Crisi dell’euro e crisi di sovrapproduzione: la forma e la sostanza
di Mauro Vanetti (guest blogger)
Sarà mica che porto sfiga?
Nell’estate del 2007 mi trovavo in California; quello fu l’anno della crisi dei mutui subprime. Il nome è improprio, come tutti i nomi che vengono dati ai vari crack del capitalismo; i giornalisti amano etichettare le catastrofi economiche a seconda del casus belli, camuffandone in questo modo le cause profonde. Con questa nomenclatura, la Prima Guerra Mondiale dovrebbe chiamarsi la Guerra dell’Attentato di Sarajevo, mentre la Seconda potrebbe essere registrata nei libri di storia come la Guerra della Radiostazione di Gleiwitz. Ad ogni modo, l’esplosione della bolla immobiliare mise in luce la fragilità della crescita statunitense; si erano accumulate montagne di dollari vendendo case a prezzi sempre crescenti a famiglie senza soldi e ad imprese senza liquidità, e costruendo castelli di carta speculativi su previsioni irrealistiche di crescita eterna di questi prezzi. L’era Bush entrava in declino in un clima crepuscolare ben descritto da quelle scene di Capitalism, a Love Story di Michael Moore in cui si mostra come le banche abbiano imposto allo stesso Congresso il Grande Salvataggio (bail out) nell’autunno 2008, inducendo dozzine di parlamentari smidollati ad approvarlo dopo che il 29 settembre la Borsa era crollata perché i deputati avevano “votato sbagliato” in uno strano sussulto di democrazia. Il Bail Out era di 700 miliardi di dollari tondi; a chi chiese perché la cifra fosse proprio quella, si rispose con compiacimento che non c’erano motivi tecnici, doveva solo sembrare «bella grossa».
Sarà mica che porto sfiga?
Nel 2008 mi ero trasferito a Londra; quello fu l’anno della crisi bancaria britannica. Dopo che per qualche mese si erano combattuti su riviste e giornali gli “ottimisti” e i “pessimisti” rispetto alla possibilità che la crisi “immobiliare” statunitense potesse esondare oltre il settore immobiliare e al di là dell’Atlantico, i fatti hanno dato ragione a chi riteneva che la bolla immobiliare USA aveva coperto per anni, come le ghette da ricco di Zio Paperone, non solo i piedi d’argilla dell’economia degli Stati Uniti, ma quelli dell’intero capitalismo mondiale e in particolare europeo. La locomotiva nordamericana stava frenando e il primo vagone a sbatterle contro era quello con la Union Jack. Sui giornaletti gratuiti della metropolitana si leggeva una parola che sembrava bandita da decenni: nazionalizzazione di una banca che stava crollando, Northern Rock; era dagli anni Settanta che non si nazionalizzava più niente nel Regno Unito. Northern Rock diventa statale, viene spezzata in due parti, una good bank e una bad bank. La parte buona viene rivenduta a Virgin Money nel 2012 per 747 milioni di sterline, metà di quello che lo Stato ci aveva buttato dentro l’anno precedente. La parte cattiva resta nazionalizzata, lasciando ai bilanci pubblici la minaccia di perdite potenziali fino a 21 miliardi di sterline. Di rado si è visto un esempio più clamoroso di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti.
Sarà mica che porto sfiga?
Nel 2009 torno in patria; la crisi mi segue e sbarca in continente.
Si inizia a parlare di crisi dei debiti sovrani. Non c’è da stupirsi, i liberisti dell’altroieri da un paio d’anni erano tutti diventati mezzi keynesiani pronti a “stimolare l’economia” con disperati salvataggi finanziati coi fondi pubblici. I discorsi concentrati sul settore finanziario tendono a nascondere però il legame con l’economia reale: la crisi non era solo delle banche, ma di tutti i settori dell’economia, non foss’altro perché non è oggi possibile tracciare confini netti tra economia reale e finanza, quando qualsiasi impresa o famiglia ha bisogno di un flusso di credito continuo, e viceversa quasi ogni impresa e moltissime famiglie hanno investimenti in questo o quel prodotto finanziario. Non esiste una grande holding che non abbia una controllata che si occupa di finanza e talvolta anche di speculazione immobiliare; ci sono milioni di lavoratori con pensione e liquidazione in parte o del tutto sotto forma di fondi d’investimento. Se questa è la situazione, le spese folli degli Stati per salvare le banche non potevano certo essere finanziate dalla semplice tassazione dell’economia reale, a sua volta boccheggiante. Questi regali colossali al capitale finanziario sono avvenuti a spese di un incremento dell’indebitamento pubblico; basti pensare che nell’anno del Grande Salvataggio il deficit USA è cresciuto di mille miliardi di dollari, realizzando il più grande buco di bilancio dalla fine della Guerra della Radiostazione di Gleiwitz. Nell’agosto 2011 gli Stati Uniti d’America sono arrivati addirittura a un passo dal default quando in parlamento non si riusciva a trovare un accordo per innalzare il tetto del debito pubblico; per la prima volta nella storia, i titoli di Stato USA hanno subito un downgrading da parte di Standard & Poor’s.
Se il debito pubblico di un Paese come gli Stati Uniti, che per difendere la propria credibilità hanno pur sempre a disposizioni abbastanza armi da radere al suolo l’intero globo, poteva dare dei grattacapi, figuriamoci quello di Paesi come la Grecia o l’Italia. Una complicazione aggiuntiva è data dal fatto che mentre gli USA sono padroni della propria moneta e quindi la Federal Reserve può intervenire in situazioni di emergenza scaricando sul dollaro i problemi dei conti pubblici (e viceversa), la Grecia o l’Italia devono mettersi d’accordo con gli altri Paesi della zona euro se vogliono tenere a galla i loro Stati a spese della moneta comune. Se l’economia affonda come il Titanic, conti pubblici e stabilità della moneta sono Rose e Jack finiti nell’acqua gelida dell’Atlantico: complici i fianchi troppo rotondetti di Kate Winslet, se Di Caprio vuole salvarla deve starsene a mollo perché sulla zattera improvvisata non c’è posto per entrambi. Ma quei due perlomeno si amavano anche nel corso di un naufragio, mentre tra le borghesie europee non si può dire che si applichi il motto «A friend in need is a friend indeed».
L’euro, armatura comune forgiata sognando tempi di vacche grasse, in tempi di vacche magre diventa una camicia di forza proprio per le economie più deboli. Politiche monetarie anticicliche che sulla carta sarebbero opportune per la Grecia non sono accettabili per la Germania, che anzi pretende dai governi greci comportamenti “virtuosi” ovvero di austerity dura, in nome dell’euro e in cambio di “aiuti” ricattatorî. Nelle volute delle bizantine procedure decisionali dell’Unione Europa e dell’Eurogruppo si creano i vuoti democratici adatti a contenere una moderna tecnocrazia, che negli anelli deboli del mercato comune assume il volto di una sorta di colonialismo finanziario prussiano.
Forse porto sfiga davvero. O forse facciamo un errore di prospettiva quando confondiamo la crisi con le sue manifestazioni, illudendoci che riguardi una certa moneta, un certo Paese, un certo aspetto dell’economia e della politica, una certa porzione di umanità.
Siamo gli australiani della città di Darwin che il 1° settembre 1939 leggono sul giornale della sera dell’incidente avvenuto il giorno prima alla radiostazione di Gleiwitz, in Polonia; a chi ci dice che il problema è la voracità dell’imperialismo, non solo tedesco, dovuta alla crisi mondiale del capitalismo iniziata nel 1929, rispondiamo che non ci interessano discorsi astratti, ma fatti concreti e soluzioni concrete, praticabili localmente. Da vicino, le spiegazioni generali sembrano generiche, le soluzioni complessive sembrano complicate. Due anni e mezzo dopo, noi australiani della città di Darwin siamo morti: l’aviazione dell’Asse ci ha bombardato con 242 aerei giapponesi. Che sfiga.
Tocca fare un passo indietro e col rischio di sembrare scolastici ripetere verità un tempo acquisite e oggi sepolte dall’arretramento ideologico degli anni Ottanta e Novanta. Le crisi periodiche dell’economia capitalistica sono di regola crisi di sovrapproduzione. Qualcuno in questi casi osserva che questa volta è diverso e non c’è sovrapproduzione. Sia lecito soltanto ricordare che da molti decenni è chiaro anche in ambito marxista, oltre che in qualsiasi libro di Economia Industriale, che la sovrapproduzione si manifesta nei settori maturi del capitalismo come sovracapacità cioè sovrapproduzione potenziale. Gli economisti spiegano che nei settori con una struttura di mercato più concorrenziale, dove l’offerta di molte aziende cerca la sua domanda, la crisi ha la forma della sovrapproduzione (l’esempio tipico è quello della distruzione di prodotti agricoli invenduti); nei settori, tipicamente oligopolistici, dove la domanda crea la sua offerta, la crisi ha la forma del mancato utilizzo degli impianti che scatena autodistruttive guerre di prezzo (qui l’esempio tipico è il settore automobilistico, dove le poche marche presenti sul mercato mondiale cercano di capire chi dovrà chiudere qualche stabilimento perché sia assorbita la capacità produttiva in eccesso che oggi in Europa pare sia addirittura intorno al 30%).
Del resto, che la sovrapproduzione sia un fatto reale e non uno schema libresco di un marxismo datato, è un fatto che chiunque può verificare facilmente se ha purtroppo a che fare con una crisi aziendale. Quest’ultimo inverno ho avuto modo di incontrare due presidî operai nella provincia dove abito. In entrambi i casi, tutti i dipendenti erano minacciati di licenziamento, addirittura in una delle due fabbriche il padrone sembra fosse scappato in un Paese dell’est. Fuori dai cancelli, c’erano i lavoratori con gli striscioni e le bandiere, con il fuoco acceso in un bidone e con la rabbia e la solidarietà che sono il respiro e il battito del cuore di questi momenti di lotta. Dentro i cancelli, in una fabbrica c’erano dozzine di roulotte e camper invenduti allineati nel parcheggio che faceva da magazzino; nell’altra c’erano migliaia e migliaia di marmitte. La crisi nel capitalismo non è come le carestie di un tempo; le vacche non sono magre, sono obese.
Quando l’economia reale entra o sta per entrare in questa situazione è perché si rompe la capacità degli investimenti di generare profitto con lo stesso ritmo di prima. Siccome nel capitalismo fare profitto aprendo una fabbrica, piuttosto che comprando dei derivati sul mercato finanziario, piuttosto che affittando un terreno, è semplicemente un modo come un altro di investire i propri soldi, c’è un sistema di vasi comunicanti tra il profitto, l’interesse e la rendita. Nella misura in cui si prosciugano le occasioni di profitto nell’economia reale, i capitali affluiscono in quella fittizia, finché le bolle che lì si creano non scoppiano a loro volta. D’altronde, per via di quella che Lenin chiamava «la fusione delle banche con lo Stato», le difficoltà della finanza privata non possono lasciare indenne la finanza pubblica. La crisi di sovrapproduzione/sovracapacità diventa crisi bancaria diventa crisi del debito sovrano diventa crisi valutaria. Non è sfiga!
Nel 2001 un’americana che conosco mi scrisse che l’attentato alle Torri Gemelle dimostrava… la necessità di limitare la vendita dei biglietti aerei a persone di provata fiducia. Questo semplicismo può sembrare ingenuo, ma che dire allora di quei sapientoni che nel 2008 sostenevano su autorevoli giornali che la cosiddetta crisi dei mutui subprime dimostrasse la necessità di controllare meglio certi derivati finanziari? (E i più spudorati avranno anche detto che «non van più fatti i mutui ai negri».) Come se il problema iniziasse e finisse in quegli uffici dove con un timbro e una firma frettolosa si accendevano mutui-spazzatura che poi venivano inoculati in prodotti finanziari diversificati che ne nascondevano la tossicità…
Quando la crisi ha cominciato a mandare in tilt il mercato dei debiti sovrani, ad ogni punto di spread si ripeteva sugli stessi giornali la formula magica di tagliare i costi morti dello Stato; ancora una volta, come se il problema iniziasse e finisse quando i parlamentari schiacciano il pulsante verde per votarsi l’ennesimo aumento di stipendio…
Nel 2012 il frame dominante del discorso pubblico sulla crisi in Italia sta diventando un altro: l’uscita dall’euro. L’Italia è uno dei pochi Paesi d’Europa dove gli euroscettici hanno sempre contato poco o niente; la stessa Lega Nord che qualche volta borbottava contro l’euro non ha mai alzato la voce su questo tema. Anche a sinistra l’europeismo, con qualche o nessun distinguo, l’ha sempre fatta da padrone. Il primo governo Prodi ci ha portato nell’euro attuando un massacro sociale, con l’assenso nei fatti dei sindacati e di tutta la sinistra parlamentare. Ciò ha creato – e giustamente – forti lacerazioni. Ricordo un muro (o era uno striscione?) con la scritta «Per l’Europa sociale», ambiguo slogan utilizzato per dire sì all’Unione Europea idealmente ma no all’Unione Europea immanente; qualcuno aveva sbarrato l’ultima lettera e aveva corretto «sociale» in «socialista», trasformandolo nella parola d’ordine contrapposta dai più “duri”, che dicevano che l’Unione Europea era dei padroni e quindi irriformabile. La cosa buffa è che chi aveva corretto lo slogan non aveva corretto la firma: faceva evidentemente parte di un’ala diversa della stessa organizzazione.
Un dibattito tardivo è un dibattito cattivo. Lasciamo pure perdere riformisti, socialdemocratici impenitenti, burocrati sindacali e politicanti del centrosinistra: per costoro, sventolare la bandiera blu con le dodici stelle è una conseguenza logica del loro collocamento tutto interno alla logica del capitalismo europeo. Quelli che ci interessano sono invece i nodi irrisolti nel dibattito sull’Europa e sull’euro all’interno della sinistra di classe e di movimento. Siamo arrivati al 2012 senza esserci mai chiariti le idee su questo tema, fatte salve alcune analisi più acute e profetiche che non sono purtroppo diventate patrimonio comune di un’area abbastanza ampia. Oggi ci svegliamo con Beppe Grillo che capitalizza facili consensi sulla proposta raffazzonata di ritorno alla lira e improvvisamente siamo reclutati frettolosamente in una delle due tifoserie contrapposte: quelli che tengono per l’euro contro quelli che tifano lira. Riproduciamo in una forma più provinciale e banalizzata una discussione che spacca la sinistra greca.
Cosa c’è che non va in questo frame? C’è che la causa della crisi e dell’austerity non è l’euro. Abbiamo visto che la crisi è iniziata negli Stati Uniti, dove tutti gli indizi fanno ritenere che la moneta a corso legale sia il dollaro. Abbiamo visto che la crisi ha colpito la Gran Bretagna, un arcipelago europeo in cui si usano banconote con la faccia della regina Elisabetta II. Tutti i Paesi dell’Unione Europea sono stati in recessione almeno un anno dall’inizio della crisi, con una sola eccezione (la Polonia), a prescindere dal fatto di avere o non avere l’euro. Anche i Paesi europei fuori dall’Unione sono stati colpiti, la Serbia è tuttora in caduta libera e addirittura la solidissima Svizzera, dopo aver avuto seri problemi nel 2009 (PIL -1,9%) ed essersi ripresa, è a rischio di una seconda recessione nel 2012.
Gli economisti “eterodossi” che propugnano come soluzione l’uscita dall’euro, la svalutazione competitiva della dracma o della lira e un sano intervento statale per rilanciare i consumi, magari finanziando il deficit pubblico con il gentile aiuto della banca centrale nazionale, in primo luogo non sono poi così eterodossi (sono idee vecchissime su come salvare il capitalismo da sé stesso), in secondo luogo la fanno troppo semplice. Sembrano credere che la crisi sia il frutto di una follia collettiva chiamata monetarismo o liberismo, e in particolare della cocciutaggine della BCE e di Angela Merkel.
Assecondare queste idee può sembrare molto rivoluzionario ma in realtà significa ritenere che il capitalismo sia un sistema ancora funzionale, che si è semplicemente un attimo inceppato in una manciata di Paesi del nostro continente per colpa della moneta comune. Se diciamo questo stiamo credendo che Hitler si sia davvero preso tanto a cuore la radiostazione di Gleiwitz.
Sia chiaro, il discorso vale a maggior ragione per gli innamorati dell’euro. Un aspetto positivo di questa ventata di euroscetticismo è che si spera metta il mordacchio alle tante scemenze da bar che ci siamo sorbiti negli ultimi anni: «Senza euro saremmo in Africa»… come la Svezia? «Senza euro la crisi ci avrebbe distrutto»… e invece cosa è successo?
Al tempo stesso è utopistico credere che gli effetti catastrofici della rottura dell’euro siano fandonie profetizzate soltanto per fare terrorismo psicologico contro i greci. Chi sostiene la dracma o la lira spiega che in fondo una svalutazione anche notevole può non riflettersi in un’inflazione galoppante, perché non tutto viene importato e quindi anche se importare diventasse più costoso del 50% non tutto questo aumento dei costi si ripercuoterebbe sui prezzi, ma magari solo un 5-10%. Per esempio, se un greco comprasse un pesce pescato nel mar Egeo da una nave greca e processato da una ditta greca, il prezzo del pesce in dracme non schizzerebbe in alto, salvo un pochino in più per l’aumentato costo del carburante usato dalla nave e dalla fabbrica.
Questo discorso dimentica completamente il contesto internazionale. Se l’euro si spacca, con la Grecia che se ne va sbattendo la porta (ovvero ripudiando una parte del suo debito verso le banche francesi, tedesche, italiane ecc.), qualcuno crede che i capitalisti tedeschi e francesi osserveranno compiaciuti l’export della Grecia crescere grazie ad una dracma svalutata? L’Economist non la manda a dire:
«I pochi rimasti nell’euro […] avrebbero uno svantaggio competitivo […] Oltre a imporre controlli sui capitali, i Paesi attuerebbero una ritirata verso l’autarchia, innalzando barriere doganali per rappresaglia. La sopravvivenza del mercato unico europeo e della stessa UE sarebbe minacciata».
Non si può discutere di economia monetaria come se fossimo di fronte a un esperimento da laboratorio sulla manipolazione dei tassi di cambio invece che nel bel mezzo di una crisi epocale – anche perché le cavie potrebbero avere qualcosa da ridire.
Inoltre, siamo sicuri che la questione del tasso di cambio tra monete, e quindi della moneta unica o della moneta nazionale, riguardi soprattutto l’export e l’import di beni e servizi, ovvero la bilancia commerciale? Gli stessi che tuonano ogni istante contro la finanziarizzazione dell’economia, quando si parla di politica monetaria sembrano improvvisamente dimenticarsene. Il motivo principale per cui al mondo si convertono euro in dollari o yuan in franchi svizzeri non è per comprare beni di consumo: è per speculare (cioè per rivenderli quando il prezzo sarà risalito) o per acquistare capitale. I flussi di capitale e in particolare di capitale azionario sono più importanti della bilancia commerciale nel determinare quali monete sono forti e quali deboli.
Gli aspetti veramente drammatici di un’uscita dall’euro in un contesto capitalistico sarebbero dovuti ai flussi di capitale, speculativi e non. Nel 2010 16 miliardi di dollari di capitale azionario di imprese greche era in mano straniera, uno stock equivalente al 5% del PIL annuo; d’altronde gli stessi capitalisti greci non si faranno certo scrupoli patriottici nell’investire all’estero se l’andamento dei cambi lo renderà più vantaggioso. La fuga dei capitali, specialmente se accelerata da meccanismi di panico degli investitori o addirittura di sabotaggio cosciente da parte dei grandi gruppi finanziari, è la vera questione che dovrebbe affrontare un governo che decidesse il ritorno alla dracma. Questo dovrebbe preoccupare a maggior ragione i nostalgici della lira qui da noi, dove lo stock di investimenti esteri si aggira attorno al 12% del PIL.
Con questo sto dicendo che per evitare di mettere in fuga i capitalisti bisogna stare a tutti i costi nell’euro? Assolutamente no. Sto dicendo che non esiste una via d’uscita che non si ponga il problema di chi controlla i flussi di capitale, cioè di chi possiede i mezzi di produzione. Per questo motivo non esistono né in Italia né in Grecia dei settori importanti della classe imprenditoriale che tifino per la lira o per la dracma: perché sanno che per loro non esiste una via sensata di sviluppo capitalistico alternativo all’austerity e all’adeguamento alle politiche della BCE. Del resto, se anche una tale via fosse praticabile a modo loro, lo sarebbe solo a costo di attacchi ai lavoratori, ai pensionati, ai disoccupati altrettanto duri di quelli che implica il rispetto dei vincoli dell’euro: dal punto di vista dei lavoratori, la lotta all’austerity dell’euro si trasformerebbe in lotta per la difesa dei salari reali dall’inflazione e lotta per la difesa dei posti di lavoro dalla fuga di capitali. È un nuovo ring per lo stesso match.
Paradossalmente, gli unici a credere ad un capitalismo dal volto umano in Europa sono quegli spezzoni della sinistra radicale ex/post/neo-comunista che non hanno il coraggio di parlare apertamente di rivoluzione sociale; attorno alle loro ambiguità vegeta un sottobosco di economisti neokeynesiani, di strateghi del default amichevole, di complottisti o semicomplottisti che possiamo etichettare come signoraggisti, fautori delle “monete di popolo”, rossobruni o guru “iperkeynesiani” della Modern Money Theory.
L’Europa è oggi al bivio tra declino e rivoluzione. Mutatis mutandis, i processi su scala continentale in corso dalla fine del XX secolo in America Latina ci suggeriscono il tipo di quadro con cui dovremo confrontarci. Si noti, a questo proposito, che l’uscita (realizzata o rivendicata) di alcuni Paesi latinoamericani dalla dollarizzazione è stata talvolta parte di processi rivoluzionari, talvolta semplicemente una misura d’emergenza che si è imposta in un quadro di conservazione del sistema esistente, facendone pagare i costi sociali alle masse. Viceversa, il governo bolivariano del Venezuela, che non può certo essere accusato di essere amico degli yanqui, tenta di mantenere un tasso di cambio fisso col dollaro; l’aggancio al dollaro è stato deciso da Chávez proprio in risposta ai tentativi controrivoluzionari del 2003 ed è stato duramente criticato e sabotato dalla Confindustria venezuelana. Anche nel periodo della Guerra Fredda, il rublo sovietico e altre monete del blocco orientale erano spesso poste in parità con valute dei Paesi imperialisti occidentali, di solito la sterlina. Cito apposta Paesi di questo genere perché sovente sono mitizzati da certi ambienti del movimento e della sinistra: speriamo che questo faccia sorgere in loro il dubbio che il nesso tra anticapitalismo e libera fluttuazione dei cambi sul mercato non si ponga nei termini in cui lo rappresentano. Sarebbe peraltro curioso che, sventolando bandiere rosse nelle piazze, ci appellassimo alla mano invisibile del mercato arrivati alla soglia delle agenzie di cambio.
Sto dicendo, insomma, di ribaltare i termini della questione. Non si tratta di cercare scampo all’austerity nel ritorno a monete nazionali svalutate; si tratta di rifiutare l’austerity, lo strangolamento per debiti, la distruzione della società causata dalla crisi economica, portando questo rifiuto fino alle sue estreme conseguenze. Tra queste conseguenze, certo, c’è con ogni probabilità la rottura non solo dell’euro ma anche di tutti gli altri trattati europei, atlantici e del Fondo Monetario Internazionale. Infatti rompere la garrota del debito che costringe all’austerity significa attuare un default non negoziato, rifiutando ai grandi creditori nazionali e stranieri il pagamento di interessi usurai e parassitari. Lo stress che questo imporrebbe alle banche nazionali ne imporrebbe l’immediata nazionalizzazione; d’altronde questo tabù l’hanno rotto i padroni per primi e non si capisce perché la nazionalizzazione truffaldina di Northern Rock vada bene mentre nazionalizzare il sistema bancario nell’interesse della massa della popolazione debba essere considerato sacrilego. Nazionalizzare il sistema creditizio apre immediatamente la strada al controllo delle leve fondamentali dell’economia di un Paese, perché al giorno d’oggi i grandi gruppi industriali e commerciali, come la grande proprietà fondiaria e immobiliare, sono tutti in una posizione subordinata rispetto alle banche. Del resto, la fuga di capitali e le delocalizzazioni andrebbero contrastate con misure drastiche di controllo, che entrerebbero in sinergia con lotte dal basso, per esempio le occupazioni di fabbriche e di uffici che si stanno moltiplicando anche in Europa via via che la crisi minaccia con la chiusura dei luoghi di lavoro la vita di milioni di famiglie operaie e impiegatizie.
Avanzare un programma di questo genere significa rompere con l’euro, nei Paesi dove c’è l’euro, ma anche rompere con qualsiasi altro assetto di potere nei Paesi dove non c’è. La questione valutaria diventa una mera variante tattica di un’uscita rivoluzionaria dalla crisi che si pone in termini simili in tutti i Paesi; anzi, rifiutarsi di porre un programma simile come se il suo perno fosse l’uscita dall’euro significa porlo già in chiave internazionale, ovvero evitare di sostenere che la soluzione della questione greca o italiana vada trovata entro i confini della Grecia o dell’Italia. Non stiamo dicendo alle masse dell’Europa in crisi che ce ne andiamo e lasciamo a loro la patata bollente, stiamo proponendo una soluzione che può e deve essere emulata. Non credo alla rivoluzione sovranazionale simultanea, ma credo all’effetto domino. Non sarebbe la prima volta. Non avrebbe infatti molto fiato una Grecia rivoluzionaria nel bel mezzo di un’Europa ostile e incarognita se non fosse l’innesco di un processo di trasformazione sociale su scala perlomeno continentale.
Sono allucinazioni? La crisi ha solo sbocchi di destra? Chi pensa così legga il programma di Syriza, la coalizione di sinistra che forse vincerà le elezioni greche tra qualche giorno. I fatti contano più delle parole e le azioni di governo contano più della carta straccia dei programmi elettorali, ma è chiaro che il fatto che in Europa si possano vincere elezioni con un programma del genere è come minimo indicativo di una consapevolezza di massa in Grecia sulla necessità di misure radicali e anticapitaliste come unica alternativa all’austerity e al declino per debito. Guardiamo all’aspetto dinamico del processo, non all’istantanea del punto a cui siamo arrivati finora. Una rivoluzione non è l’assalto di un gruppo compatto di rivoluzionari ai palazzi dei padroni, una rivoluzione stravolge e trasforma anche gli stessi gruppi che intendono guidarla o che si trovano loro malgrado a farlo: i punti più acerbi e utopici (mi riferisco in particolare al 2, che propone in sostanza una riforma della BCE) saranno i bastioni delle tendenze più moderate all’interno di Syriza, i punti più audaci (quelli che parlano di nazionalizzazioni, di diritti dei lavoratori, di uscita dalla NATO e dalle missioni di guerra) saranno agitati dalla base radicalizzata e dagli hardliner.
Il Partito Comunista Greco (KKE) nel trattare Syriza alla stregua di un François Hollande qualsiasi sta probabilmente sbagliando la bracciata e rischia di essere punito severamente dalle masse nelle urne e nella società. Ponendo la dracma come criterio discriminante e di fatto come pretesto per non formare un fronte unitario traccia una linea divisoria che non rappresenta correttamente i due lati della vera barricata.
Ad ogni modo, comunque la si pensi rispetto al dibattito nella sinistra greca, questi temi sono destinati ad uscire dalle nostre assemblee ristrette e dai siti web “d’area” per diventare argomenti di confronto politico quotidiano anche nel nostro Paese. A dispetto di tutti i ritardi politici e culturali che l’Italia si porta dietro, i fatti avranno la testa più dura della zucca di legno di tanti dirigenti politici e sindacali; il tipo di temi su cui litigheremo o ci scopriremo compagni sono questi e non altri; i frame tossici sono destinati ad essere smontati uno dopo l’altro. Una rivoluzione consiste prima di tutto in milioni di persone comuni che iniziano a discutere di politica volando alto rispetto alle miserie del gossip parlamentare. Il primo passo di una rivoluzione è quando si cerca una spiegazione collettiva alle sfighe individuali.
Le sfighe che ci stanno colpendo sono parecchie, ma hanno una causa e una soluzione comune. Prepariamoci a parlare un bel po’.
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Di Mauro Vanetti consigliamo anche:
SIGNORAGGIO FAQ, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi del Complotto e a odiare il Capitale (scritto con Luca Lombardi)
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Analisi completa e accurata.
“Prepariamoci a parlare un bel po’.” Mi sembra che stiamo già incominciando.
Leggendo questo articolo ho trovato alcuni punti di contatto con un intervento di Riccardo Bellofiore che ho visto su YouTube recentemente. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che sia Vanetti che Bellofiore danno un’impronta decisamente marxiana alle loro indagini economiche.
Mi sono schiarito un po’ le idee sulle possibili conseguenze di un’uscita dall’euro, anche se paradossalmente l’aggiunta di nuove eventualità a cui non avevo pensato mi ha reso più indeciso e confuso. Formarsi un’opinione definitiva mi sembra sempre più un miraggio, ma almeno continuiamo a ragionarci sopra.
Grazie per la bellissima analisi. Confermo: si parla già molto, in giro, di questi argomenti, fuori da tutte le assemblee. “Usciamo dall’euro” sta diventando un mantra sempre più diffuso anche qui. Se prima era una lamentela generica e presa poco sul serio dagli stessi che la esprimevano, ora inizia a prender piede. Sarebbe sensato, se proprio dobbiamo stringere e arrivare allo slogan (se il tipo di conversazione ce lo impone) ribattere con “euro o lira, non paghiamo più il debito”?
Una domanda a Vanetti (e a tutti gli altri) da completo profano: pensi che questa crisi da sovrapproduzione sia anche una crisi di risorse? In che termini lo è o non lo è? Ha senso porsi questa questione (e se sì in quale modo) o “il succo” non cambia? Chiedo scusa per l’eventuale off-topic già subito a inizio thread.
@uomoinpolvere
Per “crisi di risorse” cosa intendi?
Se ti interpreto correttamente, una crisi di risorse sarebbe una crisi dovuta alla scarsità di alcune risorse naturali, per esempio la terra fertile o l’acqua o il petrolio. Insomma, quella che viene di solito chiamata “insostenibilità” o “limiti dello sviluppo”.
Il tema è importante e meriterebbe una discussione a parte, ma se vogliamo circoscriverlo a questa crisi oggi in corso, secondo me no, questa non è una crisi dovuta alla scarsità *in senso assoluto* delle materie prime. Una crisi del genere avrebbe un volto molto diverso, sembrerebbe per l’appunto una moderna carestia e non una crisi di sovrapproduzione.
La crisi del ’73 è passata alla storia come crisi petrolifera, ma i motivi per cui il prezzo era balzato in alto avevano più a che vedere con la geopolitica che con l’oil peak, come si è visto nei decenni successivi di petrolio ce n’era ancora tanto. Gli shock nel prezzo dell’energia hanno però indubbiamente un ruolo nel ciclo economico, sarei molto interessato anch’io a capirne di più.
Alla fine della fiera resta però che il ciclo crisi-boom nel capitalismo non ha cause esterne, è endogeno. La cosa pazzesca di questo modo di produzione è proprio che è capace di creare catastrofi solo… masturbandosi.
Domanda con ipotesi. La sovrapproduzione, deriva da un calo della domanda o da un aumento dell’offerta? Nel primo caso (o anche in caso sia un mix delle due) il calo della domanda non potrebbe essere ‘guidato’ da una scelta del capitalismo che, di fronte alla diminuzione delle torta preferisce eliminare le porzioni piccole e piccolissime piuttosto che ridurre le proprie?
Scusate la sinteticità, ma sono di corsissima
Salve, ottima analisi.
Per quanto ci riguarda, siamo ancora in posizione agnostica.
Non capisco però quando, nell’articolo, prima si dice che l’uscita dall’euro non è una richiesta condivisibile perchè riduce il dibattito allo schema monetarista, e poi fra le conclusioni si dice che avanzare un programma del genere significherebbe rompere con l’euro. Allora l’uscita dall’euro fa parte della soluzione? Può essere quantomeno agitata come parola d’ordine schematica e sintetica di un programma che non abbia quello come unico obiettivo ma che comprenda anche quello?
Secondo me, uscire dall’euro non significa risolvere la crisi, nè tantomeno vagheggiare i benefici di un capitalismo autarchico o nazionale, keynesiano, ma significherebbe creare le condizioni per poter uscire dalla crisi.
Non è l’euro il responsabile della crisi, ma l’euro impedisce oggettivamente una risoluzione della crisi; soprattutto ne impedisce una risoluzione in senso progressista
Se il vecchio è morto, l’euro impedisce al nuovo di avanzare. Fuor di metafora, l’euro impedisce la risoluzione politica della crisi. A meno che non nasca un movimento organizzato europeo capace di influenzare politicamente le autorità economiche europee. Bella cosa, ma difficilmente a portata di mano, al momento. Perchè non esistono movimenti organizzati europei (non ce ne sono neanche a livello nazionale, figuriamoci a livello internazionale), ma soprattutto perchè, anche fosse, non avrebbero il luogo istituzionale dove portare il conflitto. Cosa che invece c’è (c’era?) al livello nazionale.
Per dire, se Syriza conquista il governo greco, continuerebbe a rimanere nei vincoli imposti dalla BCE. A meno che non esca dall’euro, riacquisendo (in parte) potere decisionale. E dunque l’uscita dall’euro sarebbe propedeutica al cambiamento politico.
Altra cosa: qualcuno confonde l’uscita dall’euro con l’uscita dall’Unione Europea. E invece bisognerebbe rimanere saldamente nell’Unione Europea senza però essere costretti a rimanere nell’Euro (cosa oggi impossibile, chi esce dall’euro esce anche dalla UE).
