio il tempo, il momento, la congiuntura, che la vita di Carlo Rivolta consente di narrare.

WM1. Avete avuto segnali ostili, riscontrato chiusure? All’inverso: ci sono stati incoraggiamenti particolari, di cui può essere interessante riferire?

MF: Di segnali ostili non mi ricordo. Ricordo, invece, lo sprone arrivato da Filippo Ceccarelli e Carlo Bonini ai quali, nell’estate del 2008, a «Repubblica», raccontai del libro. Anche per loro, quella di Rivolta era una vita, una storia da raccontare. È stato un incitamento importante per andare avanti quando non avevamo ancora idea di cosa potesse diventare questo libro, né un editore a cui parlarne.

TDL: Non ci sono stati atteggiamenti di ostilità. Parlerei piuttosto di una gran fatica, perché interloquire con chi ha conosciuto Rivolta, sollecitarne la memoria, è stato doloroso. Per tutti. Ricordo che a Trebisacce, in Calabria, quando incontrammo Lilli Chidichimo, la madre di Carlo, ci venivano proposte con insistenza – in un surreale rovesciamento dei ruoli tra intervistata e intervistatori – due domande: «Come sarebbe Carlo oggi? Da che parte starebbe?». Un what if spaventoso: anche perché il riferimento era alla collocazione governativa o antigovernativa in tempi in cui il berlusconismo era imperante e la destra aveva stravinto le elezioni. Anche a Roma, peraltro.

Eugenio ScalfariWM1: Nella terra di mezzo tra ostilità e incoraggiamento, esiste la vasta zona del silenzio, dell’indisponibilità. Eugenio Scalfari ha cortesemente declinato la vostra richiesta di intervista, e la casa editrice non ha avuto più successo di voi nel sollecitare “una frase, un rigo appena” su Carlo Rivolta o sul vostro libro.

TDL: Il silenzio di Scalfari lo interpreto in termini di riserbo comprensibile e legittimo. Ovviamente l’assenza di una testimonianza diretta da parte di colui che aveva voluto Carlo al giornale fin dagli inizi ci ha spinto a una precisa soluzione di ordine narrativo. Nel libro, il Fondatore “parla” solo ed esclusivamente sulla base dei suoi articoli o di interventi pubblici di altra natura. Alla fine viene fuori una “distanza” simbolica, una certa aura epica, assimilabile alla caratterizzazione che – nella letteratura romanzesca – è propria dell’archetipo del Grande Vecchio.

WM1. Ho letto questo libro in bozze quando ancora s’intitolava Piombo quotidiano, gioco di parole che evocava al tempo stesso la tipografia e le armi da fuoco, e faceva il verso al cliché degli “anni di piombo”. Un bel titolo, ma forse troppo sbilanciato sugli anni Settanta, quando per me la parte più rivelatrice e intrigante del libro è quella di transizione tra i due decenni, i Settanta e gli Ottanta. Dal caso Moro alla vittoria nel Mundial del 1982. Il titolo definitivo parla di una “aspra stagione”, ed è più ambivalente, perché il riferimento immediato è sempre agli anni Settanta, ma in seguito, gironzolando nella testa, l’espressione si arricchisce di riverberi, perché in effetti fu stagione ben aspra, anzi, ben più aspra quella di transizione, tra riflusso, sconfitta operaia, eroina a fiumi, pentitismo e carceri speciali, craxismo e “pentapartito”, Reagan e la Thatcher, ascesa del berlusconismo culturale, abolizione della “scala mobile” sui salari… Temo però che la maggior parte dei commenti e delle recensioni si concentrerà sugli anni Settanta, dando una rappresentazione molto parziale del libro. Condividete questo timore?

Dino ZoffTDL e MF: Assolutamente, sì: condividiamo il timore di una lettura sbilanciata sui Seventies. Allora diciamolo chiaramente: LAS non è un libro sugli anni Settanta se per anni Settanta intendiamo quel periodo che comincia col ’68, o – ancora meglio – col ’69 operaio, e arriva fino al 1980. Piuttosto è un libro sull’uscita dagli anni Settanta, sui mille modi per tirarsi fuori da un’epoca. È questo che lo rende tragico, forse nero, perfino al di là di Carlo Rivolta. Perché l’uscita da quella fase è costata la vita, oppure l’anima. In troppi hanno perso la prima. Molti si sono venduti la seconda. In questo senso il libro, secondo noi, rientra nel filone dei racconti dedicati alla Transizione, cioè agli sfuggevoli punti del continuum in cui si consuma un trapasso.
Indicativamente l’“aspra stagione” potrebbe essere compresa tra la mattina del 16 marzo 1978, quando viene rapito Aldo Moro, e l’11 luglio del 1982, quando Dino Zoff alza la coppa d’oro col globo per celebrare la vittoria della nazionale italiana al mondiale di football in Spagna. Questo vale nonostante l’arco temporale della narrazione cominci prima attraverso il meccanismo del flashback: nel 1973 per l’esattezza, quando Carlo era un giovanissimo cronista di «Paese Sera».
In quel lustro si compie – almeno a nostro avviso – la fine della prima Repubblica, della Repubblica uscita dalla Resistenza, con i suoi partiti di massa, la grande fabbrica, la centralità operaia, un preciso statuto del politico e via dicendo. Ed è anche il momento in cui si manifesta l’inversione di tendenza, il ribaltamento dei rapporti di forza, l’offensiva liberista che in Italia assume le forme del craxismo. Se la consideriamo in questi termini, quella stagione non è mai finita, coincidendo con la genesi dell’Italia contemporanea, quando le possibilità vengono scartate una dopo l’altra, gli eventi prendono una determinata piega e la Storia scandisce il suo corso. È l’eterno presente, il passato che ritorna, di cui abbiamo provato a scrivere. In altre parole: l’origine dell’oggi. Al di là dell’alternanza tra fasi ritenute espansive e congiunture recessive, al netto della Milano da bere, di Tangentopoli, della discesa in campo dell’imprenditore milanese e delle bolle speculative, per trent’anni abbiamo sperimentato le medesime politiche di attacco al lavoro, disintegrazione dei diritti, devastazione del pubblico e dannazione di un’idea di società. Anzi: queste politiche sono cambiate nella misura in cui sono mostruosamente cresciute d’intensità. Per non parlare degli uomini che hanno praticato o legittimato ideologicamente le ricette in questione. E non a caso sono alcuni dei comprimari – o delle comparse – del libro.
Va anche detto che abbiamo scritto alla fine degli anni Zero, in un momento in cui il quadro politico sembrava definitivamente chiuso ed era lontanissimo il ricordo del ciclo di lotte e mobilitazioni che avevano segnato l’inizio del decennio. Mentre lavoravamo a LAS esplodeva la bolla dei subprimes e si palesava la crisi finanziaria internazionale. In Europa e in Italia si sceglieva l’opzione di uscita a destra. Insomma, la delusione era forte e una storia come quella di Carlo aiutava a misurarsi con un certo sconforto.
Oggi, in tempi di guerra al debito sovrano, di «sacrifici», di uso politico della crisi – come avremmo detto una volta –, certi riverberi tra epoche sembrano quasi riflessi, con l’aggravante che viene esplicitamente palesato lo scenario di un superamento del modello welfaristico continentale. Un vero e proprio regolamento di conti in stile western. Sempre più aspro. Un salto nel passato che vuole ricacciarci – una volta per tutte – a prima del XX Secolo.
Per questo abbiamo provato a cogliere il punto in cui tutto ciò è cominciato: per capire come abbiamo fatto ad arrivare fin qui.

Il terzo numero di Metropoli
WM1. Si può dire che la parabola umana, giornalistica e politica di Carlo Rivolta sia per “Repubblica” – intesa come rappresentazione che il giornale dà di sé – uno scheletro che sta mezzo dentro e mezzo fuori dall’armadio? Il giornale continua a ripubblicare, a ogni iniziativa speciale in corrispondenza di anniversari, i suoi pezzi sul ’77 e sul caso Moro, però su tutto quel che venne dopo (e stava attorno) quei reportages, è calata una cappa di silenzio durata trent’anni spaccati: l’eroina, il disagio di Rivolta dentro il giornale, il suo isolamento, la firma per “Metropoli”… C’è una contraddizione interessante: la narrazione dei “glory days” del giornale, la continua rievocazione che il giornale fa della sua storia, non può in alcun modo omettere quei pezzi di Carlo, perché sono essenziali – anzi, quintessenziali – e definiscono una stagione, ma Carlo stesso, per evidenti motivi, non è potuto assurgere allo status di “eroe”, non è nel pantheon. Pensate succederà qualcosa, ora che avete scritto questa biografia narrativa, centrifuga e spiazzante?

Autonomi, Roma 1977, foto di Tano D'AmicoMF: Io credo che un giornale non sia un organismo rigido, fisso. Tutt’altro, è una struttura complessa, in cui i momenti di rievocazione della propria storia e l’uso del suo passato sono frutto di un processo che si modifica nel tempo. E soprattutto sono saltuari, non puntuali o ricorrenti. Per questo non credo che si possa parlare strutturalmente di Pantheon né di una galleria di eroi dentro «Repubblica» di cui Rivolta non farebbe parte. E poi bisogna ricordare che quando morì, non ci fu l’oblio. Fu commemorato in un pezzo-necrologio molto onesto, quando già non lavorava più al giornale di via Indipendenza. Due anni dopo Giampaolo Pansa, che di «Repubblica», in quel periodo, era vicedirettore, scrisse un lungo articolo per ricordarlo, menzionando perfino la vicenda della firma di«Metropoli», la controversa testata costituita da ex-dirigenti di Potere operaio e leader dell’Autonomia come tentativo di ricomposizione politico-culturale. «Metropoli» era costretta a cambiare direttore responsabile a ogni uscita. Il terzo numero della testata, pubblicato nel febbraio del 1981, era firmato da un giornalista di «Repubblica» regolarmente iscritto all’albo: quel giornalista era Rivolta. Carlo era nettamente ostile all’area dell’Autonomia. La rottura si era consumata nel ’77 e si era approfondita col tempo. In passato c’erano stati screzi e scazzi pesanti. E tuttavia Rivolta è sempre stato accorto a non identificare le opzioni strategiche del partito armato con le posizioni – anche quelle più ambigue – dell’Autonomia. La sua particolare cultura libertaria, movimentista, creativa, lo spinse ad accettare di apporre una firma scomoda, che gli costò un mese di sospensione dal giornale. Intendiamoci: si trattò di un provvedimento del tutto simbolico, destinato a rientrare a strettissimo giro. Il punto non è il provvedimento in sé, bensì che quell’impasto culturale, magmatico e ultragarantista, dopo Moro, non trovava più spazio.
Detto questo, sicuramente è vero: Rivolta, fuori dal giornale, è rimasto nella memoria di tanti amici e lettori di allora. Forse, solo lì. Se però parli con chi c’era allora, trent’anni fa, in tanti qui al giornale ricordano il suo ruolo, l’aiuto che dette all’affermazione del quotidiano in ambienti “nuovi” e, cosa mai trascurabile, l’aumento delle copie vendute anche grazie alle sue cronache. Probabilmente dovevano passare tre decenni per raccontarne la vita e rompere un silenzio che non mi sento di attribuire al suo essere una figura “scomoda”. La verità è che, come racconta spesso un mio amico, «le redazioni (i luoghi di lavoro in generale, aggiungo io) possono generare anche profonda infelicità». Ecco, forse c’è stata anche questa infelicità di fondo nella vita di Rivolta che ha contribuito a far calare il silenzio sulla sua vicenda.