Alessandro
@Alessandro
Secondo me c’è una differenza sostanziale tra dire che un processo rivoluzionario in Grecia romperebbe inevitabilmente l’euro (e probabilmente per iniziativa della stessa Germania) e dire che un processo rivoluzionario in Grecia ha come precondizione la rottura dell’euro. Il punto è che ridotta all’osso la “sovranità monetaria” è la libertà di far svalutare la moneta; non penso che svalutare la moneta sia una parte essenziale di un processo rivoluzionario, mentre è una parte essenziale del piano “iperkeynesiano” per uscire dalla crisi dell’euro restando nel capitalismo.
Su come poi articolare questo ragionamento in un volantino o in un programma di rivendicazioni discutiamone…
Sulla possibilità di “correggere la rotta” a livello europeo (ossia fare la rivoluzione simultanea), l’hai detta bene: oggi come oggi questa ipotesi è irrealistica. Proprio perché l’Unione Europea è un’unione fasulla le condizioni politiche e sociali nei vari Paesi non sono sincronizzate perfettamente.
Bando all’attendismo, si inizi dove si aprono delle crepe e poi si vedrà. E tutto sommato se la rottura che auspichiamo non è un semplice tecnicismo monetario ma una rivoluzione mi sembra logico aspettarsi che si spacchino sia l’Eurozona sia l’UE sia la NATO.
Altro discorso è affermare che i movimenti di lotta all’austerity che, se vittoriosi, sbricioleranno l’Unione Europea capitalista, hanno la responsabilità però di dire da subito che intendono costruire un’altra unione su basi diverse. Se in questa situazione facciamo concessioni al nazionalismo o al patriottismo giochiamo col fuoco; lasciamo che quelli che mettono i popoli gli uni contro gli altri siano soltanto lorsignori.
Trovo molti spunti interessanti, ma credo che uno dei presupposti sia sbagliato.
“…C’è che la causa della crisi e dell’austerity non è l’euro…..”
Purtroppo questo pezzo di crisi interamente ‘eurocentrica’ e’ largamente dovuto all’euro, e credo sia fondamentale puntualizzarlo, proprio per sviscerare quando poco ‘sociale’ sia l’idea di Europa che ci e’ stata propinata fino ad ora.
Stiamo assistendo ad una crisi finanziaria e ad una crisi industriale. La crisi finanziaria non risiede solo nelle difficolta’ degli stati del sud europa a finanziarsi, ma anche e soprattutto in quelle dei privati a ripagare i debiti contratti. Ad esempio, il debito pubblico spagnolo e’ poca cosa rispetto al debito privato accumulato negli ultimi 10-12 anni (mutui, credito al consumo, etc). Chi ha fornito il credito? Le banche degli stati centrali Europei, favorite dall’euro che ha abbattuto il rischio di cambio.
Nel mentre, la Germania ha abbassato il proprio costo del lavoro con le riforme dell’era Schroder e compresso i salari dei lavoratori (l’operaio che entrava ex-novo nel mercato del lavoro si poteva scordare i trattamenti salariali dei colleghi 50enni). Queste politiche hanno mantenuto molto bassa l’inflazione in Germania (1-2 punti al di sotto dei famigerati PIIGS). Risultato? Dopo dieci anni le nostre merci (o quelle spagnole o greche) si sono apprezzate del 20 percento o piu’, rispetto a quelle tedesche. Indovinate chi riceve piu’ ordinativi?
Tutto questo ha l’aria un vero e proprio gioco al massacro. Peraltro anticipatissimo da svariati economisti. Eppure ci troviamo in mezzo al guado, e tutti ci hanno ripetuto fino all’altro ieri che l’euro era l’inizio di un luminoso futuro. Ora abbiamo la prova provata che si trattava di un mucchio di cazzate, ma ci guardiamo indietro e scopriamo che tra i propugnatori delle suddette ci sono le facce gentili e rassicuranti (si fa’ per dire) dei leader della sinistra europea “riformista”. Ma proprio tutti, nessuno escluso.
Non mi sembra che questa crisi nasconda un problema generale di sovrapproduzione (con l’eccezione di alcuni settori). Piuttosto, 20 anni di eurocentrismo (nel senso di moneta) nel dibattito economico e politico si sono mangiati una discussione vera sul welfare, nella pia illusione che la moneta unica avrebbe fatto stare meglio tutti. Una taumaturgia da quattro soldi che ci ha fatto perdere 20 anni.
@spiritofondo
Non mi sembra che l’elevato indebitamento privato (né d’altronde quello pubblico, come accenno nel post) sia una peculiarità della zona euro.
http://blogs.lse.ac.uk/politicsandpolicy/files/2012/03/fig6.png Questo grafico mostra l’andamento del debito privato negli ultimi anni in USA, Regno Unito e Australia: come si vede, è cresciuto in modo più che lineare negli stessi anni in cui è cresciuto nella zona euro.
http://www.voxeu.org/index.php?q=node/5234 Qui ci sono grafici analoghi anche per i Paesi dell’Est europa, dentro e fuori dalla zona euro. Anche in quel caso, nessuna differenza rilevante per quanto riguarda la crescita impetuosa del debito *privato*. Interessante tra l’altro notare, in questo articolo scritto chiaramente da un punto di vista capitalista, come anche per loro faccia poca differenza euro o non euro: “If nominal exchange-rate adjustment is not possible or available however […] The adjustment of the exchange rate will have to happen in an indirect manner via lower domestic consumption […]”. Ovvero: per i padroni svalutazione della dracma e compressione dei consumi tenendo l’euro sono due forme diverse della stessa “soluzione” alla crisi, cioè farla pagare ai lavoratori.
Sul discorso della sovrapproduzione, tu dici che non c’è “con l’eccezione di alcuni settori”. A me sembra piuttosto il rovescio, che i settori senza sovrapproduzione/sovracapacità siano eccezioni; così eccezionali che non me ne viene in mente neanche uno (giusto i beni rifugio magari…), d’altronde se in questa fase si trovasse un settore non saturo ci si butterebbero tutti e in un attimo lo saturebbero. Mi preoccupa anche un po’ l’allusione al welfare in associazione con la crisi; abbiamo un gran bisogno di welfare universale, ci mancherebbe altro, ma se pensiamo che in qualche modo avrebbe prevenuto la crisi dietro una tale affermazione intravedo il sordido ghigno di Lord Keynes.
Articolo chiarissimo e analisi più che condivisibile.
Ho però una questione da sottoporre all’ottimo Mauro (e a tutti i giapsters). La domanda riguarda le conclusioni *politiche* del ragionamento. Se, come dici giustamente, si deve uscire dalle assemblee di partito/movimento e dai siti d’area, qual è lo strumento più adeguato per ampliare il dibattito, per farlo penetrare in un ambito più allargato, per renderlo parte integrante della coscienza della gente comune?
La questione dello strumento non ha una sola soluzione, ma non ne ha neppure mille… e il modo in cui si affronta la questione incide profondamente sulle scelte che si fanno in termini di azione politica e di sostegno a questa o quella opzione. Sostegno che va certamente ponderato bene, ma che non può neppure restare sospeso nell’incertezza per dei millenni, soprattutto in una fase come questa.
Oggi, in Italia, assistiamo ad un relativo proliferare di “soluzioni”, sia strettamente politiche, che più generalmente “movimentiste”. Chiedo allora ai WM e a tutti i giapsters: cominciare a ragionare di queste possibili soluzioni senza più limitarsi a considerazioni generali sulla necessità di una soluzione tout-court – ossia *chiamandole per nome e cognome* – è possibile in questo spazio o no?
Il rischio è certamente quello di trasformare la lista commenti in un ring fra sostenitori delle diverse opzioni o, peggio ancora, in uno spazio promozionale per questo o quell’altro comitato, partito, movimento, assemblea ecc… ma nel caso contrario si rischia di restare sempre nel vago, e di dare l’impressione che tutto sia ancora “da fare”, assente, di là da venire, infinitamente distante… che discussioni ed analisi di questo genere siano limitate ad una circolazione, per quanto vivace, fra intellettuali di area e non nascano invece dal vivo della pratica politica e delle circostanze materiali, alle quali devono costantemente ritornare, in un processo circolare.
Interessantissma lettura. A costo di esser tacciato di campanilismo politico voglio però “tifare” per il partito in cui credo, Rifondazione comunista\Federazione della Sinistra. So già che farò incazzare qualcuno :) Ma attualmente con la segreteria di Ferrero secondo me Rifondazione sta lavorando bene, ha un programma chiaro, che si specchia bene nei programmi dei partiti comunisti francese, greco, spagnolo e portoghese. I punti sono pochi e chiari: nazionalizzare le banche, contrastare fiscal compact e pareggio di bilancio in costituzione, interrompere il crcolo vizioso di soldi dati dalla Bce a banche private che speculano a danno degli investimenti nella spesa pubblica e facendo ricadere i tassi d’interesse sulle masse. Eccetera eccetera. Qui da noi è tutto amplificato, ma allo stesso tempo ben ammorbidito. Monti e Fornero stanno devastando i lavoratori, ma l’opinione pubblica è sapientemente indirizzata verso l’accettazione (seppur critica) del governo tecnico come male necessario, chi si oppone da sinistra è un pazzo estremista e complottista che vuole tornare alla lira. E intanto aboliscono l’articolo 18, e se ti opponi sei “come i brigatisti che hanno ucciso Biagi”, se spieghi che 2 gg dopo un terremoto devastante non si mandano operai in fabbriche di cartone a morire di nuovo dopo la seconda scossa, sei tra quei pazzi che pensano di poter prevedere i terremoti… Non se ne esce senza una rivoluzione, ma soprattutto (come ben spiega la conclusione di questi post) senza parlarne, senza spiegare che il problema non sono gli stipendi dei parlamentari e le “caste”… Che il probema non è l’economia della politica, ma la politica dell’economia. Rifondazione, dopo Bertinotti, dopo Vendola e il congresso di Chianciano, dopo l’errore della coalizione col governo Prodi mi lascia ben sperare. Ma da solo non basta, non andrebbe lontano. E allora i movimenti, i comitati più politicizzati a sinistra, operai e studenti, insieme, e trovandosi su quella stragrande maggioranza di idee e di soluzioni che li uniscono, potrebbero fare fronte comune e far iniziare in Italia una lotta dal basso e da sinistra.
Non sono entrato nei commenti per spostare l’attenzione su un partito, ma perché da affezionato lettore di Giap volevo dire come la penso a costo di farvi incazzare! Dopo anni nelle piazze, spero che i comunisti tornino in parlamento senza zavorre e compromessi, e forse è la volta buona. Buona lotta a tutt*
D’accordo su molte cose, ma, come ha fatto ben notare Militant, c’è una contraddizione di fondo: giustamente critichi l’atteggiamento con cui il Kke liquida Syriza come socialdemocratico e riformista, ma tu fai esattamente la stessa cosa quando liquidi come neokeynesiani sostenitori del capitalismo dal volto umano più o meno tutta la sinistra comunista o radicale europea.
Quello di Syriza è un programma che non è rivoluzionario nel senso che non istaura un nuovo sistema contrapposto a quello capitalista, ma che è rivoluzionario nel senso che pone le basi per un cambiamento radicale dell’esistente. E sono basi keynesiane, certo, ma trovo assurdo pensare a una proposta politica anticapitalista che, oggi, non si preoccupi prima di tutto di smontare l’apparato concettuale e strutturale del neoliberismo e ricostruire uno spazio di legittimità per gli interessi sociali e collettivi. Avanzare proposte keynesiane serve proprio a quello, è chiaro che sappiamo tutti che non è quella la soluzione, però intanto serve per far capire che esistono alternative perfino dentro al quadro di compatibilità del sistema, creando uno spazio che è necessario a chiunque da quel quadro di compatibilità voglia uscire.
@masaccio
Solo per stroncare da subito un equivoco (di cui indubbiamente porto la responsabilità perché ho un modo di esprimermi troppo strafottente): non intendevo “liquidare” nessuno dei vari rami della famiglia comunista europea, né con accuse di settarismo né con accuse di keynesismo. Ho grande rispetto per tutti i militanti comunisti comunque collocati (tra l’altro, io sono uno di loro). Credo che ci siano spazi di discussione in tutte queste formazioni e non credo plausibile che in Europa un’alternativa rivoluzionaria emerga fuori da qualsiasi rapporto con quelle organizzazioni.
Penso che il keynesismo (con l’euro o con la dracma, perché bada bene che propugnare l’uscita dall’euro per trovare una soluzione monetaria alla crisi è sotto sotto pur sempre keynesismo) sia in questo momento un nemico pericoloso di tutte le opzioni rivoluzionarie e che quindi vada combattuto. Per capirci: “però intanto serve per far capire che esistono alternative perfino dentro al quadro di compatibilità del sistema”… Ecco, vedo la generosità con cui lo dici ma questa mi sembra un’illusione perniciosa e non un trampolino tattico verso l’uscita dal capitalismo.
Suonerà scandaloso ma credo che invece l’unica alternativa al declino capitalista dell’Europa sia la rivoluzione sociale. Che poi, non suona neanche più così scandaloso come qualche anno fa, se lo vai a dire in giro.
Dopo una giornata in valsusa ad ascoltare le voci dell’esercito dell’immaginario io e uomoinpolvere ci siamo fermati davanti a una macchina e abbiamo discusso degli stessi temi qui sopra. La mia domanda era più o meno questa, e la ripropongo qui, perché mi preme trovare una strategia alla svelta:
“Come spieghi al tuo vicino di casa che se esci dall’euro non cambia nulla?”
Perché se gli tiro una pippa simile a quella che c’è qui sopra (che trovo stupenda, ça va sans dire, e su cui sono in pieno accordo), so che lui dentro sé penserà che è meglio uscire dall’euro, perché è semplicemente la cosa più semplice da pensare. Ovvero: io vengo qui e mi leggo una delle robe più interessanti sulla crisi che si possano trovare in rete, ma la media del mondo purtroppo non legge questo e trova più divertenti le battutine grillesche. Stante il fatto che il rossobruno e il grillismo sono sfumature della stessa sostanza maleodorante, chiederei uno sforzo bignamistico. Nel senso che mi immagino a raccontare queste cose a mia nonna, a mio padre. E non mi ci vedo. Ma davvero, non prendetela come una critica. Piuttosto come un esercizio di stile retorico. Come concentro questa roba in concetti semplici che posso spiegare senza l’aiuto di un bigino. Perché io mi scontro sempre con questa cosa: le cose buone sono complicate, le cose tossiche semplici. Riusciamo a ribaltare il frame in partenza? E sul serio, io condivido ogni singola riga, ma come lo spiego a uno che non legge giap?
Intanto mi scuso se non leggerò tutta la discussione prima di commentare, ma il post di Giorgio mi ha proprio stregato. Partendo dal fatto che dell’articolo condivido pure le virgole, devo ringrazie Vanetti per avermi fornito qualcosa da condividere a man bassa.
Ma tornando al nocciolo portato alla luce da Giorgio. Come le fai capire queste cose? Diciamoci la verità, in Italia in che % potrebbero leggere un articolo come questo (ma diciamo proprio *questo*) e coglierne appieno il senso? Quest’anno mi sono ritrovato coinvolto mio malgrado negli esami di stato, non so se abbiate avuto la sfortuna di imbattervi nei materiali forniti nell’ambito socio economico. Una sequela di numeri totalmente privi di significato e un breve pezzo su Steve Jobs che ho paura di rileggere. Ovviamente è stata la traccia più scelta. Che belli i maturandi.
Il punto è che non tutto è concentrabile e riducibile a concetti semplici, “nothing is simple” per dirlo con le parole della signora Ceppo. Altro che volantini e/o parole chiave. Vanno rifondate da zero (perché a zero siamo, se non più in basso) le pratiche di approfondimento, studio, confronto. Per come la vedo io questa sì che sarebbe una vera rivoluzione, e se vogliamo è anche uno dei punti cardine dell’esperienza di OWS.
Lo spazio delle discussioni su Giap funziona – anche quando si discute di politica – perché “Saint-Just vigila”, ma anche e soprattutto perché – caso rarissimo in Italia – qui contano poco le appartenenze. A confrontarsi sono gli argomenti, mai le fazioni. Ad esempio, mi risulta che questo sia l’unico spazio telematico in cui si confrontano senza chiusure né pregiudizi (tra tante altre soggettività, chiaro) “marxisti-marxisti” e attivisti di formazione “post-operaista”.
Nessuno dice che le appartenenze non si possano o non si debbano dichiarare (per dire, non è un mistero che Mauro Vanetti militi nella Tendenza Marxista Internazionale, lo dice anche sul suo sito). Significa che bisogna sforzarsi di rispettare le specificità:
1) dello strumento che mettiamo a disposizione;
2) di chi lo mette a disposizione.
Noi WM siamo scrittori e attivisti, abbiamo le nostre prassi e le nostre idee, ben evidenti e più volte argomentate (nonché ripensate in pubblico), tuttavia *non rappresentiamo alcuna organizzazione politica esistente*. O meglio: siamo noi stessi il collettivo in cui militiamo, la nostra è una militanza culturale a tutto campo ed è già un bello sbattimento. C’è bisogno – ne sono fermamente convinto – anche di soggettività e attitudini come la nostra. Siamo *schierati*, stiamo senza ambiguità in un certo campo e nel phylum di una molteplice tradizione, e ci confrontiamo liberamente con *tutti* quelli che stanno in quel campo e in quel phylum, a prescindere dalle appartenenze e “contingenze” organizzative.
Don Cave paventa un grave rischio (“trasformare la lista commenti in un ring fra sostenitori delle diverse opzioni o, peggio ancora, in uno spazio promozionale per questo o quell’altro comitato, partito, movimento, assemblea”) e secondo me lo accantona troppo in fretta.
[Per inciso: ho visto assemblee e conferenze interessanti dirottate e svilite – per fare un esempio a cui ho assistito di recente – dal confronto teso tra… trotskisti che fanno “entrismo” nel PRC e trotskisti che non lo fanno. E si tratta di persone che sono d’accordo quasi al 100% su tutto il resto! Ognuno fa le sue scelte strategico-organizzative, non ha senso continuare a contestarsele a vicenda o gareggiare a chi piscia più lontano in termini di fedeltà al dettato marxista. Sarebbe invece il caso di trovare modi e tempi di una cooperazione tra chi fa scelte diverse ma inevitabilmente si ritrova nelle stesse battaglie. Valorizzare i comuni multipli, insomma, senza pensare subito che l’altro è un traditore della causa. Se c’è una cosa che mi fa orrore, quello è il settarismo.]
Non mi sembra affatto che su Giap si “resti sempre nel vago” e si dia “l’impressione che tutto sia ancora da fare, assente, di là da venire”. All’inverso, mi sembra che qui si sia più volte posto e si continui a porre l’accento su lotte concrete, programmi concreti, tendenze già in corso. Certo, se fare “nome e cognome” significasse dire che il tale partito o partitino è più fico del tall’altro, beh, non ci interessa. Al limite, qui si interviene sull’adeguatezza o meno della forma-partito, e dall’andamento di questa discussione ciascuno può scegliere dove stare.
Ragion per cui: si dichiarino senza problemi le appartenenze, è una questione di trasparenza e onestà intellettuale. Purché ciò non sia accompagnato da alcun senso di superiorità, e non vi scazziate nel tentativo di imporre queste scelte l’uno/a all’altro/a o – men che meno – a noi.
Interverremo con decisione ogni volta che riscontreremo il rischio di “snaturare” Giap.
Ovviamente nel mio riferimento alle “soluzioni” non parlavo di entità politiche minuscole (“sotto la soglia del visibile”, per citare Guzzanti-Bertinotti), o di prove muscolari di “purezza ideologica” fra militanti, ma di una discussione franca e aperta sui tentativi in atto di estendere il dibattito a fette più ampie della popolazione; tentativi che non mancano, che hanno un rilievo ben più esteso rispetto ai partiti, partitini, movimenti e movimentini di cui sopra, e i cui “nomi e cognomi”, nonostante tutto, continuano a circolare assai poco.
Poi capisco che sommando il 2 del mio intervento al 2 della mia “appartenenza”, il 4 che ne risulta possa essere facilmente frainteso in quel senso… però qualche volta 2 più 2 fa 5.
Ad ogni modo, ho chiesto il “permesso” proprio perché non volevo essere io ad avviare di testa mia e senza confronto preventivo un filone di discussione che nasconde rischi potenzialmente disastrosi (anche se naturalmente c’è chi non si fa i miei stessi scrupoli e, magari con le migliori intenzioni, allo spottino non rinuncia).
[Risposta all’inciso: il settarismo fa schifo anche a me e non esito a stigmatizzarlo anche quando lo vedo all’opera nell’organizzazione di cui faccio parte. Però sarebbe inutile negare che, al netto delle sue espressioni più estreme e caricaturali, la mala pianta è amorevolmente coltivata in quasi tutti i movimenti/partiti/organizzazioni che fanno attività politica oggi; e lo dico non per astratta lamentela, ma perché di pedate nei coglioni dai “compagni”, anche a fronte di sinceri e trasparenti inviti o proposte di collaborazione, me ne sono già pigliate diverse, nonostante sia appena un novellino rispetto alle dinamiche contorte dell’attivismo politico…]
Comunque, al di là della maggiore o minore apertura di Giap sulla questione (su cui non ha neppure senso discutere perché sarebbe come voler misurare la velocità di un treno in litri… ad ogni spazio la sua funzione) il problema di come tradurre l’analisi in *azione politica* secondo me rimane aperto in tutta la sua drammaticità. Oggi c’è la necessità *vitale* di costruire, precisamente *al di là delle appartenenze* di gruppo o fazione, uno spazio comune di azione e di discussione perché analisi preziose come quella proposta da Mauro non rimangano appannaggio di un’avanguardia di attivisti/militanti/intellettuali, e perché la discussione non si fermi a sedi come questa.
E’ chiaro che Giap non può essere lo spazio adatto per un confronto del genere. La mia voleva essere più che altro una provocazione, rivolta ai militanti e agli attivisti che scrivono qui e partecipano alle discussioni; perché, anziché concederci ridicoli “onori delle armi” in sede virtuale, non prendiamo spunto dalle discussioni che si sviluppano in sedi come questa e cominciamo, *nella realtà* a… razzolare diversamente anzitutto nei rapporti fra le nostre realtà, gruppi, organizzazioni? Perché non prendiamo la “pax giapista” a modello per un modo diverso di confrontarsi sui punti d’analisi e sulle strategie per creare consenso intorno all’alternativa?
Dicono bene i “padroni di casa”, Giap ha una sua funzione e un suo taglio che ha permesso discussioni di un tipo diverso da quelle su quale sia il collocamento migliore.
Non credo voglia dire che qualcuno qui creda che sia una questione insignificante, semplicemente si decide di procedere nella discussione seguendo passi diversi. In altri luoghi e in altri discorsi ognuno saprà argomentare la sua opinione al proposito.
Resta il fatto che come discutere dei contenuti non risolve il problema del collocamento, così discutere del collocamento non risolve il problema dei contenuti. Ne sia prova il fatto che sono intervenuti in questa pagina diversi militanti, per esempio, di Rifondazione con opinioni parecchio diverse sul tema: uno dice che la linea del PRC è keynesiana e va corretta, uno dice che la linea del PRC è tatticamente keynesiana ma è giusta così, un altro dice che la linea del PRC è già rivoluzionaria. :-)
Qui discutiamo dei contenuti, forse non arriveremo a “conclusioni” condivise ma sicuramente faremo tutti dei passi avanti. Nelle assemblee, nei movimenti e nelle organizzazioni quel che si è detto qua penso e spero si rivelerà fertile.
Giap sta *già* creando una piattaforma teorico-culturale che facilita il confronto. A me è già capitato diverse volte, in confronti anche aspri con compagni di collocamento diverso, di sentire citare post o commenti comparsi su “Giap” o “Carmilla”. A voi no?
Contenuti e scelta politica vanno di pari passo, nessuno si sogna di contestarlo. Ma proprio per questa ragione, penso sempre di più che il confronto sulle analisi, anche se “facilitato” da una piattaforma come questa, serva relativamente a poco se poi non si costruisce qualcosa insieme per rendere “operativa” l’analisi condivisa.
Com’è allora che, nelle sedi in cui bisognerebbe passare a questo secondo stadio, il confronto si blocca, si incancrenisce e tutto va regolarmente a puttane? La risposta è, in realtà, relativamente semplice: perché le mille e una soggettività della sinistra radicale hanno mille e uno approcci diversi alla domanda “che fare?”.
Senza quindi entrare nel merito dei diversi approcci (lungi da me invocare l’ira di Saint-Just), quello che inizia francamente ad urtarmi ed irritarmi oltre il limite, anche e soprattutto a fronte delle “pedate nei coglioni” di cui sopra, è il velo di ipocrisia che si stende regolarmente su questo problema.
Insomma: siamo tutti compagni, ci vogliamo tutti tanto bene, la pensiamo tutti così simile, ci divertiamo tanto a discutere insieme su Giap… ma poi, nella realtà, anziché a mettere da parte certi particolarismi e settarismi, pensiamo soltanto a massacrarci vicendevolmente in piena ottemperanza al famoso “dilemma del prigioniero”.
E sfido chiunque a dire che non è vero, o che non si tratta di un problema *grave* che rischia di immobilizzare la risposta da sinistra alla crisi e di farci perdere ulteriore terreno nei confronti della reazione… il che vorrebbe dire sconfitta, disastro sociale, anni di disoccupazione e miseria.
@Wu Ming 1
Non credo che l’assemblea “marxismo e #occupy” alla facoltà di Lettere a Bologna (eri presente? Non ho ancora avuto il piacere di conoscerti dal vivo) sia stata “svilita” dal mio intervento riguardo l'”entrismo” di falcemartello. Semplicemente, visto che il tempo dell’assemblea era ormai finito e che non volevo penalizzare chi doveva parlare dopo di me, ho evitato di commentare i temi di cui si era già a lungo discusso (su cui Alan aveva sicuramente qualche parola da spendere in più di me) e ho lanciato una – brevissima in termini temporali, non puoi negarlo – “provocazione” che lo stesso Vanetti mi ha poi ritwittato, dunque la questione che avevo sollevato, credo, è sentita tra i ranghi del PRC. Oltretutto il mio intervento ha provocato una risposta di Alan – (quasi) ovviamente molto sbrigativa, vista l’ora – che non chiude certo la questione: capirai la mia preoccupazione nel pensare che dei compagni con cui condivido moltissime posizioni possano ritrovarsi alleati del Pd o di Di Pietro alle prossime politiche! Figurati se ho detto quelle cose per “gareggiare a chi piscia più lontano in termini di fedeltà al dettato marxista”, sono il primo a fare autoironia sulla formazione politica dove milito (infatti non la cito nemmeno, qui non parlo “a nome di”).
Detto questo, purtroppo Vanetti mi è sfuggito al corteo a Piazza Affari, ma è proprio su un tema importante come la questione monetaria e del debito che sto cercando di conoscere le varie posizioni, e credo di avere dei “comuni multipli” molto alti con Mauro.
Giacomo, c’ero e ho anche la registrazione della conferenza e del dibattito, gli interventi quasi completamente imperniati sulla questione se stare o no dentro il tale o il tal altro partito sono stati tre (e mezzo, perché la questione l’ha sollevata en passant anche un quarto). Un militante del Comitato per un’Internazionale dei Lavoratori ha contestato con veemenza la collocazione *internazionale* della Tendenza Marxista Internazionale (quella italiana a loro sta bene, visto che fanno “entrismo” nello stesso partito!). Tu, in quanto militante del PCL, hai contestato – con garbo e senza veemenza – la collocazione *italiana* (ma immagino che sarete “critichi” anche su quella internazionale). Un cane sciolto le ha confusamente contestate entrambe, un quarto tizio ha ripreso la questione, sempre con le stesse espressioni stereotipate (“zombie”, “rianimare un cadavere”) etc.
Tutte quelle argomentazioni erano risapute, non è che FalceMartello non sappia e non contesti il fatto che la maggioranza del PRC vuole ri-allearsi col PD, o che per fare opposizione interna in un partito socialdemocratico bisogna ingoiarsi un sacco di merda… Sono questioni su cui rispondono da decenni, e infatti fin dalle prime battute dell’intervento del compagno del CWI io sapevo già a menadito tutto quel che sarebbe stato detto da lì in avanti. E ho iniziato a sbadigliare.
A me, da esterno e “non-entrista” in un cazzo di niente, tutto questo è parso eccessivo, non dico roba da “BSE”, ma un vero e proprio dirottamento dell’incontro sì, visto che il titolo era “Il marxismo e Occupy”, e chi era venuto lì voleva sentire un’analisi marxista di Occupy!
E’ più che legittimo che tra voi trotskisti discutiate delle rispettive collocazioni, ma fatelo nei contesti giusti. Se pensate che rinfacciandovi scelte organizzative durante incontri aperti alla cittadinanza risulterete intellegibili e interessanti, beh, ripensateci :-)))
Come ogni trotskista che si rispetti, ho una morbosa attrazione per gli scazzi inconcludenti con altri trotskisti.
I miei mentori (tra cui proprio Alan Woods) mi hanno insegnato a considerare questi scazzi come i bigotti considerano le seghe: un brutto vizio che rende ciechi.
Giacomo, da quel poco che ho interagito con lui, non mi sembra affatto uno che voglia far polemica per il gusto della polemica, ma uno che vuole capire. E questo è sacrosanto.
IMHO i rapporti ambigui che il PRC, SEL, la FIOM e la CGIL intrattengono col PD sono un problema per la rivoluzione in Italia. Ci sta che i rivoluzionari se ne preoccupino, come ci sta che ci preoccupiamo di quel che sbagliano Syriza o il KKE. Affrontiamo però la questione come un problema collettivo e non come “un’onta” che può essere lavata con la scomunica; perché un minuto dopo la scomunica il problema è ancora lì. E vedendolo in questo modo secondo me sarà più facile considerare le scelte di collocamento e organizzative come argomenti di cui discutere sobriamente e non come corna da rinfacciarsi.
Non credo al potere curativo degli aggettivi.
Ognuno ha diritto alle sue opinioni, e un intervento in assemblea può piacere o meno. Però nell’intervento di WM1 ci sono delle imprecisioni e delle affermazioni che andrebbero un attimo contestualizzate…
Probabilmente non gliene fotterà nulla a nessuno, però in questo intervento potrebbe quasi sembrare che il CWI (Comitato per un’Internazionale dei Lavoratori) altro non sia che una congrega di settari e “veementi contestatori” tutti concentrati in sterili polemiche sull’entrismo e dediti al sistematico sabotaggio delle iniziative dei “cugini buoni” dell’IMT… ora, in quanto militante di quella organizzazione, non posso davvero lasciare che, magari anche con le più buone intenzioni, passi un’immagine del genere.
Mi dispiace parecchio intervenire in questi termini, perché purtroppo vedo in tutto questo la materializzazione del rischio paventato sin da subito… però alcune cose vanno chiarite, sia per dovere (da parte mia, di “difendere” la mia organizzazione), sia, molto più banalmente, per onestà intellettuale.
(1) l'”entrismo” del CWI in Rifondazione è oggi in fortissima discussione… e la pratica dimostra ahimé che non si tratta sempre e solo di questioni di purezza ideologica; tanto per dirne una che vale per mille: il circolo del PRC di Frosinone (12 iscritti in tutto), il cui segretario aderisce al CWI, è uscito in blocco dal Partito per un fatto molto semplice: dal nazionale era arrivato l’ordine di sostenere un candidato sindaco PD-UDC recente destinatario di un avviso di garanzia.
E giusto per dirne un’altra: il sottoscritto aderisce alla sezione italiana del CWI, ma non è un tesserato di Rifondazione (né ha intenzione di diventarlo prossimamente, né qualcuno nella sua organizzazione gli ha chiesto di farlo).
(2) Il CWI, come internazionale, esiste in più di 40 paesi al mondo, dove sostiene le lotte dei lavoratori e della gente comune con risultati tutt’altro che disprezzabili e con rischi non trascurabili…
I nostri compagni in Kazakhstan sono stati tra i principali promotori degli scioperi nel settore petrolifero, che hanno portato il gennaio scorso ad una repressione feroce da parte delle forze speciali del dittatore Nazarbayev; ci sono state decine di morti, e molti attivisti sindacali e politici sono stati incarcerati per mesi senza tutele legali.
In Cina, i nostri compagni (spesso ragazzi di 20-25 anni) fanno attività sindacale e politica con i lavoratori degli sweatshop, e sono sistematicamente attaccati, imprigionati, perseguitati e costretti ad emigrare.
In Pakistan, dove il CWI promuove fra le altre cose manifestazioni e mobilitazioni per i diritti delle donne, i nostri compagni vengono ammazzati dai taliban per le loro posizioni politiche.
In Sri Lanka, dove appoggiamo il popolo Tamil, siamo pure lì perseguitati e attaccati in ogni modo.
In Inghilterra, il Socialist Party (sezione inglese del CWI) e i nostri compagni attivi nei sindacati sono stato tra i promotori delle recenti mobilitazioni di massa (con numeri che, da quelle parti, non si vedevano dagli anni ’30).
In Irlanda siamo in prima linea nella promozione del referendum contro il patto fiscale e nella campagna contro l’houseolding tax (con una mobilitazione che ha coinvolto centinaia di migliaia di cittadini).
Ora, mi scuserete per la tirata… ma spero capirete anche che, a fronte di tutto questo, passare per dei semplici “veementi contestatori settari”, oltre ad essere in generale poco simpatico, fa anche un po’ male…
(3) Penso infine sia legittimo, in un’assemblea pubblica promossa da una realtà politica che nel suo approccio militante è tutto salvo che “soft” o aperta a compromessi (non cito circostanze specifiche perché non mi va di rinfocolare polemiche), sollevare un minimo problema di coerenza: se l’analisi proposta è questa, perché allora la scelta va in quella direzione…?
Tanto più che, da quanto ne so, la stragrande maggioranza dei 90 partecipanti all’assemblea erano… attivisti politici. Se la composizione fosse stata un’altra, sono sicuro che il compagno avrebbe fatto un intervento di tutt’altro genere.
Un’ultima precisazione: non sono un militante di lungo corso, ho aderito al CWI, ufficialmente, nel gennaio 2012, e *non me ne fotte una sega* (ripeto: *non me ne fotte una sega*) di sottigliezze sulle corrette interpretazioni del marxismo o del trotskismo, sulla purezza ideologica o dio solo sa cos’altro…
Alla pari di molti altri compagni, mi sbatto quasi quotidianamente, dentro e fuori del CWI, con qualche sacrificio e un discreto dispendio in termini di tempo, energie e risorse, per costruire un barlume di alternativa in questa società capitalistica di merda…
Qualsiasi intervento io faccia, in questa o altre sedi, con toni più o meno pacati, è legato strettamente a questa necessità, si tratti di difendere il lavoro internazionale di un’organizzazione che, al di là delle appartenenze o dell’adesione, reputo degna di stima per quello che fa, o di promuovere la creazione di piattaforme larghe perché questa “alternativa” non se la continuino a raccontare in eterno qualche pugno di militanti chiusi nei loro ghetti.
Faccio questo con tutti i limiti soggettivi ed oggettivi del caso, facendo i conti quotidianamente con l’inesperienza e gli eccessi di ottimismo/pessimismo che ne derivano, senza la pretesa di possedere la “verità ultima” su una qualsiasi cosa, fosse pure la più insignificante.
Spero quindi sia chiaro che non intervengo in nome della mia appartenenza, o spinto da una qualche pulsione settaria, ma perché, semplicemente, ho a cuore, come spero tutti qui dentro, trasparenza ed onestà intellettuale, ossia le basi imprescindibili per un confronto aperto su questi temi, mai come oggi così necessario.
@ Don Cave
trovo questa lunga difesa della vostra organizzazione comprensibile ma fuori luogo, visto che nessuno si è sognato di dire alcunché su di essa e il mio commento non la riguardava. Il fatto che il primo intervenuto alla conferenza fosse del CWI è incidentale, infatti non è stato l’unico a intervenire e la mia critica non riguardava i contenuti ma il contesto, l’approccio, la modalità. Se dico che ieri l’idraulico è venuto a casa mia all’ora sbagliata, devo forse beccarmi una rampogna scritta a nome di tutta la categoria degli idraulici, con tanto di compendio su tutte le belle cose che fanno gli idraulici in Italia e nel mondo? Non so, mi sembra quasi un riflesso condizionato, e gente più maliziosa di me imputerebbe il tutto all’entusiasmo da fresca appartenenza.
Ribadisco che secondo me un’iniziativa pubblica in un’aula dell’università, alla quale non erano presenti solo persone al corrente delle varie beghe tra trotskisti, non era il contesto giusto per fare interventi a raffica su questa o quella scelta “entrista” di questa o quella organizzazione. Se ci fossero in maggioranza militanti politici non sono in grado di dirlo, ma in ogni caso ciò non autorizzerebbe a fregarsene dei (non pochi) “semplici curiosi”, anche molto giovani, che magari per la prima volta venivano a sentire la conferenza di un teorico marxista, e di queste controversie non sanno niente. Tra l’altro, nemmeno molti *militanti* ne sanno niente.
L’esito di quell’incontro, ad ogni modo, l’ho citato indirettamente per dire che su Giap non vogliamo sventolar di bandierine. Un certo “teatrino” militante, nei miei ormai tre decenni di attivismo a sinistra, l’ho visto mettere in scena troppe volte, quasi sempre sui palcoscenici sbagliati.
A essere sincero, non mi ero reso conto del tempo tolto in generale alla discussione da tutti gli interventi che hai menzionato, anche perchè diversi oratori hanno fatto dei predicozzi un po’ lunghi che in effetti mi facevano sbadigliare, e quindi non ho avuto la lucidità necessaria per cogliere questa ridondanza [avevo pure dato un esame quella mattina :) ].
Per il resto, sono d’accordo con te e Mauro.
@ Don Cave
Grazie di avere aggiornato il blog sul fatto che l’organizzazione di cui fai parte va fortissimo in Asia e nell’arcipelago britannico. Però mi sembrava che il problema che sollevavi fosse anche quello che si è e che si fa qui da noi, nella contingenza attuale. Per il resto, fatta salva la buona fede di tutti, se uno non è interessato a un’assemblea di attivisti politici inquadrati in un’organizzazione semplicemente se ne tiene alla larga e siamo tutti amici come prima. A ciascuno poi le proprie valutazioni.
Bellissimo articolo, ma il finale mi lascia un po’ perplesso. Lo trovo, e l’autore mi corregga se sbaglio, un po’ deterministico. Nel senso: il capitalismo è fallito e ci sono due strade, o la rivoluzione o la catastrofe. Bene, siamo d’accordo, ma la rivoluzione non arriva così dal nulla. Non arriva semplicemente con l’autorganizzazione delle lotte, o appoggiandosi a qualche sindacato, o votando alle elezioni per un partito (ricordiamo il riformismo fallito di Allende). La rivoluzione ha bisogno di un partito rivoluzionario internazionale, i cui germi sono già in fermento in tutta Europa e nel mondo. Concordo con l’autore che l’effetto domino la farà da padrone, ma senza un’organizzazione che tenga la barra dritta, tutta la forza rivoluzionaria delle masse potrebbe perire sotto i colpi borghesi, che, sappiamo, sono ben consapevoli di essere la classe dominante e come tale agiscono. Insomma, ho letto nell’articolo, alla fine, delle venature martynoviane (mi riferisco al discorso di Martynov stroncato da Lenin nel “Che Fare”), dove non si fa accenno a un qualcosa di fondamentale come l’organizzazione data da un partito rivoluzionario (e Syriza non mi pare tale).
Saluti a pugno chiuso con molta stima all’autore dell’articolo e al collettivo Wu Ming.
@jecko666
In una cosa mi sento “deterministico”: la rivoluzione in Europa scoppierà. Ma magari la perdiamo.
Hai citato Allende e, se la vicenda della rivoluzione cilena dimostra qualcosa, dimostra che le rivoluzioni scoppiano a prescindere dalle qualità rivoluzionarie di chi le guida (sia detto con tutto il rispetto dovuto a chi è caduto da martire ed eroe). Il problema è cosa succede dopo che è scoppiata.
La funzione del “fattore soggettivo” (cioè delle organizzazioni rivoluzionarie) non è fare le rivoluzioni, le rivoluzioni le fanno le masse (il “fattore oggettivo”); la funzione del fattore soggettivo è far vincere le rivoluzioni.
Questo però vuol dire che siccome in Cile non c’era Lenin ma c’era Allende (oppure: siccome in Grecia c’è Tsipras) bisognava ritardare l’inizio del processo rivoluzionario? o eravamo – deterministicamente, appunto – destinati a finire con Pinochet? Non si dà un solo caso nella storia di rivoluzioni iniziate con un partito veramente rivoluzionario già alla testa del processo.
Quando uscirà il libro dei WM sulla Rivoluzione Francese scommetto che si capirà bene come in tutte le rivoluzioni le varie fazioni si succedono alla guida del processo, vengono messe alla prova e se non sono all’altezza devono cedere il passo.
Detto questo, proprio perché non c’è nessun determinismo nell’esito delle rivoluzioni, trovo giusto e convincente il tuo invito ad impegnarsi da subito per la costruzione del partito rivoluzionario internazionale. Anzi, siamo già troppo in ritardo. Quando gli eventi accelereranno, avremo il fiato sul collo.
“Temo proprio che Lenin sia impazzito”
Quando, nelle “Tesi d’Aprile” del 1917, Lenin comprese l’Augenblick, l’unica possibilità per una rivoluzione, la sua proposta fu recepita inizialmente con stupore o commiserazione da una larga maggioranza dei compagni di partito. Tra i Bolscevichi, nessuno dei principali leader spportò la sua chiamata alla rivoluzione, e la Pravda prese la decisione di dissociare il partito e l’intero board editoriale dalle tesi di Lenin … Bogdanov descrisse le “Tesi di Aprile” come “il delirio di un folle”, e Nadezhda Krupskaya stessa concluse dicendo “Sono addolorata, sembra che Lenin sia diventato matto”. (traduzione mia, ciccia di Zizek http://www.lacan.com/thesymptom/?page_id=1012
Negli scritti del 1917, Lenin riserva la sua ironia più feroce a tutti quelli che si erano impegnati nella ricerca spasmodica di un certo livello di “garanzie” per la rivoluzione; garanzie che assumono essenzialmente due forme: la nozione reificata di una Necessità sociale (per cui la rivoluzione non deve venire “bruciata” troppo presto, e occorre invece aspettare il momento giusto, quando la situazione è “matura” rispetto alle leggi dello sviluppo storico: “È troppo presto per la rivoluzione socialista, i lavoratori non sono ancora pronti”), e quella parallela di una sua legittimità normativa, “democratica” (“La maggioranza della popolazione non sta dalla nostra parte, e questo significa che la rivoluzione non è veramente democratica”). Come se, Lenin lo ripete più volte, prima che il soggetto rivoluzionario potesse sferrare l’attacco al potere dello Stato, si rendesse necessaria l’approvazione di una qualche forma di Grande Altro: organizzare un referendum per essere sicuri che la maggioranza appoggi la rivoluzione. Con parole di Lenin, come del resto di Lacan, la rivoluzione ne s’autorise que d’elle-même, si autorizza da sola: occorre assumere interamente su di sé l’atto rivoluzionario, senza la copertura di ogni possibile Grande Altro – ché il timore di prendere il potere “prematuramente” e l’ossessiva ricerca di “garanzie” altro non sono che la paura dell’abisso dell’atto. Proprio in questo tipo di paura risiede il significato ultimo di ciò che Lenin denuncia continuamente come “opportunismo”: sua intenzione è dimostrare quanto l’opportunismo rappresenti una posizione in sé implicitamente falsa, tesa a nascondere la paura di compiere l’atto dietro lo schermo protettivo di fatti, leggi o norme “oggettive”. Per questo, quando si è in lotta, il primo passo da compiere consiste nell’annunciarlo chiaramente: “Che cosa bisogna fare”, allora? Dobbiamo aussprechen was ist, dichiarare ciò che è, “esporre chiaramente i fatti”, ammettere la verità: “che c’è un obiettivo, una volontà, nel nostro Comitato centrale…”. (RTF http://www.feltrinellieditore.it/Comunicati/giornalisti/fs/download_press/5000016.rtf)
Lenin is said to have asked: “What will happen to us if we fail?” To which Trotsky supposedly replied: “And what will happen if we succeed?”
Concordo ma il problema cileno (e greco) rimane lo stesso, ed è la domanda solita da un milione di dollari: siamo riformisti o rivoluzionari? Un processo rivoluzionario, infatti, non passa per le urne, non segue le logiche dei partiti istituzionali. Non segue gli stessi meccanismi “borghesi”, insomma. L’assalto al Palazzo d’Inverno non lo si fa mettendo una crocetta dentro a una cabina. Perlomeno che io sappia.
Il punto è un altro. Se citare un partito, vuoldire poi fare le pulci a chi lo ha citato per vedere se quella “dottrina” sia compatibile al 100% con l’idea che abbiamo di conflitto e lotta di classe, mi pare una cazzata. Negli ultimi 4 anni in Rifondazione, durante seminari, congressi, dibattiti e analisi sulla crisi del capitalismo, tutto ho visto meno che posizioni keynesiane difese da qualche esponente o intellettuale del partito. Piuttosto l’obiettivo mi è sempre parso quello di spingere sempre più a leggere con Marx l’attuale crisi, a rileggerlo nei conflitti odierni senza snaturarlo e ricontestualizzarlo malamente (come per esempio credo abbia fatto Negri e il movimento intorno a lui). Ma se ci incartiamo in queste discussioni perdiamo di vista quel 98% buono di cose che uniscono, per arroccarci su quel 2% di differenze di vedute che oggi contano ben poco. Questa bellissima discussione deve servire a capirci, e a capire dove vogliamo andare. E la discussione deve, a mio avviso essere attuale. Conosco (“virtualmente” e per i loro scritti) i Wu Ming molto bene, negli ultimi anni mi sono quasi “formato” con loro, e gli ho dedicato anche mezza tesi di laurea. So quanto sia importante il “frattempo”, il prendersi il giusto tempo per riflettere e non fare come i topi\tuttologi (con Badiou). Bene credo che quel frattempo sia maturato, e oggi più che mai occorra concentrarsi sull’attualità e cambiarla. In questo momento al Senato il ddl Fornero è passato e arriverà alla Camera blindatissimo. Il Pd deve essere presentato finalmente come il nemico di classe. Di Pietro e Vendola che borbottano, domani saranno suoi alleati. La Cgil che 10 anni fa portò in piazza un milione di persone per salvare l’art.18 oggi è rimasta al palo e non ha dichiarato lo sciopero generale prima della discussione in Parlamento, per non ostacolare i lavori. “Che fare?” Il 13 e 14 giugno, avremo la prima occasione per contarci secondo me, scendendo in piazza con la Fiom (che è ormai alla rottura netta con la Cgil) e con lavoratori e studenti per far vedere a Monti e all’Italia che c’è un conflitto anche qui… Le discussioni di dottrina le posticiperei, in “varie ed eventuali”…
@luis
OK bandire il keynesismo e OK dipingere il PD come nemico di classe. Lasciami dire che non mi sembra che questi siano risultati già acquisiti nella sinistra italiana. Proprio per questo non vorrei rinviare le “discussioni di dottrina”, semmai facciamole sul pullman che porta alle manifestazioni. :-)
A sinistra intanto c’è un bel polverone. Landini e Airaudo della Fiom sembra vogliano portare il sindacato in politica attraverso un “patto sul lavoro” aperto a SEL IDV ed ala sx del PD su questi temi:
1) La riscrittura della riforma previdenziale sui lavori usuranti e sul riconoscimento differenziato della fatica del lavoro
2) Un pacchetto di leggi per il riconoscimento della democrazia sindacale
3) Una legge sui precari
4) La modulazione di un salario di cittadinanza 5) Un impegno del governo a sostenere un piano strategico sulle politiche industriali
Cremaschi contrario
Uh questo me lo son perso. Cremaschi contrario a cosa di preciso?
“a friend with weed is better” a parte gli scherzi, ci sono tantissimi spunti interessanti nella tua analisi e molti li condivido e alcuni non li condivido come la posizione agnostica sull’euro.
Un’ osservazione che faccio adesso riguarda le soluzioni neokeynesiane o iperkeynesiane come le chiami giustamente tu.
la soluzione iperkeynesiana e’ gia’ stata adottata da stati uniti, giappone e inghilterra non e’ piu’ un ipotesi ma e’ la scelta definitiva e si basa su di un postulato che prevede la totale inalesticita’ dell’inflazione alla quantita’ di massa monetaria immessa nel sistema, questo postulato si basa su di un corollario che prevede che non ci siano pressioni inflattive indotte dal costo del lavoro. Quindi la soluzione IK prevede teoricamente una redistribuzione secondaria della ricchezza tramite rafforzamento della spesa pubblica e welfare ma una redistribuzione primaria al contrario in quanto il rapporto capitale lavoro si deve spostare necessariamente a favore del capitale, infatti tutta la teoria IK si basa sul contenimento dei salari e sull’ arcinoto esercito di lavoratori disposti a lavorare a redditi decrescenti. Questo e’ lo spettro che si aggira per il mondo in questo momento, un raggiro riformista che ha le sembianze di un nuovo umanesimo ma che si basa sull’antico e consolidato sfruttamento del lavoro . L’europa secondo me e’ pronta ad adottare l’ IK o MMT che a parte qualche resistenza apparente sta’ diventando il nuovo pensiero unico mondiale.
Ben fondata la tua descrizione a tinte fosche della minaccia iperkeynesiana/MMT/inflattiva. A furia di preoccuparci del “liberismo” invece che del capitalismo siamo diventati orbi.
Il problema, come dicevano altri, è imparare a spiegare questo problema in modo chiaro. Un’idea è mettere foto di Keynes al posto del bersaglio delle freccette.
Si infatti contineremo a discutere di neo liberismo quando la scuola di chicago sara’ bella e sepolta e una mela costera’ gia’ 3 euro.. un’ altro punto non chiaro; ma chi e’ che mette in dubbio(come dici sopra) che questa sia una crisi da eccesso di capacita’ produttiva ? a me sembra il piu’ classico dei casi, aumento di produttivita’ grazie a diminuzioni salariali ed impossibilita’ di consumare le merci da parte dei lavoratori che le producono, crisi classica da supply side economics.
L’ unione monetaria invece secondo me e’ un collante imprescindibile per veicolare a livello internazionale le lotte ed i dibattititi dei singoli paesi.
Anche Berlusconi è diventato iperkeynesiano/MMT: http://www.corriere.it/politica/12_giugno_01/berlusconi-gente-sotto-choc-idee-pazze-per-la-testa_b1c6f25c-abd1-11e1-b908-fbecd0c99c6b.shtml
«Dobbiamo andare in Europa a dire con forza che la Bce deve iniziare a stampare moneta». Altrimenti: «Cominciamo a stampare euro noi con la nostra Zecca».
La “sovranità monetaria” è di sinistra? La destra è liberista/monetarista? Sicuri sicuri sicuri? :-)
Personalmente condivido in toto le conclusioni del compagno Vanetti, anche a proposito dell’Euro.
Avrei una domanda invece sulle premesse, quando si parla di crisi di sovrapproduzione/sovracapacità. Leggo da diversi economisti (o presunti tali, e non parlo neanche delle teorie di sottoconsumo di Sweezy, visto che leggo queste opinioni anche da economisti di “establishment” ) che in realtà la crisi è dal lato della domanda e non dell’offerta.
Dunque l’impoviremento generalizzato causato da anni di finti-investimenti (speculazioni) intacca il reddito fino a costringere i consumatori a rivedere le lore preferenze di consumo. Ergo i magazzini sono pieni non perchè l’azienda/e abbiano rivisto il loro output produttivo (che magari è rimasto costante) ma perche’ la domanda si e’ ricollocata ad un livello che non permette piu’ la remunerazioni del capitale, quindi licenziamenti, ulteriore riduzione di reddito, calo di consumi e via dicendo.
In entrambi i casi (lato della domanda o dell’offerta) si arriva ad un punto di snodo comune: calano gli investimenti con gli effetti già descritti. Fatto e’ che ognuna di queste due letture poi porta con se, o puo’ portare, dei rimedi diversi.
Insomma penso sarebbe interessante capire (spero non solo per me) se la vulgata della “crisi dal lato della domanda” è una sorta di specchietto per le allodole o se e’ fondata (o, perche’ no, se e’ irrilevante).
Alla tua ultima domanda penso sia utile un articolo di Carchedi. In sintesi pone come corretta, al fine di capire le cause della crisi, la prospettiva della caduta tendenziale del saggio di profitto. Niente di nuovo ovviamente, ma espresso in modo molto chiaro.
http://www.sinistrainrete.info/component/content/article/81-marxismo/1538-guglielmo-carchedi-dietro-e-oltre-la-crisi.html
L’uscita dall’euro rischia di essere un mantra pari al suo esatto opposto, con lo stesso rischio di adesione acritica. Tornare alla lira (o alla dracma) e alla connessa politica della svalutazione rischia di creare un’inflazione in grado di colpire pesantemente i salari delle classi popolari e lavoratrici (come negli anni ’80, ma senza la scala mobile che ha consentito ai redditi da lavoro dipendente di mantenere il proprio potere d’acquisto); non solo, mi pare che tornare alla lira (o alla dracma), ossia ad una moneta “debole” come risultato immediato avrebbe quello di trasformare il nostro attuale debito pubblico e privato in euro, in un debito in moneta debole, ossia tante volte maggiore. In poche parole, uno scenario che può essere non peggiore di quello attuale, ma dove la difesa delle classi lavoratrici è tutta da giocare, e certo non scontata. Mi pare di intravvedere spunti per questa riflessione anche in Vanetti.
Per il resto, personalmente – e quindi per quanto può contare – guardo con estremo interesse a idee di riforma radicale della moneta e del sistema finanziario, come quello che – partendo proprio da Keynes e dalla Clearing Union, mai attuata in favore di una Bretton Woods distorta – sta elaborando una certa scuola monetarista radicale.
Infine, permettetemi: il paragone tra la crisi della Radiostazione di Gleiwitz e i subprimes è simpatico ma non regge, perchè il primo è il punto di inizio i secondi sono il frutto perfetto dell’evoluzione del sistema finanziario moderno: il capitale accumulato che per espandersi “cerca” ulteriori territori, tra i debitori insolventi.
@mico1978
Be’, anche quell’incidente non è stato un punto di inizio. Una settimana prima c’è stato il patto Ribbentrop-Molotov, prima ancora c’è stata la crisi dei Sudeti, prima ancora il riarmo tedesco (keynesismo…), la Notte dei Cristalli, la presa del potere da parte dei nazisti…
Il fatto è che non esistono i punti di inizio.
Grazie dell’info.
Ci metterò un po a leggerlo e di più a capirlo ma comunque mi pare di intuire che la vulgata della “crisi dal lato della domanda” sia da respingere con fermezza (pur essendo abbastanza popolare a sinistra), poichè porta con se la “nozione di un capitalismo riformabile e priva la lotta dei lavoratori della sua razionalità oggettiva per il superamento del sistema e riduce la lotta di classe ad un puro volontarismo”.
Uuups volevo rispondere a @miche
Io l’ho letto più e più volte ed ancora faccio fatica a sintetizzarlo. =)
Tuttavia lo trovo veramente interessante. Mi collego quindi alla necessità di “bignamizzazione” che si sottolineava nei precedenti post…
anche perchè informare in ambiti esterni su questo tipo di argomenti altrimenti risulta veramente ostico!
Articolo molto interessante, l’ho letto d’un fiato (e probabilmente me lo rileggerò ancora, non sono davvero convinto di aver colto tutti i punti in maniera completa).
Ho visto che in alcuni commenti si discuteva sul rendere chiara la comprensione del problema. Penso sia anche un discorso di rendere concisi, brevi i punti, pur comprendendo che ciò degraderebbe la completezza degli stessi. Purtroppo l’acquisizione da parte di un target maggiore è inversamente proporzionale alla complessità degli scritti, ma questi sono temi dei quali la gente sta testando la concretezza e quindi il gioco varrebbe la candela.
Quando l’autore del post dice “Un’idea è mettere foto di Keynes al posto del bersaglio delle freccette” non lancia un’idea tanto campata per aria e sono convinto neanche poco ponderata. Si tratta di ricorrere sempre più alle immagini, più che alle parole, per catturare l’interesse. Poi il resto, la volontà di conoscere più in profondo, dovrebbe venire da sé.
Quando la destra è uscita dal crepuscolo 40 anni fa e attraverso questi 40 anni (penso per esempio al “Memorandum” di Powell) lo ha fatto prendendo come esempio la sinistra e i movimenti sociali di quel periodo, vedi il caso in cui sono state occupate università con personaggi che hanno portato avanti questo ideale di economia (facendo tabula rasa di ogni altro). Ma oltre a questo sono stati partoriti slogan, si è semplificata al massimo la comunicazione. Si è arrivati alla testa delle persone con un metodo da “Mondo Nuovo”.
Un vecchio tizio con la barba (molto bistrattato in questi anni) diceva che il capitalismo ha creato anche l’arma che lo ha porterà alla fine. Qual è quell’arma oggi? Se deve essere qualcosa che si rivolta contro il suo creatore, non potrebbe essere un marketing riveduto e corretto, basato proprio su una concretezza reale e genuina e non solo percepita? Sarebbe il massimo della sconfitta, la fine più grottesca e meritata.
Mi rendo conto che potrei non aver detto nulla di nuovo e il rischio che qualche cazzata/banalità sia stata sparata in queste righe è terribilmente alto. Purtroppo il mio approccio a queste cose è terribilmente e colpevolmente in ritardo.
Non so, io non sono per niente convinto.
Sono ragionevolmente convinto che a brevissimo la Grecia uscirà dall’euro, moneta che secondo i manuali, gli studi, i Nobel, e pure per ammissione di prodi e visco, è MANIFESTAMENTE un mezzo di “lotta di classe al contrario” e di dominio di alcuni paesi su altri. In caso contrario, le cose peggioreranno in Grecia, in Italia, in Spagna ecc. fino a soddisfacimento della condizione di cui sopra (ovvero finchè saranno convinti tutti gli eur-isti). Non che sia utile cercare di convincervi: la storia va avanti e i poteri che contano, perlomeno in Francia, non lasceranno distruggere il proprio tessuto industriale dai tedeschi. L’euro sparirà. Ma se saranno loro a decidere a chi far pagare i costi… sappiamo già cosa accadrà.
Ripeto ancora: quando l’euro esploderà, li e qui, sarà il momento di farsi eleggere. L’occasione di cambiare le cose. Prima di tutto di cambiare la democrazia, subito dopo l’economia. MA BISOGNA FARSI ELEGGERE, SE NO LO FANNO I FASCI: gli ignavi, come al solito, andranno giù per il cesso della storia.
Intervista a Schröder: http://www.corriere.it/economia/12_maggio_31/quello-che-berlino-impone-ad-atene-non-ha-senso-ne-politico-ne-economico-paolo-valentino_6139d9a6-aae3-11e1-8196-b3ccb09a7f99.shtml
[…] bisogna implementare subito questo pacchetto. Per i mercati è essenziale che i Paesi dell’eurozona indichino con chiarezza la linea e dicano: andiamo verso l’unione politica, con tutto ciò che comporta, indicando i passi concreti a breve, medio e lungo termine. Un commissario deve diventare una sorta diministro delle Finanze dell’eurozona. O si fa questa riforma istituzionale o la moneta unica è a rischio. All’inizio abbiamo creduto con l’euro di poter fare un progetto politico, forse anche contro la razionalità economica, sperando che poi questo ci costringesse all’unione politica. Purtroppo non è successo. Adesso o ci arriviamo, o la moneta cadrà. Se la crisi prova qualcosa, è che non si può avere una moneta unica senza una politica economica, finanziaria (e aggiungerei sociale) comuni».
Annessione subito, insomma, è l’unico modo di salvare una cosa che vi abbiamo infilato nel culo senza consultarvi nemmeno. Figurarsi che democrazia ci sarà, di bene in meglio. Quando lo ammettono candidamente, non so, a me mette i brividi.
Sono perfettamente d’accordo. L’euro sara’ nei mesi/anni a venire l’altare sul quale verranno sacrificati i salari della working class. A meno di far saltare il banco.
L’uscita va gestita e pianificata, perche’ il tempo e’ tutto: trascinarsi in questa situazione sposta pericolosamente consensi verso le destre. Quanto credete che prendererebbe una Marine Le Pen in un’ipotetica presidenziale del 2017, con un euro agonizzante, disoccupazione al 13/14% e 5 anni di tagli sociali alle spalle?
Complimenti per l’articolo.
In particolare, da non-economista nè esperto del settore, ma da apprendista di Marx e soci, mi è piaciuta molto l’esigenza di affermare che ad un certo punto le tessere del domino cadono – in barba ad alleanze e programmi. L’unica cosa certa, per dirla con Gramsci, è la lotta.
Per quanto riguarda SYRIZA e la situazione greca, non sono sicuro di scorgervi afflati rivoluzionari così evidenti. Sono stato ad Atene poco tempo fa, e tuttora continuo a scriverne mantenendo contatti con compagn* del lugo. Per essere più precisi, temo che la situazione greca non sia leggibile come quadro in cui delle forze “soggettive” possano far prevalere le istanze rivoluzionarie. Ciò che respiro in Attica è un punto cieco alla fine del tunnel di cui nessuno conosce la configurazione, e che si rivelerà solo nel momento in cui qualcuno magicamente accenderà l’interruttore. Che quel punto cieco sia pieno di albe socialiste o terrori nazisti (o altro) lo sapremo solo nel momento in cui l’elettricità comincerà a fluire nel conduttore. Di nuovo: l’unica cosa sicura è che bisognerà stare nelle strade, lottare e farsi valere. Che questa dinamica punti al “non restiamo schiacciati” piuttosto che “prendiamoci il potere”, temo non sia prevedibile ad oggi con i dati a nostra disposizione.
Altri marxisti, ad esempio Bellofiore, non concordano con l’idea della crisi da sovrapproduzione.
Ma intervengo perché mi ha infastidito il passaggio “Paradossalmente, gli unici a credere ad un capitalismo dal volto umano in Europa sono quegli spezzoni della sinistra radicale ex/post/neo-comunista che non hanno il coraggio di parlare apertamente di rivoluzione sociale; attorno alle loro ambiguità vegeta un sottobosco di economisti neokeynesiani, di strateghi del default amichevole, di complottisti o semicomplottisti che possiamo etichettare come signoraggisti, fautori delle “monete di popolo”, rossobruni o guru “iperkeynesiani” della Modern Money Theory.”
Come troppo spesso accade, chi è portatore di pensiero critico ritiene doveroso chiarire che tutti gli altri che potrebbero condividere il 90% dell’analisi e delle ricette sono “sottobosco”, se non peggio.
Da keynesiano, nel programma di Syriza trovo ricette keynesiane. Probabilmente tutti i keynesiani che conosco sarebbero d’accordo sul ritorno alla gestione pubblica di banche, sanità ecc. quando questa significhi quello che deve significare: una redistribuzione di reddito e servizi più equa (e non la semplice creazione di bacini di consenso elettorale o clientele). Nel programma di Syriza non trovo traccia invece di rivoluzione sociale.
Il punto debole del programma di Syriza (che invece era curato nel programma di Mélenchon) è che non chiarisce se l’aumento nel prelievo fiscale su certe categorie sarà sufficiente a coprire l’aumento nella spesa sociale. In caso contrario, credo si pensi a “esigere dalla UE un cambiamento nel ruolo della BCE”, cioè a fare quanto suggerisce la MMT: monetizzare una parte del debito pubblico.
Forse Vanetti si fida di chi propaganda la MMT in Italia senza aver ben capito di cosa parla.
Non perché io pensi che la MMT ci salverà. Al contrario, ritengo che all’origine della crisi ci sia il conflitto sulla distribuzione del reddito, e che dalla crisi si esca risolvendo questo conflitto. Ma non vedo un consenso esteso per arrivarci tramite la “rivoluzione sociale”, già mi sembra difficile arrivarci tramite un programma alla Syriza
@g.z.
Mi spiace se qualcuno se l’è presa e me ne prendo tutta la colpa.
Detto questo, sono convinto che si stia creando una “ortodossia alternativa” keynesiana traversale che, nel propugnare una falsa soluzione alla crisi, può diventare l’ideologia di un attacco pericoloso alle masse popolari europee. A questo pensiero aderiscono due tipi di forze.
Da un lato abbiamo quelle formazioni a cavallo tra la socialdemocrazia e il comunismo, che hanno nostalgia per un certo tipo di riformismo legato all’intervento pubblico in deficit. Credono che sia possibile tornare ai bei tempi del boom del dopoguerra senza una rottura radicale.
Dall’altro lato abbiamo quelli che talvolta ho chiamato gli “iperkeynesiani”. In sostanza, costoro pensano che la soluzione sia “stampare moneta”; si dividono su quale sia questa moneta, secondo alcuni è l’euro e secondo alcuni è la lira. Sono veramente un “sottobosco” perché si tratta di un grande numero di cespugli, è un fronte piuttosto disorganico. So che la MMT è cosa più seria di quella che viene propagandata dal guru Paolo Barnard e so del summit MMT di Rimini; Barnard forse sta all’MMT come i Testimoni di Geova stanno al cristianesimo, ma si dà il caso che io sia ateo.
La cosa più preoccupante è che l’iperkeynesismo è condiviso dai leader del secondo e del terzo partito d’Italia (secondo i sondaggi): Beppe Grillo e Silvio Berlusconi. Proprio oggi Berlusconi ha spiegato che la soluzione alla crisi è stampare euro. Verso gli iperkeynesiani di questo genere credo che sia opportuna una dichiarazione di guerra senza quartiere da parte nostra.
Invece, verso il keynesismo che azzoppa la linea di gruppi, collettivi, partiti e sindacati di sinistra penso che si tratti di un dibattito tra compagni che va affrontato in modo fraterno. La mia osservazione sull’ambivalenza del programma di Syriza va proprio letta in questo senso. Se in quel programma vedi solo keynesismo e non vedi misure che, se fossero applicate veramente, sarebbero rivoluzionarie, forse è perché hai un’idea un po’ romantica di cosa sia una rivoluzione.
Su, Mauro ha già chiarito in un commento che non intendeva esprimere disprezzo e che comunque si include nell’insieme che descriveva… Sul keynesismo (o meglio, i diversi keynesismi) ti risponderanno in diversi, invece a me interessa l’inizio del tuo commento: potresti linkare un’analisi di Bellofiore sulla crisi, così la comunità di Giap può discuterla? Grazie!
La MMT non solo non ci salverebbe da un bel niente, ma peggiorerebbe le cose (alla lunga). La MMT propugna infatti sostanzialmente teorie neo-keynesiane, ma le contorce in un assurdo “vorrei-ma-non-posso” dove la sovranità monetaria (che tuttavia auspica) non starebbe neanche nelle mani dello Stato, in quanto comunque sarebbero conservati 3 soggetti distinti nel contesto della politica economica: lo Stato (il Tesoro)-pubblico, la Banca Centrale(BC)-privata e le banche commerciali-private. Dunque perché baggianata? Perché il concetto di deficit di bilancio all’infinito non è ammissibile in un contesto in cui, ad esempio nella normativa europea, si prevede addirittura il “pareggio di bilancio” da inserire nelle Costituzioni dei singoli Stati.