I fondatori di Repubblica con una copia del numero zero, 1976TDL: Partirei da una citazione di Eugenio Scalfari che chiarisce il problema dell’identità di un mezzo di comunicazione e della rappresentazione che esso ha di sé: «Un giornale, come una persona e una comunità è soggetto a molti mutamenti che vanno di pari passo col cambiare del mondo che ci circonda e delle condizioni che ne derivano. Ma c’è per ciascuno di questi soggetti una continuità di memoria storica e quindi di identità; il Dna di un giornale non cambia anche se, per operare in presenza di mutate condizioni, gli strumenti che usa sono in costante trasformazione». Queste parole rendono bene il processo aperto che definisce la natura di un medium e che regola – nell’alternanza di conservazione e mutamento – il rapporto col proprio passato. O meglio: l’impiego del proprio passato. Sul versante della «continuità di memoria storica» uno dei miti fondativi della testata è rappresentato dal sostegno alla linea della fermezza nei giorni del rapimento di Moro. Ne esistono altri, corrispondenti ad altre stagioni, ed esistono perfino i miti fondativi dei detrattori de «la Repubblica»: ad esempio la nota tesi del «giornale-partito» che, peraltro, è coeva o di poco successiva alle vicende del 1978. È chiaro che ogni scelta identitaria implica meccanismi di elisione. Carlo Rivolta, ma più in generale i primi due anni de «la Repubblica», rimangono spesso dall’altra parte del “muro” eretto a ridosso dell’affaire Moro. È un problema di uso del passato. Io parlerei di dialettica aperta più che di circoscrizione di un ambito ideale ed “eroico” in cui figurano le grandi firme.
Provo a fare un esempio: lo scorso 29 gennaio è uscito un editoriale di Scalfari intitolato «Una lettera per la Camusso che viene da lontano». L’articolo comincia con una lunga citazione da un’intervista che lo stesso Scalfari aveva fatto a Luciano Lama nel gennaio del ’78. Il segretario della CGIL teorizzava il contenimento della politica salariale, la possibilità di licenziare gli esuberi, la necessità di inaugurare una fase di sviluppo e la richiesta, rivolta alla classe operaia, di assumersi – nel segno di un grande programma di solidarietà nazionale – l’onere dei sacrifici. Queste parole di Lama vengono messe in relazione all’unità sindacale che rappresentò il vero baluardo contro il partito armato. Quindi, nella prospettiva storica, sono immediatamente ricondotte al mito fondativo di cui dicevo prima. Al netto del giudizio di merito, della condivisione o meno del contenuto, questo è un esempio di uso politico della memoria che ne esclude inevitabilmente altri.
È evidente che il gioco dei corsi e ricorsi funziona fino a un certo punto. Si può sempre dire che il 2012 non è il ’78, che Susanna Camusso non è Luciano Lama, che l’odierna composizione di classe non corrisponde a quella di fine Settanta, eccetera. Oppure, il lettore che da più di quindici anni compra ogni mattina il giornale ha guadagnato il diritto di prodursi in una diversa continuità di memoria storica. E quindi, sempre a proposito di riverberi tra epoche e riguardo a operazioni che tendono a blindare il quadro politico, a spazi di governabilità con maggioranze parlamentari del sessanta, settanta per cento o a convergenze che escludono e marginalizzano soggetti sociali, io citerei un monito lungimirante di Scalfari, redatto poco tempo prima della manifestazione del 12 marzo ’77 a Roma:

«Scrivemmo qualche giorno fa che quanto stava accadendo tra gli studenti non era un temporale di primavera ma una cupa tempesta. I fatti purtroppo ci danno ragione. Ma i fatti rimettono in discussione molte cose. E, in primo luogo, la strategia del compromesso storico. Non sottovalutiamo la serietà di quella strategia ma poniamo una domanda: come coinvolgere una gioventù disperata e condannata alla disoccupazione in un progetto di rinnovamento sociale che abbia come consoci le vecchie classi dirigenti, logorate e corrotte da trent’anni di esercizio del potere?».

Calabresi Jr. busiard
WM1. Scalfari contra Scalfari, acuire la contraddizione… Con roba del genere m’inviti a nozze, lo sai. A questo proposito: un tratto vistoso del giornalismo di oggi è la mancanza di persone come Rivolta, che in realtà ci sono, esistono (basterebbe cercarle nello stuolo di precari delle redazioni locali!), ma i giornali non sanno di averle a disposizione, o non gliene frega niente, quindi non se ne avvalgono, o se ne avvalgono molto male. I grandi giornali (“Repubblica” compresa) non hanno “sensori” nei movimenti, figure che siano parte integrante di quella composizione sociale e quindi possano fare “participant observation“, scrivendo con il linguaggio adeguato, facendo parlare le fonti vive etc. Io credo che la copertura che i giornali danno delle lotte odierne, dai No Tav alle occupazioni all’antifascismo militante, sia sempre mediocre e spesso terribile, proprio sotto l’aspetto giornalistico (sotto quello politico vabbe’, che ve lo dico a fare?). La stampa oggi è parecchio lontana – linguisticamente, psicologicamente – dalle strade e dalla piazza (che non è un luogo fisico, ma un universo di riferimenti). Voi cosa ne pensate?

TDL: Il problema del rapporto tra movimenti e mezzi di comunicazione rappresenta – a mio avviso – uno dei principali termini di paragone su cui è possibile misurare l’arretramento che abbiamo scontato negli ultimi sette, otto anni. Ora, è evidente che le lotte non si giudicano mai, per definizione. Una lotta la si fa, e basta. E così si contribuisce a definirne le forme, gli slogan, le parole d’ordine, le pratiche, le tecniche di comunicazione. Tuttavia, è impossibile non ammettere che s’è smarrita la capacità d’interagire conflittualmente con i media mainstream. Basta pensare alle differenze tra ciò che accade oggi e il ciclo di mobilitazioni dei primi anni Zero: quello, per intenderci, che cominciò con la “battaglia” di Seattle e si concluse indicativamente con la manifestazione planetaria contro la guerra preventiva dei neoconservatori, il 15 febbraio 2003. Io non credo che, sul versante dell’informazione, la situazione sia peggiorata rispetto a quella fase. Credo che si sia smarrita la capacità di rovesciare certe inquadrature, di sottrarsi agli stereotipi, di sfuggire alla rappresentazione più ovvia e scontata. È un intero apparato linguistico e simbolico che è saltato. E ovviamente è saltata pure la politica che consentiva di tenere insieme certi linguaggi e certi simboli. Insomma, senza il minimo giudizio morale, dico che a ogni forma di lotta corrisponde un modo di comunicare. E in questo caso considero prevalenti – e assai più preoccupanti – i limiti di ordine soggettivo.

Roma, 15 ottobre 2011, Er Pelliccia scaglia l'estintore
MF:
C’è un problema di riconoscimento da parte dei movimenti nei confronti dei giornalisti. Siamo tornati indietro di anni, a quando con i media non si parlava, a quando il conflitto era frontale. La colpa? È vero, probabilmente c’è superficialità nel raccontare certi mondi, imprecisione cronica, scarsa voglia di approfondire, poca curiosità. C’è lontananza, anche. Trent’anni fa, «Repubblica», per dire, “reclutava” i suoi cronisti tra chi aveva fatto determinate esperienze, tra chi conosceva meglio certe realtà: era un modo per avere una sonda più profonda in determinati ambienti. Ora non è più così, praticamente per nessuna testata. Allora la cronaca era una sorta di osservazione partecipata che però, va detto, non era accolta tanto meglio nei circuiti di movimento. Rivolta con i suoi pezzi, per esempio, si ritrovò a essere avversato anche da chi lo riconosceva come un compagno. L’internità, ad un certo punto, diventa esternità. Il problema sono le forme espressive con le quali il movimento viene raccontato e si racconta. Non c’è alcuna mediazione, sono forme comunicative che tra loro non hanno rapporti. Non c’è riconoscimento, insomma. E questo ritorna oggi anche perché sono venute meno le parole d’ordine di dieci anni fa: «Don’t hate the media, become the media». Ora nei cortei c’è tensione, i giornalisti (soprattutto quelli con le telecamere) sono visti come nemici o, peggio, amici della questura. Non è facile colmare questa distanza. Ci vuole tempo, credo. Tanto studio e pochi pregiudizi.

WM1. Per concludere, vorrei sentirvi commentare uno dei testi più belli e dolorosi che avete incluso nel libro: la lettera in cui Carlo, non molto tempo prima di morire, rivolgendosi a Enrico Deaglio, cerca di spronarsi a ripartire vagheggiando (ma… vagheggiandola nei minimi dettagli!) un’inchiesta sui giovani del Sud. Quella lettera mi ha impressionato: ha la forza rivelatrice di un ossimoro misterioso, un ossimoro del quale si avverte l’effetto contraddittorio ma non si saprebbero indicare con precisione gli elementi che cozzano tra loro per produrlo. E’ una lettera vicinissima al nostro presente, ed è una lettera distantissima dal nostro presente.

TDL & MF: Quella lettera è datata 14 dicembre 1981 e, nella sua natura intimamente contraddittoria, suona davvero straziante. Carlo la scrive due mesi prima di morire, in uno dei tornanti più bruschi dell’aspra stagione. Senza svelare troppo del libro, diciamo che quelle righe – redatte all’estero e indirizzate a Deaglio – sono cariche di ottimismo, fiducia e speranze che cozzano platealmente con la situazione italiana dei primi Ottanta e con lo stesso tono cui Rivolta ci ha abituato. Le sue analisi più lucide sono sempre anticipazioni – fosche, cupe, grevi – di ciò che sta per accadere, o accadrà. Invece, nel caso della lettera, semplicemente sbaglia: prima di tutto su se stesso, confidando in una svolta esistenziale, che purtroppo non si darà, e poi immaginando un cambiamento, una possibilità di rilancio politico, i cui margini – in quel momento – erano clamorosamente ridotti, se non del tutto inesistenti. Eppure, anche in quell’occasione, intuisce – prima di altri – la necessità di guardare a sud: lui, che aveva composto grandi articoli sul Mezzogiorno, tra cui i memorabili reportage dall’Irpinia devastata dal sisma. Rivolta propone al suo direttore un progetto di grandi inchieste sulle città meridionali: Napoli e Bari, in primo luogo. È interessato a comprendere la condizione dei soggetti marginali, i danni irreparabili che sono stati inflitti a quelle terre e le scommesse da avanzare su un «quadro sociale nuovo per sottrarlo alla mafia, alla disperazione, alla delinquenza». È un approccio che – senza dubbio – coglie con anticipo la centralità, narrativa e trasformativa, di una geografia, di un universo, di assetti produttivi dominati dal capitale illegale o translegale, delle connivenze tra questi interessi e il sistema politico. Peraltro è un approccio documentato dalle stesse cronache che Rivolta ha redatto come inviato al sud fin dai primi tempi di «Repubblica». Questa consapevolezza, tuttavia, cozza con l’auspicio che da lì potrà iniziare a tirare uno «scirocco impetuoso di proposte e di possibili legami». Carlo immagina di conquistare a «Lotta continua» «la massa dei giovani progressisti calabresi e lucani, che sentono già la muffa nelle aule di Arcavacata». Invece sappiamo che non andrà in quella maniera. «Lc» chiuderà sette mesi più tardi. Gli anni Ottanta, soprattutto al Sud, saranno il decennio del grande saccheggio da parte dei potentati politico-mafiosi. Al posto di un vento impetuoso graverà l’immobilità della bonaccia. E Rivolta morirà due mesi più tardi. Forse, è l’accostamento tra questi opposti a produrre la percezione di ossimoro misterioso che rilevi. Al cronista, sempre impeccabile nel cogliere il rapporto tra presente e futuro, difetta – in questo caso – l’interpretazione dell’immediato, benché permanga intatta la lettura prospettica di lungo periodo.
Tre settimane dopo l’invio di quella lettera, di ritorno a Roma, Carlo ritroverà i toni di una lucidissima amarezza, commentando la situazione con le parole: «non cambia nulla in città». Un epitaffio che accompagnerà gli ultimi giorni della sua vita.

Parco di fantasmi, gli anni Ottanta

Parco di fantasmi, gli anni Ottanta. Chernobyl alleg(o)ria di naufragi.


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60 commenti su “L’aspra stagione: storie di Carlo Rivolta

  1. Ci sono certi libri che appena li hai finiti di leggere ti fanno venire voglia di andare nell’altra stanza, dove dorme tuo figlio, a vedere come sta, a mettergli una mano sulla testa. L’aspra stagione è uno di quei libri.
    Per due motivi, credo.

    Il primo è che fa paura. Attraverso la storia di una singola persona racconta – e lo fa magistralmente – ciò che può accadere a un intero Paese in una manciata d’anni, una decina o anche soltanto cinque, senza nemmeno il bisogno di cambiare i nomi o le facce di protagonisti e comprimari. Così ti accorgi che se magari come sono andate le cose lo sapevi, vissute o no, così non le avevi mai sentite raccontare. Non da quell’angolazione. E capisci che quel passato non è affatto passato, è soltanto il punto d’origine del presente. Una specie di peccato originale che non abbiamo mai finito di espiare. L’aspra stagione è come una cesura, il varo di una nave, la Costa Concordia sulla quale ci siamo imbarcati allora ed eccoci qui, adesso, dopo l’impatto, in attesa dei soccorsi che non arriveranno, perché chi è stato mandato a salvarci ha il compito di rivendere il metallo dello scafo, i pezzi del motore, le tappezzerie, e pure un po’ di carne e muscoli che si trovano a bordo, mentre gli altri possono pure crepare. Capitani puttanieri, cappellani di bordo e Grandammiragli, sono gli stessi di allora. Hanno settanta o ottanta anni, ma sono sempre lì. Non è vero. E’ morto Cossiga. E pure Craxi. Ma proprio nel vuoto lasciato dai loro culi pesanti si sono accomodati gli altri salvatori della patria. I ladri prima, i curatori fallimentari poi.

    Il secondo motivo è che questa storia, la storia di Carlo Rivolta, omen nomen, è assolutamente archetipica. Si potrebbe leggere come si legge una tragedia di Eschilo o il Beowulf. C’è un eroe che lotta contro un fato avverso, stritolato da un dilemma che insiste a rifiutare, mentre lo spazio praticabile, lo spazio di vita, si riduce a vista d’occhio. L’eroe tragico è sempre più isolato, sempre più consapevole che il territorio brado di confine e di possibilità politica dell’esistenza, viene conquistato, militarizzato, recintato, centimetro dopo centimetro, stagione dopo stagione, termidoro dopo termidoro. E deve lottare contro i mostri, come ogni eroe che si rispetti. Deve mettere alla prova se stesso, la propria coscienza, mentre si inaugura una nuova stagione, quella della grande svendita, politica, biografica, esistenziale. Deve costringersi a raccontare tutto quanto, questa fine terrificante, la fine della guerra che non porta nessuna pace, guardare il drago negli occhi, esserne infine sopraffatto.

    Dunque questa è una storia di intelligenza, di acume, e di rovina.
    Di quelle che fanno venire il fiato grosso. Alla fine della quale, sarò sincero, non si può dire di conoscere davvero il protagonista (chi può dire di conoscere l’eroe?), ma un po’ di più se stessi. E se non è questo che dobbiamo pretendere da un libro – l’evocazione delle paure di un tempo ignobile, la ricerca di un assurdo equilibrio tra rischi e opportunità, tra vita e mestiere, tra azione e sopravvivenza – be’, allora forse possiamo risparmiarci di leggere. E magari di fare anche parecchie altre “inutili” cose.

  2. Sono nato pochi giorni dopo le morti di Moro e Impastato e fra i miei più antichi ricordi coscienti c’è l’esultanza di mio padre per il gol di Tardelli. Pochi mesi dopo avrebbe definitivamente smesso di lavorare in Fiat.
    Quell’aspra stagione ha coinciso con la mia prima infanzia. Ma per me è una waste land senza memoria. Gli unici indizi biografici di quel tempo (per altri versi lieto) stanno in poche foto, una manciata di racconti di peripezie infantili e il ricordo di un trasferimento da un appartamento in affitto con vista tangenziale a un condominio squadrato costruito in edilizia convenzionata e mutuo trentennale.
    Col passare degli anni, nel tentativo di ricostruire il contesto, mi sono di volta in volta ritrovato di fronte a testimonianze trasudanti ideologia e vacue di vicende, sarabande di avventure senza collante, reticenti mea culpa e scandalizzati vade retro satana.
    Dell’aspra stagione per ora ho messo a fuoco poco o nulla. Se dovessi basarmi sugli indizi in mio possesso, comincerei a esplorarla dalla coda, a ritroso. Da qui: un amico qualche mese addietro mi ha detto: “qua di gente del ’63, che io sappia, di overdose ne son morti 25 o 26”.
    Ascoltandolo mi son venute in mente le sorelle del Don Giovanni di Brancati che son zitelle – asseriscono – perché i loro potenziali mariti son morti nella Grande Guerra.
    Allora, mi chiedo, quand’ero bambino c’è stata la guerra? E quei ragazzi che son morti con chi (o con cosa) si sarebbero sposati?

  3. Ho avuto il piacere e l’onore di ricevere una parte importante dei materiali per questo libro un sacco di tempo fa. In un momento molto particolare.
    E’ una gioia vederlo oggi pubblicato, e già commentato come merita.
    Leggete L’Aspra Stagione, per quel che può valere la mia opinione. Oggi più che mai.
    Il “Romanzo di una strage” di una generazione, e l’origine di un decennio che non vuole finire mai, li troverete qui.
    A Tommaso il mio abbraccio e i complimenti più sentiti.
    A Mauro Favale, che non conosco, associo l’auspicio personale per tutta la fortuna possibile a questa pubblicazione.
    L.

  4. Il libro di Concetto Vecchio creda sia uno dei migliori scritti su quegli anni.
    La figura di Rivolta, ricordo con orgoglio che era calabrese, è il paradigma per rileggere e studiare quella stagione.

  5. @filosottile

    Condividiamo un ricordo praticamente identico circa la paterna esultanza sul goal di Tardelli. Due anni di vantaggio all’anagrafe mi danno una vaga, penosa memoria della vicenda di Alfredino Rampi. Condivido il giudizio sulla natura desolata di quel luogo del tempo. Aggiungo l’impressione che sia un passaggio del continuum in cui si giustappongono gli indelebili ricordi di alcuni (tutti sanno dov’erano il giorno che le Br rapirono Moro; in molti hanno memoria della mattina del 7 aprile 1979; parecchi non hanno dimenticato la bomba alla stazione di Bologna e la terra che tremava durante il sisma del 1980) e i primi, labili ricordi di altri: Vermicino, per l’appunto, e il mondiale del 1982. Noto che questi due ultimi eventi si sono impressi nella memoria collettiva attraverso il piccolo schermo.

    Fissare le istantanee di oggetti in rapido movimento non è semplice. Gli attimi di transizione sono così: sfuggono e non si lasciano catturare, sospesi tra il progressivo assottigliarsi del possibile e l’ispessimento del reale. E presentano una loro dannata paradigmaticità, quella che rilevava Willo (Wu Ming 4) a proposito dell’archetipo dell’eroe tragico, sottoposto a prove e destinato al sacrificio. Ai grandi motivi del narrare, epico e romanzesco, abbiamo voluto riferirci con una certa insistenza. Riuscire a declinarli in una struttura narrativa non-romanzesca rimaneva una scommessa, e un rischio considerevole.