Eh,ancora questa fobia delle Banche. “Uuuh un privato ha il potere di spingere un tasto e crearsi l’aggio del signore uuuhh.”
Ma ci vuole tanto a capire che con un approccio MMT la BC sarebbe controllata dallo Stato,obbligata a monetizzare gli assets dello Stato alle sue condizioni? Lo Stato sarebbe così il primo a spendere,la BC (e tutto il sistema unico di Banche commerciali private che dipende da essa) è solo uno strumento con cui farlo,e potrebbe decidere di spendere a deficit positivo,cioè immetere nel settore privato più di quanto si riprende tramite tasse,lasciando un numerone negativo nel taccuino di contabilità del Tesoro,come fanno USA e Giappone,ad esempio.
Questo concetto non ammissibile nel contesto europeo? Purtroppo sì,dato che impera l’ideologia fanatica Neoliberista che è contro la democrazia e la lotta alla disoccupazione. Il pareggio di bilancio ci è stato imposto da un governo non eletto e criminale che non fa gli interessi della popolazione.
Bellofiore ha pubblicato due libri da poco per Asterios: “La crisi capitalistica: la barbarie che avanza”, e “La crisi globale: l’Europa, l’euro, la Sinistra”.
Molti pezzi sono apparsi anche in rete, ma non in modo così articolato.
Per chi si trova a passare, ne discutiamo l’11 giugno a Napoli all’Università Orientale con Vladimiro Giacché, coinvolto come autore di “Titanic Europa”, Ugo Marani e Alberto Bagnai.
Gennaro Zezza (magari avrei dovuto firmarmi prima…)
Non si può affermare che il partito comunista greco “pone la dracma come criterio discriminante e di fatto come pretesto per non formare un fronte unitario.” Per capirlo basta leggere quello che afferma lo stesso KKE, con riferimento al “falso dilemma euro-dracma”:
“in Grecia e all’estero ci sono sezioni della plutocrazia che vogliono tornare alla dracma per conseguire, per sé e la classe borghese nel suo insieme, maggiori profitti rispetto quanti ne conseguano ora grazie all’integrazione del paese nell’eurozona. Il fallimento del popolo non sarà mitigato dall’euro o dalla dracma, fintanto che i monopoli dirigono la produzione e il paese rimane nell’UE e la borghesia al potere. L’unica risposta al dilemma “euro o dracma” dal punto di vista del reale interesse popolare è: fuori dall’UE, con il Potere Popolare e la cancellazione unilaterale del debito.”
http://it.kke.gr/news/news2012/2012-05-23-arthro
Vanetti pone molte domande interessanti, ma non sono convinto di alcune sue risposte: da un lato, infatti, critica il keynesismo perché (spesso è vero) quello schema interpretativo lascia colpevolmente fuori dall’analisi il conflitto di classe; d’altro canto, però, l’autore ripone le sue speranze in Syriza, accusando il KKE di sbagliare strada, quando il primo è evidentemente un partito che sta cercando di arginare, nei limiti consentiti dagli attuali rapporti di forza, la spaventosa offensiva del capitale (in Grecia, ma con riflessi importanti in tutta Europa), mentre il secondo si rifiuta (come Vanetti quando parla di keynesismo) di accettare vie di mezzo tra socialismo e barbarie. In altre parole, tante ricette tacciate di appartenere al “sottobosco” keynesiano (monetizzazione del debito, svalutazioni etc) avrebbero il grande pregio di rallentare la (mi ripeto) spaventosa redistribuzione del reddito dai salari ai profitti, ma anche il difetto (innegabile) di non condurci, dopodomani, all’Unione Europea dei Soviet…
Insomma, i rinnegati di Maldon, non senza onta, “si ritrassero dalla battaglia e cercarono il [sotto]bosco”. Noi siamo proprio convinti di poterci permettere uno scontro frontale?
Grazie Wu Ming
@manfredi
Interessante la citazione della posizione del KKE su euro vs dracma. Quell’articolo secondo me spiega correttamente la questione: i padroni possono usare sia l’euro sia la dracma, quindi non è uscire dall’euro la soluzione, ma un processo rivoluzionario in Grecia non potrà che provocare l’uscita dall’euro e dalla stessa UE.
La prospettiva ufficiale di Syriza è invece molto meno chiara. In quest’intervista la deputata più votata di Syriza, Sofia Sakorafa, dice che “se restare nell’euro significa la distruzione della Grecia, dovremo uscire”: http://www.lavanguardia.com/internacional/20120515/54293524445/sofia-sakorafa-euro-grecia.html Non penso sia sbagliato dire che per molti ai vertici di Syriza un esito del genere sia da scongiurare ma non “a tutti i costi”. Il problema è che è impossibile scongiurarlo se si vuole interrompere l’austerity, a prescindere dalle illusioni che possono avere i leader di Syriza.
Quel che volevo dire, in due righe e quindi senza fare chissà quale approfondimento (che se verrà fatto dai commenti è benvenuto, vedo che sta già succedendo), è che, da questa posizione sulla carta, il KKE fa derivare una tattica e un’agitazione che secondo me finiscono per porre la dracma come discrimine. Pensiamo allo slogan elettorale, che al primo punto mette “Fuori dalla UE”. Pensiamo alle trattative dopo le elezioni, dove si è posta come *precondizione* a Syriza l’uscita dall’Unione Europea.
Paradossalmente (ma forse neanche tanto), la forza strategica del KKE si unisce ad una debolezza tattica, la debolezza strategica di Syriza si unisce ad una forza tattica. Il risultato è che il processo prenderà strade contorte. Se “ripongo le mie speranze in Syriza”, come dici (ma non è vero :-) – mi interessa capire come si può intervenire in un processo, non “in chi sperare”), è nel senso che saranno loro a vincere le prossime elezioni e innescare un processo più grande di loro, con cui dovranno confrontarsi tanto Tsipras, quanto Papariga, quanto soprattutto migliaia di attivisti greci e non.
Bidubbio dalla periferia impolitica e incolta:
A) davvero l’Italia che fino a un anno fa votava Lega e Berlusconi, da secoli prona, chiesastica, furba, anestetizzata al bene comune è pronta per la rivoluzione sociale? O gli apostoli dello spargimento di sangue – necessario, per carità; rigeneratore – stanno trasformando le loro allucinazioni in Zeitgeist? Sic notus l’italiano medio? La crisi economica l’ha reso migliore o solo più rabbioso? Vuole cambiare il mondo o riavere del contante da spendere all’Unieuro? Sento dire che la rivoluzione francese fu preparata da un secolo di filosofia e pubblicistica. La nostra benzina, il nostro italiano infiammabile e pronto ad esplodere, da cosa è stato educato all’idea rivoluzionaria? Da Striscia la notizia e Porta a porta? Non è che il rivoluzionario di professione ha in mente di usare la massa come nitroglicerina, da dinamitare a tempo e luogo opportuni, per un progetto che solo lui conosce? Bella liberazione!
B) Supponiamo, ab absurdo, che in Italia si avvii un processo rivoluzionario. Che succede fuori? Davvero fuori non aspettano altro che accendiamo la miccia per saltare in aria con noi? Davvero esistono a livello sovranazionale – continentale, leggo sopra – le condizioni perché si inneschi la palingenesi? Perché non ho quest’impressione? Quand’è che la passione politica comincia a far perdere lucidità e a suscitare ossessioni? Cruente, pericolose ossessioni. Grazie.
@aldofilosa
Ma tutta questa sete di sangue dove l’hai vista?
E inoltre: davvero la Rivoluzione Francese avvenne grazie a un secolo di “filosofia e pubblicistica”? Sospetto che buona parte dei sanculotti fossero analfabeti.
Il più prestigioso storico del libro, Robert Darnton, ha dedicato anni, se non decenni, a ricostruire il funzionamento dell’industria tipografica ed editoriale in Francia nei cinquant’anni precedenti la Rivoluzione. Ha consultato meticolosamente archivi, carteggi, libri mastri. Ha mappato i riferimenti alle letture che si facevano nella società francese, tenendo conto delle differenze di classe. La sua conclusione è che la pubblicistica illuministica non uscì mai da una ristretta nicchia, la sua influenza fu marginale, i libri che circolavano tra le classi basse erano di tutt’altro tenore. Secondo lui, se si vuole parlare di influenze letterarie (lato sensu), il malcontento contro l’Ancien Régime fu incessantemente alimentato da una libellistica clandestina di carattere scabroso, dove si narravano veri e presunti scandali (soprattutto) sessuali di nobili e cortigiani. Una roba tipo gli odierni tabloid, per capirci, ma nel contesto ebbero un valore delegittimante e sovversivo. Il regno di Luigi XV fu sotterraneamente destabilizzato dalla maldicenza popolare, e quando Luigi XVI salì sul trono l’immagine della monarchia era già irreparabilmente lesa. Dopodiché, i motivi scatenanti della Rivoluzione furono socioeconomici, ma certi enunciati radicali penetrarono nella coscienza popolare come coltelli nel burro perché la considerazione che il popolo aveva della Corte e della nobiltà era già bassissima. Questa la tesi di Darnton, in soldoni. Ci ha dedicato diversi libri, se digitate su Google “Darnton maldicenza”, troverete diversi articoli, tra cui uno di Sergio Luzzatto.
solo una nota: verissimo che è stata la piuttosto la letteratura libertina (che non quella dichiaratamente politica) a preparare la rivoluzione, ma è assurdo compararla ai tabloid: le opere di sade, laclos e crébillon sono opere tanto filosofiche quanto erotiche (è proprio questo del resto che ‘libertino’ significa), e l’intreccio dei due piani si produce a tutti i ‘livelli’: quello delle opere letterarie, quello delle opere di consumo al limite del soft-porn (come le portier des chartreux e thérèse philosophe), e quello delle opere propriamente porno.
e del resto chi le scriveva a qualsiasi livello le rivendicava insieme come ‘opere di pensiero’ e come ‘opere che si leggono con una mano sola’.
è questo tratto il tratto che è stato veramente rivoluzionario, e non è certo un tratto condiviso dai tabloid, né da quelli di adesso né da quelli di allora.
thérèse philosophe, per citarne ancora un oggetto letterario davvero strano, è uno dei primi romanzi in qualche modo femministi, come e più di moll flanders.
e quanto a sade, la sua letteratura non si puo’ considerare propriamente libertina (sebbene sia in stretta connessione con quella), ma penso nessuno abbia dubbi su quanto sia tutta una letteratura politica. del resto non è stato imbastigliato per niente, e pasolini si puo’ dire che lo abbia ‘semplicemente’ accuratamente tradotto.
ripeto, è solo una nota (ma collo spot: ri-leggiamo la letteratura libertina..)
@ dzzz, no, un momento, non sto parlando di Sade e nemmeno di romanzi libertini. Darnton prende in esame un corpus *sterminato* di pamphlet anonimi, scritti da scalzacani e lunpen-scrittori, in gran parte dedicati alla “character assassination” di questo o quel VIP, veri instant-book che a distanza di pochissimo tempo riportavano le dicerie sentite in giro per Parigi (es. sotto il celebre “Albero di Cracovia”) e non solo. Il paragone coi tabloid lo fa Darnton stesso, e ne fa anche un altro: dice che quei pamphlettisti erano blogger ante litteram.
Era quello il materiale che andava per la maggiore.
Invece, la maggior parte degli scritti di Sade (con poche eccezioni, su tutte “Justine”) ebbe scarsa diffusione o addirittura rimase inedita fino a parecchi anni dopo la sua morte.
Insomma, stiamo proprio parlando di due produzioni editoriali diverse.
Essendo nuovo ai blog, non so se è di regola una replica. La darò, brevissimamente. Rivoluzione incruenta? Sarebbe la prima volta. Libellistica oscena vs dizionario filosofico? Monsignori e contesse variamente inchiappettantisi vs Rameau e Candide? Ringrazio per la precisazione. Ci penserò.
“Il nipote di Rameau” di Diderot fu pubblicato in francese solo nel 1821, è alquanto implausibile che abbia influenzato i protagonisti della Rivoluzione francese…
Il punto è proprio questo: la narrazione dell’Illuminismo che porta alla Rivoluzione è in gran parte una costruzione idealistica ex post.
E riguardo alla rivoluzione incruenta? :-)
E chi l’ha tirata in ballo, scusa? :-)
Tra il pensare che una rivoluzione non è un affare gentile e l’essere assetati di sangue, in mezzo ce ne passa! Garibaldi era un assetato di sangue? Bolivar era un assetato di sangue? Gramsci era un assetato di sangue?
Calma. Non l’ho usata io quell’espressione.
Beh, insomma, hai insinuato il dubbio che qui qualcuno voglia “usare la massa come nitroglicerina, da dinamitare a tempo e luogo opportuni, per un progetto che solo lui conosce”, e che la passione politica “comincia a far perdere lucidità e a suscitare cruente, pericolose ossessioni”. Se le parole hanno un senso, qui si parla di cinica manipolazione guidata da sete di sangue. Non sono accuse leggere, per quanto sfidino la legge di gravità: sono tanto più pesanti quanto più sono campate in aria. Poi son buoni tutti a dire “calma”, ma intanto si è tirato il sasso.
Spiegare un fraintendimento significa crearne altri, perciò lascio perdere. Per quanto mi riguarda, cerco più di mettere alla prova le mie idee che correggere quelle degli altri. Ma – e credo che su questo conveniamo – de hoc satis
L’insurrezione di Dublino del 1916 che portò alla parziale indipendenza dell’Irlanda fu ben poco violenta.
Così come la rivoluzione bolscevica. I bolscevichi presero il controllo dello Stato senza che un colpo di fucile sia stato sparato. Il governo, come disse Isaac Deutscher, “fu annientato da una lieve spintarella”, tanto era forte e radicato l’appoggio popolare.
Un’altro discorso è la guerra civile controrivoluzionaria che ne scaturì.
Ma non è necessario che la rivoluzione debba comprendere per forza vocaboli come quelli che tu hai usato poco sopra.
Scusate, ma quali sono i punti rivoluzionari del programma di Syriza, se intendiamo con questo cercare sovvertimenti del modello economico produttivo dominante e delle relazioni sociali che ne sono alla base?
Secondo un paio di amici greci molto attenti alla situazione del loro paese (certo non un campione rappresentativo), questo deciso tentativo progressista incontrerà delle resistenze furibonde nella loro società. Li ho sentiti parlare di colonnelli e nazisti, secondo loro questo passaggio dovrà essere sostenuto nelle strade. Sono pessimisti?
Ok, non ho portato molto alla discussione, me ne rendo conto (non sarei in grado di farlo neanche volendo, ma vi leggo avidamente), speriamo almeno non abbia sottratto nulla :) Ma la domanda è reale.
@mimmo, aldofilosofia, manfredi et al.
Provo a interpretare.
Vanetti non dice che vi sono programmi rivoluzionari (es. quello di SYRIZA) *e quindi* che vi è una rivoluzione (sia essa in corso, da venire o semplicemente auspicabile). Ma che vi è una crisi economica (in particolare nella sua necrosi greca) in cui determinate scelte *politiche* porteranno ad una situazione di conflitto molto alto, dai tratti rivoluzionari (io aggiungerei “potenzialmente”, ma è il mio p.d.v.).
Se SYRIZA accede al potere e prende determinate decisioni (leggi: nazionalizzare le banche), cosa probabile, si verificheranno enormi casini – leggi “situazione rivoluzionaria”. Per questo Vanetti fa bene a descrivere alcuni aspetti della politica di SYRIZA come rivoluzionari: perchè in un contesto come quello che potrebbe presentarsi, determineranno una situazione potenzialmente insurrezionale.
Sono gli *effetti* e l’impostazione a definire una scelta come “rivoluzionaria”, *nell’ambito della discussione che è stata avviata*. Non l’aderenza alla Teoria (con la maiuscola). Il contesto (l’ecosistema che esiste attorno alla scelta che compio, e di cui vado a modificare gli equilibri) è fondamentale.
PS: un interessante articolo di Bellofiore, “La crisi Capitalistica, una lettura a partire da Marx”: http://wwwdata.unibg.it/dati/persone/46/3905-Marx%20e%20la%20crisi%20-%20Bellofiore.pdf
@maxmagnus
Preciso. Syriza è in questo momento lo strumento che le masse stanno utilizzando per spingere avanti il processo. Lo ritengo anch’io uno strumento molto imperfetto; personalmente credo che proveranno a perfezionarlo prima di abbandonarlo, mentre i dirigenti del KKE sembrano pensare che lo abbandoneranno molto presto appena noteranno che non è adatto. Vedremo.
@mimmo
Una possibilità è che le elezioni del 14 giugno lascino la situazione in stallo. Le ultime proiezioni davano 149 seggi a Syriza + KKE, 151 seggi a tutti gli altri. In una situazione del genere, considerata anche l’indisponibilità del KKE ad una coalizione, si potrebbe creare un bello stallo. Dopo così tanti stalli della politica greca, che qualche colonnello tenti un colpo di mano forse non è da escludere; ma i golpe possono anche fallire… e quando viene respinto un golpe reazionario, di solito quel che avviene è un’insurrezione popolare come nell’aprile 2002 in Venezuela. Un anno fa quando il Pasok tentò di fare un referendum (ma gli venne proibito dall’Europa, e ditemi se questo non è già un golpe), ritenne saggio sostituire da un giorno all’altro i vertici dell’esercito: http://www.linkiesta.it/colonnelli-grecia
Non c’è contraddizione secondo me tra la polarizzazione a destra e quella a sinistra, anzi spesso si alimentano a vicenda.
Scusate, ma mi pare che del keynesismo qui si stia facendo una caricatura, soprattutto in tema di moneta e debito.
Salve a tutti. Un saluto particolare a Wu Ming 2 conosciuto a Strike giovedi per la presentazione di Timira (bellissima presentazione peraltro).
Detto questo, brevemente, perchè in certi casi o si è brevi o non si finisce più vista la vastità dei temi affrontati.
Il programma di Syriza a me sembra il bignami de keynesismo, del vero keynesismo. Non vedo alternative di classe, vedo solo una serie di proposte politiche radicali di estrema redistribuzione del reddito dai profitti privati allo Stato Sociale.
E’ il programma della socialdemocrazia, con venature movimentiste determinate dal contesto in cui lavora questa organizzazione politica.
Non dico questo però per sminuirne il carattere radicale di tale programma. Un programma del genere, se attuato, porta direttamente a una potenziale fase rivoluzionaria (di cui però difficilmente sarà Syriza l’espressione politica di classe).
Non mi è chiara però la premessa di attacco spietato al keynesismo (che più o meno condivido), e una considerazione così importante data a un programma tutto sommato keynesista come quello di Syriza.
Sono peraltro concorde quando @mico1978 dice che stiamo facendo una caricatura del keynesismo. Riducendolo alla semplice opzione monetarista dello stampare più moneta si fa il verso al neoliberismo a cui è rimasto solo questo di scudo con cui proteggersi: se riproduciamo politiche keynesiane avremmo un’inflazione senza controllo, e la spirale prezzi-salari farà esplodere il debito pubblico portando l’economia al collasso.
Se dobbiamo combattere il keynesismo, almeno non facciamolo con argomenti di destra, tutto qui.
Saluti a tutti
Alessandro
@Alessandro
La considerazione data al programma di Syriza mi sembra espressa in forma molto problematizzata, forse l’immagine dello sventolio di bandiere di Syriza che la accompagna ha dato una suggestione diversa alle parole. Wu Ming 1 ha detto in un’altra discussione che un programma così radicale è un *sintomo* e mi sembra una buona definizione.
Sul keynesismo, mi pare che ce lo rappresentiamo in maniera molto diversa. Dire che quel programma è il bignami del keynesismo secondo me è a sua volta fare una caricatura del keynesismo. Per qualche motivo solo parzialmente fondato a sinistra si crede che “keynesiano” sia sinonimo di “socialdemocratico” ma questa correlazione, che era già molto debole ai tempi di Keynes (Hitler, Roosevelt e Mussolini attuarono politiche keynesiane tutto sommato), oggi è saltata del tutto.
Il keynesismo “serio” e “praticabile” è già in atto in questo momento in Europa: consiste nelle sovvenzioni miliardarie concesse alle banche. La politica ufficiale della BCE in questo momento è già una combinazione di austerity e di misure anticicliche.
Quello di cui “faccio una caricatura” è già una caricatura, è quello che chiamo “iperkeynesismo” ossia l’idea di uscire dalla crisi stampando moneta, con svalutazioni competitive e colpendo esclusivamente la finanza.
Ma perché confondi i mezzi con i fini? Il keynesismo è un mezzo per dare più occupazione e aumentare la domanda di beni. PUNTO. E funziona! Poi puoi usare questa tecnica per avere consenso. E usare questo consenso per farti rieleggere, per scatenare una guerra, o per diminuire il potere relativo del capitale e far stare meglio la ggente facendogli capire che di te ci si può fidare. Che tra l’altro mi sembra sia cosa necessaria, prima di pensare a una rivoluzione. O no?
Secondo me si tratta di capire se ragioniamo dal punto di vista delle masse imbestialite che si vedono portare via tutto, o dal punto di vista di un’élite, per quanto “illuminata”, che ha a cuore esclusivamente la stabilità sociale, ossia l’equilibrio fra interessi che, pur essendo nella sostanza inconciliabili, possono essere occasionalmente “riappacificati” (principalmente nell’interesse del capitale).
Il keynesismo (ossia appunto la riappacificazione per via istituzionale e concertativa delle forze sociali contrapposte) “funziona”, come dici tu, a determinate condizioni, che non sono dettate dall’automatismo economico ma dalle circostanze storiche (per cui puoi vedere il keynesismo all’opera nella Germania nazista come nelle “democrazie” occidentali del secondo dopoguerra).
Ci sono oggi circostanze storiche e materiali favorevoli alle politiche keynesiane? L’applicazione di soluzioni keynesiane è compatibile politicamente con la legittima richiesta della gente comune di non pagare il prezzo di una crisi che non è stata lei a causare?
A costo di risultare ripetitivo: la vera discriminante, oggi, è la *prospettiva di classe*. Si tratta di capire da che parte stare, quali forze sociali appoggiare. La scelta del programma e della “cornice” dipende da questo.
[…] e vinta: Rifondazione Comunista ritiene che la soluzione a tale sistematica repressione (molto ben descritta dall’articolo di Mauro Vanetti che vi consigliamo di leggere) passi attraverso tre punti fondamentali, e non […]
Alessandro di Militant ha perfettamente sintetizzato il senso della prima parte del mio commento precedente quando ha detto:”Non mi è chiara però la premessa di attacco spietato al keynesismo, e una considerazione così importante data a un programma tutto sommato keynesista come quello di Syriza.”
E maxmagnus dice che “Sono gli *effetti* e l’impostazione a definire una scelta come “rivoluzionaria”, non l’aderenza alla Teoria (con la T maiuscola)”. Ma proprio per questo motivo non riesco a capire che senso abbia liquidare tutto uno spettro di politiche che sarebbero capaci di frenare l’attuale attacco ai salari, solamente perché aderiscono al Keynesismo (con la K maiuscola).
Infine, se qualcuno vuole addentrarsi in discorsi più strettamente economici (sempre Alessandro scrive “se riproduciamo politiche keynesiane avremmo un’inflazione senza controllo, e la spirale prezzi-salari farà esplodere il debito pubblico portando l’economia al collasso”), cerchi di argomentare (nei limiti che desiderano i moderatori), altrimenti facciamo una “caricatura” di un dibattito economico. Io, ad esempio, sono in completo disaccordo con quella frase, che proviene direttamente dalla teoria monetarista, ossia la stessa che è alla base dell’infrastruttura istituzionale europea, e mi stupisce sentirla in questo dibattito…Ci hanno infatti detto: “poiché la monetizzazione del debito conduce ineludibilmente all’inflazione galoppante”, come sostiene Alessandro, “vietiamola con Maastricht ed affidiamo alla BCE il solo compito di frenare l’inflazione, e non anche quello di sostenere l’occupazione.” Il risultato è sotto i nostri occhi…
Saluti
Infatti non capisco il :-) che mette maurovanetti quando riporta che berlusconi vuole promettere politiche “iperkeynesiane”. Quasi a dire: vedete che è di destra? NO: è efficace, economicamente ed elettoralmente. E berlusconi è fesso? No, vuole vincere le elezioni. E dovremmo volerlo anche noi, no?
La vera discriminante fra i diversi programmi che si possono mettere in campo in una fase come questa, secondo me rimane la prospettiva di classe.
La redistribuzione dei redditi verso l’alto, e il modo in cui la crisi ha accentuato la percezione di questa tendenza di lungo termine, sta riportando in primo piano anche nei paesi a capitalismo avanzato la consapevolezza per cui nella società esistono interessi contrapposti e inconciliabili. Per dirla riprendendo lo slogan di Occupy: se c’è un 99%, è perché c’è un 1% che in qualche modo va combattuto.
In Grecia, da questo punto di vista, la situazione è molto più esasperata. Quattordici scioperi generali e le diverse mobilitazioni con larga partecipazione popolare (che non sono state solo ad Atene ma anche in altre città), dimostrano che le “masse” non sono affatto un ricordo del passato.
Penso quindi che, più che premiare o affossare programmi “keynesisti” o “rivoluzionari” sulla carta, il popolo premierà o abbandonerà le forze che sapranno o meno farsi interpreti nella pratica dei loro interessi materiali. E, siccome ovviamente gli interessi del 99% non sono gli unici ad essere in gioco, a vincere saranno le forze sociali che meglio sapranno esprimere politicamente i propri interessi nella dialettica fra rivoluzione e controrivoluzione che si prospetta, come sempre è accaduto nella storia.
Lo stesso ragionamento vale anche qui in Italia. I programmi e le prospettive sono destinati a restare lettera morta se non si arriverà al “momento cruciale” senza aver costruito il necessario radicamento e senza aver contribuito a sviluppare la coscienza dei settori della società che si mobiliteranno per il cambiamento e l’alternativa.
Per questo penso che sia sbagliato adagiarsi sull’idea per cui, una volta avviato il processo, assisteremo ad una “selezione naturale” delle forze e dei programmi. Il rischio, secondo me, è che lo spazio per una simile selezione non ci sia neppure se quando assisteremo all’inevitabile “accelerazione” le forze veramente progressiste non avranno accumulato abbastanza credibilità e radicamento per potersi presentare agli occhi delle masse come valide alternative.
Probabilmente le mie considerazioni nascono da un’interpretazione completamente sbagliata e distorta dell’analisi marxista e dei processi rivoluzionari… ma resto convinto del fatto che senza un movimento allargato che riproponga certe idee e certi programmi a fasce ampie della popolazione, il rischio che a vincere sia la reazione aumenti in modo preoccupante.
Su questo sono d’accordo. La prima grande differenza tra la Grecia e noi, sono le dimensioni: è un paese con 10 milioni di abitanti, di cui più di un terzo vive in una sola città (Atene), con fortissime pratiche di radicamento territoriale. Anche per questo lo scontro sociale è più acuto, e più organizzato (postilla: lo è anche dall’altra parte – è uno dei motivi per cui Alba d’Oro fa il 7%, nonostante le azioni squadriste di cui è protagonista quasi ogni giorno–>http://translate.google.it/translate?sl=el&tl=en&js=n&prev=_t&hl=it&ie=UTF-8&layout=2&eotf=1&u=http%3A%2F%2Ftvxs.gr%2Fnews%2Fellada%2Fepitheseis-kata-metanaston-sti-mixanokiniti-poreia-tis-xrysis-aygis&act=url).
Ogni analogia tra l’Italia e la Grecia deve essere impostata con le pinze. E tra quelle che non reggono vi è proprio la forza, l’organizzazione e le sfide dei movimenti.
Ho una domanda per Vanetti. Potrebbe spiegarmi esattamente quali sono le critiche che muove all’MMT e al movimento, facente riferimento a questa teoria economica, che si sta formando qui in Italia? Perché leggendo i commenti (non tutti, forse qualcosa me lo sono perso) non sono riuscito a capirlo. Seguo da tempo gli scritti di Barnard, ma ho avuto l’impressione che da un paio di anni si sia lasciato prendere la mano dalla bacchetta magica MMT e sia diventato un po’ troppo ortodosso (sebbene, a mio parere, in buona fede). Non mi ha mai convinto del tutto la sua proposta, mi è sempre sembrata, intuitivamente, “troppo facile”, ma non sono mai riuscito a trovare una critica soddisfacente, solo degli spunti smozzicati qua e là. Tengo a precisare però che mi è sembrato di ritrovare anche qui un comune fraintendimento, ovvero che l’MMT propone come soluzione il semplice “stampare più moneta”. Si dimentica di dire che l’immissione di liquidità dev’essere finalizzata alla cosiddetta piena occupazione e all’aumento di produttività, per evitare l’inflazione. Ovviamente stampare moneta e nient’altro, senza specificarne l’utilizzo, sarebbe inutile. Io mi baso su quel che dice Barnard, non conosco fonti MMT di prima mano, ma l’ho sempre sentito mettere in primo piano l’interesse delle persone comuni, parlare di redditi dignitosi garantiti dallo Stato, non di stipendi da fame e sfruttamento dei lavoratori come qui è stato detto in riferimento al keynesismo (che Keynes configurasse questo scenario mi giunge come una novità assoluta, ma può darsi sia dovuto alla mia ignoranza in materia). Dire poi che il keynesismo oggi è in atto attraverso il rifocillamento delle banche mi sembra una boiata, è tutto il contrario delle proposte e dell’impostazione che ho sentito promuovere dagli MMTisti italiani negli ultimi due anni. Senza contare che l’MMT non è Keynes preso alla lettera, è un suo derivato e ci sono differenze non da poco. Quindi, o Barnard dice cose completamente diverse dai teorici MMT e si rigira la frittata come gli pare, oppure voi avete frainteso alla grande.
Qualcuno sa darmi una spiegazione coerente?
Per chi chiedeva delle opinioni da parte di Bellofiore sulla crisi: ci sono i suoi interventi su YouTube al seminario sul circuitismo tenuto a Milano a metà maggio e organizzato sempre da Barnard. Sono tre video due quasi tre ore totali in cui illustra abbastanza diffusamente le sue idee e anche alcune critiche all’MMT.
http://www.youtube.com/watch?v=CE2j8ZFsxiQ
http://www.youtube.com/watch?v=Y5L46B6sklg
http://www.youtube.com/watch?v=kIFVD9_W_Pg
mi scuso per il probabile off-topic (e per fortuna siamo in fine di thread forse), ma ho ancora qualcosa da dire sui libelli-prevoluzionari. e è che, :), va bene, ammetto che nel mio commento sopra ho risposto in fretta e impulsivamente, prima ancora di andare a guardare che materiali ha usato robert darnton (che, riammetto, conoscevo solo di nome, non ho mai sfogliato un suo libro). Ma post-controllo bibliografico mi pare che abbia usato quel che mi immaginavo: gli archivi della bastiglia, cioè un corpus in effetti sterminato, e che io non conosco affatto di prima mano, ma di seconda si’, e di cui penso si possa dire che è soprattutto un archivio poliziesco (ovviamente), e che è soprattutto come archivio poliziesco che darnton sembra averlo usato (con grande rigore pare, e da storico, ma non da storico della letteratura).
ora, quello che volevo dire è che è sicuramente vero che questi libelli sono sensazionalistici, e che vi si trovano “character-assassination” a sfare, e che erano prodotti a ciclo continuo e senza troppa cura da lumpenscrittori (anche se, a occhio, mi pare che darnton li faccia globalmente più ‘canaglia’ di quanto paiano esserlo a me e a altri), ma quello che mi pare scorretto e che proprio non mi va giù in questa inquadratura del corpus è proprio l’inquadratura: è il trattarlo come un corpus separato, dotato di caratteri propri, e distinto da quello che non è stato sequestrato dalla polizia, vale a dire da quello che non è stato considerato tanto immediatamente o ovviamente pericoloso da dover essere sequestrato.
i romanzieri, novellisti, scrittori di libelli politici o pornografici o politico-pornografici che citavo e a cui pensavo facevano sociologicamente e stilisticamente parte (molti, non tutti) della stessa bohème-canaglia-lumpenproletariato cognitivo, come che lo si voglia chiamare. solo che alcuni sono finiti imbastigliati (loro stessi, o i loro scritti almeno), ma tanti sono in vari modi passati fra le maglie della censura poliziesca o si sono altrimenti salvati, e tanti altri sono rimasti stabilmente in bilico fra la bastiglia e il mandarinato (come rétif de la bretonne o louis-sébastien mercier, per citare i più abili in questo), e di questo “bilico” hanno fatto una carriera e un political statement (peraltro, e questo davvero secondo me è interessante, un political statement invariabilmente e ferocemente controrivoluzionario).
per sade, ovviamente, bisogna fare un discorso a parte, ma insisto, anche sade è inintellegibile se lo si separa dal continuum dei libellisti bohème-canaglia.
quello che intendo è che non c’è rottura, ma c’è continuum fra la bohème di darnton e ‘i Lumi’, e che in quel contesto, in quel luogo, in quel periodo, la pratica e il discorso erotico/pornografico sono un tratto trasversale sia alla qualità della scrittura che all’intensità politica del contenuto, ed è questo, e non altro, si puo’ argomentare, che ha creato la discontinuità rivoluzionaria.
detto ancora più esplicitamente: in quel contesto la scrittura e il corpo si sono ibridati come in europa non succedeva da più di mille anni, e il materialismo per la prima volta è diventato una filosofia di massa. il che (secondo molti, me inclusa) ha reso possibile la rivoluzione stessa (che per molto tempo è stata pensata e chiamata ‘la presa della bastiglia’, il posto dove era rinchiusa questa gente), la quale a sua volta ha trans-generato il pensiero politico e i movimenti sociali del secolo successivo.
è per questo ruolo genetico (trans-), in realtà, che questo discorso sulla letteratura di quel periodo mi sta a cuore, e che sto scrivendo questi mostrocommenti, peraltro frettolosi e grosolani, e probabilmente off-topic (e umilmente me ne scuso). è che, ecco, sono fra chi ha l’impressione che la consistenza “materialista” del discorso marxista (che, sebbene ‘amico’, io trovo difficilissimo da capire e usare) abbia mancato di integrare questo passaggio culturale fondamentale: l’intensità rivoluzionaria del libertinismo settecentesco (ripeto, libelli sensazionalistici compresi, che stanno ai tabloid come una femminista sta a al suo cadavere), e che questa cecità o rifiuto l’abbiano indebolito e lo indeboliscano ancora spaventosamente.
basta pensare alla rilevanza pressoché nulla dei vari discorsi femministi (e gender, queer, body-relevant, ecc) nel dibattito politico a sinistra (e a fortiori nei discorsi rivoluzionari) in europa almeno: il femminismo, che è in primo luogo il pensiero politico di una posizione filosofica materialista, vive una vita separata, in una dimensione separata (anche qui del resto, su giap). perché?
che disastro questo commento; del tutto off-topic. ma è uscito cosi’, me ne scuso (spero sia chiaro pero’ che dico tutto questo da una posizione amica; in questo momento non sopravviverei senza giap, e qui mi sento a casa – nonostante la vertigine, dal punto cieco).
fine del coup de sang.
Però a me non sembra che la fonte esclusiva di Darnton sia l’archivio poliziesco, mi sembra che abbia lavorato altrettanto se non più intensamente su registri e carteggi delle tipografie (che all’epoca erano vere e proprie case editrici), come quella di Neuchatel, appena oltre il confine svizzero, che era tra le più importanti e attive d’Europa. Studiando per anni quella pletora di materiali (registri e centinaia di lettere, scambi epistolari con autori, lettori, librai e commessi viaggiatori), ha scoperto quali libri erano più richiesti in quali parti del Paese, quali erano ristampati più spesso, quali temi “andavano” e quali no, quali formati e quali no, quali tragitti facevano gli agenti che portavano in giro i libri. La separazione in diversi “corpus”, più che letteraria, è – direi – merceologica: esisteva l’insieme eterogeneo dei libri che venivano letti da un sacco di gente e venivano stampati in grande quantità e diffusi capillarmente, e l’insieme eterogeneo dei libri che invece venivano letti da pochissime persone (e in certi casi addirittura da nessuno). C’erano libri che finivano in mano anche agli operai (nelle arti e mestieri gli alfabetizzati erano in numero superiore a quanto si pensi oggi), e libri che in quelle mani non finivano mai.
Certo, se ragioniamo in termini di storia della letteratura e del pensiero, e di influenze culturali sul lungo periodo, molti “best-seller” dell’epoca sono finiti nel dimenticatoio o addirittura nella pattumiera della storia, mentre libri che all’epoca furono letti solo in certe nicchie sono rimasti e in certi casi sono diventati grandi classici.
Ma se invece parliamo di influenze “in presa diretta” sulla mentalità coeva, allora non c’è gara: i “monnezzoni” scritti dai pennivendoli da strada ebbero molto più impatto dei libri scritti dagli Illuministi, dei romanzi libertini rivolti a un pubblico più borghese, e della filosofia maledetta di Sade. Anche perché svariate delle opere importanti che oggi associamo a quell’epoca, non furono pubblicate se non nel XIX secolo.
d’accordissimo su tutto, ovviamente.
quanto alle fonti di darnton, che, se capisco, è uno storico particolarmente interessato alla circolazione dei libri, ripeto, io non ne ho mai letto uno suo, mi sono solo fatta un’idea vaga dei materiali che ha usato per alcuni, quindi mi fermo qui, e magari ne riparliamo quando li avro’ almeno sfogliati.
per questo, è ovvio che non avrei dovuto fare neanche il primo commento, ma ripeto, mi è scappato (colpa dei tabloid :P).
ma probabilmente c’erano certe cose da dire-chiedere ai giapster (su femminismo e rivoluzione) che mi ribollivano nello stomaco, e sono uscite un po’ a sproposito.
ma allora, quando se ne parla? :)
o ne avete già parlato? (dove? io su giap non ho trovato quasi nulla)
o pensate che giap non sia un luogo adatto? :’I
La tematica è stata presa di sghimbescio più volte, in realtà nel corso degli anni di femminismi e questioni di genere abbiamo parlato di più altrove, es. su Lipperatura (soprattutto WM4). Più che altro, nei nostri spazi ci siamo interrogati sui personaggi femminili dei nostri libri, facendo autocritica. Tempo al tempo, ci sarà un thread adeguato.
@ Manfredi
Guarda che hai completamente equivocato. Io scrivevo infatti questo:
“Riducendolo alla semplice opzione monetarista dello stampare più moneta, si fa il verso al neoliberismo a cui è rimasto solo questo di scudo con cui proteggersi: se riproduciamo politiche keynesiane avremmo un’inflazione senza controllo, e la spirale prezzi-salari farà esplodere il debito pubblico portando l’economia al collasso. ”
Stavo proponendo infatti la retorica neoliberista contraria al keynesismo. Infatti sono d’accordo con te. Rileggi meglio che i nostri commenti sostanzialmente coincidono!
Alessandro
hai perfettamente ragione, chiedo venia!
Riguardo al dibattito sulle teorie macroeconomiche salvifiche, ricordo che, keynesianesimo e liberismo si sono succeduti negli ultimi 80 anni a secondo del ciclo economico nel quale si trovava il mondo occidentale e non a secondo del colore politico . Mitt romney fa’ una campagna elettorale neokeynesiana cosi’ come i new labour e simili hanno adottato politiche neo liberiste negli anni novanta. in europa la Grecia e’ l’emblema del MMT negli ultimi 10 anni ha effettuato enormi emissioni di debito pubblico sempre garantite e sottoscritte dalle banche nord europee.
Il cuore della MMT e’ la possibilita’ di autosottoscrivere il proprio debito all’infinito in un mondo inflation free.
Questo per dire che probabilmente e’ ora di utilizzare una cassetta degli attrezzi diversa per affrontare la crisi odierna.
Se la crisi e’ affrontata da una angolazione monetaria le varie ricette *moderne* metteranno l’ennesima toppa che si lacerera’ in maniera sempre piu’ veloce di quella precedente. Io ricordo che negli anni novanta lavoravo con un economista americano che fu preso per pazzo e messo da parte dalla banca per cui lavoravamo perche’ parlava di un workers backlash imminente negli stati uniti in seguto ai mostruosi aumenti di produttivita’ che si ebbero in quegli anni. Ma e’ da li’ che parti’ la crisi, dalla defraudazione del lavoro dipendente in nome della produttivita’ e la finanza negli ultimi vent’anni non e’ stato altro che l’illusione di un benessere perenne venduta alle classi medie. Ecco perche’ secondo me il dibattito tra keynesianesimo e liberismo e’ un racconto tossico che devia l’attenzione e
sfido a trovare un politico che si professi neo liberal adesso a parte sacconi e brunetta..
E per finire, il rafforzamento del welfare opera solo sulla redistribuzione secondaria della ricchezza e non su quella primaria, che in my humble opinion e’ il problema principale da affrontare.
Se ragioniamo in questi termini allora anche Obama è keynesiano, visto l’enorme esborso statale che ha effettuato per rimpolpare le riserve bancarie americane. Come si fa a prendere come esempio la Grecia? Non si può buttare il bambino con l’acqua sporca senza fare un distinguo tra le finalità che può avere una spesa statale. Ci sono sicuramente disavanzi cattivi (quelli alla Obama, per proteggere le elite finanziarie, o alla Grecia/Italia della prima Repubblica, per sovvenzionare una classe politica corrotta e un sistema clientelare), ma se la spesa è indirizzata alla prosperità pubblica i disavanzi diventano buoni, o no?
E di queste politiche non è che se ne siano viste moltissime nel corso della Storia, salvo nel caso del New Deal e dell’Argentina post-2002 (dove, in entrambi i casi, il keynesismo è stato applicato col freno a mano tirato).
Che poi queste scelte economiche siano o meno la soluzione ai mali del mondo o, nello specifico, a questa crisi, sono il primo a dubitarlo, ma cristo santo cerchiamo di non lavorare troppo con l’accetta, altrimenti tanto vale iscriversi a un meet-up e fare le liste civiche.
Inoltre l’MMT, da quanto ne so, non incentiva una decrescita dei salari e la formazione di una classe di lavoratori sottoccupati sempre più ampia e sottomessa (altrimenti da questo punto di vista dovrebbe andare a braccetto con Monti, Merkel e compagnia neomercantilista, che invece sono considerati i nemici numero uno), ma dovrebbe garantire un lavoro con salario decente (non da fame) per spingere il settore privato a pagare maggiormente i lavoratori se vuole ottenere mano d’opera. Questa sarebbe distribuzione secondaria?
Il messaggio che vorrei far passare è che mi sembra scorretto e immensamente superficiale ridurre una teoria economica ai casi in cui è stata utilizzata negativamente. Il keynesismo è uno strumento e come tale non possiede una moralità intrinseca. Presupporre il contrario e proporre di tirare le freccette Keynes (cioè praticare la censura e l’abbattimento delle idee invece di proporne di alternative) è come dire comunismo=Stalin, femminismo=Solanas o destra=Hitler, ovvero procedere per assolutismi a vanvera.
@dovic
1) il bambino ha quasi 100 anni
2) nessuno lo vuole buttare nell’acqua
3) le teorie keynesiane sono parte integrante ed attiva del sistema capitalistico e sono tutto meno che rivoluzionarie
4) nessun dubbio obama e’ totalmente neokeynesiano
5) redistribuzione primaria e’ legata al rapporto capitale lavoro e si traduce in aumenti dei salari reali, redistribuzione secondaria e’ la redistribuzione delle entrate fiscali in servizi pubblici e welfare.
6)la modernmonetarytheory non porta a nessun aumento salariale
“Inoltre l’MMT (…) dovrebbe garantire un lavoro con salario decente (non da fame) per spingere il settore privato a pagare maggiormente i lavoratori se vuole ottenere mano d’opera.” Forse non avevi letto bene, perché a me questo sembra significare aumento degli stipendi. Parole sentite pronunciare dagli MMTisti al summit di Rimini, non da Barnard stavolta. So benissimo che l’MMT e il keynesismo non sono rivoluzionari e si muovono all’interno della logica capitalista, quel che mi da fastidio è il volerli liquidare e demonizzare a tutti i costi, fregandosene anche dei benefici che potrebbero portare e facendo intendere che, in fondo, neoliberismo e keynesismo fanno schifo allo stesso modo. Un paio di cavoli.
Stavo pensando: è ora di trovare nuovi mezzi per cambiare l’economia e il mondo e questi nuovi mezzi sono… (rullo di tamburi): la lotta di classe!
E il bambino ha 100 anni?! Due parole: AH. AH.
P.S.: Ciò non significhe che io voglia mandare in pensione la lotta di classe come strumento di cambiamento considerandolo un concetto obsoleto e inutile. Io non lo farei. Io.
@ dovic
Se anche tu volessi mandare in pensione la lotta di classe come “strumento” di cambiamento non potresti per il semplice fatto che la lotta di classe… non è uno strumento!
La lotta di classe è un fenomeno storico-sociale, prodotto dalle contraddizioni di un sistema basato sull’esistenza di una classe di sfruttatori che opprime una classe di sfruttati. Fino a che ci saranno classi che sfruttano e classi oppresse, ci sarà lotta di classe.
Le ricette economiche possono essere elaborate, applicate e valutate in maniera consapevole; ma fenomeni sociali *oggettivi* come la lotta di classe (posto che se ne ammetta l’esistenza, ovvio…) non dipendono da noi, non sono frutto di una nostra scelta. Quindi qui non si tratta di “essere per” la lotta di classe… si tratta solo, di fronte al riacutizzarsi dello scontro di classe cui assistiamo oggi e che diventerà sempre più marcato nei prossimi mesi, di capire dove vogliamo che ci porti questa fase storica difficile e inevitabilmente dolorosa (e manco questo dipenderà da noi!).
Riformulo: “non dipenderà da noi” il carattere più o meno doloroso della fase verso la quale ci stiamo avviando, non la natura del cambiamento, che invece dipende da noi eccome.
@ Don Cave
Ho capito quello che intendi, il mio commento ironico voleva sottolineare la contraddizione tra il voler trattare il keynesismo come ferro vecchio e l’utilizzo di termini e metodologie appartenenti a teorie ancora più anziane. Grazie comunque per il chiarimento.
@dovic mai parlato di lotta di classe anche perché secondo me non esiste un proletariato globalizzato anzi la globalizzazione ha diviso geograficamente borghesia e proletariato in modo tale da non esserci nessuna lotta di classe, esistono capitalismi radicalmente diversi che generano proletariati non omogenei che non si riescono ad organizzare a livello internazionale.
Salve a tutti..
visto che la discussione ormai si è spostata su keynesismo e anti-keynesismo, provo a dir la mia su questo.
Non so quale sia il momento politico o sociale più adatto per fare una rivoluzione. La storia, in questo senso, se ci può dare un indicazione, ci dice che un contesto vale l’altro, di tentativi rivoluzionari ce ne sono stati vari in altrettanto vari contesti. L’elemento centrale è sempre stata l’organizzazione rivoluzionaria che ha organizzato l’attacco al potere, più che il contesto più o meno favorevole.
Quindi, non voglio dire che un’economia keynesiana sia maggiormente propedeutica di una liberista allo scenario rivoluzionario. Secondo me è indifferente.
Il problema però è che non vorrei passasse il messaggio che il capitalismo sia tutto uguale. Secondo me (e secondo noi), non esiste un capitalismo migliore, dal volto umano e benevolo, e uno cattivo, sfruttatore e imperialista. Questo però non significa che il capitalismo sia identico in ogni sua “veste”; altrimenti, dovremmo avere lo stesso atteggiamento di fronte a ogni forma che assume il regime capitalista (nazismo e fascismo, autarchismo, neoliberismo, statalismo, ecc..). Non può essere così, altrimenti non avrebbe senso dirsi antifascisti; basterebbe essere anticapitalisti e finirla li.
Per questo, non credo sia sbagliato affermare che un capitalismo keynesiano (o socialdemocratico) sia “migliore” di un capitalismo selvaggio, dove c’è sempre meno Stato e sempre più “libera” competizione nell’arena del mercato (libera competizione, ovviamente, è un eufemismo).
Se il nostro obiettivo è quello di rovesciare il capitalismo, questo però non può, secondo me, portarci a vedere ogni forma di capitalismo uguale a se stessa.
Il capitale cede terreno (e potere) solo di fronte al conflitto organizzato, quando questo concedere terreno risulti (per il capitale) il male minore rispetto a una possibile svolta rivoluzionaria.
Politiche keynesiane sono, oggettivamente, una concessione che il capitale fa per contenere il conflitto. E’ per questo che sono deleterie. Ma non perchè per il capitale è indifferente organizzarsi in forma “sociale” piuttosto che in forma “neoliberista”. Perchè il capitale preferisce salvare il salvabile con un accomodamento verso uno Stato più sociale, piuttosto che perdere lo Stato.
Ecco perchè le politiche keynesiane non sono il prodotto astratto di una gestione autonoma del capitale, che decide di volta in volta di organizzarsi come meglio crede. Sono invece il prodotto del conflitto, che conquista dei rapporti di forza meno svantaggiosi per i lavoratori. Politiche keynesiane sono una forma di capitalismo migliore di politiche liberiste. E’ per questo che il capitale non le concede, a meno che non sia costretto a concederle. Così come concesse, un secolo fa, lo Stato Sociale. Mica perchè aveva a cuore le sorti dei lavoratori.
Alessandro
Sottoscrivo praticamente tutto, ma aggiungo una constatazione. Le politiche keynesiane non sono deleterie se prese come punto di progresso intermedio. Non considerate queste parole come un compromesso con il riformismo, con la politica delle mezze misure, il mio discorso è un altro. Nel momento in cui il capitale arriva a concedere politiche keynesiane, per salvare il salvabile come hai detto, significa che un conflitto, una spinta rivoluzionaria, è già in atto. Quindi ottenere certe concessioni può essere un obiettivo che una volta raggiunto viene consolidato e affiancato da altri obiettivi più ambiziosi. Non credo che questo significhi rinunciare a una meta più alta.
Sono pienamente d’accordo con l’ottimo intervento di Alessandro/Militant.
Penso che a volte si confonda il keynesismo inteso come analisi economica, che come dice dovic “non possiede una moralità intrinseca”, ed il keynesismo inteso come visione complessiva della società (penso alle idee politiche di Keynes o di un Federico Caffè). Quest’ultimo keynesismo esisterà pure, ma ritengo non sia rilevante in un dibattito sulle politiche economiche. Quando parliamo di economia, se diciamo Keynes diciamo che al crescere della spesa pubblica crescono il Pil e l’occupazione. Quindi parlare di keynesismo, oggi, significa affermare che le politiche di austerità, riducendo la spesa pubblica ed il reddito di ognuno di noi, stanno riducendo la spesa complessiva e dunque ci stanno conducendo verso un baratro fatto di povertà e disoccupazione.
Da marxista, *vedo* che le politiche keynesiane, in quanto aumentano l’occupazione, rafforzano il potere contrattuale dei lavoratori (che diventano meno ricattabili, meno spaventati) e dunque incidono sul conflitto distributivo (quindi, Alessandro, non ne sono sono il frutto, ma lo influenzano anche, a mio avviso: è vero che “il calpitale le concede” quando ne è costretto, ma è anche vero che, quando le ha concesse, si è scottato..penso agli anni 60′ e 70′).
Ripetendo quello che diceva Vanetti in un suo commento precedente con riferimento a Syriza, sono convinto che le politiche keynesiane, oggi, “innescherebbero un processo più grande di loro”. Quindi ben vengano (o meglio..è proprio per questo motivo che non se ne vede l’ombra).
Ammazza che dibattito!
Volevo solo aggiungere una cosuccia sulla Modern Money Theory. Alla manifestazione Occupyamo Piazza Affari mi è stato consegnato un volantino del gruppo “MMT Italia”; credo si tratti degli accoliti della setta di Barnard.
Costoro sono IPERkeynesiani perché la loro proposta non è semplicemente intervento statale via deficit pubblico (impraticabile perché aumenterebbe il debito già insostenibile); la loro proposta è più estrema: stampare moneta con la quale tirarci fuori dalla crisi. Dicono che non è vero che questo produrrebbe inflazione, purché il denaro creato ex nihilo venisse investito in attività produttive redditizie.
Spiegano – correttamente – che se lo Stato crea 10mila euro e li investe in un’attività che ne rende 12mila, questo non crea inflazione.
Qui servirebbe l’hashtag #GAC, grazie al cazzo. Se fosse facile trovare investimenti che rendono 12mila euro spendendone 10mila, questi investimenti li farebbero già i capitalisti privati, anzi, potremmo fare una colletta qui su Giap e farlo noi. Il problema della crisi è proprio che non si trovano investimenti redditizi!
Di conseguenza, l’unica possibilità per un intervento statale è oggi sussidiare attività che dal punto di vista del profitto sarebbero in perdita. Se questo intervento è finanziato coi titoli di Stato, aggrava l’indebitamento pubblico; se questo intervento è finanziato con la creazione di moneta, causa inflazione.
In tutto questo, il nesso del keynesismo con la lotta di classe o con la socialdemocrazia a me continua a sembrare che non si ponga come viene posto da alcuni commenti. Il debito pubblico è keynesiano, ma è un enorme trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi; l’inflazione è keynesiana; il salvataggio di Northern Rock è keynesiano; le spese militari di Bush sono keynesiane; il fascismo ha spesso avuto una politica economica keynesiana. Dipende da qual è il contenuto di classe della spesa pubblica e anche da dove vengono prese le risorse per finanziarla.
Se esproprio le banche per finanziare la Sanità pubblica, è una spesa pubblica con un certo contenuto di classe. Se taglio la Sanità pubblica per finanziare le banche, è una spesa pubblica con un contenuto opposto. Non sto comportandomi in modo liberista in nessuno dei due casi, ma ammetterete che c’è una certa differenza…
In che senso “il debito pubblico è un enorme trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi?”. Per me lo diventa se si decide di abbassarlo tramite tasse sui “poveri”..quindi è vero l’opposto: finché resta debito pubblico, evita quel trasferimento dai salari ai profitti che oggi stanno realizzando tramite le tasse e la riduzione dei servizi sociali, ossia tramite la lotta al debito!
In che senso “l’inflazione è keynesiana”? Non capisco.
I soldi alle banche, invece, non c’entrano proprio nulla con Keynes..per politica keynesiana si intende un aumento della spesa pubblica per consumi o investimenti. Punto. Se lo stato si accolla passività finanziarie, aggrava il suo bilancio senza aumentare di una virgola la spesa per consumi o investimenti.
Infine: quando facciamo analisi economica, associamo le politiche keynesiane ad un incremento di occupazione. Ma, e lo dico da economista, il giudizio su una politica non si limita mica al suo aspetto economico! Dunque posso ben dire che una guerra imperialista, o un’avventura coloniale, aumenterebbero l’occupazione in Italia, e poi dire che non mi attira neanche un pò, e che anzi la combatterei con tutti i mezzi. Bisogna saper tenere distinti i due piani.
Vanetti, scusi ma lei qui fa un bello scivolone. La sua obiezione verrebbe facilissimamente confutata da un MMTista dicendo che lo Stato potrebbe permettersi benissimo di essere in passivo e finanziare la spesa pubblica (a indirizzo social-umanistico, si badi bene) nel momento in cui avesse una moneta sovrana, perché quel debito potrebbe essere aumentato e rinnovato all’infinito senza mai dovrebbe essere estinto. Naturalmente questo con l’euro non è possibile.
Mi spiace ricorrere sempre agli stessi esempi, ma se gli Stati Uniti aumentano regolarmente il loro debito da più di cento anni e non si fanno problemi a finanziare le riserve delle banche per cifre astronomiche, perché dovrebbero farsene per finanziare l’economia reale?
Inoltre non è detto che lo Stato finanzierebbe solamente attività in perdita. Anche se dovesse finanziare esclusivamente attività che non causano immediati profitti (come la costruzione di infrastrutture, strade, manutenzioni ecc.), il solo fatto di fornire stipendi e posti di lavoro permetterebbe a quei lavoratori di riutilizzare il denaro dello stipendio immettendolo nel circuito del consumo e, quindi della produttività. Un aumento della domanda sarebbe fisiologico.
@dovic
Questo tuo ultimo commento dimostra che la MMT è considerata dai suoi seguaci una specie di magia: debito che cresce all’infinito, moneta stampata all’infinito, piena occupazione e felicità universali.
Suggerisco rientro d’urgenza sul pianeta Terra.
Preferirei confutazioni argomentate a inviti campati in aria, soprattutto se l’intenzione è quella di far cambiare idea all’interlocutore invece di metterlo alla berlina. Io non sono un seguace di niente, conosco le argomentazioni MMT ma mi concedo il beneficio del dubbio. Certe esortazioni però non mi aiutano di sicuro a fare chiarezza, anzi. Mi limito a dire quello che so: gli USA non ripagano il proprio debito dal 1837 (se non ricordo male, ma siamo lì), i presidenti che hanno speso di più nella loro Storia sono stati Reagan e Bush jr., nemmeno i neoliberisti sembrano credere allo spauracchio del debito. Magia? Bah.
Concordo con quanto detto da @Manfredi, Keynes con lo stampare moneta e con la procrastinazione del debito mediante emissione di moneta non c’entra un bel nulla. Rileggetevi la Teoria generale e il progetto di riforma monetaria proposta da Keynes durante la II guerra mondiale. Povero Keynes, continuo a considerarlo uno degli economisti meno compresi della storia, dai quali sarebbe veramente rivoluzionario – qui si – ripartire, magari dalla sua proposta di Clearing Union. Uscita dall’euro e politica delle svalutazioni è un tacòn che è peggio del buso. Certo, c’é chi ci guadagnerebbe, ma dubito le masse.
Credo che questo post vada citato perché costituisce la più documentata risposta possibile a Mauro Vanetti. Ognuno si faccia, giustamente, l’idea che preferisce. http://goofynomics.blogspot.it/2011/11/luscita-delleuro-redux-la-realpolitik.html
Va letto approfonditamente e gli spunti saranno molteplici. Comunque la divergenza di analisi che più salta all’occhio è l’idea di crisi da sovrapproduzione vs. crisi da carenza di domanda (conseguente alla distruzione mondiale dei salari). IMHO proprio guardando al detonatore originario (il credito al consumo americano) dovremmo propendere per la seconda ipotesi. Manca la domanda -> essendo ipercapitalisti non vogliamo remunerare i salari -> facciamo mutui così i lavoratori saranno ancor meglio incaprettati (e nel mentre dreniamo guadagni osceni). Giapsters, che ne pensate?
walter benjamin ha scritto “il capitalismo come religione” nel 1921 e mai come oggi quell’ appunto giovanile e’ attuale. il keynesianesimo e’ uno dei dogmi del capitalismo da 80 anni a questa parte e se semplificato vuol dire espandere il bilancio statale in periodi di crisi economica. Il verbo dell’ espansione del bilancio e’ il debito, la sua chiesa e’ la finanza pubblica. Ha perfettamente ragione @maurovanetti quando dice che il debito pubblico e’ un trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi, perche’ la finanza pubblica nasce come dispositivo di equalizzazione economica atta a smussare le crisi ricorrenti ma si trasforma in un dispositivo di sperequazione economica nella sua distorsione attuale.
Chi sottoscrive i titoli di debito pubblico (risparmiatore) ottiene un rendimento tanto piu’ alto quanto il paese emittente e’ in crisi, il non risparmiatore del paese in crisi paga indirettamente la rendita stratosferica del titolo con il suo lavoro. Vi risparmio i numeri di miliardi guadagnati dalle banche d’investimento su titoli italiani e spagnoli nell’ultimo anno ma sono tanti. Secondo me il dibattito keynes non keynes e’ totalmente superfluo perche’ tutta l’economia occidentale e’ innervata da politiche keynesiane e liberiste da sempre, l’italia e’ l’esempio piu’ fulgido. Espandere e contrarre il bilancio dello stato e’ il reale non e’ un opzione. L’MMT e’ il turbo alla finanza pubblica, funziona ? nel breve termine forse in America e Giappone che si finanziano a tassi bassissimi ma in italia chi dovrebbe pagare le rendite elevatissime dei titoli ?
nel capitolo 24 del libro 1 del capitale dedicato all’accumulazione originaria marx individua nel debito pubblico cio’ che ha il potere di trasformare il denaro in capitale.
difficile trovare qualcosa di piu’ attuale.
Il debito pubblico (come lo stamparemoneta, sono quasi la stessa cosa) è trasferimento dai poveri ai ricchi quando viene speso per i ricchi. Può anche darsi il caso contrario no? Una forza che ambisse a qualificarsi come seria agli occhi dei lavoratori dovrebbe PRIMA lottare per ottenere questo (e lo si può fare solo fuori dall’euro, da Maastricht e dal fiscal compact).
Poi, chi può dirlo. Ma se intanto non si fa questo passo, la credibilità ce l’avrà chi lo farà.
Quoto rapa. Inoltre mi sfugge completamente il meccanismo secondo cui sarebbero i cittadini a pagare i titoli che il proprio Stato emette, con il proprio lavoro. Attraverso le tasse magari? Mi sembrano ragionamenti fuori dal mondo e anche piuttosto prevenuti (keynesismo=capitalismo=schifo sempre e comunque), però vabbè, sarò io che ho un punto di vista troppo diverso.
Il post è molto interessante e offre parecchi spunti di discussione.
A una prima lettura ho pensato che magari quella che si auspica non sarebbe stata l’organizzazione nella quale mi riconosco, ma che poteva essere una forza “capace di farsi tollerare nelle piazze del movimento di rivolta sociale” come hanno scritto su Indipendenti a proposito di Syriza.
Non condivido alcune cose nell’analisi però, e se lo faccio notare è perché credo siano d’intralcio al proposito di “essere come Syriza”.
Credo che Lino Banfi aiuti a comprendere molto meglio di Karl Marx perché, al giorno d’oggi, i ritmi sono frenetici.
Il tempo, secondo un vecchio luogo comune, è denaro.
Probabilmente anche questo detto, molto più di Karl Marx, aiuta a comprendere perché, al giorno d’oggi, i ritmi sono frenetici.
E non perché Marx sia un cojone, ma perché alcuni fenomeni che descrive, tra l’altro in una fase in cui il capitalismo andava affermandosi, si sono esauriti o tendono a farlo.
La sovrapproduzione, nello specifico, credo sia uno di questi fenomeni.
I cambiamenti all’interno del sistema produttivo erano indirizzati, tra le altre cose, anche a eliminarla.
Non considerarli vuol dire anche non rendersi conto dei cambiamenti che quell’innovazione ha prodotto a livello sociale.
Gli invisibili restano invisibili, anche in un’analisi ultramarxista.
Il ritmo probabilmente non è aumentato perché bisogna produrre di più, ma perché ciascuno deve fare più cose all’interno della stessa mansione.
Come Lino Banfi.
Il problema, probabilmente, non è la sovrapproduzione, nemmeno monetaria; è il suo esatto opposto: una crescita lenta, spesso del tutto assente.
Non è che c’è troppa moneta; al contrario, non basta quella che c’è a garantire alle componenti del capitale di crescere, di espandersi.
Anche per questo i mercati finanziari funzionano a un ritmo frenetico.
Non considerando i cambiamenti nel modello produttivo non solo non si comprende che la sovrapproduzione non c’è, ma non si comprende quello che è avvenuto nella società.
Non ci si rende conto di quanto le classi sociali siano mutate, e non ci si rende conto della loro composizione.
Non si capisce che, tra le altre cose, sono anche i ritmi di vita che rendono sempre più simile un operaio a un avvocato.
Non si capisce lo spazio che abbiamo intorno e si fatica a riconoscere chi lo popola.
Spesso non si vedono vie d’uscita.
In una discussione precedente, sempre su questo blog, Mico1978 diceva a proposito degli anni ’90:
“l’unica alternativa praticabile sembrava essere Kurt Cobain che si faceva saltare la testa con una fucilata.”
In “Bigger than hip hop U.net descrive le città americane tra gli anni ’80 e i ’90 come in profondo mutamento: nuove autostrade sventrano vecchi quartieri, la geografia urbana muta profondamente, la composizione sociale (e di classe) cambia.
Fa risalire tutto ai mutamenti all’interno del modello produttivo e inserisce la nascita dell’hip hop all’interno di quel contesto.
In America c’era chi si sparava, ma c’era anche chi cominciava a popolare la città nelle sue nuove forme.
Dove Kurt Cobain vedeva non luoghi, milioni di altri individui trasformavano quei non luoghi in luoghi di una società in trasformazione.
Lo facevano i breaker in una stazione della metro, ma anche gli adolescenti che utilizzavano le stazioni o i centri commerciali come luoghi di ritrovo.
Lo faceva chi liberava uno spazio, e lo faceva chi chiacchierava su un muretto anonimo di periferia.
“Vaffanculo al noi future! Un futuro c’è e ce lo costruiamo da soli!” – avranno pensato.
Anche il capitale ci mette a disposizione gli strumenti per farlo.
Con l’hip hop, per esempio, la disco music cessa di essere musica priva di contenuto, da ballare senza pensare a niente; diventa la base, dà il ritmo, a testi di denuncia.
Una musica che molti definivano “di plastica” viene controutilizzata, contribuendo a dare colore alle pareti ancora grezze di una società in trasformazione.
Anche sul posto di lavoro i cambiamenti sono notevoli.
Il capitale mutando genera contraddizioni, come sempre.
E se da un lato ha bisogno di una sempre maggiore cooperazione tra i lavoratori, dall’altro ha bisogno di una cultura individualista per giustificare la propria esistenza, soprattutto in questa fase.
Il lavoro cooperativo, come quello degli sviluppatori di google, per esempio, è un privilegio; per raggiungerlo sei costretto a lavorare anche quando non sei al lavoro; a fare il topo, a sviluppare sempre più competenze perché quante più ne sviluppi tante più mansioni puoi ricoprire.
E questo, in forme diverse, vale per l’operaio come per l’ingegnere.
(Che spesso sono accomunati anche dallo stesso salario.)
Una compagna qualche tempo fa diceva a “Piazza pulita”: “Vorrei fare piazza pulita di questa precarietà, delle nostre vite, che tra contratti a nero, affitti alle stelle e mondezza per le strade trasforma la società in una giungla e tutti noi in bestie feroci.”
I cambiamenti all’interno del mondo della produzione, e le nuove possibilità produttive, creano anche questo.
E’ il modo in cui il capitale cerca di contrastare una tendenza a cooperare di cui egli stesso ha bisogno.
In questo contesto il lavoro stesso diventa uno strumento di controllo, in una società in cui ci sono le capacità tecniche per trasformare completamente il lavoro e il modo di lavorare, liberando l’uomo e grossa parte del suo tempo.
Credo che l’unica sovrapproduzione reale ci sia stata nel campo della conoscenza.
Questo da un lato permette al capitale di creare schiere di bestie feroci pronte a scannarsi, dall’altro libera saperi e competenze che potrebbero organizzarsi anche a livello produttivo.