    Circa il cominciare dalla “fine”, dall’estrema eventualità scartata dalla piega degli eventi. Si potrebbe dire che tutto il racconto ruota intorno alla dialettica tra inesorabile tragicità e tentativo di evocare continuamente il cosa-sarebbe-successo-se. In una delle prime pagine, questa tensione si manifesta in termini espliciti nel confezionamento di una finta agenzia giornalistica su un evento che non s’è mai dato. Alternativa abortita. *Ante litteram*, perché siamo ancora nel 1976.
    Spesso i due elementi della dialettica si amplificano tra loro, perché il *what if* può esercitarsi in maniera assai, più perversa, e tragica, del tragico compiersi dell’inevitabile.
    E fu guerra, sì.

    @luca

    Rimangono preziosi la tua lettura e il consiglio di esplicitare in un prologo il significato – attuale e presente – della narrazione. Speriamo di esserci riusciti. Un abbraccio. E grazie ancora.

    T

  6. @ luca: l’onore e il piacere, davvero, sono tutti miei. Grazie per le tue parole. E spero proprio ci sia l’occasione per presentarci di persona
    m.

  7. Sono nato a Roma nel 1969. Mio padre leggeva Paese Sera e diffondeva l’Unità. Io a 5 anni leggevo Paese Sera (edizione del pomeriggio) seduto accanto ai vecchi sulle panchine di un parco pubblico. Il giorno in cui uccisero Giorgiana Masi ero in Via delle Botteghe Oscure nella 500 di mio padre, voltato indietro a guardare il fumo dei lacrimogeni. Il rapimento Moro ha segnato la mia vita; il 16 marzo 1978 ero a casa malato e rimasi tutto il giorno davanti alla tv; oggi ho una biblioteca intera sul “caso Moro”. Invece ricordo Vermicino come il primo evento che mi tenne davanti alla tv fino a notte fonda (e il libro di Genna a riguardo, tanti anni dopo, mi fece capire perché). Il gol di Tardelli l’ho visto a casa di zii in una cittadina della Finlandia centrale e quella notte festeggiai girando in bici la suddetta cittadina, rigorosamente deserta e muta, con un tricolore disegnato su un foglio di carta bianco. L’eroina era arrivata anche nel mio condominio borghese: Luciano Doddoli scrisse le sue “Lettere a Francesca” in un appartemento al secondo piano del mio palazzo, Francesca era per me solo una ragazza più grande di me, bellissima e disperata, di cui non capivo lo sguardo triste.
    Ieri era il mio onomastico. Ho letto il post su Giap riguardo “L’Aspra Stagione”. Mi sono fatto regalare il libro dalla mia compagna. Ieri sera ho iniziato a leggerlo. Ne sono stato risucchiato. Come temevo, è stato un riaprire – ancora una volta – ogni lato oscuro della mia infanzia. TDL e mfv: grazie, avete scritto un libro bellissimo. Ma un po’ vi odio.

  8. In attesa di leggere il libro vi segnalo lo storify appena pubblicato da Einaudi e lanciato con questo tweet “Un nuovo storify su L’ASPRA STAGIONE di Favale/De Lorenzis con commenti di Veltroni, Riotta e Wu Ming http://bit.ly/H8v7i9
    Naturalmente la compagnia ben diversificata, diciamo, testimonia l’ampia circolazione del libro e questo è un bene.

  9. Il 24 marzo scorso sono stato invitato a introdurre questa iniziativa http://bit.ly/HZdL99 eseguendo due miei “monologhi cantati”.
    A dispetto del titolo, il tema in ballo era (o si è trasformato in) “Informazione mainstream e movimento No Tav”.
    Buona parte dei giornalisti intervenuti si è lamentato della diffidenza dei militanti nei loro confronti, e lo ha fatto in una maniera che a me è parsa corporativista e ideologica.
    Le parole di Favale a questo proposito appaiono decisamente più dialettiche di quelle ascoltate in quella sede, ma vanno nella stessa direzione.
    Le incollo qui sotto:

    MF: C’è un problema di riconoscimento da parte dei movimenti nei confronti dei giornalisti. Siamo tornati indietro di anni, a quando con i media non si parlava, a quando il conflitto era frontale. La colpa? È vero, probabilmente c’è superficialità nel raccontare certi mondi, imprecisione cronica, scarsa voglia di approfondire, poca curiosità. C’è lontananza, anche. […] Ora nei cortei c’è tensione, i giornalisti (soprattutto quelli con le telecamere) sono visti come nemici o, peggio, amici della questura. Non è facile colmare questa distanza. Ci vuole tempo, credo. Tanto studio e pochi pregiudizi.

    Mi è un po’ dispiaciuto leggerle, perché sembra (e in quel “sembra” pongo la mia disponibilità all’ascolto) non tengano conto di alcune questioni cruciali

    1 – le telecamere, grazie all’invenzione giuridica della flagranza differita, possono essere strumenti di repressione per i militanti.
    2 – le telecamere in questi anni sono state utilizzate in maniera mistificante. (vedi un caso su tutti alla voce “pecorella”).
    3 – tolti i giornalisti dei giornali locali, gli altri si occupano del movimento principalmente quando ci son gli scontri. Lasciamo stare il silenzio calato sulla pacifica marcia del 25 febbraio 2012, pensiamo al silenzio sui referendum di giugno scorso.
    4 – nella stragrande maggioranza dei casi gli scontri vengono poi riportati con le veline della questura.
    5 – tutto ciò che sta dietro ai movimenti, lo studio, l’autoformazione, l’enorme quantità di lavoro volontario e le molteplici ragioni per le quali uomini e donne d’ogni età si dedichino a una determinata causa sono molto di rado oggetto d’indagine giornalistica.
    6 – i media mainstream detengono un enorme potere e di rado sono all’altezza di tale responsabilità. Il loro lavoro ha sia nell’immediato che nel medio e lungo termine conseguenze che possono essere gravi per individui e intere comunità.

    Ecco, io penso che la fiducia non è data, la si debba conquistare, e i miei vecchi mi hanno insegnato che” lu rispettu è misuratu e cu lu potta l’havi puttatu”. La diffidenza che in alcuni frangenti alcuni componenti del movimento hanno manifestato nei confronti di alcuni giornalisti mi sembra più che comprensibile.
    La soluzione per uscire dall’empasse sta nell’ultima affermazione di Favale: ci vuole tempo. Quel tempo che nella professione giornalistica forse è sempre stato poco e oggi proprio non c’è più. Ed è quello stesso tempo che è stato divorato dal capitale in ogni settore lavorativo. Quel tempo che permetterebbe di capire, maturare, comprendere, conoscere, approfondire.
    Ed è quel tempo che i militanti del movimento No Tav in parte si son già ripresi.

    PS: A scanso di equivoci aggiungo che sono profondamente convinto che ostacolare i giornalisti (anche quelli pessimi) nel loro lavoro sia tutt’altro che produttivo.

  10. @ Filosottile
    Io non nego che a volte la diffidenza nei confronti dei giornalisti sia pienamente comprensibile. I cronisti sono, per definizione, degli “imperfezionisti” ed è giusto, a mio avviso, pretendere da loro (da noi) la correttezza, l’onestà e (per quanto è possibile, nonostante i ritmi frenetici che la produzione di un quotidiano o di un notiziario si porta dietro) la precisione. Detto questo, siamo sicuri che la “fiducia” di cui tu parli sia la chiave di tutto? «Non mi fido di te, giornalista, e per questo non ti faccio avvicinare al corteo o, peggio, ti spacco la telecamera così la prossima volta ci pensi due volte». Trentacinque anni fa, la “fiducia” che Rivolta riscuoteva in ampi pezzi di movimento non lo mise certo al riparo da critiche anche molto aspre da parte di chi, comunque sia, non apprezzava le sue cronache. Ma fa parte del gioco: è normale, quando racconti un fatto, scontentare qualcuno. Con questo cosa voglio dire? Che il problema è anche del movimento, di come si autorappresenta e si racconta. E di come vorrebbe essere raccontato. Ricordando, per esempio, che non più tardi di una decina di anni fa, la messe di produzione di informazione e di “narrazione” che veniva fuori autonomamente dal movimento era enorme, capace anche di superare quella dei media mainstream.
    Ora: tra l’imprecisione dei giornalisti (in alcuni casi la malafede, ok) e l’autorappresentazione del movimento non esiste dialettica. È di questa io lamento la mancanza. I cronisti possono avere le loro idee ma è giusto che, quando scrivono o partecipano a una manifestazione, non siano né alleati né nemici dei movimenti. In un caso sono buoni, nell’altro cattivi? Quello di cui ci sarebbe bisogno e che al momento non esiste è il “riconoscimento” reciproco di cui parlavo nella risposta a Wu Ming: e se continua così, com’è ora, andrà sempre peggio. E poi: cosa vuol dire che le telecamere possono essere strumenti di repressione per i militanti? Che non si possono più riprendere gli spezzoni dei cortei? Sul caso “pecorella” è stato sollevato un polverone, è vero. Ma (e questo può piacere o meno) il “fuori onda” è quasi un genere giornalistico. Può capitare, però, che se sei furbo, conoscendo il meccanismo (Luther Blissett docet), il media lo puoi sbugiardare o girare a tuo favore. Senza rompere la telecamera, magari. Ma questo, forse, non lo posso dire io. Sul resto, sulla responsabilità dei media, sul fatto che dietro ai movimenti ci sia studio, formazione, volontariato, hai ragione: ma quando parlavo del bisogno di tempo, studio, curiosità e, soprattutto, pochi pregiudizi intendevo esattamente questo.

    @ tracca: grazie a te per quello che hai scritto

    • @ mfv

      Ho passato la notte insonne, probabilmente a causa delle olive, ne sono ghiotto e se nessuno interviene a togliermele di davanti non mi fermo. Mea culpa. La cosa buona è che l’insonnia mi ha dato il tempo per pensare a ciò che mi hai scritto e meditare una risposta.
      Avevo in mente una roba lunga che però forse non avrebbe contribuito per nulla a colmare la distanza di cui parli nei tuoi interventi. Allora ho scritto queste poche cose:

      I buoni giornalisti non necessariamente sono alleati dei movimenti. Per me i buoni giornalisti sono quelli che sanno distinguere un autonomo da un anarchico e entrambi da un brigatista; sono quelli che sanno porre domande alle persone con rispetto; sono quelli che non ti mettono in bocca cose che non hai mai detto; sono quelli che invece sanno contestualizzare le cose che hai detto; sono quelli che quando parlano di colpevolezza sanno essere garantisti con tutti; sono quelli che sanno essere forti coi forti; sono quelli che sanno tenere il culo per strada.

      Quanto alle riflessioni che il Movimento No Tav dovrebbe/potrebbe fare riguardo ai suoi rapporti con la stampa credo che la scelta di rimborsare l’operatore a cui è stata danneggiata l’attrezzatura – io ho già versato il mio obolo – mi sembra possa valere come adeguata risposta.