Il capitale non riesce a soggettivarsi, a dare quel colpo di reni che lo porterà completamente verso nuovi dispositivi, anche perché non riesce a organizzare la cooperazione.
“Dal basso” questo si può fare, perché, come nell’hip hop, è lì che la nuova classe sociale che è venuta fuori dai mutamenti del capitalismo si riconosce e riesce a influenzare la società; a tal punto da rendere luoghi i non luoghi, prima ancora del capitale che li ha creati.
MOZIONE D’ORDINE. Mi sembra che il confronto si sia incancrenito su un approccio “essenzialista”, ontologico, ovvero: che cos’è l’autentico keynesismo. Mi sembra strano, perchè non mi sembrava affatto questo l’aspetto più importante e il tema di fondo del post di Vanetti. Mi sembrava che il nocciolo fosse la frase: “l’uscita dall’euro è una variante tattica di una battaglia più generale”. Le parti più interessanti del post e del dibattito mi sembrano quelle in cui si dice che: la crisi è sistemica, non riguarda solo Eurolandia, la recessione ha colpito anche i paesi che non hanno adottato l’euro, anche la lotta dev’essere sistemica e dunque è prima contro le politiche padronali e “austeritarie” e *di conseguenza* può portare all’uscita dall’euro, mentre partire dalla parola d’ordine dell’uscita dall’euro significherebbe cominciare dall’effetto anziché dalla causa, feticizzando la questione della moneta e astraendola dal contesto dei rapporti di forza. Perché la crisi dell’euro è solo una delle *forme* che ha assunto una crisi più generale, la cui sostanza è la sovrapproduzione. Se ho capito bene, in soldoni questa è la posizione di Vanetti e di una corrente non irrilevante della sinistra marxista europea. E’ giusta? E’ sbagliata? La sostanza della crisi, anziché la sovrapproduzione, è il sottoconsumo (ovvero l’assenza di domanda)? Parliamo di questo. Come si sia arrivati a farsi le pulci a vicenda sulla vera e pura essenza del keynesismo non l’ho ben capito, proviamo a rimettere la palla al centro e stare “sul pezzo”, anche perché noi WM vediamo le statistiche degli accessi: questo thread all’inizio era seguitissimo, poi si è infittito di tecnicismi, avete lasciato impliciti sempre più riferimenti dando per scontato che chi leggeva ne sapesse a pacchi, e pian pian la gente si è sfracellata i maroni e adesso questa discussione, in buona sostanza, la legge quasi solo chi interviene. Questo è un peccato, perché il post di Vanetti, che si sia a meno d’accordo con la tesi esposta, era chiarissimo e “for dummies”. La discussione ne ha sempre più tradito lo spirito, che è lo spirito con il quale gli avevamo chiesto di scrivere qualcosa ad hoc per Giap. Smettetela di fare gli “espertoni”, porco zio, parlate come magnate e fateci capire pure a noi poveri stronzi.
lasciamo dunque perdere la veronica del keynesismo, ok.
Io credo che quella che stiamo vivendo è si una crisi sistemica del capitalismo, ma di natura finanziaria (non dico che non ci siano crisi di economia reale in atto, per capirsi crisi di produttività e lavoro, ma questa volta sono la conseguenza, non la causa, anche se spesso l’intreccio è davvero inestricabile). Insomma, una sorta di immensa crisi di liquidità: immense masse di capitale finanziario inutilizzato, che nel momento in cui sono percepite come inutilizzabili, si svalutano progressivamente a zero.
Cerco di spiegarmi, cercando di non fare il professorino, che non mi compete e manco m’interessa, ma solo per stimolare il dibattito cercando di cogliere il suggerimento di WM1: i mitici anni 90 hanno creato, mediante l’espansione del debito, immense quantità di capitale finanziario, in cerca di impiego e di remunerazione (vedi il caso subprime, dove il capitale finanziario ha cercato di remunerarsi addirittura facendo prestiti a “poveracci” che anche un cretino avrebbe capito non essere in grado di restituirli, ma fregandosene e guadagnando sulla cartolarizzazione del debito, ossia impacchettando il debito del “poveraccio” in uno strumento finanziario e vendendolo sul mercato facendolo girare 10, 100, 1000 e un milione di volte ancora, con spaventosi guadagni sul nulla, ossia sul trasferimento di un credito a cui corrisponde un debito che non potrà essere pagato). Le crisi sono una sorta di immensa ondata di panico, che il mondo ciclicamente ha quando si accorge di aver fatto circolare masse di crediti ai quali non corrisponde alcun debito pagabile (alla base di tutto c’è un debito, quello del poveraccio, che non sarà pagato). Ancora una volta il compagno Marx ci aveva visto giusto: “Questa riconversione improvvisa dal sistema dal sistema di credito al sistema monetario sovrappone al panico pratico lo spavento teorico: e gli agenti della circolazione sono presi da raccapriccio davanti all’impenetrabile arcano dei loro propri rapporti” (Il Capitale).
Cosa succede allora? A quel punto, due fenomeni: a) il capitale di colpo non cerca più remunerazione e non viene più utilizzato (meglio trattenere il danaro in attesa di tempi migliori); b) i titoli già emessi che sono portati all’incasso e offerti in vendita, una volta compreso dal mercato che ad essi non corrisponde a nulla, si svalutano , bruciando miliardi e consolidando ulteriormente l’opzione sub a).
Cosa significa questo? Lo abbiamo davanti agli occhi.
Quindi, a mio parere, crisi sistemica si, ma del capitale finanziario; crisi ciclica di sovrapproduzione si, ma nel senso di crisi ciclica da eccesso di liquidità finanziaria.
Quanto poi alla crisi dei paesi del sud dell’Europa, la questione è ancora più complicata, ma non voglio annoiare ulteriormente, sperando di aver contribuito al dibattito.
Più che altro un meta-commento che forse non aggiunge nulla di sostanziale.
Arrivato in fondo solo ora. Trovo molto interessanti alcuni spunti, quelli lanciati da Puncox e mico1978 su tutti, ma anche l’ “off-topic” di dzzz.
Penso che il femminismo “c’entri” nel suo apparente non c’entrare. Forse perché è proprio l’economicismo, e non soltanto l’uscita o no dall’euro, a essere off-topic rispetto alla realtà. Spero di non essere frainteso: trovo fondamentale tutto questo dibattito (e ringrazio davvero tutti) così come il post di Vanetti, così come l’affrontare questi temi, anche a livelli “difficili” che costringano a prendere in mano un paio di manuali. E mi rendo perfettamente conto che l’approccio economico sia una delle tante necessità e che non si possa avere questo dettaglio di analisi con un approccio più “olistico”. Però ritengo altrettanto necessario che si tenti poi di allargare/mischiare quando si tirano le fila del discorso. E anche “nel durante” dell’analisi qualche off-topic, e meglio ancora il cambio o ribaltamento di prospettiva (che mi sembra venir fuori dal commento di Puncox) mi paiono utili quando non necessari.
Se usiamo un gergo tecnico e delle categorie più o meno “astratte” per parlare di una fetta del reale, ciò che ne resta fuori vi entra di straforo. Se non vi prestiamo la dovuta cautela, rischiamo di discutere all’infinito su cosa ognuno intende per “x” e su cosa si intendeva per “x” quando lo si è detto la prima volta invece di trovare un modo comune di *usare* “x”.
Io penso che tutto ciò di cui si discute, tutti i riferimenti reali dei termini tecnici e delle categorie usate, siano di fatto inseriti (e perciò vadano inseriti) in una realtà biocapitalista. Uscire o no dall’euro, per esempio, non è soltanto, secondo me, una variante economica, ma appunto “una variante tattica in una battaglia più generale”. Forse non è nemmeno soltanto politica la questione. Forse è addirittura anche filosofica, esistenziale. Per me almeno è così, e impostare un discorso partendo dall’uscita dall’euro o impostarlo a partire dal “rifiuto del debito”, imho è una questione economica, politica, esistenziale.
A partire dal commento di Puncox: ho molto apprezzato i riferimenti, l’ “aggiornamento” sulle contraddizioni del capitale, e il “rendere luoghi i non luoghi”; riprendendo un tema ricorrente, ora dovremmo imparare anche a “rendere tempi i non-tempi”.
Tu dici anche ” “Dal basso” questo si può fare, perché, come nell’hip-hop, è lì che la nuova classe sociale che è venuta fuori dai mutamenti del capitalismo si riconosce”: se mescolo questo (e quello che hai detto su Kurt Cobain) a un saggio recente di Zizek ( http://bit.ly/K8oHiO ), mi sembra di cogliere un nesso.
“Dal basso”: nello stesso *tempo* dell’hip-hop c’è stato appunto anche quello sparo in bocca. C’è stato chi “dal basso” è riuscito a costruire qualcosa e chi trovandosi improvvisamente (senza aver colto “il tempo”) “in basso” si è perso o annullato. Trovo che questi due modi di vivere lo spazio siano ancora ben presenti, anzi forse più di prima, nelle stesse persone e su molti livelli. Che ci sia sempre più gente che *all’improvviso* si ritrova “in basso”. Trovo anche che il discorso sull’uscita dall’euro sia a suo modo un ritrovarsi “in basso” improvvisamente, e non sapere (ancora) partire “dal basso” non dico per costruire, ma nemmeno per inquadrare la situazione. Sembra una questione di spazio ma è anche di tempi: ci vuole un tempo per passare da “in basso” a “dal basso”. Lo stesso concetto di “dal basso” include in sé un tempo, perché è un movimento e non soltanto uno spazio.
Invece su tutto il discorso se abbia senso o meno una fase più o meno riformista, “keynesiana”, e di che tipo, in una prospettiva rivoluzionaria e di classe, sospendo il giudizio, non ne so abbastanza, ma l’ho trovato molto interessante.
Il casino alla fine secondo me è che ragioniamo con categorie mezzo vere e mezzo false, che tagliano fuori parti di reale. Marx ne aveva sapute inventare di nuove (nuove rispetto a quelle dell’economia tradizionale, e quindi smascherando le sue mezze bugie) e il suo discorso all’epoca, per quel poco che ne so, mi sembra che tenesse bene in conto la dimensione biopolitica dei problemi, per quanto non esistesse ancora il termine.
Aggiungo una nota più a tema sulla questione dell’uscita dall’euro. Se anche fosse “il discorso di verità” dell’euro il punto, non credo che l’uscita sarebbe il modo migliore di infrangerlo. Il modo migliore sarebbe spingerlo ad auto-negarsi, a infrangersi su di sé. Un conto è andarsene sbattendo la porta, mantenendo di fatto intatto in chi resta dentro l’euro il proprio discorso di verità, un conto è costringere l’unione monetaria ad auto-amputarsi dei pezzi.
Io trovo che “il discorso di verità” dell’euro sia una delle tante “figure” del nemico, che resta il capitalismo. Non credo che sia “qualcosa da salvare”. E’ sicuramente un nodo da affrontare, è bene che lo si faccia e che non si lasci che lo facciano solo i fasci: ma il modo in cui lo si affronta e la via che si indica a mio parere non possono che essere opposti ai loro.
Mauro, il nocciolo è sempre molto duro; oggi più che mai. Vedi, la maggior parte delle misure proposte da Syriza (eccezione fatta delle questioni propriamente europee) sono state attuate nell’Argentina post default con i risultati che tutti hanno sotto gli occhi. Vediamo. Praticamente l’intero debito pubblico è stato rinegoziato. La Banca Centrale argentina non venne mai privatizzata quindi finanzia lo Stato e i programmi d’investimento. Sotto le urla dei media corporativi che avvertivano sui “pericoli” di rendere la Banca Centrale meno “indipendente”, il governo l’ha resa legalmente capace di provvedere alla crescita e allo sviluppo. La legge elettorale garantisce rappresentanza parlamentare proporzionale. Sulla questione delle tasse alle transazioni finanziarie, sui redditi alti e per le grandi imprese, ci torno dopo. Come pure sul tema dei derivati. La lotta alla fuga di capitali si da ogni giorno e si prendono misure molto serie sul particolare, il chè scatena la furia dell’oligarchia nostrana e di quella internazionale che si accanisce sul governo con tutta l’artigleria che gli permettono le attuali circostanze geopolitiche. La nostra spesa militare pesa poco sul bilancio. Tutti sappiamo che non c’è difesa possibile contro la capacitá bellica delle grandi potenze militari e che l’unica arma deterrente è atomica, quindi… E per fortuna non siamo membri di sovrastrutture quali la NATO. (Difesa: 5,8% del Bilancio 2012; Servizi Sociali: 60% del Bilancio 2012). Si sono incrementati i salari minimi, le pensioni, la scuola è d’obbligo e gratuita e garantita dallo stato fino alle medie superiori, l’assistenza medica è gratuita per tutti coloro che la richiedano compresi immigranti e c’è una struttura molto forte di sistemi di assistenza medica e sociale sindacale; molte scuole hanno la mensa, la scuola pubblica provvede la colazione; le esecuzioni ipotecarie sono state sospese e non è permesso pignorare la casa di famiglia (basta che il proprietario dell’immobile l’abbia dichiarato “bene di famiglia”, cioè casa della famiglia, una sola naturalmente); ti possono pignorare qualsiasi altro bene meno la casa che tu hai dichiarato come quella in cui vivi con la tua famiglia; Ci sono sussidi per i disoccupati e anche l’assegno universale per figlio, che si concede per ogni figlio che la famiglia di basso reddito ha a condizione che presenti i certificati di scolarizzazione regolare e le schede sanitarie emesse dai servizi pubblici. Le imprese pubbliche che erano state privatizzate negli anni ’90 sono in corso di nazionalizzazione (Aerolíneas, YPF ed altre già nazionalizzate; compagnie ferroviarie sotto intervenzione dello Stato… Un mucchio da fare ma in corso). Si avanza (lentamente) sulle energie rinnovabili; è di legge la parità salariale tra uomini e donne; si sono derogate le leggi di flessibilità lavorale dei ’90 e i contratti sono a tempo indeterminato dopo tre mesi di prova; contratti a tempo determinato soltanto per lavori stagionali o con altre particolarità precise; protezione del lavoro uguale sia a tempo pieno o parziale; in vigenza le “paritarie” per contratti collettivi per rubro d’attività; spinta dei controlli per gare e appalti anche se i livelli di coscienza sociale necessari per l’efficienza in queste aree devono essere molto alti e questo non è un percorso facile… Soprattutto con le corporation le cui tasche scoppiano di banconote. Ma si spinge. Chiesa e Stato separati in Costituzione; libertá di culto, di religione, di pensiero, di parola, di stampa… Legge ad hoc per garantire voci alternative (media per cooperative, sindacati, NGOs, ecc).; Protetti (immunità parlamentare) soltanto deputati e senatori; il resto, perseguibile da qualsiasi tribunale; Polizia dello Stato senza armi da fuoco nelle manifestazioni; riformati i programmi dei corsi per la Polizia, alla quale si richiede aver approvato le Medie Superiori; corsi per ufficiali diventati carriere terziarie in sicurezza e diritti humani. Immigrazione protetta in diversi modi: documenti garantiti; scuola, sanitá, ecc.; In discussione la depenalizzazione del consumo di cannabis (tutta una lotta, il traffico, conoscendo come conosciamo chi lo regge a livello globale); Leva non obbligatoria ma volontaria; Il servizio sanitario pubblico è garantito (tenendo conto dei diritti delle giurisdizioni federali, le provincie); 5,9% del bilancio va alla sanità pubblica, praticamente la media europea. Proibiti i ticket a carico dei cittadini nel servizio sanitario. Insomma, per compiere il programma di Syriza ci mancherebbe proibire i derivati; le esenzioni di cui gode la Chiesa Cattolica sono uguali a quelli di tutte le altri confessioni religiose. Siamo, in questi tempi, nella lotta con la questione tasse per i settori più ricchi e più serrati nella difesa dei loro privilegi, che come si può immaginare sono belve pronte a scagliarsi violentamente contro qualsiasi misura che possa minacciarli (i “cacerolazos” degli ultimi giorni erano contro l’attualizzazione del valore fiscale delle proprietà agricole e la nostra oligarchia, si sa’, è terratenente – terriera?). E questo è il nocciolo, che si è tornato ogni volta più duro poichè l’èlite globale è in definitiva una sorta di composizione delle èlite regionali e locali che si alimentano ed intrecciano in un’architettura a rete tessuta via via con fili più resistenti. Non ha caso te le ritrovi, Goldman Sachs, J.P. Morgan, Blackrock, Citibank, ecc, quando tiri i fili della proprietà dei mass media, ad esempio. Hai ragione: questa lotta non si può dare localmente, ma te li vedi tu i paesi europei uscendo dalla NATO? Magari, sarebbe un grande bene non solo per i cittadini d’Europa ma anche e soprattutto per l’Umanità. Sbagli nel dire che gli USA hanno capacitá di manovra sulla loro moneta; i banchieri che possiedono la FED sono, d’accordo a quanto ho potuto capire fin’ora, più o meno gli stessi che controllano la BCE; entrambe sono in mano private, nelle mani della stessa èlite finanziaria. Ed hanno una superlativa capacità di comprare qualsiasi politico che abbia un prezzo (quasi tutti), politici che non si rendono neppure conto che una volta usati sono denunciati per le loro corruzioni nei media corporativi che controllano in tutto l’Occidente ed oltre. Li usano e li buttano e intanto convincono la gente che la politica è sporca, che i politici non hanno cura, che sono meglio i “tecnocrati” – i loro sbirri -; scatenano l’ira popolare verso la “casta” e distraggono l’attenzione intanto loro (vedi ora Draghi, Barroso, Van Rompuy e Jucker, uomini del club, occupati nel “piano per salvare l’Europa”, alla faccia dell’ormai scomparsa democrazia in Occidente). Ne abbiamo, infatti, da parlare. Tutti quanti, non soltanto gli europei. Ma le vostre chiacchiere, comunque, ci riguardano, eccome. E a voi le altre, comprese le nostre.
L’appello di WM1 a tornare coi piedi per terra (e col culo per strada) va raccolto subito, specie quando bandisce ulteriori studi ontologici sul keynesismo.
Come mostra l’ultimo commento addirittura dall’Argentina, ci sono questioni di economia che sono molte concrete e toccano la vita di milioni di persone.
Provo a dare un segnale in quella direzione con qualche spunto.
IL DEBITO PUBBLICO. Se uno Stato si indebita, qualcuno diventa suo creditore; se guardate le statistiche, questi qualcuno sono soprattutto i ricchi e i ricchissimi. I creditori del debito pubblico guadagnano l’interesse sul debito senza muovere un dito. Il debito pubblico trasforma lo Stato in un’azienda che deve garantire un certo rendimento, o indebitarsi ulteriormente pagando un interesse ancora più alto. Chi paga questo interesse? I contribuenti, che in grande maggioranza sono lavoratori dipendenti. Quindi: col debito pubblico i lavoratori pagano una rendita finanziaria a dei parassiti. Questo vale *anche* se questo debito fosse stato fatto per costruire scuole e ospedali, e invece spesso viene fatto per costruire portaerei e ponti sullo Stretto…
L’INFLAZIONE. Un altro modo per fare politiche “espansive” è creare moneta in eccesso e quindi alzare l’inflazione. Chi resta fregato dall’inflazione? Chi ha uno stipendio fisso, e siccome la scala mobile ce l’ha fatta abolire quell’infamone di Craxi, quando si alzano i prezzi è come se i nostri salari si abbassassero.
Questi sono i veri temi su cui si distingue una politica a favore della classe operaia: ripudiare il debito e ripristinare la scala mobile. Indebitarsi e alzare l’inflazione no.
Anzitutto, complimenti per il dibattito.
Io non sono un esperto di economia, semplicemente, cerco di farmi un’idea di quello che sta succedendo studiando un po’ qua e là.
Per cui, se dico stupidaggini sono benvenute le correzioni.
Raccolgo l’appello di WM1 ad abbandonare Keynes e segnalo, a proposito dell’eventualità di uscire dall’unione monetaria e del suo essere un momento di lotta, un piccolo commento dal libro di Brancaccio-Passerella, “L’austerità è di destra”.
Secondo gli autori potremmo non essere molto lontani dalla situazione di crisi del Sistema monetario del 1992.
Allora come oggi si reagì innanzitutto con violente misure di tagli alla spesa pubblica, dopodiché furono proprio il governo e Bankitalia a optare per la fuoriscita dal regime dei tassi di cambi con le altre valute, non prima, come ricorda anche Vannetti, di aver condannato i lavoratori a sostenere i costi più alti: politiche restrittive – svalutazione e perdita del potere d’acquisto – patto con i sindacati.
Dicono i due autori:
“Anche per questo motivo vale forse la pena di ricordare che all’epoca Bankitalia sostenne la lira fino all’accordo sul costo del lavoro. Subito dopo, la lasciò al suo destino. Allo stato attuale, non sembra esservi un motivo ragionevole per escludere che la Banca centrale europea possa decidere, a un certo punto, di agire in termini analoghi.”
Allora, se si prosegue questo ragionamento, si può concludere che la strada della fuoriscita non ha un colore politico e, a seconda del momento storico in cui interviene, può anche diventare un’opzione del Capitale.
Tra l’altro, in questo caso, qualora una simile scelta dovesse esser effettuata dalla BCE di concerto con qualche governo – magari il prossimo Berlusconi – ci ritroveremmo nella situazione in cui Grillo ha praticamente spianato la strada a questo tipo di consenso. Ottimo. Applausi.
Certo, mi posso sbagliare.
Soprattutto, è possibile che si crei un movimento rivoluzionario con alla testa una classe dirigente capace di ribaltare i rapporti di forza in questione.
Riguardo alla questione del debito (io non sono così bravo a prevedere possibili suoi utilizzi virtuosi) e dell’inflazione, sempre lo stesso Brancaccio, in numerosi interventi che si possono vedere e ascoltare dal suo sito, segnala come debito e inflazioni siano problemi minori rispetto ai disavanzi con l’estero e la deflazione.
A me erano parsi punti di vista interessanti.
Buona giornata a tutti.
Tiziano
Ok. Che i creditori del debito pubblico siano dei parassiti è acclarato, come del resto lo sono tutti gli speculatori finanziari che intascano senza mai produrre niente e facendo gravare le loro perdite sull’economia reale. Dobbiamo però anche considerare che attraverso questo meccanismo lo Stato può finanziare la propria spesa a favore dei cittadini e questo non è un aspetto secondario.
Quello che non mi torna è questo: perché il debito pubblico dovrebbe essere un problema per lo Stato e in quale modo sarebbero i cittadini a ripagarlo.
Espongo la tesi cosiddetta iperkeynesiana: lo Stato rimborsa i propri creditori emettendo nuovi titoli (e può farlo infinitamente, se detentore di una moneta sovrana che non deve prendere a prestito dai mercati, pigiando dei bottoni e aumentando delle semplici cifre elettroniche), oppure proroga il titolo se il creditore acconsente; le tasse non servono a ripagare il debito e a fornire i servizi alla collettività, ma soltanto a “costringere” tutti ad utilizzare la stessa valuta (le sole tasse non sarebbero sufficienti a garantire tutte le spese).
Mi sembra che, rispetto alle definizioni illustrate sopra, ci siano delle differenze sostanziali, ma il procedimento di finanziamento del debito è uno e quello rimane. Quindi, come stracaspita funziona sta cosa? Chi è che dice fregnacce (per dirla terra terra)?
Mi scuso se insisto su questo punto, non è per arenarsi in tecnicismi, ma stiamo parlando di una crisi economica (che ha anche tanti altri risvolti importantissimi, certo) e, se non facciamo chiarezza su come funzionano certe cose che sono essenziali per l’impostazione di una soluzione, non possiamo sperare di venirne a capo.
Per rimettermi in riga secondo quanto detto da Wu Ming 1, esprimo la mia umile opinione riguardo alla natura di questa crisi.
Sono d’accordo con molte cose dette da mico1978. Credo che questa crisi sia una crisi del capitalismo finanziario (che come sempre, in mancanza di risorse, va a succhiare l’energia vitale dell’economia produttiva) e in particolare dell’ideologia neoliberista.* Non credo sia invece una crisi del capitalismo in toto. Questo perché il capitalismo ha dimostrato di essere estremamente dinamico ed è riuscito a superare ogni sua crisi facendo ripartire il ciclo sotto nuove forme. Non mi illudo che questa possa essere la volta buona in cui esso si suiciderà, come erroneamente aveva previsto il pensiero marxista. La sua virulenta adattabilità lo porta a sopravvivere a se stesso fino alle estreme conseguenze, ovvero l’annientamento totale della classe sfruttata. L’unica rivoluzione può venire solo dai cosiddetti lavoratori, insomma dalle masse, non aspettiamoci che il capitalismo ci faccia il favore di eclissarsi da solo. Questo è possibile? Vanetti sembra essere ottimista, io non lo so. Forse in Europa ci sono spinte rivoluzionarie più forti che da noi, qui non ne vedo traccia. Gli operai scioperano in gruppetti davanti alle loro fabbriche di riferimento, occupandosi della loro situazione particolare, non esiste un movimento unitario, nemmeno l’ombra, non c’è una spinta sociale, una proposta ponderata e condivisa, niente di niente. Una rivoluzione potrebbe contagiarci dall’esterno e propagarsi per l’Europa? Chissà. Lo dicevano anche nel 1917. A mio parere è utile sospendere il giudizio su questi punti se non si vuole fare della fantapolitica, è già abbastanza difficile analizzare il passato, la serietà ci impone di non azzardare previsioni per il futuro.
*E’ vero che chi pone troppo l’accento sull’euro, come gli MMTisti, rischia di distogliere l’attenzione da un problema più radicale. L’euro è un’ulteriore, pesantissima, camicia di forza che ci è stata imposta e che è importante considerare, ma non è la radice di tutti i mali, soprattutto se consideriamo che la crisi è globale, non soltanto dell’Eurozona.
Su, Dovic, non mi sembra proprio che Vanetti sia ottimista sul fatto che il capitalismo si eclisserà da solo… Per qualunque marxista, l’assunto-base degli assunti-base è che il capitalismo non crollerà mai da sé per via della crisi, perché la crisi non è un evento che lo aggredisce dall’esterno: il capitalismo *è esso stesso* e fin dai suoi albori un modo di produzione basato su cicli che portano a crisi, le crisi sono congenite nel suo funzionamento ed esso è in grado di superarle, anzi, di usarle per uscire dalle secche, a meno che non intervenga una forza soggettiva – che il marxismo vede nell’organizzazione rivoluzionaria del proletariato – a impedirglielo, a interrompere il ciclo grazie a quello che negli anni Settanta (ma il concetto è precedente e quintessenzialmente marxista) veniva chiamato “uso politico della crisi”. Se latita questa forza soggettiva, il capitalismo non crolla. Questo, nella pubblicistica della TMI a cui Vanetti fa riferimento, è ribadito di continuo, persino con pedanteria.
Già, sono cosciente che i ragionamenti da me espressi sopra sono l’abc del marxismo in quanto a crisi del capitalismo e rivoluzione. L’ottimismo a cui mi riferivo riguardava un commento secondo cui Vanetti si diceva alquanto determinista sullo scoppio di una rivoluzione qui in Europa. Su questo punto io sono più dubbioso, bisogna tener conto anche dell’omologazione culturale e della lobotomia del pensiero critico a cui è stata sottoposta la civiltà occidentale negli ultimi decenni e che ne hanno minato profondamente le capacità di riscatto. Poi mi rendo conto che probabilmente un conto è intendere molto probabile lo scoppio rivoluzionario, un conto è preannunciarne la vittoria, probabilmente Vanetti si riferiva al primo caso. Chi vivrà, vedrà.
Beh, Vanetti ha scritto che la rivoluzione ci sarà ma forse la perderemo :-|
Ah, ok. Si vede che ricordavo solo la prima parte del commento in mezzo al tutto il marasma del post :-)
Preciso che, sempre secondo l’iperkeynesismo, il debito pubblico non è un problema quando la moneta è sovrana, quando cioè appartiene allo Stato che può emettere denaro e titoli a piacimento, come se avesse l’orto dei soldi (sarebbe auspicabile anche avere la banca centrale statale e subordinata al ministero del tesoro, non privatizzata com’è oggi in tutti i Paesi “che contano”). Con l’euro è tutto un altro film perché è una moneta che non appartiene a nessuno degli Stati membri e che, una volta emessa, viene introdotta direttamente nei mercati di capitali privati da cui gli Stati sono costretti a prenderla in prestito.
Qui invece mi sembra che si parli come se euro o lira, dollaro o marco fosse tutta la stessa cosa, il che è una grossa e grossolana sciocchezza. Lo Stato italiano oggi DEVE aumentare il biglietto dell’autobus perché non può fare altrimenti, è costretto ad accaparrarsi le risorse dalle tasche dei cittadini, perché altrimenti dovrebbe indebitarsi ulteriormente chiedendo altri euro. E grazie al mazzo che è così! Se non si sottolinea questa macroscopica differenza, ovviamente il debito come “pasto gratis” sembrerà una puttanata, ma non è così.
Tra l’altro nessuno si è sognato di dire che, nell’Argentina di cui TNTARG ci ha elencato diffusamente i progressi e le conquiste, sono state applicate le politiche economiche dell’MMT.
quindi il lavoratore e’ naked verso l’inflazione e la subisce mentre il risparmiatore può’ comprare dei titoli di stato il cui rendimento e’ legato all’ inflazione, lo stato da un lato paga l’inflazione al risparmiatore ma la esclude dai diritto del lavoratore.
Sacrosanta l’ammonizione di WM1. Torniamo in strada: Roma, Maggio 2012. I biglietti dell’autobus passano da 1 euro ad 1 euro e 50 centesimi. “Bella sfiga”, devono aver pensato i romani quella mattina. E invece, come suggerisce Vanetti nell’articolo, le sfighe individuali hanno spesso una spiegazione collettiva. Eccome.
L’ATAC è in passivo, ha un “buco in bilancio” e quindi – ci dicono – *deve* aumentare il prezzo del biglietto, e degli abbonamenti, per riempire quel buco. Un ottimo articolo (link in fondo) spiega la questione, e ricorda che “Il servizio pubblico deve produrre in perdita. E’ pubblico apposta.” Come fa un’azienda pubblica ad operare in perdita? Ha due alternative: o quella perdita viene coperta dalla tassazione generale (sui salari o sui profitti), oppure c’è bisogno di creare debito pubblico.
L’indebitamente dello Stato è una corda tesa sui rapporti di forza tra capitale e lavoro: fintantoché si coprono i costi dei servizi pubblici con debito, si evita l’aumento nella tassazione, aumento che allo stato attuale del conflitto di classe va a gravare tutto sui salari (e infatti aumentano i biglietti). Lo strumento del debito pubblico, caro Vanetti, non va difeso perché è migliore della presa del Palazzo d’Inverno. Va difeso perché è migliore dell’aumento dei biglietti ATAC, della svendita del patrimonio immobiliare pubblico, della chiusura di ospedali, della demolizione della pubblica istruzione. Va difeso perché, oggi, la lotta al debito pubblico è la lotta al lavoro, ai salari. Va difeso perché, oggi, è un fronte della lotta di classe.
Quando un gruppo di militanti, nelle scorse settimane, ha riempito di poliuretano le obliteratrici in alcuni snodi fondamentali della metropolitana capitolina, ha mandato un messaggio chiaro: non si può far pagare il debito ai salari. Fintantoché non avremo la forza di farlo pagare ai profitti, teniamocelo stretto, così com’è. Anzi: come ogni buon riparo, difendiamolo. Quel poliuretano nelle obliteratrici, “dal basso”, crea un corto circuito che finisce per intrecciarsi anche con gli studi ontologici sul keynesismo: quegli “studi”, infatti, ci interessano solamente perché ci spiegano che il debito pubblico non è un vicolo cieco, e dunque rappresenta, nel conflitto di classe, un ottimo riparo quando i colpi del nemico si fanno insopportabili. Tutto qui.
Non vorrei dunque che ci confondessimo, e invece di tornare coi piedi a terra o col culo in strada, ci ritrovassimo come d’incanto con il culo per terra.
http://www.militant-blog.org/?p=6936
@manfredi
Non possiamo discutere come se non fossimo nel bel mezzo di una crisi dei debiti sovrani.
Se per avere i biglietti gratis del bus il Comune di Roma emette dei BOC, quando quei BOC maturano il Comune dovrà ripagare il capitale e pure gli interessi. I biglietti saranno gratis, ma i BOC no! E come si ripagano i BOC con gli interessi? Rialzando i biglietti del bus, con gli interessi. Proprio quello che sta succedendo oggi!
Il debito pubblico non è un “pasto gratis” come sembrano credere gli iperkeynesiani. O meglio: è un pasto quasi gratis per gli usurai e gli speculatori che investono in BOT o in BOC.
Dici: è una corda tesa tra capitale e lavoro; in un certo senso sì, a volte il capitale la usa per cedere qualcosa, con la promessa di riprenderselo dopo con gli interessi. Oggi siamo nel momento in cui o la corda si rompe o siamo costretti a restituire; perciò bisogna romperla facendo default *a modo nostro*. Quando si gioca a tiro alla fune, la squadra che molla la corda per prima lascia col culo per terra l’altra.
Mauro, scusa ma la crisi dei debiti sovrani non e’ stata causata dalla situazione tipo che stai descrivendo. I debiti sovrani sono percentualmente esplosi dopo la crisi lehman brothers laddove sono stati usati per mettere in sicurezza gli istituti finanziari (non in Italia, ma in quasi tutti gli altri paesi europei, “virtuosi” e non, dalla Francia all’Irlanda). Quindi il problema non e’ mai stato il debito sovrano di per se’.
Inoltre, negli anni 80 i buoni del tesoro erano l’investimento preferito delle famiglie. Non ci vedo molta speculazione nella nonnina che investiva i suoi 10-20 milioni di lire con rendimenti al 10%.