  11. @ Filosottile
    Diciamo che abbiamo la stessa idea di quali sono le caratteristiche che dovrebbero qualificare i (buoni) giornalisti…
    grazie per la tua risposta

  12. Nel 1977 facevo il pendolare e in treno i primi articoli che leggevo erano quelli di Carlo: nelle parole che scriveva rivedevo la realtà che avevo davanti tutti i giorni, fatta di grandi ribellioni, di giorni passati in piazza Maggiore a discutere e a incazzarsi, di ragazzi come me amazzati per strada da un poliziotto nervoso o da un fascista di merda . Mi mancano ancora i suoi articoli e forse anche quei maledetti giorni…

  13. Ho comprato ieri “L’aspra stagione”, adesso sono più o meno a metà… Lascio i giudizi a post da destinarsi a lettura completa.

    Mi sono accorto di star leggendo LAS come un iper-testo. Gradualmente. Dapprincipio wikipedia e siti di informazione (appartengo alla generazione che ha il rigore sbagliato di Baggio tra i ricordi d’infanzia, più che Tardelli. Qualche ripetizione aiuta), poi l’archivio storico de La Stampa, Youtube (per la colonna sonora), ecc ecc.

    Tra tutte queste migrazioni-boomerang su altri media, una è stata particolarmente fertile e significativa: una collezione di fotografie di Tano D’Amico sul ’77, che ripercorrono quasi paragrafo per paragrafo le vicende de LAS (almeno sino a dove ho letto io). Fa un certo effetto scorrere pagine e immagini simultaneamente. Leggere dello slittamento improvviso dal Convegno contro la repressione di Bologna all’omicidio di Walter Rossi, e nello stesso momento passare dalla foto delle assemblee a Piazza Maggiore a quella del sangue di Rossi.

    E’ come… leggere un film. E testimonia della bravura degli autori nel dare corpo ad un’epoca.

    I miei complimenti agli autori per aver creato questo strano perpendicolare di carta, che mi porta in giro per alcune pieghe della storia a curiosare e imparare qua e là.

    PS: per chi fosse interessato a vedere le foto di D’Amico, il file è qua:
    http://www.arengario.it/tano/pdf/catalogo-1977-1978.pdf

    • Foto davvero bellissime (ne conoscevo solo alcune), le ho salvate. Hai fatto bene a linkarle.

    • Quella storia di Caravaggio e le facce che scompaiono a pagina 3 è un’intuizione pazzesca…

  14. @maxmagnus

    L’intenzione era proprio quella: puntare sulle tecniche cinematografiche più che sui meccanismi propriamente letterari o sull’andamento tipicamente biografico. In questi giorni, durante le prime presentazioni, abbiamo detto con chiarezza che “LAS” è un libro impostato sul montaggio, sulla rigorosa definizione dell’ordine delle scene, sulla studiata alternanza dei diversi materiali che avevamo raccolto. Bisognava combinare elementi molteplici, alcuni propri della ricerca documentaria, altri legati alla libera riscrittura di fatti biografici o storici, e quindi è finita che abbiam pensato più alla pellicola che alla “carta”. Questo tipo di attitudine diventa forse troppo esplicita, e “scoperta”, come ha rilevato Jumpinshark, nel frenetico montaggio con cui sono restituiti gli eventi della primavera 1981 nelle pagine del capitolo “Il cielo è un punto e non lo vedo più”. In quel caso la tendenza all’accostamento alternato è esageratamente sincopata, perché quel particolare passaggio temporale presenta una serie di concomitanze strabilianti e di corrispondenze indecifrabili. Non dico altro per non rovinare la sorpresa.
    Da quest’approccio procede anche la rottura della *time line*, e il conseguente rimbalzo tra momenti differenti dell’ordito temporale.

    Alla dimensione ipertestuale non avevo pensato, ma credo che, cambiando le dimensioni dello “spazio”, continui a valere il medesimo discorso fatto per la celluloide della pellicola. E aggiungo che, se da qualche parte del web si trovassero TUTTI gli articoli di Carlo Rivolta, cioè se “la Repubblica” avesse indicizzato tutto il suo archivio, quindi anche le annate dal 1976 al 1984, il tipo di lettura che stai facendo sarebbe quasi un modo per “riscrivere” il libro. Nel senso che si potrebbe operare un diverso tipo di cut-up partendo dal quadro completo delle cronache di Carlo. Perché “LAS” è solo uno dei modi possibili per accostare quei materiali e attraversare quella stagione.

    Senza dubbio scatti memorabili, quelli di D’Amico. Alcuni sono diventati emblematici di un’epoca.

    T

  15. Penso ci sia un rapporto stretto tra rottura della timeline, montaggio di materiali etorogenei e “invito alla migrazione” verso altri testi e altri media, cioé lo stimolo ipertestuale segnalato da @maxmagnus.
    L’ordine diacronico e l’appartenenza a un genere rispondono al nostro bisogno di sicurezza cognitiva. Ci mettono comodi in poltrona. Quando invece affrontiamo un testo “disordinato” sul piano temporale e sfuggente su quello tassonomico, allora ci sentiamo insicuri, col culo sugli spilli, e dunque abbiamo la sensazione di dover riscrivere il testo, di doverlo integrare, supportare, esplodere. Siamo di fronte alla porta di un universo narrativo e non racchiusi in un mondo fatto e finito. Il biopic tradizionale ci consegna un identikit preciso, mentre un lavoro come LAS è un puzzle di tracce senza bordi squadrati: vedo bene l’immagine ricostruita dagli autori ma so di non potermi fermare a quella.
    Direi più in generale che proprio la capacità di attivare il lettore in questo gioco di riscrittura è ciò che distingue un impasto efficace di archivio e narrazione da prodotti dove invece la fiction intossica la Storia e ne occulta i significati, invece di svelarli.

  16. “…prodotti dove invece la fiction intossica la Storia e ne occulta i significati, invece di svelarli.”

    Naturalmente, ogni riferimento a libri sul terrorismo nero attualmente in libreria e film sulla strategia della tensione attualmente in sala è del tutto casuale :-D

  17. Giovanni, condivido pienamente la dimensione “attiva”, partecipata, ipertestuale, ludica della lettura che si fa riscrittura, per come la evochi sulla scia dell’intervento di maxmagnus. Provo, al volo e grossolanamente, a fare una considerazione analoga nell’ambito – altrettanto fluido – del romanzo. Mi riferisco in particolare a come è cambiata la semantica della parola (“romanzo”) nell’arco di dieci anni.

    2002: esce “Romanzo criminale”. 2012: approda in sala “Romanzo di una strage”. Al netto della differente forma espressiva (letteratura-cinema), mi sembra che in due lustri l’impiego della verosimiglianza romanzesca in rapporto ai materiali storici e alle fonti (giudiziarie, dirette, d’archivio) si sia completamente rovesciato. La prima differenza la individuo proprio nella capacità di coinvolgimento del lettore/spettatore.

    Dieci anni fa, leggendo il libro di De Cataldo, ci chiedevamo – per esempio – cosa fosse andato a fare il Nero a Milano e, muovendo da questa domanda, migravamo – per l’appunto – verso altri testi. Nel gioco delle corrispondenze a volte beccavamo l’associazione più o meno secca (Libanese/Giuseppucci), a volte rimanevamo sospesi come nel caso di Scialoja. E questa sospensione poteva sollevare degli interrogativi ulteriori sulla dialettica tra pezzi dello Stato. Il fatto che il capo degli Affari riservati non fosse chiamato col suo nome anagrafico poneva un problema generale sul ruolo di certe figure, sospese tra tempo storico e tempo epico, assimilabili all’archetipo del Grande Vecchio: cioè di colui che – in ogni tempo e in ogni luogo – detiene la titolarità di un progetto, o di un piano, di lungo periodo. La plastica tenuta del progetto l’abbiamo misurata attraverso la finzione letteraria, considerando l’insieme delle variabili che nessun piano può mai prevedere.

    Ora prendiamo “Romanzo di una strage” e tutto si ribalta in maniera speculare. In questo caso l’identificazione è rigidissima. Valpreda *dovrebbe* essere semplicemente Valpreda. La caratterizzazione narrativa del personaggio è piatta e a una dimensione. Discorso analogo per i fascisti veneti. Imbarazzante e caricaturale l’uso dei rispettivi dialetti come elemento di connotazione linguistica, ma anche psicologica e caratteriale. A ogni personaggio, ma sarebbe corretto dire a ogni funzione narrativa, corrisponde una tesi (ovvero la negazione del raccontare, almeno a mio avviso): Calabresi non è un poliziotto cattivo perché si scambiava i regali col ferroviere anarchico sotto Natale. Calabresi non è responsabile della morte del suddetto ferroviere perché non era nella stanza. Il ferroviere stesso era un buono, fregato da una cosa più grande di lui. Moro era uno che ci aveva visto giusto, ma non l’hanno ascoltato.
    E infine alla Banca nazionale dell’agricoltura non è andata come pensavamo che fosse andata, bensì in un altro modo.

    Allo spettatore resta solo la presa di posizione secca: a favore o contro. In altre parole: il massimo della passività. In questo caso la verosimiglianza romanzesca è lo strumento – equivoco – con cui si contrabbanda la presunta coerenza d’una diversa verità. Se così dev’essere, però, io preferisco lo stringente lavoro d’inchiesta supportato da una rigorosissima verifica sulle fonti. E l’adeguata forma espressiva da impiegare sarebbe – almeno a mio avviso – il più classico dei documentari. Altrimenti le narrazioni diventano dei subdoli mezzi con cui sequestrare le emozioni di un fruitore passivo per spingerlo da qualche parte.

    Scusate il modo approssimato di esprimere queste considerazioni.

    T

    • Mi scuso in anticipo per la deviazione certamente off-topic, perlomeno a livello dei testi di riferimento legati all’argomento del post.
      Il problema è che l’attualità e l’efficacia illuminanti dell’argomento sollevato da TDL sono tali da potersi applicare a un’infinità di ambiti narrativi.