Stiamo attenti a puntare il dito, soprattutto quando e’ nella stessa direzione in cui lo puntano gli establishment economico-finanziari: il debito pubblico e’ CATTIVO, e’ la causa di tutti i mali, abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilita’. Questo serve ad argomentare che “la spesa pubblica e’ insostenibile” (falsissimo, ma credibile se il contesto e’ drammatizzato in questo modo).
Da qui a doversi pagare un’assicurazione per fare una TAC il passo e’ breve.
La differenza e’ che a partire dagli anni ’90 il debito pubblico non e’ verso nonnine e famiglie (cioè interno) ma verso l’estero. E questo complica tutto.
@Mico1978
Concordo in parte con la tua analisi.
Credo che i mercati finanziari abbiano avuto diversi ruoli in questa fase di trasformazione del capitalismo.
Da un lato sono serviti a scaricare su altri il rischio dei mutui subprime; dall’altro ad accumulare capitali che a loro volta venivano reinvestiti in investimenti diretti esteri (investimenti che consentono all’investitore di acquisire un ruolo nella governance dell’impresa in cui investe).
Nel caso degli Stati uniti, vista la bassa crescita, e in assenza di un sistema di welfare, i consumi sono stati stimolati mediante l’indebitamento, concedendo prestiti anche con alte probabilità di insolvenza; tanto i rischi venivano scaricati dalle banche su altri, mediante i mercati finanziari.
In molti casi le banche creditrici scommettevano addirittura sull’insolvenza dei propri debitori.
E’ questo uno dei punti in cui probabilmente il meccanismo si è rotto.
L’algoritmo non ha previsto qualcosa.
Probabilmente quel qualcosa è la fiducia degli investitori che viene meno quando si rendono conto che circolano titoli tossici.
Se ti interessa, c’è un bel film sul tema: “The bank – il nemico pubblico numero uno”, ed è d’inizio secolo…
Credo che i capitali siano fermi, come fai notare, sia perché sono, in un’ottica capitalistica, distribuiti in maniera inefficiente; sia perché, pur essendo quantità ingenti detenute in poche mani, non bastano a garantire l’espansione necessaria per ritornare a margini di profitto accettabili.
I problemi sono anche strutturali.
Pensa all’industria automobilistica americana: potrebbe mai una macchina costruita per quel mercato circolare su quello europeo?
Non è un caso se a risanare la Chrysler hanno chiamato la Fiat.
Per poter sperare di espandersi all’estero è necessario cambiare le abitudini di consumo sul mercato interno.
@Uomoinpolvere
Più che di trasformare i non tempi in tempi, parlerei di riappropriazione del proprio tempo.
Non credo ci siano non tempi, ma troppo poco tempo da dedicare a noi.
Il femminismo credo c’entri (eccome) anche con questo, oltre che con tante altre cose.
Come soluzione io sarei più propenso a non pagare il debito rispetto all’uscita dall’euro. Per una serie di ragioni sulle quali non mi dilungo.
Credo sia importante anche far tornare pubbliche le banche, magari aprendo un ragionamento sul comune non statale…
Però adesso rischio davvero di andare OT.
Anch’io ovviamente sono per porre la questione nei termini di rifiuto del debito invece che di uscita dall’euro; quest’ultima s’impone comunque nel dibattito odierno, va affrontata appunto, secondo me, per porla in una prospettiva diversa, per far sì che smetta di essere la trave portante del discorso.
Ora ne approfitto per riportare qui un discorso di Puncox che forse è off-topic, me ne scuso, il mio tentativo è quello di farlo rientrare in-topic. Chiedo scusa se la prendo così alla larga. Qualche thread fa, proprio tu Puncox, scrivevi: “Il problema è che in un certo senso ci siamo fatti fottere da Grillo. Un percorso come il suo avremmo potuto benissimo avviarlo noi, è già successo.”. In quel thread si parlava, sensatamente imho, di “controrivoluzione preventiva”, eventualmente anche mossa contro Grillo da altri gruppi di potere che non ci starebbero a farsi scalzare. Che sia o no così credo importi poco, di fatto credo che il tentativo, almeno in Italia, sia di muoversi in quella direzione http://bit.ly/Lgp5Qe chiunque ne sarà poi l’interprete effettivo. Grillo può anche essere finito tra un mese o sei, può darsi che la contraddizione tra il suo fare un discorso inter-classista senza avere gli appoggi giusti “in alto” (cioè ponendosi come unico “alto”) lo porti alla rovina, oppure può darsi che trovi un patto e quegli appoggi. Il punto qui è un altro: in diversi stanno cercando, “a tentoni” magari, http://bit.ly/LgqhTA (via @MauroVanetti) di occupare certi spazi, stanno facendo proprio “controrivoluzione preventiva”. Grillo stesso è controrivoluzione preventiva. Condivido il senso profondo del post di Vanetti, che se ho ben inteso sta appunto nel mettere in guardia da ciò. Nel porre la necessità di contrapporre da subito un discorso diverso in cui far rientrare i nodi, poi posso divergere o meno nel dettaglio delle “soluzioni” che lui indica.
Questo discorso che dobbiamo contrapporre può esprimersi anche su *posizioni* molto diverse. Può includere fasi più o meno “riformiste” (o keynesiste), può essere combattuto fuori o dentro certi partiti o fuori da tutti i partiti, e può secondo me restare in fondo *lo stesso discorso*, se facciamo attenzione a che alcune distinzioni “strategiche” o “tattiche” non si mescolino alle posizioni confusioniste della controrivoluzione.
Secondo me la controrivoluzione in questa fase non potrà che portare con sé elementi fascisti. In questo senso è importante secondo me trovare una base comune, un nocciolo del discorso da cui partire. Se nell’affrontare i nodi dell’euro, della “sovranità” delle istituzioni economiche, della spesa pubblica, dell’utilità o meno di una fase “riformista”, della necessità o meno di porsi invece subito in una prospettiva “rivoluzionaria”, se nell’affrontare tutti questi nodi non lo facciamo a partire da una prospettiva di classe e da un “fondo” di discorso comune e “a sinistra”, mostriamo il fianco e lasciamo che si infilino false uscite a destra dal neoliberismo, la cui funzione è ovviamente quella della conservazione del capitalismo, anche a costo di una sua radicale trasformazione in senso autoritario.
Il nodo dell’uscita dall’euro in particolare, se diventa l’asse del discorso, apre la strada a tutto ciò.
Ripeto: trovo sia fondamentale un accordo su questo. Che nel dividersi in diverse sfumature tra “rivoluzionari subito” e “prima riformisti” (riformisti in un’ottica sempre e comunque molto progressista, beninteso, non sto parlando di PD) si trovi un nocciolo comune di discorso, e non si lasci spazio al confusionismo per meglio distinguersi gli uni dagli altri.
@Uomoinpolvere
Ma anche io condivido il senso profondo del discorso di Vanetti…
Non condivido del tutto la sua analisi, ma non mi sembra di dire eresie.
Solo che analizzando gli stessi fenomeni, e probabilmente facendo letture simili, sono giunto a conclusioni diverse.
Mi piace discuterne, tutto qui.
Penso che le differenze tra noi e i grillini consistano proprio nella capacità di discutere e di non adorare il capo, come giustamente stai facendo notare su twitter.
Cerchiamo di conservare sempre queste caratteristiche.
Credo sia il miglior antidoto contro ogni forma di fascismo.
Salve a tutti
E’ molto sintomatico che, nonostante siano ormai 3 o 4 anni che parliamo di *questa* crisi, ripartiamo – o ritorniamo – sempre al solito problema se sia una crisi “finanziaria” o sia una crisi “economica”.
Se in 3 anni torniamo sempre allo stesso punto, e peraltro con le stesse posizioni di prima senza assumere finalmente una posizione comune, magari stiamo messi un pò peggio di quanto credevamo (e già non è che ci sentivamo molto bene).
Come si può essere d’accordo con l’analisi di Vanetti e poi credere, nello stesso commento, che questa sia una crisi “finanziaria”? Come se fosse un punto secondario, di forma più che di sostanza? Se si afferma che è una crisi finanziaria, si dice l’esatto opposto di tutta l’analisi di Vanetti. Non ci possono essere punti comuni. E anche le possibili soluzioni divergono.
Se affermiamo che la crisi sia finanziaria, oltre a non aver capito bene la natura di questa crisi, stiamo sostanzialmente dicendo alcune cose ben precise: 1) il capitalismo, liberato dai suoi eccessi finanziari, non andrebbe (o non sarebbe) in crisi; 2) la riforma del sistema finanziario sarebbe una soluzione alla crisi attuale; 3) il capitalismo produttivo e quello finanziario non sono in rapporto di interdipendenza, ma in rapporto di agente produttore (l’economia produttiva) e parassita (il sistema bancario-finanziario); 4) prima della crisi “finanziaria” (ad es. nel 2006) stavamo bene. E molte altre cose ancora.
Al contrario, e ormai è quasi assodato non solo da economisti e politici “desinistra”, ma anche dai capitalisti stessi, questa crisi è economica è deriva dalla caduta del saggio di profitto, “tamponato” dalla caduta dei salari, a cui non ha fatto fronte automaticamente una caduta dei consumi, perchè questi sono stati sostenuti dal debito.
Per due decenni i consumi hanno continuato a mantenersi elevati perchè il consumatore statunitense ha continuato a comprare a debito ciò che prima comprava con lo stipendio. Questo ha portato all’espansione della bolla finanziaria che poi è parzialmente esplosa con i mutui subprime del 2008. Perchè gli statunitensi (e poi anche quelli europei) continuavano a comprare a rate (e dunque a debito) ciò che non si potevano più permettere perchè nel frattempo il livello dei salari diminuiva, lentamente ma diminuiva.
Dunque l’estrema finanziarizzazione dell’economia deriva dalla compressione dei salari dei consumatori occidentali. Esempio: se posso comprarmi una macchina con 3 stipendi (come nel 1970), evito di accendere un mutuo con una finanziaria. Se oggi per comprarmi una macchina mi servono 15/20 stipendi, la macchina posso comprarmela *solo* con una rateizzazione. Questa rateizzazione del consumo (che poi nei mercati finanziari si è articolata in mille modi) è esattamente ciò che ha provocato la bolla finanziaria stessa. E cioè è avvenuto perchè gli stipendi sono diminuiti. Dunque, noi stiamo vivendo una crisi economica di lungo periodo.
Invertire l’ordine dei fattori significherebbe scambiare la causa con l’effetto: credere cioè che i salari si abbassino perchè c’è la crisi. E’ vero esattamente il contrario: c’è la crisi perchè i salari, e più in generale le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, sono peggiorati e sono in continuo peggioramento.
Perdonate la lunghezza
Alessandro
Ritenere che una crisi o e’ finanziaria o è economica e l’una cosa esclude l’altra e’ veramente una cosa curiosa. Negare che la crisi in atto dal 2008 non abbia cause finanziarie e’ negare l’evidenza. La caduta dei salari ha una causa finanziaria: rafforzando il valore della moneta e impedendo a paesi ad economia più fragile di svalutare, si finisce con far “costare” di più i propri beni, con conseguente deficit commerciale verso l’estero, a cui si risponde, per cercare l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, abbassando i salari di una percentuale pressoché uguale di quella alla quale, se si potesse, si svaluterebbe la moneta.
Non nego che la caduta dei salari abbia anche cause economiche (essenzialmente per recuperare competitività con il costo del lavoro nei paesi dell’est), ma allora ti chiedo: come mai questa causa non colpisce tutti i paesi? Come mai Germania e paesi del nord Europa hanno salari tre volte i nostri a tassazione corrispondente? Come mai guarda caso i salari più bassi ce li hanno i paesi europei con bilancia commerciale in deficit?
La Germania sta meglio perché si sostiene con le esportazioni. Le esportazioni in Germania vanno bene perché il settore industriale è forte. Il settore industriale è forte perché lo Stato lo ha finanziato e ristrutturato, sotto Hitler con finalità belliche (applicando immoralmente politiche keynesiane, di cui lo stesso Keynes fu compiaciuto, per dire le cose come stanno), poi lo ha riconvertito nel dopoguerra e infine gli ha datto un’altra botta di marchi negli anni ’90, per avvantaggiarsi prima dell’entrata nell’euro. Alla faccia dei patti di stabilità e dei bilanci virtuosi.
Ah dimenticavo, buona notte a tutti! :)
Il dibattito ferve e vira sulla questione del debito. Bene!
Scrive dovic: “Espongo la tesi cosiddetta iperkeynesiana: lo Stato rimborsa i propri creditori emettendo nuovi titoli (e può farlo infinitamente […])” Prima aveva detto che “gli USA non ripagano il proprio debito dal 1837” e quindi insomma il debito pubblico non sarebbe un problema.
Qui si sta confondendo “ripagare” il proprio debito nel senso di azzerarlo e “pagare” il proprio debito nel senso di pagare capitale e interessi anno per anno. Gli USA pagano i propri creditori da sempre, sono anzi uno dei pochi Paesi a non aver mai fatto ufficialmente default nel Novecento (contrariamente a quanto si crede, i default sui debiti sovrani sono un fenomeno molto frequente). Se ho un debito con uno strozzino e ogni anno gli pago gli interessi ma non riesco mai a riscattare tutti i pagherò, questo non significa che io non stia pagando molto salato e che lo strozzino non stia facendo affari d’oro grazie al fardello che mi ha messo sul groppone.
Si è citata la famosa “nonnina dei BOT”; a parte che questa figura è in parte mitologica, sicuramente il debito pubblico detenuto in forma diffusa dai cittadini di un Paese ha un effetto distributivo diverso dal debito pubblico concentrato in pochi mani come quello che abbiamo oggi. Il problema è per l’appunto che il capitalismo occidentale non è stato capace in nessun Paese di finanziare stabilmente politiche keynesiane ricorrendo soltanto ai prestiti della nonnina; il debito accumulato durante le crisi per finanziare politiche anticicliche non veniva azzerato nel boom successivo, e ondata dopo ondata raggiungeva livelli insostenibili e si concentrava nelle mani di istituzioni finanziarie spesso straniere.
Perché non si può continuare a finanziare il debito pubblico con nuovo debito pubblico ma ad un certo punto si deve darci un taglio, con un default e/o con l’austerity? Perché se il debito è troppo elevato la moneta perde valore, ovvero c’è una massa di capitale fittizio che non corrisponde a valore reale prodotto nel Paese; ad un certo punto il rischio per le banche di comprare dei BOT che tra dieci anni saranno carta straccia spinge le banche a disertare le aste dei titoli di Stato, questo alza i timori di default, cosa che a sua volta spaventa ulteriormente i creditori. Benvenuti nel 2011 (ma non avete letto i giornali l’anno scorso? ;-) ).
Domandina tendenziosa: ma secondo voi come mai la borghesia ha abbandonato il keynesismo puro negli anni Settanta? I padroni sono forse matti? Altra domandina tendenziosa: ma se il keynesismo e quindi la spesa a deficit è di sinistra, come mai negli Stati Uniti l’aumento del debito pubblico è coinciso quasi sempre con le amministrazioni repubblicane? http://en.wikipedia.org/wiki/History_of_the_United_States_public_debt
Lo spauracchio del debito pubblico è, senza dubbio, la narrazione tossica che ha avuto più successo nell’ultimo decennio: accettando l’idea che siamo in crisi a causa di un insostenibilie debito pubblico (“Non possiamo discutere come se non fossimo nel bel mezzo di una crisi dei debiti sovrani” esclama Vanetti), e non piuttosto a casa della controrivoluzione di cui parla, ad esempio, uomoinpolvere, noi accettiamo le premesse del pensiero dominante, e dunque – a mio modesto parere – perdiamo anche solo la possibilità di oppore una resistenza valida.
Caro Vanetti, io non ho letto solo i giornali l’anno scorso ;-), e le assicuro che l’idea secondo cui il debito va ripagato periodicamente tramite la tassazione (o il default) è la più grande baggianata che sono riusciti a ficcare in testa alla gente negli ultimi anni. Ragioni un attimo sulla sua primissima frase: se io ripago anno per anno “capitale e interessi” senza emettere nuovo debito, alla fine ho azzerato il mio debito. O no? L’idea è quella, in tutta la sua banalità: ci fanno credere che quel debito vada ripagato (per quello tirano in ballo le future generazioni, a cui staremmo appioppando il carico dei nostri sperperi…), e dunque ce lo fanno ripagare oggi a suon di tasse sui salari. Io ho paura che lei accetti acriticamente questo aspetto (fondamentale!) della narrazione dominante, ma mi corregga se sbaglio.
Poi, le condizioni a cui tale debito è rinnovato, ossia il tasso di interesse che lo Stato è costretto a pagare, possono diventare inaccettabili, ma quella è un’altra questione, che non è in alcun modo legata al *livello* del debito pubblico: il Giappone ha un rapporto debito/Pil del 200% circa, ben più alto della Grecia, ma non mi sembra che sia diretto verso il default, e paga bassissimi tassi di interesse.
La prima domanda tendenziosa è interessantissima: la borghesia ha abbandonato il keynesismo negli anni Settanta perché la lotta di classe stava andando, dal loro punto di vista, nel verso sbagliato. La piena occupazione che le politiche keynesiane stavano assicurando rafforzava il potere contrattuale dei lavoratori, ed insieme a tutti gli altri elementi del conflitto di classe stava inducendo un trasferimento di ricchezza dai profitti ai salari. Esattamente l’opposto di quello che è iniziato ad accadere proprio a partire dagli anni ’80, ossia proprio quando è partita la controrivoluzione. Altro che matti, i padroni hanno fatto la cosa migliore, per loro. Ed oggi vogliono completare l’opera.
@manfredi
“Ragioni un attimo sulla sua primissima frase: se io ripago anno per anno “capitale e interessi” senza emettere nuovo debito, alla fine ho azzerato il mio debito. O no?”
Certo. Ma quale Paese al mondo può ripagare capitale e interessi senza emettere nuovo debito? Sicuramente non l’Italia, che per farlo dovrebbe dedicare il 120% del suo PIL a sfamare i suoi creditori. Il risultato è che nessuno è più in grado di azzerare il suo debito pubblico se non facendo default.
Sul fatto che prendere sul serio il debito pubblico sia una narrazione tossica, io credo che sarebbe invece tossico pensare che tutta questa manfrina del debito pubblico sia una gigantesca cospirazione e che in realtà non ci sia alcun problema ad indebitare perpetuamente lo Stato. Chi aderisce a questa teoria del complotto finisce per credere, come ho scritto nel post, che il capitalismo sia un sistema fondamentalmente funzionale, i cui apparenti problemini sono solo un’astuta costruzione mediatica per farci ingoiare l’austerity.
Io credo invece che il capitalismo sia in difficoltà davvero e che i padroni siano enormemente preoccupati. Si veda il panico in cui sono stati precipitati dalla situazione politica greca per capire che non hanno per niente il controllo della situazione.
Infine, ancora sul keynesismo. La tua risposta è intrigante e ha elementi di verità ma ancora una volta confonde un’esigenza economica reale del capitale (la sua autovalorizzazione e il contrasto alla caduta tendenziale del saggio di profitto) con una semplice “avidità” del padronato. Non hanno fatto soltanto la cosa migliore per loro, hanno fatto l’unica cosa che potevano fare se volevano evitare una spirale autodistruttiva; lo stesso vale oggi: l’austerity non è semplicemente una fase della lotta di classe, ovvero una controffensiva padronale, ma è anche una necessità economica.
Proprio perché si tratta di una necessità per ristabilire un equilibrio economico perduto, sono determinati nel portarla avanti anche a costo di causare gravi squilibri politici. Se si trattasse di una semplice volontà di rivalsa del profitto nei confronti del salario, si sarebbero già fermati prima di arrivare ad un punto in cui rischiano di perdere baracca e burattini.
“Ma quale Paese al mondo può ripagare capitale e interessi senza emettere nuovo debito? Sicuramente non l’Italia, che per farlo dovrebbe dedicare il 120% del suo PIL a sfamare i suoi creditori.”
E perché, un paese che ha il 30% di rapporto debito/Pil potrebbe, da un anno all’altro, azzerare il suo debito senza fare default? Si potrebbe fare una finanziaria di nuove tasse pari al 30% del Pil? Non l’hanno fatto neanche in Grecia. Vedete che il discorso è assurdo? Anche se lo applicassimo al paese con il minor debito pubblico del mondo, finirebbe per richiedere le stesse misure di austerità che vengono applicate con ferocia in Grecia (140% debito/Pil) e di cui non si vede traccia in Giappone (200% debito/Pil). E infatti Vanetti dice che “Il risultato è che nessuno è più in grado di azzerare il suo debito pubblico se non facendo default.” Che, dal momento che sembra vero per tutti i paesi, è un’assurdità. O no? Cerchiamo di chiarirci su questo punto, invece di buttarla sui complottismi.
Io non ho mai detto che “il capitalismo è un sistema fondamentalmente funzionale” e non ho mai parlato di cospirazioni. A meno che la lotta di classe non venga derubricata a teoria del complotto. Vi prego, no…
Voglio dire: quando hanno abolito la scala mobile hanno raccontato che alimentava l’inflazione e quindi creava danni per tutti; mica hanno detto che rendeva più difficile erodere quote del salario tramite l’aumento dei prezzi. Hanno mentito. Cospirato? Bo…mettetela come vi pare, non mi sembra fondamentale, ma soprattutto non mi sembra serio tirare in ballo il complottismo in questo dibattito…
@manfredi
Ti faccio una domanda semplice (e, come sempre, tendenziosa): se tu fossi un usuraio, quanto vorresti che fossero indebitati i tuoi debitori?
Ti do una risposta altrettanto semplice e tendenziosa: il Giappone ha un debito pubblico mostruoso (il 208% del pil) e paga interessi ridicoli su quel debito, tra lo 0% e il 2%, altro che usura..il Regno Unito ha l’86% di debito/pil (mica poco), e paga…tra lo 0% e il 4,5% (dati bloomberg). Non continuo perché mi faccio due palle così anche io…però cerchiamo di guardare ai dati, alla realtà dei fatti, che spesso è un ottimo antidoto contro le vaccate che ci vengono raccontate.
E’ evidente che la massa di debito pubblico accumulato non c’entra niente, di per sé, con gli interessi che sono stati estorti alle recenti aste dei titoli pubblici in Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia. Deve esserci dell’altro, Vanetti. E secondo me quella pressione sui tassi di interesse, lungi dall’essere un’espressione del libero operare dei mercati, è creata artificialmente, proprio per bloccare l’accesso al rifinanziamento del debito pubblico ai paesi a cui si vuole imporre l’austerità. All’origine c’è una volontà politica, la stessa che ritiene che il modello sociale europeo sia giunto al termine della sua esistenza.
L’aspetto dell’usura (questo sì protagonista di tanto complottismo..), dell’interesse sui prestiti, è senz’altro presente ma è secondario: il profitto tutto, quello che proviene dal lavoro, che si estorce solo abbassando i salari, è il protagonista di questa controrivoluzione.
@manfredi
Ti faccio solo notare che questo ottimismo sulle grandi masse di debito che però “non avrebbero creato problemi” è lo stesso che veniva speso con generosità quando si parlava di altre bolle. Per definizione una bolla continua a gonfiarsi finché la distanza raggiunta rispetto all’economia reale non diventa così elevata che una piccola perturbazione è sufficiente a farla scoppiare. Credo che in Giappone ci sia proprio una bolla di questo tipo (e non sono l’unico ad avere questa opinione). Del resto non dobbiamo dimenticarci che a sostenere le aste dei bond nipponici sono soprattutto il governo cinese e gli investitori privati cinesi, che per il momento hanno tutto l’interesse a tenere alto lo yen: http://english.peopledaily.com.cn/90778/7835776.html Se l’economia cinese frena, vediamo cosa capita al debito giapponese.
Tu dici: la crisi dei debiti sovrani in Europa è artificiale, frutto di manovre speculative. In parte hai sicuramente ragione, la concentrazione esistente nel settore finanziario (l’ha raccontata bene Andrea Fumagalli, che infatti ne trae la tua stessa conclusione) rende plausibile pensarlo. Ma anche in tal caso, è chiaro che quanto più la massa di debito pubblico di un Paese è elevata tanto più questo è vulnerabile di fronte a questo tipo di operazioni.
Se le cose stanno come dici, ovvero esistono dei centri di potere finanziario che schiacciando un bottone possono mandare in rovina un Paese a loro scelta ostacolandone il rifinanziamento, se fossi un lavoratore giapponese sarei molto preoccupato di avere il debito/PIL al 200%. A maggior ragione sarebbe assurdo pensare che si possa fare una politica progressista o addirittura rivoluzionaria tenendo un livello di indebitamento elevato; sarebbe come fare la rivoluzione lasciando armi potenti in mano al nemico.
Mi piace però molto il richiamo finale al “profitto tutto, quello che proviene dal lavoro”. Sicuramente la chiave di tutti i nostri discorsi sta lì, e ho impressione che in realtà siamo più d’accordo di quel che sembrerebbe.
@manfredi
PS: Scusa, ti sto dando del tu senza rendermene conto. Spero non sia un problema.
Su Giap consideriamo il darsi del Lei un grave insulto.
Ma è altresì ben accetto appellarsi compagn@ o cittadin@
;-)
Sottoscrivo Manfredi che mi ha anticipato l’esempio classico del Giappone. Aggiungo, prevenendo l’obiezione che il Giappone non se la passa poi così bene, che ciò è dovuto al fatto che questo Paese ha un grosso risparmio privato, insomma i cittadini non spendono. Per farsi un’idea della potenza nelle mani di uno Stato a moneta sovrana pensiamo a quel che è successo dopo il terremoto del 2011. Ricordo ancora le immagini nei tg dove si mostrava come le infrastrutture devastate un mese o un paio di mese prima (mi vengono in mente le strade in particolare) fossero state completamente ricostruite. E un anno dopo, nel Bel Paese, il sig. Monti dice che, va bene, se proprio non potevamo farne a meno di finire sotto le macerie, ci penserà papà Stato a farci l’elemosina, ma poco e per l’ultima volta perché, oh, poi dovremo assicurarci per i cazzi nostri con delle assicurazioni private, mica possiamo sempre aspettare che l’uomo del Monti dica sì, dopotutto… c’è il debito.
Vanetti, a volte ho l’impressione di star parlando con Milton Friedman. Lo vede quanto sono stati bravi lor signori a insinuare il dogma?
A parte gli scherzi (fino a un certo punto), bisogna capire che è ora di rompere certi tabù e cominciare a pensare fuori dagli schemi. Il che non significa prendere per buono tutto, ma se davvero vogliamo pensare che il capitalismo sia in crisi (io ne dubito, ma vabbè), che i padroni se la stiano facendo sotto e che c’è bisogno di ripensare tutto da capo, cominciamo col fare un bel po’ di buona, sana, vecchia decostruzione partendo dai principi che ci hanno insegnato a considerare come postulati. Se anche chi si definisce di sinistra e fa discendere le sue idee dritto da Marx finisce per accettare, senza battere ciglio, le idee neoclassiche e per bollare come complottista tutto quel che le mette in discussione, allora stiamo freschi. Sai che risate si farebbero quei teorici se fossero ancora vivi. E subito dopo farebbero il segno della V con indice e medio.
Prendere tutta una teoria economica, si chiami MMT, iperkeynesismo, neoliberismo, neoclassicismo, Brambilla Fumagalli, e liquidarla con faciloneria perché, ai nostri occhi, dice cose diverse, magari opposte, a quella a cui siamo abituati a credere e quindi DEVE per forza essere una boiata, è superficiale, sbagliato, poco serio, nocivo e, soprattutto, troppo facile. Cominciamo a interrogarci, a dubitare, a studiare a fondo queste presunte baggianate e poi, quando le conosceremo a menadito e le avremo confutate in toto, magari potremmo anche buttarle nel cesso.
Sul fatto che la speculazione sui debiti nazionali da parte di pochi privati sia immorale, parassitario, criminale, sono d’accordo e possiamo discutere se non sia il caso di smantellare un sistema come questo. Quel che non capisco è come questa constatazione debba smontare il fatto che uno Stato non possa ripagare il proprio debito ai creditori infinitamente tramite moneta sovrana. Forse dare i soldi a quegli strozzini è sbagliato, ma è impossibile? E’ la stessa cose che cercare di farlo con l’euro? No. C’è giusto una lieve differenza, più o meno quella passa fra noi (che stiamo crepando) e il Giappone (che non sta crepando). Bruscolini.
“Ma se il keynesismo e quindi la spesa a deficit è di sinistra, come mai negli Stati Uniti l’aumento del debito pubblico è coinciso quasi sempre con le amministrazioni repubblicane?”
Io stesso ho detto in un commento precedente che i due presidenti che hanno speso di più nella storia degli USA sono stati Reagan e Bush jr. Ripeto per l’infinitesima volta che un conto è usare il keynesismo per finanziare operazioni belliche o ingozzare i banchieri, un altro è utilizzarlo per creare posti di lavoro, infrastrutture, welfare ecc. Il keynesismo non è né di destra né di sinistra, l’utilizzo che se ne fa lo è. Non mi sembra un concetto così astruso, ma l’avrò ripetuto ad nauseam. Poi sicuramente la rivoluzione sarà ancora più di sinistra e se vogliamo fare gli irriducibili possiamo dire che tutto il resto è di destra e fa schifo, o in alternativa entrare nella Volante Rossa.
Altra cosa fondamentale: il capitalismo, storicamente, è un ideologia di destra. Ma il modo in cui opera è amorale e apolitico. La religione del capitalista è il profitto e, possibilmente, con la minor spesa possibile, il più possibile e il prima possibile. Ergo, tutto il resto è secondario. Anche essere neocon repubblicano in patria e contemporaneamente grosso azionista del giornale del partito comunista cinese (vedi Rupert Murdoch).
il giappone ha un’ avanzo commerciale da sempre e non ha problemi a finanziare il proprio debito, gli stati uniti hanno un deficit commerciale colossale ma l’Asia e’ dollarizzata e finanzia il disavanzo commerciale americano senza battere ciglio, la germania ha un avanzo commerciale colossale verso i paesi europei e si finanzia sotto zero, Italia grecia e spagna hanno un disavanzo commerciale e un deficit di bilancio in crescita e non le finanzia più’ nessuno. nessun complotto o dietrologia e’ il sistema che si e’ inceppato.
l’unica ragione per cui l’Italia si e’ salvata fino ad ora e’ stato l’ LTRO ossia soldi stampati e regalati alle banche dalla bce x sottoscrivere il rifinanziamento dei titoli in scadenza.
totally MMT nessun trucco. ma e’ solo una toppa se i paesi del sud europa non producono avanzi commerciali e non crescono si finanzieranno sempre a tassi usurai e shylock a un certo punto ci chiederà’ di ripagarlo con i gioielli di casa e con la nostra carne.
il debito assoggetta il corpo dei cittadini ed e’ uno dei mezzi più’ efficaci della sussunzione reale della vita umana al capitale.
il debito non va’ ripagato.
questo e’ rivoluzionario
Come si dice a Roma…li buffi allungano la vita. Secondo me vale anche per la Grecia.
Alessandro
Règaz, non per dire, ma siete rimasti in tre :-D
Bepi, Toni e Menego, come dicono dalle mie parti :-D
E’ che la gente si disaffeziona quando si entra troppo nell’intellettuale, quindi propongo una gara di barzellette a sfondo escrementizio e un cineforum con cinepanettoni per rinverdire il post.
Prot! :-D
In realtà di gente che viene a vedere ce n’è. Non tanta come all’inizio, ma ce n’è. Il traffico di questo thread a un certo punto era sprofondato, poi si è ripreso. Solo che è una di quelle discussioni in cui due-tre si esaltano e addio core :-) La triangolazione Bepi Dovic- Toni Manfredi-Menego Vanetti (con occasionali passaggi di palla a Checo Coriglion e Sandro core-de-Roma) è fitta, rapida e molto tecnica, seguirla bene è ormai difficile e inserirsi negli scambi ancora di più.
Approfitto del momento di distensione per scusarmi di tutte le cappelle ortografiche disseminate nei miei frettolosi post :) E comunque strigni strigni è tutta colpa del Berlusca.
L’ultimo lancio di Alessandro (che è un po’ meno tecnico) è quello che mi convince di più. Ora il debito strutturato in questo modo è obiettivamente un problema. Ma il concetto di debito in se non mi sembra negativo. Mi sembra di poter dire che nel mondo da quando si fanno le cose a debito si riesca a campare un po’ meglio.
@WM1+tutti
Vedete ora come vi tiro su il thread. Leggetevi questo stronzo cosa scrive su Forbes: “Date alla Grecia quel che si merita: il comunismo” http://www.forbes.com/sites/billfrezza/2011/07/19/give-greece-what-it-deserves-communism/
Non siamo gli unici ad aspettarci una rivoluzione ellenica.
Gli stronzi di Forbes sono sempre dei campioni nel manifestare orgogliosamente il loro razzismo e la loro arroganza da primi della classe (High octane capitalism ahead), fottendosene del destino altrui. Agitare lo spauracchio del komunismo kattivo poi mi sembra una tattica desueta, non ci credevano del tutto nemmeno quelli che lo facevano 50 anni fa, ma si vede che tra di loro si divertono ancora a rispolverare queste vecchie glorie.
hahahahahaha Wu Ming 1, m’hai fatto tagliare…
Comunque, a parte gli scherzi, scusate se ho un pò sgravato abusando dello spazio pubblico, e facendo crollare gli “ascolti” a botte di tassi di interesse sui decennali nipponici…la discussione era molto interessante, e mi ha coinvolto (lo avevate notato, vero?)..finché studio sta roba, ho piacere a parlarne anche qui, per non rinchiudermi nel favoloso mondo accademico.