      Personalmente, all’ultimo capoverso ci riconduco, fatte le debite proporzioni, anche il limite del film Diaz di cui tanto si parla (perlopiù in termini positivi), in questi giorni.
      Un testo dove, a dispetto del coraggio dell’autore di mostrare la violenza per quello che realmente è (stata), a mancare è proprio una profondità narrativa che sappia rendere partecipe lo spettatore al di là della fruizione passiva di questa stessa violenza.
      E non credo si tratti tanto di una scelta stilistica (voler riprodurre la condizione di inermi spettatori del nostro destino, di fronte all’abuso del potere) bensì un eccessivo “dare per scontato” che chi guarda conosca in profondità le coordinate di quei fatti. A questo mi fanno pensare le sfumate connotazioni dei personaggi, da una e dall’altra parte, quasi caricaturali nel loro predisporsi all’Evento.

      Il risultato è una mimesi documentaristica priva però di coordinate spaziali e temporali precise (quelle che avrebbe un documentario), e priva al tempo stesso di coordinate narrative forti che servirebbero a dare una profondità, non solo emotiva, a quanto accade.

      Come per “Romanzo di una strage”, ci si trova ostaggi della propria emotività, con il rischio di ottenere se non un depistaggio, come nel caso del film di Giordana, perlomeno un effetto di superficie, epidermico, incapace di spingere il ragionamento personale quel mezzo metro più in là che già sarebbe gran cosa per una pellicola.

      Anch’io, come TDL, di fronte all’incapacità dell’autore di dare realmente vita a un romanzo d’inchiesta (alla Francesco Rosi sul Caso Mattei, per intenderci) preferirei cambiare forma espressiva.

      Scusate ancora l’OT.

      m.

      • A proposito di “Diaz” e della discussione sulla scelta della forma espressiva, segnalo questa recensione di Alessandro Vicenzi:
        http://buonipresagi.wordpress.com/2012/04/17/diaz/
        Ci sono evidenti consonanze con la recensione del collettivo Militant:
        http://www.militant-blog.org/?p=6765
        Sia Vicenzi sia i compagni di Militant pensano che le critiche di Agnoletto al film siano “fuori fuoco”, basate – non c’è solo questo ma sembra un elemento determinante – sull’equivoco tra forme espressive.

        [Poi, vabbe’, in entrambe le recensioni ci sono “apprezzamenti” personali su Agnoletto, ma sono incidentali, non è quella la sostanza del discorso, anzi: quegli apprezzamenti corrono il rischio di spostare l’attenzione sulle polemiche personali. Di più: nei giorni scorsi è già accaduto, con la risposta “de panza” di Vicari e la conseguente battaglia scatenatasi sul Manifesto a colpi di “lettere dei lettori”.]

        • @WM1 mi ritrovo al 100% nella prima recensione che ha citato… Anch’io ho pianto, anch’io ho trovato insopportabile ed ho chiuso gli occhi durante l’irruzione nella Diaz – il rumore degli anfibi di corsa lungo le scale, che si avvicina, le urla di dolore ad un volume sempre crescente – Anch’io sono uscito pieno di Odio e Rabbia. Facendo commenti irripetibili… Questo film riempie il buco d’immagini che avevamo, ciò che abbiamo saputo ma non abbiamo mai visto e sentito. Oggi mi rimane un profondo senso di colpa per aver lasciato sole quelle persone quella notte, non ora, non il giorno dopo ma quella notte stessa. Non ha senso quello che dico ma dopo il film ho capito ed ho dato un senso a quel senso di colpa che ogni tanto affiorava negli anni a seguire: io non mi sento responsabile con tanti altri di come sono andate quelle giornate, io sono responsabile con tanti di averli lasciati soli, di non aver reagito, di aver contribuito a portarne a casa tanti quella notte sui binari di Brignole “lasciandone sole” in balia della ferocia un’ottantina…

        • @ giangi
          Il senso di colpa può avere più di un’origine. Tra l’altro non è detto che quella a cui riusciamo ad approdare sia quella più genuina.
          Per molti di noi, la sera di sabato 21 luglio 2001 – a G8 concluso, con un morto per strada il giorno prima, una città mezza devastata, decine e decine di feriti – era già tutto finito. Difficile mettere nel conto una rappresaglia a freddo, a bocce ferme, in diretta tv, come quella delle scuole Diaz. Ancora più difficile, a quel punto, immaginare come reagire.
          La verità è che i gruppi organizzati, fin da venerdì pomeriggio (e sempre troppo tardi!) avevano capito l’aria che tirava e si erano premuniti, con turni di veglia notturni, autodifesa dei propri spezzoni di corteo, scelta di percorsi alternativi per portarsi in salvo tutti quanti, etc. Ma le decine di migliaia di cani sciolti, di manifestanti e militanti non organizzati, i tanti stranieri, non potevamo tutelarli da un giorno all’altro. Inutile colpevolizzarsi per avere pensato a riportare a casa la propria gente invece di andare a difendere le Diaz. A quel punto non avresti potuto evitare ciò che è successo.
          Per questo io resto convinto che lo sbaglio, la “colpa” (in senso lato e laico, se possibile), sia da collocare a monte, nell’avere ignorato tutti i segni e perfino gli avvertimenti espliciti di ciò che ci attendeva a Genova e nel non esserci premuniti. Nell’essere cioè andati incontro al destino che era in serbo per noi con una sorta di fatalismo, molto più che con ingenuità. Il nostro – quello del movimento di allora – è stato il ruolo di Edipo, narrativamente parlando, il ruolo di eroe tragico.
          Daniele Vicari ha scelto di raccontare altro e probabilmente ha trovato con grande intelligenza l’unico modo nell’Italia di oggi di fare un film su un episodio infame della storia recente che è un dito nell’occhio per l’intero spettro politico-istituzionale.
          Da narratore, però, sento la mancanza del primo atto della tragedia, senza il quale l’interrogarsi dell’eroe sul proprio destino, sui propri sbagli, etc., rischia di avere un respiro troppo corto.

      • sono appena stato al cinema a vedere “diaz”. la sala era piccola. in prima fila c’erano tre poliziotti. tre ventenni alti, atletici, abbronzati, capelli corti e pizzetto o basette ben curate. quando il film e’ finito si sono alzati e sono usciti, rilassati e sorridenti, mentre tutti noi altri spettatori siamo rimasti per un bel po’ seduti, prima di riuscire a muoverci.

        • @tuco

          quello è il motivo per il quale non sono ancora andato a vederlo. Ho paura (paura!) di trovare quella gente lì (mica solo poliziotti), di vedere facce contente, di non riuscire a chiedere che cazzo hanno da ridere o forse, più improbabilmente, di riuscirci e magari passare dei guai.

        • Grazie a tutti per le recensioni segnalate. Molto interessanti per quanto divergenti siano i punti di vista esposti.

          Per comprendere quello che non mi convince del film credo possa essere preso ad illuminante paradigma il micro-racconto di Tuco sulla sua serata al cinema.

          Non contesto la scelta stilistica di Vicari, che anzi comprendo e, peraltro, trovo intelligente; quello che contesto è la sua capacità di gestire una scelta espressiva così radicale (neorealista l’ha definita, esagerando, qualcuno) senza scadere in un pressappochismo para-realista che tradisce il rigore necessario a renderla pienamente funzionale al discorso.
          E non parlo, come molti sembrano fraintendere nello scambio incrociato di recensioni e critiche, del discorso narrante l’intera esperienza del G8: un film è un film e parla di quel che vuole, come vuole, e dalla prospettiva che preferisce. Pretendere che esaurisca un tema, oltretutto complesso e multiforme, è demenziale.

          Parlo del Discorso attinente al mettere in mostra la violenza, le sue fasi, i suoi protagonisti, le dinamiche che l’attraversano, da una parte e dall’altra. Parlo della scelta di Vicari di sacrificare sull’altare di questo farci vedere il mai-visto la cura nel delineare i personaggi, i loro caratteri, il loro peso scenico insomma: nella recensione di Militant si dice che il film ha il pregio di non apparire una fiction, eppure l’impressione è che *non appaia* fiction per il coraggio di quel che racconta, ma che in qualche modo sembri tale per come lo racconta. E questo non può che essere un grave difetto.
          Parlo soprattutto di quello che Francesco Migliaccio, nell’articolo segnalato da Maxmagnus, definisce il “dominio del visibile”, dove “il punto di vista originario non è quello degli occupanti (l’occhio della vittima è sempre all’oscuro, è sempre un poco coperto), ma quello dei carnefici: solo chi è in piedi e può muoversi liberamente controlla la scena” (http://www.alteracultura.org/?p=2594).

          Pur non potendo pretendere che un film modifichi il pensiero delle persone, il fatto che un poliziotto possa leggerlo, come descritto da Tuco, come macchina virtualizzante, compiacendosi nel riconoscersi nel suo ruolo di possibile picchiatore di stato, è indice di una mancanza.
          Quel che manca è la capacità dell’autore di farci comprendere non soltanto l’enormità della violenza, del dolore, e dell’abuso di potere, ma anche e soprattutto che il punto di vista da cui stiamo osservando è, esattamente e soltanto, il nostro.

          Ciao, m.

  18. Ah, e spero che l’ultimo post non sia off-topic.

    T

    • Assolutamente no, anzi! Andrebbe espanso e approfondito, merita di diventare un testo autonomo, da pubblicare qui su Giap.

  19. “Altrimenti le narrazioni diventano dei subdoli mezzi con cui sequestrare le emozioni di un fruitore passivo per spingerlo da qualche parte”. Ecco, Tommaso, hai toccato dove fa male. Secondo me il danno più grande di un film come quello di Giordana è che finisce per dare ragione a Salmon (“Storytelling”) e a quanti con lui sostengono che per contro-narrare il mondo bisogna smettere di narrare, perché la forma narrativa è tossica di per sé, manipolazione interessata e vile, spesso con l’aggravante delle buone intenzioni.

    • Salmon, certamente, ma anche e forse soprattutto il Dal Lago di Eroi di carta e chi come lui dice che non si dovrebbero mai mescolare fiction e non-fiction.

      Va infatti precisato che il vero bersaglio polemico di quel pamphlet del 2010 non era Saviano, come hanno creduto gli ingenui, poco importa che si schierassero pro o contro l’operazione.
      Il bersaglio era… “noi tutti”, ovvero un insieme eterogeneo di autori che per tutti gli anni zero aveva lavorato – e tuttora lavora – “tra archivio e strada”, lavorato su Storia e storie, imposto all’attenzione “oggetti narrativi non-identificati”.

      L’attacco era rivolto in apparenza a Saviano (bersaglio grosso e in fondo facile, polemiche assicurate, riflettori puntati), ma nella sostanza mirava a Gomorra, il libro, preso non come titolo isolato, ma come opera rappresentativa di un corpus – la famigerata “nebulosa” – che per motivi suoi e non solo suoi Dal Lago voleva attaccare “da sinistra”.

      Eroi di carta si inseriva nel solco delle polemiche seguite al mio memorandum su quello che avevo chiamato, retrospettivamente, “New Italian Epic”.

      Nel 2008 avevo messo on line un pdf di appunti, poche pagine di proposte analitiche su una certa narrativa scritta in Italia nei 15 anni precedenti.
      A quelle poche pagine, diversi addetti ai lavori nel giornalismo culturale e nell’accademia avevano opposto un forsennato e sproporzionato “fuoco di sbarramento”: lenzuolate di giornale, mesi e mesi di polemiche rabbiose e insulti sui blog, più una sfilza di “libri anti-NIE” (messi insieme in fretta e furia da Ferroni, La Porta e altri), sotto-sottogenere della critica che, a distanza di quattro anni, continua ad accumulare titoli (l’ultimo è stato Senza trauma di Giglioli).

      Di quel memorandum, soprattutto tre cose erano continuamente dichiarate inaccettabili:

      1. la definizione che avevo usato (pur avendo io specificato che “New Italian Epic” era un nomignolo provvisorio, di comodo). L’uso della parola “epic” fu equiparato al bestemmiare in chiesa. Immancabile pezza d’appoggio della critica: le vecchie teorie di Bachtin su epica e romanzo, che però da più parti sono ritenute obsolete e inadeguate a descrivere gli sviluppi letterari più recenti, inesorabilmente “meticci”, soprattutto in ambito post-coloniale.

      2. Il fatto che nel memorandum avessi parlato anche di libri miei/nostri. (“Non si fa! Non sta bene!”)

      3. Soprattutto, il fatto che nella “nebulosa” di opere che descrivevo convivessero romanzi-romanzi e titoli ibridi, difficilmente classificabili, ma che per diversi addetti ai lavori erano classificabilissimi: non appartenevano alla letteratura ma alla saggistica o al giornalismo.

      Oggi sembra strano, ma Gomorra era uno di quei titoli. Nel periodo 2006- 2009 critici come Carla Benedetti e colleghi scrittori come Tiziano Scarpa difendevano con veemenza la loro interpretazione di Gomorra come puro “reportage”, coraggiosa opera di giornalismo, libro fatto di “realtà”. Risultava loro inaccettabile la mia descrizione di Gomorra come “oggetto narrativo non-identificato”, opera letteraria parente del non-fiction novel e della autofiction, “romanzo del futuro prossimo”. Tutto ciò che scrissi di Gomorra nel corso degli anni suscitò in quel milieu reazioni violente, come se il mio definire il libro “romanzo” (per quanto sui generis) equivalesse a definirlo menzognero. Come se il lavoro di “tornitura” letteraria a cui Primo Levi aveva sottoposto il suo primo memoriale su Auschwitz, ricavandone Se questo è un uomo (che oggi molti definiscono “romanzo” e nessuno si scandalizza) rendesse il contenuto finzionale. Come se, per il fatto di essere “ricostruito” mediante stratagemmi letterari quindici anni dopo gli eventi che racconta, Un anno sull’altipiano di Lussu fosse da ritenersi finzione.

      Ad accomunare questi difensori del Saviano “parresiaste” e puro testimone di Verità ai detrattori di Gomorra in quanto libro “disonesto” (perché ricorrerebbe a “espedienti letterari”, evidentemente il “New Journalism” degli anni ’60 e ’70 è passato invano), è proprio la riluttanza a riconoscere l’ibridazione tra letterario ed “esoletterario”, tra fiction e non-fiction, tra romanzo e saggio. Riluttanza? Parliamo pure di ostilità nei confronti di chi sperimenta in quella direzione.

      Eroi di carta si inseriva in quella controversia con la delicatezza di una sborrata in faccia. Come ben spiegò la redazione di Carmilla (vedere il paragrafo 3 di questa stroncatura), si trattava di un libro non “contro Saviano”, bensì “contro Wu Ming”, “contro Carmilla”, “contro De Michele”, “contro il New Italian Epic”
      (alla fine, a cristallizzare e feticizzare quella definizione sono stati i detrattori; noi WM abbiamo smesso di usarla abbastanza presto).
      Del resto, lo annunciava già il sottotitolo del libretto, con quel riferimento alle “altre epopee”.

      Oggi vediamo operazioni fatte alla carlona – a voler essere buoni – come quella di Giordana. Costui, per fare un film di finzione che si presenta con lo slogan “la verità esiste” e al contempo si definisce il “romanzo” di un fatto storico, si appoggia a un saggio-inchiesta di Cucchiarelli che è in larga parte inverificabile e indecidibile, stante l’anonimato delle fonti principali a cui afferma di attingere. Il film allude continuamente a una verità “diversa”, ma resta in mezzo al guado, dà un colpo al cerchio e uno alla botte, rimuove ciò che non riesce o non vuole far entrare nel quadro e così, nell’ulteriore indecidibilità che ne deriva, amplifica l’effetto di calunnia nei confronti di personaggi come Pinelli e – soprattutto – Valpreda.

      Retrospettivamente, operazioni del genere forniscono appigli al Salmon di Storytelling (libro smandrappatissimo) e al Dal Lago di Eroi di carta.

      La critica più erronea che si possa portare al film di Giordana, e che purtroppo è già stata portata (ad esempio da Ezio Mauro), offrendo al regista la chance di difendersi “da artista”, è: “non si può fare un romanzo su una tragedia come Piazza Fontana”.
      Ci sono romanzi – e “oggetti narrativi non-identificati” – sulla Shoah, sulla schiavitù dei neri in America, sulla brutalità coloniale, figurarsi se non si può fare fiction, o addirittura mescolare fiction e non-fiction, raccontando di Piazza Fontana! Si può addirittura scrivere un romanzo comico-agrodolce sugli attentati che nell’estate del ’69 prepararono Piazza Fontana, come ha fatto Marco Amato con Una bomba al Cantagiro!

      Quello che dobbiamo criticare è – come ha fatto Tommaso nel suo commento – un modo specifico, questo modo di mescolare fiction e non-fiction.

      La trasformazione nell’uso della parola “romanzo”, come l’ha accennata Tommaso, rende più difficile il lavoro di “noi tutti”, ma è anche uno stimolo a definire sempre meglio l’etica delle scelte di selezione, montaggio e alternanza di registri che sta alla base dei nostri Unidentified Narrative Objects. Il controllo sul trattamento dei materiali dev’essere ferreo, l’autodisciplina (anche nella radicalità e nell’apparente “sfrenatezza”) è imprescindibile.

  20. Ok. Ho finito il libro qualche giorno fa. Poi ci ho messo ancora qualche giorno a metabolizzare.

    Di nuovo complimenti, perchè “il pezzo è riuscito”. Sicuramente vi sono una caterva di critiche possibili – specialmente, riguardo al possibile ampliamento del materiale documentario disponibile nel libro come evidenzia anche @Jumpingshark; ma anche per quanto riguarda alcuni temi “sollevati” dalla polvere delle vicende ma “lasciati lì” a livello di allusioni (la ‘ndrangheta, i centri sociali, il giornalismo servile, ecc ecc…, sono tutti topics che appaiono e scompaiono più volte nel corso del libro, e meriterebbero in futuro esami più appforonditi).

    Tutto ciò penso sia – in fondo – poca roba rispetto alla riuscita costruzione di una vicenda-specchio che, anche grazie all’utilizzo di archetipi narrativi e di regole di genere, racconta una storia facendo viverne mille dentro al lettore.

    Almeno per me è stato così. E soprattutto, mi ha spronato a ricercare altri documenti, altre “prime pagine”, altre storie che componessero nuovi puzzles. Transgiornalismo!

    Una domanda @TDL: come vi è venuta in mente la metafora della nave (nel prologo e nella conclusione)? All’inizio ho pensato “che cagata…”. Ritrovandola alla fine l’ho rivalutata completamente.

  21. @maxmagnus
    La metafora della nave è un riferimento all’ottimistico slogan(summa) del craxismo che recitava: “E la nave va”. “Il Nostromo che studiava da ammiraglio” è Craxi stesso. La ciurma che aveva fretta di partire, cui si allude alla fine del prologo, il caravanserraglio di comparse e comprimari di questa storia e della Storia italiana di quegli anni. Sono gli uomini che salirono sul carro o – meglio – sul vascello corsaro del Psi prima di passare al berlusconismo. Di costoro si parla anche a proposito di una certa riunione *à la page* da cui nacque il quotidiano “Reporter”. Jumpinshark notava, nella sua recensione, che il racconto di quel consesso è criptico, praticamente a chiave: comprensibile solo da chi conosce già i rimandi precisi. In effetti, al contrario di quanto accade nelle 250 pagine precedenti, quello è l’unico caso in cui l’allusione e la caratterizzazione sfumata non vengono esplicitate. Abbiamo scelto di non sciogliere quel passaggio perché volevamo farne il denso grumo di storie che potrebbero seguire: direttamente dalla merda degli Ottanta.
    La metafora nautica è risolta nell’epilogo “Dopo” con il riferimento diretto a Bettino Craxi e ripresa attraverso la citazione musicale che chiude LAS. Il caso ci ha dato una mano, perché – nell’estate del 2011 – Giulio Tremonti paragonò l’area dell’euro al Titanic: “Oggi in Europa c’è l’appuntamento con il destino: la salvezza non arriva dalla finanza ma dalla politica. Ma la politica non può fare errori”. Anche perché “è come sul Titanic: non si salvano neanche i passeggeri in prima classe”. Il Titanic è menzionato anche nel prologo. (Di sicuro c’è che i passeggeri di terza classe se la sono sempre passata peggio).

    Eh, sì: il libro è un po’ una matassa di racconti: alcuni più o meno sbrogliati, altri appena imbastiti. Forse, poteva essere più lungo. Forse.

    Mi colpisce davvero la considerazione rispetto all’eventuale aumento del materiale documentario, perché questo è stato un problema cruciale nella composizione del libro.
    In origine, gli articoli selezionati per blocchi erano tre. Devo dire che il suggerimento dell’editore di ridurli a due è stato un buon consiglio. Dalla lettura ad alta voce si capiva che due era il numero perfetto per una fruizione lineare: cioè quella di chi non salta i pezzi giornalistici per tornarci dopo, ma li legge consequenzialmente.
    Aggiungo che, in prima battuta, la selezione in coda ai capitoli “Doppio 7” e “ROMA N57686” non prevedeva di antologizzare gli articoli più noti di Carlo (le cronache del 17 febbraio, del 12 marzo e dell’ecatombe di via Fani), bensì pezzi molto meno noti, e più obliqui. Ma anche in questo caso le editor, Daniela La Rosa e Francesca Magnanti, ci hanno fatto ragionare sul fatto che non era opportuno eludere l’eventuale, legittima curiosità circa gli articoli più celebri.

    La cosa che stiamo facendo io e Mauro è proporre in giro una nuova selezione degli articoli di Carlo Rivolta che sia più ampia e diversamente “ragionata” rispetto a quella che, nel 1984, curarono Luigi Manconi e Paolo Mieli per le Edizioni Lerici, in cui – peraltro – è contenuta l’intervista realizzata da Giovanni Forti. Non essendo un’operazione per Stile libero, stiamo cercando di capire qual è l’interlocutore più adatto. Al momento il nostro primo contatto non ha manifestato particolare interesse, ma stiamo a vedere…

    Grazie per le tue osservazioni. Davvero.

    T

  22. Maurizio Vito scrive de L’aspra stagione:
    http://66online.wordpress.com/2012/04/19/laspra-stagione/

  23. Girolamo De Michele su “Diaz” e “Romanzo di una strage”:
    http://uninomade.org/discorsi-di-verita-e-pratiche-di-verita/
    A quanto mi consta, sta scrivendo anche qualcosa di articolato su “L’aspra stagione” (qui ne tratta brevemente nella parte finale). Aspettiamo fiduciosi :-)

  24. A proposito di “Diaz”: http://www.alteracultura.org/?p=2594

  25. Due recensioni de L’aspra stagione. La prima è sul sito dell’ANSA:
    http://www.ansa.it/web/notizie/unlibroalgiorno/news/2012/04/26/aspra-stagione_6776753.html
    (per un evidente effetto di “trascinamento”, anche Tommaso è definito giornalista di Repubblica)
    La seconda è in forma di “bugiardino” (biglietto con le avvertenze di un farmaco) ed è sul sito de L’Unità:
    http://bugiardino.comunita.unita.it/2012/04/27/chi-si-ricorda-di-carlo-rivolta/

  26. […] di Alfredino Rampi.L’aspra stagione è un bel libro (qui la recensione di Giuliano Santoro e qui un’intervista di Wu Ming 1 agli autori) che, attraverso il racconto di una parte della vita di […]

  27. Per chi volesse, sabato 5 maggio io e Tommaso siamo a Lecce per presentare LAS. Appuntamento alle 18.30 al Museo Provinciale Sigismondo Castromediano, viale Gallipoli 28

  28. “Ci vuole il Lexotan a portata di mano per leggere L’aspra stagione, respingendo l’attacco di rabbie ed emozioni che ti aggrediscono all’improvviso…”
    Maria Simonetti sul suo blog “Porci con le ali”, L’Espresso.
    http://simonetti.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/05/03/il-cronista-con-lorecchino/

  29. Radio Popolare Roma, speciale su L’aspra stagione andato in onda il 12 aprile scorso. Con De Lorenzis e Favale. Interventi di Miliucci, Deaglio, Bonini, De Cataldo.
    http://www.radiopopolareroma.it/node/5663

  30. Gianluca Veltri recensisce “L’aspra stagione” sul Mucchio di maggio
    http://www.nazioneindiana.com/2012/05/10/laspra-stagione/

  31. Segnalazione velocissima&informale . Tra il 24 e il 25 maggio Mauro e Tommaso vengono a presentare L’aspra Stagione in giro per la Campania.
    Nello specifico:

    -Il 24 in tarda mattinata all’Università degli Studi di Salerno, nella facoltà di scienze politiche con i ragazzi del Collettivo Autonomo Scienze Politiche e con l’Associazione Asinu

    -Il 24 tardo pomeriggio/sera a Napoli all’ ASILO DELLA CONOSCENZA E DELLA CREATIVITA’ (Ex Asilo Filangieri Forum delle Culture Occupato, in vico Giuseppe Maffei 4 – traversa di via San Gregorio Armeno) con i ragazzi del collettivo La Balena.

    -Il 25 al Depistaggio, a Benevento.

    Ringraziamo -io e Daniela in primis, ma un po’ tutti i compagni- Tommaso e Mauro per la disponibilità (poi ai ringraziamenti virtuali aggiungiamo quelli con la vodka, ndr). E niente, se siete in zona venite, poi aggiungo specifiche sugli orari eccetera.

  32. @Tommaso, @Mauro,
    sono nel vortice policentrico, multifocale, del vostro libro già da un po’. E non perché lo stile sia faticoso, anzi, tutt’altro: scorre limpido come un torrente di montagna, ma, come i torrenti di montagna, ogni tanto un sasso affiora, e bisogna fermarsi.
    Quegli anni là sono gli anni della mia infanzia, a Roma. E finalmente posso leggere cosa accadeva, altrove, in città, mentre io imparavo a leggere e scrivere, e i miei spostamenti dipendevano da quelli familiari, la mia conoscenza del mondo era quella che arrivava, filtrata inevitabilmente.
    Nella mia famiglia convivevano anime diverse. Poi, il terrorismo ci è entrato dentro casa e ci ha mutilato, e per capire, placare il dolore, la tentazione della semplificazione è stata fortissima. L’ho sentito subito, anche se avevo solo 6 anni. Facevo domande, e le risposte erano incomplete. Mancavano pezzi.
    Moro, poi, l’hanno rapito a brevissima distanza da casa mia. Una mia compagna di classe, quel giorno, è arrivata a scuola dicendo: “Mentre venivo ho visto uomini sparare”. Semplicemente così. E non si capiva se parlava di un film che aveva visto, di un sogno, di una fantasia che forse anche noi avevamo fatto tante volte, visto che per andare a scuola, sia chi veniva in macchina sia chi, come me, aveva la fortuna di poterci arrivare a piedi, percorreva un percorso a tappe tra posti di blocco e scorte che, vista l’ora, venivano a prendere magistrati, funzionari, possibili bersagli (ne abitavano tanti, nel mio quartiere).
    Ogni pagina del vostro libro mi è familiare – ritrovo quartieri conosciuti, il commissariato dove ho fatto il passaporto, le piazze, i luoghi di ritrovo, la mia università – e insieme aggiunge pezzi che mancavano, rispondono ad alcune delle domande che incessantemente martellavano i miei anni infantili. Riempie spazi bianchi.
    Sarebbe meraviglioso se riusciste a trovare il modo di pubblicare una nuova selezione degli articoli di Carlo Rivolta.
    E’ necessario raccontare questi pezzi di storia: ci servono, e dobbiamo tirarli fuori dalla melassa imbottita in cui gli anni 80 li hanno sepolti…

  33. Stasera all’Aleph di Roma reading musicato de L’aspra stagione:
    http://www.romaitalialab.it/articolo.cfm?id=908&L_aspra_stagione_all_Aleph

  34. […] Giovedì 24 maggio dalle 19,00 all’ASILO presenteremo il libro L’ASPRA STAGIONE (Einaudi, 2012) in compagnia degli autori Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale. […]

  35. Le mie impressioni su “L’aspra stagione”:
    http://www.salgalaluna.com/?p=557

  36. Audio | Tommaso De Lorenzis presenta L’aspra stagione a Fahrenheit, Radio 3, 17/05/2012.

  37. Domani siamo di nuovo a Roma a parlare de L’Aspra stagione con Miguel Gotor e Concetto Vecchio.
    Appuntamento alle 18.30 alla Libreria Koob, Via Luigi Poletti 2

  38. Recensione de “L’aspra stagione” + lunga intervista a Tommaso De Lorenzis:
    http://www.diariodipensieripersi.com/2012/06/laspra-stagione-di-tommaso-de-lorenzis.html

  39. finalmente l’ho letto, mi è piaciuto molto molto perché leggere la Storia attraverso una biografia facilita l’apprendimento e arricchisce lo spirito. spiace veramente che tra i vari interventi di ex colleghi del protagonista manchi proprio quello di Scalfari.

  40. L’ho appena finito di leggere, tutto d’un fiato. Ho trattato il libro, durante la lettura, come fosse un bambino, e ancora adesso ogni tanto mi preoccupo di vedere dov’è, cambiandogli posizione. E’ ancora presto, per me, partecipare al dibattito dicendo qualcosa anche soltanto di lontanamente di sensato, sono ancora sotto l’effetto della commozione e dell’agitazione che mi ha provocato la lettura del libro.
    Soltanto una cosa. Sento un’empatia fortissima (probabilmente ingiustificata) con gli autori, per una sorta di comunanza generazionale, perchè anch’io come loro appartengo a quella generazione che è stata concepita in quell’aspra stagione, che ha vissuto la rimozione successiva, il senso del fallimento, il senso di un rimosso che, per chi è venuto dopo, spesso ha avuto un impatto durissimo e crudele. Questo libro ha per me il significato di un vero e proprio atto collettivo, che trascende gli autori, ai quali va la mia personale (ed irrilevante) riconoscenza, e ci coinvolge urgentemente tutti, nessuno escluso.

    • @mico: Empatia è un termine che usiamo spesso durante le presentazioni per provare a descrivere cosa suscitava la lettura dei pezzi di Carlo e com’era lui (empatico, appunto) nei confronti dei mondi che raccontava. Il fatto che tu lo usi riguardo al nostro lavoro non può che farci piacere. Essere riusciti a suscitare queste sensazioni è, per noi, la cosa più importante. Accendere un faro su quell’aspra stagione, per noi che in quegli anni siamo stati “concepiti” – come scrivi giustamente tu – è stata quasi una necessità. sentivamo di dover cominciare da lì. Per capire da dove siamo partiti. Grazie ancora.

  41. Girolamo De Michele recensisce “L’aspra stagione” su Carmilla:
    http://www.carmillaonline.com/archives/2012/07/004371.html

  42. […] L’aspra stagione, Tommaso De Lorenzis-Mauro Favale, Einaudi: spacca. È la storia di Carlo Rivolta che fu giornalista di Repubblica fin dalla nascita del quotidiano numero uno in Italia. Racconto il ’77, il meridione e l’eroina dall’interno. Così dall’interno che alla fine di roba c’è morto. Gli autori ne raccontano la vita, la carriera e la scrittura. Un libro che quando lo leggi ti chiedi come ha fatto Repubblica a cadere così in basso… […]

  43. Con sommo ritardo aggiungo la mia recensione e un commento di Tommaso De Lorenzis:
    http://opinionista.noblogs.org/post/2013/01/22/laspra-stagione/

    ciao ciao
    daje tutti/e