Caro Vanetti: ovviamente nessun problema per il tu, anzi! Dice bene Wu Ming 4. Grazie per gli spunti di discussione, e penso anche io che, tutto sommato, siamo d’accordo molto più di quello che può sembrare!
Direi che la massima di Alessandro è una più che degna conclusione ;)
Saluti a tutti, e grazie ai Wu Ming per lo spazio (ma non solo!)
Una chicca che dovrebbe chiarire una volta per tutte il discorso: il debito pubblico (a moneta sovrana) è una minaccia?
http://www.youtube.com/watch?v=G67ha8iVmQ4
Paul Samuelson, uno dei padri della teoria neoclassica, ci racconta bellamente come il terrorismo del debito sia un mito necessario a imprigionare e controllare la spesa degli Stati, secondo lui, a fin di bene.
viva futbologia sticazzi della finanza
e daje boemo
“Li buffi allungano la vita” non significa che il debito fa bene, ma che sono gli stessi creditori che ti manterranno sempre in vita perchè ne va della loro esistenza. Cerchiamo di leggere fra le righe e capovolgere la situazione: la Grecia vorrebbe uscire dall’euro, lo vuole la sua popolazione, parte dei suoi partiti, i sindacati, ecc…E’ la Germania che la sta tenendo dentro con le unghie e con i denti.
Questo è un cross liftato che attendeva solo l’incornata vincente..
Avanti col boemo!
Alessandro
Con Zeman niente palle alte. Si arriva in porta palla a terra.
Ci sono un paio di cose che non capisco, forse mi mancano le basi. Provo a spiegarmi.
Primo dubbio. Capisco che il meccanismo del debito pubblico sia servito in diverse occasioni in senso progressista (e altre volte no). Ma questo è avvenuto appunto quando questo meccanismo non era messo in dubbio dalla classe dirigente, o sbaglio? Ora la classe dirigente vuole il pareggio di bilancio, vuole l’austerity. Ma, mi chiedo, che senso ha allora difenderlo? Che senso ha restare sulla posizione dell’utilità del debito pubblico se in questa fase, questo meccanismo, viene usato in senso inverso, per riscuotere, tutto a favore dei capitalisti? Per usarlo in senso progressista, che sia materialmente possibile o meno, in ogni caso bisognerebbe comunque “prendere il potere” in un qualche senso, o no? E’ perché pensate che sia più facile “prendere il potere” per invertire il meccanismo del debito che non prenderlo per “fare la rivoluzione”/cancellare il debito attuale? Non lo so: chiedo. (La mia “impressione” è che un qualche tipo di rivoluzione sia una fase inevitabile, non ho idea di quando, come, perché.)
Se la Grecia cancellasse il debito attuale (se non sbaglio è già stato tagliato per metà in accordo con gli stessi creditori) il risultato sarebbe un drastico calo di possibilità di creare nuovo debito nell’immediato futuro? Ma questo è un rischio o è già una realtà di fatto, adesso?
Secondo dubbio. Per non saper né leggere né scrivere (almeno di economia) sono d’accordo con l’analisi di Militant sulla natura “reale” (non solo finanziaria/finanziaria a mascheramento e poi ad ampliamento di quella reale) della crisi economica. Magari si può divergere nel definire in che senso sia reale (sovrapproduzione o altro), ma la mia impressione è che sotto la crisi finanziaria ci siano contraddizioni reali del capitalismo, mascherate dalla finanza per un po’, e ora forse sulla strada verso un nuovo mascheramento. Per i capitalisti pure la finanza è in buona parte sacrificabile, il capitalismo no. Non capisco però il passo successivo che sembra fare Militant: l’uscita dall’euro, che se non leggo male viene messa quasi in equivalenza con la cancellazione del debito (leggo male? ho frainteso tutto?). Perché? Non è questa l’economia reale: smettere di pagare gli interessi sul debito, collettivizzare le grandi industrie, le banche, i servizi? Perché il primo passo allora sarebbe uscire dall’euro? A me sembra più una possibile conseguenza. Ma perché partire dalle conseguenze?
Maci, quante domande. Tanto a quest’ora non ho niente di meglio da fare.
“Perché pensate che sia più facile “prendere il potere” per invertire il meccanismo del debito che non prenderlo per “fare la rivoluzione”/cancellare il debito attuale?”
Non è questione di semplicità, ma di attuabilità. Da quanto ne so io, oggi l’MMT in Italia è l’unica proposta alternativa allo status quo che ha delle probabilità di riuscita decenti, l’unica proposta con i controcazzi, che poggia su basi teoriche forti, che è stata vagliata e controvagliata. L’unica proposta seria dal punto di vista economico. Se qualcuno conosce un programma alternativo più radicale che abbia una speranza di avere successo e che possa tirarci fuori da questo casino, mi dica dove devo firmare. Per il momento “fare la rivoluzione” non mi dice un bel niente, vorrei qualcosa di più consistente. Grazie.
“Se la Grecia cancellasse il debito attuale il risultato sarebbe un drastico calo di possibilità di creare nuovo debito nell’immediato futuro? Ma questo è un rischio o è già una realtà di fatto, adesso?”
Allora, bisogna distinguere. Immaginiamoci una Grecia tornata alla dracma, sovrana e libera di fluttuare come una farfalla. A questo punto può fare due cose: stampare moneta e indirizzarla verso attività produttive che facciano ripartire l’economia; finanziarsi con l’emissione di titoli di Stato, ovvero indebitandosi con i cosiddetti creditori che, nel suo caso, sono soprattutto speculatori internazionali (in gran parte tedeschi). Nel primo caso non c’è nessun problema, perché ora è padrona della sua moneta e non deve rendere conto a nessuno di quello che ne fa. Nel secondo caso nemmeno, ora i creditori sanno che quei titoli valgono qualcosa, possono essere ripagati senza problemi, perché di nuovo la Grecia ha le mani strette sulla sua valuta e non deve più andarla a mendicare come faceva con l’euro. Quindi oggi la Grecia non può più aumentare il suo debito perché i creditori non si fidano, non comprano i suoi titoli perché sanno che con l’euro lo Stato non sarà mai in grado di ripagarli. Domani, se i Greci tornassero alla dracma, questo problema non si porrebbe. L’unico rischio è già qui, oggi, non in quello che accadrebbe se.
Il secondo dubbio. Altra cosa difficile da articolare… ci provo. Dobbiamo smettere di pensare che finanza ed economia reale siano due compartimenti stagni che non hanno niente a che fare l’uno con l’altro. Non è così, sono più come due vasi comunicanti. Entrambi sono due componenti del capitalismo. La ragione per cui la crisi attuale è partita dal settore finanziario è che la finanza oggi è l’ambiente in cui il capitalismo, o una delle sue forme, si esprime in maniera più raffinata. E’ lì che si fa la caccia grossa, è la serie A. Ciò non significa che gli speculatori vivano su Marte e che noi non c’abbiamo niente a che fare. I derivati tossici li facevano assemblando, fra l’altro, i mutui di poveri cristi che volevano comprarsi una casa. Case vere, di mattoni e calcestruzzo. Questa gente gioca col Monopoli. S’inventa le regole, gli imprevisti, le opportunità, tira i dadi e prova a conquistarsi i vari appezzamenti di terreno. Noi siamo i poveracci che vivono nelle casette, chi in un monolocale in Vicolo Stretto, chi in un attico con vista su Parco della Vittoria. Tutti col naso per aria per vedere che ci deve capitare.
Quindi la crisi ha ORIGINE nella finanza, ma è ovvio che coinvolge tutto il sistema capitalista, le contraddizioni di cui parli sono peculiari a ogni suo settore.
L’uscita dall’euro non coincide con la cancellazione del debito (cioè fare default e chi ha avuto, avuto, avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o passato). Lì la questione è un po’ più complicata e credo potrebbe avere più sbocchi. O si esce dall’euro e si ridenomina il debito con la nuova valuta, o si esce e si fa default, non so cosa sia più conveniente, forse la prima ipotesi, ma lì bisognerà vedere come giostrarsela e trattare con i creditori.
Abbandonare l’euro non può essere una conseguenza, ma solo il punto di partenza, perché come fai a fare come ti pare (collettivizzare le industrie, banche ecc. significa dover spendere soldi) se sei incatenato a una moneta che non ti appartiene? Saresti comunque costretto ad andarti a indebitare ulteriormente, a chiedere in prestito gli euro ai mercati privati e avresti ancora le mani legate come oggi. Avere una moneta sovrana è fondamentale per la propria democrazia e autodeterminazione. Una volta che questo potere verrà riacquisito, solo allora potrai permetterti di nazionalizzare quello che vuoi.
Giusto perché non mi si accusi di essere seguace MMT/Barnard, capita proprio a fagiolo un post pubblicato sul suo sito poco fa. Il Nostro fa l’elogio dell’evasione fiscale ai tempi della lira perché, dice, le tasse in un Paese a moneta sovrana non servono a pagare i servizi sociali, come viene mendacemente divulgato, ma solo a garantire l’unità monetaria, e quindi gli evasori non sottraevano a nessuno nessun letto d’ospedale, nessun banco di scuola, ecc.
Su questo non sono per nulla d’accordo perché, se è vero che le tasse ai tempi della lira non finanziavano le spese pubbliche (oggi invece sì, perché lo Stato è costretto a mettere le mani nelle tasche dei cittadini per non indebitarsi ulteriormente coi creditori privati), Barnard ignora completamente il fatto che gli evasori non “rubavano” certo per spirito di ribellione antistatale, ma soltanto per avidità personale e spesso questi individui erano e sono liberi professionisti che già guadagnano parecchio, mentre come al solito i lavoratori dipendenti devono pagare fino all’ultimo centesimo perché sottoposti a controlli più rigorosi. Tutto questo è immensamente scorretto dal punto di vista della redistribuzione della ricchezza e della giustizia sociale e non si può far finta che il problema non si ponga.
Mi scuso per questo breve off topic, era dovuto come dimostrazione di coerenza.
@ Uomo in polvere
Non so quale sia il passaggio prima o quello dopo. Cancellare il debito significa uscire dall’euro; uscire dall’euro significa avere le mani più libere (almeno come economia nazionale), per ristrutturare il debito.
Detto questo, non è che il livello del debito pubblico non vada ridotto. E’ che, politicamente, non dovrebbe essere quella la priorità economica. Mentre stando nell’Unione Monetaria/monetarista il debito e l’inflazione diventano l’unico punto di riferimento delle politiche economiche, in un paese senza costrizione finanziaria europea si potrebbe decidere di ridurlo con altri mezzi, con altri tempi e in altri modi.
Non continuo sennò Wu Ming 1 s’incazza (giustamente). Alla fine giriamo sempre intorno alle stesse cose
Quoto però _ndiro, il cross era il retaggio di altre epoche calcistiche. Da oggi, scambi stretti e ripartenze veloci; massimo 3 tocchi e palla in porta!
Alessandro
@dovic & @militant
Non sono del tutto convinto che abbandonare l’euro sia il primo passo. Dovic dice:
Abbandonare l’euro non può essere una conseguenza, ma solo il punto di partenza, perché come fai a fare come ti pare (collettivizzare le industrie, banche ecc. significa dover spendere soldi) se sei incatenato a una moneta che non ti appartiene? Saresti comunque costretto ad andarti a indebitare ulteriormente, a chiedere in prestito gli euro ai mercati privati e avresti ancora le mani legate come oggi. Avere una moneta sovrana è fondamentale per la propria democrazia e autodeterminazione. Una volta che questo potere verrà riacquisito, solo allora potrai permetterti di nazionalizzare quello che vuoi.
A parte il fatto che io ho detto “collettivizzare” e non “nazionalizzare”, ma vabbé. Non capisco perché per collettivizzare servano soldi o meglio perché serva la sovranità monetaria. Non basta un parlamento, un governo e la capacità esecutiva? Servono soldi? Patrimoniale. Esproprio e liquidazione dei beni di lusso privati.
Perché l’accesso ai “mercati” e il meccanismo del debito sono l’unico modo per finanziare lo stato? Non si replica così la situazione attuale?
Di fatto l’emissione di nuovi titoli greci a che serve ora? A pagare gli interessi sui titoli già emessi, o sbaglio? Se questi non vengono più pagati, la necessità di emissione di nuovi titoli si ridurrà parecchio, o sbaglio? Aggiungiamoci l’azzeramento o quasi delle spese militari, l’uscita dai conflitti esteri, la collettivizzazione dei servizi.. Forse dico castronerie, non ho i dati e le basi di economia, ma è davvero necessario l’accesso al credito, ai mercati?
Poi mi resta il dubbio solito: penso che un conto sia voler uscire dall’euro un conto sia costringere l’UE a cacciarti dall’euro, le conseguenze politiche sarebbero ben diverse. Se l’euro, l’UE, la BCE, l’FMI sono strumenti *politici*, di classe, espressione del capitalismo, penso che si debba agire affinché ciò diventi sempre più palese a tutti; costringerli a smascherarsi, a rendere evidente l’anti-democraticità.
Che tu voglia nazionalizzare o colletivizzare poco cambia, non basta fare un passaggio di proprietà per rilanciare un’economia, servono investimenti e quindi bisogna spendere.
Finanziare la spesa di uno Stato esclusivamente tramite espropri o patrimoniali è impossibile, stiamo parlando di miliardi e miliardi di euro, lo Stato deve poter creare denaro a piacimento.
Anche se la Grecia azzerasse il debito attuale dovrebbe continuare a emettere titoli per finanziare nuove spese. Perché? Perchè così funziona oggi l’economia ed è l’unico metodo di finanziamento statale con una portata efficace. Si accettano nuove proposte, per adesso le cose stanno così.
La Germania e la Francia non caccerebbero mai l’Italia fuori dall’euro, perché noi siamo too big to fail, se ce ne andiamo noi e magari facciamo default l’euro se ne va insieme a noi e loro questo non lo vogliono, perché ci sono interessi di supremazia economica in ballo. Un’uscita dall’euro può essere solo una nostra iniziativa.
Infine non credo servano altre prove dello spirito antidemocratico di certi organismi, sono anni che si comportano in questi termini.
@dovic
Anche solo dai dati che ho messo nell’articolo si vede che solo espropriando il capitale estero un ipotetico governo rivoluzionario in Italia si intascherebbe 200 miliardi. Lo stock di capitale privato nazionale è ovviamente molto maggiore.
Il bilancio in corso dello Stato italiano si trova qui: http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Il-Bilanci/2012/Il_bilanciodellostato.pdf
Come vedi, oltre ai 96 euro di interessi sul debito ci sono 370 miliardi di spese correnti e soltanto 37 miliardi di spese in conto capitale (investimenti).
Facendo default sul debito ed espropriando i grandi capitalisti potremmo far su in un colpo solo cifre pari a quello che l’attuale Stato italiano investe nel corso di interi decenni. Quella sarebbe ricchezza reale che potrebbe essere usata per una trasformazione sociale, altro che stampare carta straccia!
PS: Ho usato per sbaglio le previsioni di bilancio per il 2014, comunque quelle attuali sono molto simili.
@Vanetti
Una cosa però: se anche lo Stato effettuasse gli espropri di cui parli, questa sarebbe soltanto una soluzione a breve-medio termine, perché si parla di una quantità di soldi finita. E in più stiamo sempre parlando di euro, ovvero la moneta del demonio che l’Italia non possiede. E una volta che quei soldi son finiti che fai? Espropri ancora? Ricomincia il casino di prima? Con la moneta sovrana questo problema non si porrebbe perché abbiamo visto che il debito è un limite fittizio. Che la nuova moneta o i nuovi titoli sarebbero carta straccia è tutto da vedere, perché se un Paese come l’Italia riuscisse a ripartire, con in più la garanzia di poter onorare i propri debiti, dubito che gli investitori non tornerebbero a comprare titoli e a effettuare investimenti. Perciò la nuova moneta potrebbe anche assumere un certo valore. Insomma, possiamo anche espropriare tutto quello che vogliamo, ma se poi continuiamo a utilizzare una valuta marcia e che ci limita come l’euro, cui prodest?
@dovic tu sei un fan di sto’ Benedetto Mmt mi spieghi 2 cose per favore: 1) se l’Italia rimane nell’ euro chi stampa la moneta ? sei cosi’ sicuro che la moneta stampata dalla bce possa andare a finire sul debito italiano ? Se l’Italia uscisse dall’ euro e stampasse moneta hai idea di dove possa andare l’ inflazione? Secondo me un pieno di benzina ci costerebbe come mezzo stipendio. Il default e’ la madre di tutte le redistribuzioni di ricchezza, dai risparmiatori ai nullatenenti . Un altra strada percorribile sono gli eurobond ossia una collettivizzazione del debito a livello paneuropeo. @maurovanetti per favore puoi mettere il link ( io non posso ) di quell’ articolo su quel tipetto che vuole fondare il partito “forza zecca”
eccolo http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/04/forza-zecca-berlusconi-lancia-la-mmt/250751/
@raffaele
Vabbè, io ho già risposto alle obiezioni che fai e non mi ripeto perché sarebbe inutile intasare così il post. Nei miei commenti precedenti trovi tutte le mie considerazioni su uscita dall’euro, inflazione ecc. Inoltre se mi dai del fan dopo quello che ho scritto al commento
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=8128&cpage=1#comment-12952
mi viene ancora meno voglia di rispondere.
L’articolo del Fatto che hai linkato l’avevo già letto e l’impressione che ho avuto è stata di un’accozzaglia di sciocchezze per ridicolizzare Barnard e l’MMT affiancandolo a Berlusconi, con un tono derisorio che ricorda molto da vicino il fascismo da carta stampata usato da Il Giornale per manganellare gli oppositori (Travaglio & co. sono l’altra faccia del berlusconismo). Con certa stampa mi ci posso solo pulire il culo.
Mi sono sembrati molto più interessanti i dati di Vanetti, che non conoscevo. Se quelle sono le cifre allora se ne può parlare, però di dovrebbe creare un movimento capace di sostenere questo tipo di politica e soprattutto che affiancasse l’idea di espropriare e collettivizzare con un programma più articolato, sia sul piano economico che su quello politico. Così sarebbe possibile valutarne più a fondo le implicazioni.
Forza Zecca! Ecco, questa ci macava..forse dovremmo ricordare che gli euro circolanti in Italia sono stampati dalla Zecca italiana e la fabbrica si trova in via Tuscolana a Roma.
Il problema non è avere o no la sovranità sullo stampare moneta, ma quando, in che quantità e cosa farci dopo che l’hai stampata. Se riduciamo il tutto al potere di stampare, facciamo il verso ai signoraggisti. Il problema è sempre lo stesso: che ci facciamo coi soldi che stampiamo? L’Unione Monetaria ci dice: ci ripagate gli interessi del debito e con ciò che avanza li date alle banche per aumentare i loro fondi, che non si sa mai, magari i rispramiatori rivogliono indietro i loro soldi.
Magari un governo più avveduto e senza il vincolo esterno rappresentato dalla BCE, con quei soldi ci ristruttura il paese, fa opere pubbliche razionali, crea lavoro, ecc..poi magari se avanza qualcosa lo si usa per ripagare il debito
Alessandro
Scusa dovic ma chi e’ sto’ barnard ? Io conoscevo il chirurgo barnard. E comunque la tua tesi e’ che utilizzino Berlusconi per attacca’ il pericoloso barnard vabbe’ se lo dici tu….
Barnard? E’ un ex giornalista d’inchiesta, peraltro molto bravo nel suo mestiere, che dopo essere stato abbandonato a livello legale dalla Rai e da Report (per cui lavorava), e dopo aver preso parte al movimento altermondialista uscendone delusissimo, si è gettato ventre a terra in una crociata “solo contro tutti”… nella quale, peraltro, è finito alla lunga per scivolare su terreni piuttosto pericolosi (boutade misogine, collaborazione con i rossobruni di ComeDonChisciotte ecc.).
Da qualche mese, è lo sponsor più noto della MMT in Italia. E’ stato lui a promuovere il meeting di Rimini, al quale, a forza di insulti a coloro che seguono il suo blog, è riuscito a portare qualcosa come 2.000 persone (evidentemente il metodo dell’insulto umiliante, in certi ambienti internettiani, è un’ottima strategia di marketing).
Da quello che scrive, sembra un vero e proprio fanatico della MMT; un “iperkeynesiano” senza se e senza ma, come lo definirebbe Vanetti.
Ma la cosa interessante, è il carattere spiccatamente reazionario della parte più “politica” della sua proposta. Appelli agli imprenditori (visti dal nostro come unica possibile fonte di salvezza del paese… in barba alle lotte dei lavoratori), sparo ad alzo zero contro il sindacato (come se non esistesse una netta distinzione fra base sindacale e burocrazie di apparato), difesa a spada tratta… dell’evasione fiscale, che a suo dire produrrebbe addirittura ricchezza!
Insomma: sia nei contenuti, che nei toni, un drammatico segno della confusione dei tempi; e, mi viene da dire, un prodotto della sensazione di quella sensazione di impotenza, di solitudine e frustrazione che va di pari passo con la perdita di fiducia nella capacità delle “masse” di riprendere in mano il proprio destino… prodotto a sua volta dei tradimenti del movimento dei lavoratori da parte di dirigenze sindacali e politiche sempre più lontane dalla realtà, della frammentazione della società, dell’individualismo internettiano.
Barnard è solo il giornalista che si è occupato di divulgare maggiormente l’MMT in Italia e se ne occupa da almeno due anni. Ha scritto un saggio breve in proposito, consultando degli economisti americani che ha poi invitato in Italia per un summit di tre giorni a cui hanno partecipato più di 2000 persone paganti. E’ lui che ha creato tutto sto tran tran per cui ora si comincia a parlare di spendere a deficit anche in tv e si è parzialmente usciti dal dogma ufficiale dell’austerità. Ne ha parlato talmente tanto che la favella è arrivata fino alle orecchie retrograde e opportuniste dei partiti e di un ignorante di economia come Berlusconi. A Il Fatto Quotidiano sanno benissimo chi è, visto che ne ha sempre dette di cotte e di crude su Travaglio, e a ragione. Magari informiamoci la prossima volta, prima di sentenziare, se no che ci sto a discutere di MMT con chi non sa neanche che è?
@dovic
Ti prego, mollaci con ‘sto Barnard però… Stai rasentando la trollata e secondo me Saint-Just si sta agitando.
Barnana dicerd è chiaramatano. Non sapente un ciarlvo che i 20ecipanti all’incosul movente ntro di Rimini fosseganti, questo mi dro paà un in00 partdizio anche delle puttate che.
Se credi a uno che scrive un libro dove spiega che “la Gallina dalle Uova d’Oro” (scritto così, con tanto di maiuscole) sarebbe stampare moneta a manazza come in Zimbabwe, ma che “il Vero Potere” delle élite ce lo impedisce, secondo me dovresti riflettere prima di metterti a fare spot per il tuo guru in giro per il web.
Mauro, con questa modalità si sfida la querela per diffamazione. Non credo che Barnard adirebbe le vie legali per questo, visto che egli stesso, svariati anni fa, è stato oggetto di quest’espediente legale che serve a imporre la mordacchia a chi fa inchiesta o critica sociale. Però io ogni volta lo faccio notare: la vis polemica e la spinta inerziale di un thread spesso portano a sbavature inutili e potenzialmente nocive. Si possono portare avanti anche le critiche più radicali, ma senza fornire appigli sul personale.
Ecco cosa succede a citare Saint-Just. :-( Chino il capo e offro il collo alla lama.
A parte tutto, leva per favore i paragrafi a rischio se credi, evitiamo menate.
Ho rimescolato il capoverso “incriminato” con un taglia-e-incolla casuale, adesso è molto bello :-))))
Ti sei dimenticato lo scappellamento a destra… O a sinistra, non ricordo
Ma LOL! Questa è la moderazione più strampalata che abbia mai visto. L’unica cosa simile che mi ricordo è un sito dove il moderatore correggeva i messaggi dei fascisti in “Io sono un coglione” lasciando la firma e aggiungendo l’indirizzo IP…
In ogni caso secondo me le proposte di collettivizzazione ed esproprio che fate non cozzano per forza con il keynesismo. Si potrebbe benissimo creare un sistema per integrare le due cose e usare i benefici dell’una e dell’atra. E’ uno spunto su cui riflettere.
Ragazzi, finiamola, se una discussione difficile ma comunque interessante si insterilisce nel misero schema “pro Barnard vs. contro Barnard”, vuol dire che il thread è da chiudere d’imperio. Già l’incancrenimento ultra-ripetitivo e iper-specifico sulla MMT era sfasato, ma se dalla MMT si passa allo scazzo su una singola persona, evidentemente non resta più un cazzo da dire. Non mi sembra giusto né usare questo spazio per insultare Barnard, né tantomeno per fargli pàblic relèscions (nel caso a qualcuno venisse in mente).
Questo è il primo avvertimento.
Ovviamente, non ne seguiranno altri :-)
che sollievo io pensavo fosse il chirurgo resuscitato, comunque dovic senza polemica ti consiglio di leggere i paper di prima mano di galbraith jr che oltre ad essere un economista (che non guasta) e’ anche uno dei padri della modern monetary theory, poi accertarti della praticabilita’ della teoria in italia visto che una condizione di applicabilita’ e’ la sovranita’ monetaria che come ben sai a noi manca da circa 10 anni. inoltre penso che la vulgata dello stampare moneta per uscire dalla crisi stia diventando pericoloso perche’ svia da problemi ben piu’ seri e apre le porte ai marchinni e fornero di turno. Un ultima cosa il thread di mauro si chiama “sfiga e rivoluzione” non “sfiga e riformismo” quindi lasciamo perdere keynes che e’ sicuramente stato un figo 80 anni fa’ ma ora e’ diventato il padre di tutti i riformisti e penso anche che l’esercizio lanciato da mauro fosse quello di cercare pratiche di discontinuita’ rispetto al passato non la continuita’ del keynesianesimo che domina il mondo occidentale dal 1930 ormai.
Giusto.
Ma un Saint-Just contro i riformisti…?
Ti riferisci a John Kenneth Galbraith? Se sì, lo conosco di fama, anche se non ho mai letto i suoi scritti. So che era keynesiano e che ha appoggiato l’MMT, ma non mi risulta fosse uno dei suoi ideatori, non l’ho mai sentito citare in tal senso.
Anyway, accolgo volentieri l’appello di Wu Ming 1, io ho risposto a delle domande e delle provocazioni che già sviavano da altri argomenti di cui sarebbe stato più interessante parlare, ma mi sembrava doveroso farlo per avere un minimo di dialettica e un punto di vista diverso.
Ho tentato di rilanciare la discussione, ma nessuno mi ha risposto in merito, forse la spinta propulsiva del post si è esaurita.
La discussione è degenerata anche perché, in tutta franchezza, non mi piace dover rispondere alle stesse domande cento volte, perché mi sorge il dubbio che il mio interlocutore non abbia un vero interesse a conoscere e, soprattutto, rispettare le mie opinioni, ma soltanto a impuntarsi sulle sue. Questo dopo un po’ rompe. Si scredita l’MMT e va benissimo, ma almeno ci si prenda la briga di conoscerla.
L’MMT per l’Italia prevede l’uscita dall’euro, non solo stampare moneta; Keynes sarà vecchio e “mainstream”, ma il marxismo non è da meno, eppure non lo getto via, lo adatto al presente; il keynesismo non ha mai dominato il mondo, e sicuramente non negli ultimi 60/70 anni; ignorare tutto ciò che meno radicale di noi duri e puri è stupido; ho espresso diffusamente le mie perplessità sul fatto che l’MMT si muova all’interno di una logica capitalista e che non consideri molti altri aspetti politici dello stato sociale attuale, come ho espresso il mio dissenso per certe posizioni assunte da Barnard, eppure a quanto pare sono un fan e lui il mio guru. Ok.
Tutte cose che ho già detto, tutte parole al vento e non lette, a quanto pare. A questo punto continuare da parte mia sarebbe, come suddetto, sterile. Credo che chi avesse interesse a saperne un po’ di più su questi argomenti abbia già abbastanza materiale per farsi un abbozzo di idea o per stimolare la propria curiosità, quindi la pianto qui, con gaudio magno per alcuni.
[…] A tutti coloro che si sentono in grado di leggere per più di cinque minuti di seguito, consiglio questo bellissimo articolo di Mauro Vanetti su Giap, dal titolo (che non rende giustizia al contenuto) “Sfiga e rivoluzione”. […]
Segnalo quest’analisi: THE CHALLENGE OF #SYRIZA
http://www.leninology.com/2012/06/challenge-of-syriza.html
Interessante davvero. Più che altro, pone due questioni. Una è quella del processo, della rapida evoluzione delle prospettive che viene spinta dalla radicalizzazione della base, con un passaggio da istanze riformiste a pressioni… rivoluzionarie. L’altra è quella della dimensione internazionale/internazionalista; se il processo che si sta avviando in Grecia non troverà riscontro in altri paesi, è difficile immaginare uno sbocco positivo.
Può essere utile, a questo proposito, vedere quello che succede da altre parti. In Irlanda, ad esempio, dove la vittoria del “sì” al referendum sul Fiscal Compact è stata liquidata fin troppo velocemente come una vittoria dell’europeismo e, quindi, dell’austerità. Se si considera che nei quartieri popolari di alcune città il “no” ha superato il 70%, questa lettura si dimostra assai meno scontata: http://tinyurl.com/bse5wtn
Per sostenere Syriza, per far sì che le prospettive che si aprono non vengano soffocate nella culla, secondo me è urgente che anche in Italia si comincino a costruire delle campagne “larghe” e radicali a partire magari proprio dal rifiuto del Fiscal Compact. C’è chi sta cominciando a lavorarci. Speriamo bene.
Per me la distinzione importante è tra chi vuole aumentare la ricchezza e chi no, e io sono per il no. La distinzione su come distribuirla (in un modo più di sinistra o in un modo più di destra, ai ricchi o ai poveri, agli imprenditori o ai lavoratori, agli occidentali o a quelli del del “terzo mondo”) per me è secondaria. Per questo non sono nè di sinistra nè di destra. L’obbiettivo per me è far diminuire la ricchezza, ma chiedendo l’aiuto della scienza per (1) sapere bene le conseguenze di vari modi di realizzare questa diminuzione, e (2) trovare modi efficaci per farlo. Finora invece la “decrescita” è una cosa da saggi, articoli sul giornale, movimenti dal basso, predicazioni, ecc. Il primo passo che la scienza deve fare per affrontare il problema è abolire la scienza economica (in tutte le sue varianti).
@domenico
Se il tuo obiettivo è far diminuire la ricchezza (= aumentare la povertà?), la crisi economica ti offre una fantastica opportunità: non ti servono né scienza né movimenti dal basso, basta sederti in poltrona e aspettare. Se poi hai anche la fortuna di un bel terremoto, il processo di impoverimento viene anche accelerato.
Personalmente, continuo a pensare che questo tipo di obiettivi siano snobberie da privilegiati. La gente comune ha bisogno di case, salario, vestiti, libri, servizi ecc.
Segnaliamo: intervista a Stathis Kouvelakis su #Syriza, la sua storia, la sua composizione.
http://ilmegafonoquotidiano.globalist.it/news/una-nuova-radicalit%C3%A0-sinistra
Molto interessante.
Si può fare un comico raffronto con il ritratto di Tsipras pubblicato dalla serissima Ansa… http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2012/06/16/Tsipras-tribuno-anti-memorandum-_7046716.html
Temo che in Italia ci sia una coscienza estremamente flebile dell’attuale situazione politica greca. L’obbiettivo è mantenere in tutti i modi il fragilissimo equilibrio attuale. Ma non può durare (spero).
Syriza non ha vinto le elezioni greche, nonostante abbia fatto un grande balzo in avanti. Sette partiti entreranno in parlamento:
– Nuova Democrazia, 30%
– Syriza, 27%
– Pasok, 12%
– Greci Indipendenti, 8%
– Alba Dorata, 7%
– Sinistra Democratica, 6%
– Partito Comunista Greco, 5%
I padroni e i tecnocrati festeggiano, ma la rivoluzione non sarebbe finita con una vittoria elettorale, né finirà con una sconfitta elettorale – specie se si tratta di una sconfitta molto sui generis come questa.
(…to be continued…)
“La sconfitta non rende ingiusta una causa” scrisse un tale :-)
Il risultato elettorale a favore dei padroni e dei figli di Trojka permetterà (forse) di portare a termine il piano di smantellamento dello stato sociale.
La bomba sociale a orologeria è accesa. E il botto sarà così forte che sarà avvertito anche in Italia da Re Giorgio.
Segnaliamo “Greek elections: Fragile victory of Ruling Class while #Syriza is Enormously Strengthened”
In tre parti: 1 – 2 – 3
L’amico Dario Salvetti ha pubblicato su SenzaSoste una spiegazione, tecnica il giusto, ma secondo me straordinariamente chiara e che va all’essenziale, della questione dello spread, dell’euro e del debito: http://www.senzasoste.it/speciali/spread-andata-e-ritorno-cronaca-di-una-trappola-monetaria
Partendo dalle mistificazioni “psicologiche” in voga sulla crisi, passando per l’impraticabilità delle soluzioni interne al sistema, arriva alla necessaria conclusione rivoluzionaria. Applausi.
In Grecia, i giovani e i lavoratori dipendenti (privati e pubblici) hanno votato contro la Trojka e per Syriza.
L’analisi del voto mostra una forte polarizzazione di classe e di età, con ND e Pasok che prendono voti principalmente dagli over 65 (il 68% degli elettori di quella fascia d’età ha votato Pro-Trojka).
Nella fascia d’età 18-24, soltanto il 2,4% ha votato Pasok.
http://www.leninology.com/2012/06/greek-election-results-analysis.html
La crisi ha spostato – e verosimilmente continuerà a spostare – a sinistra e su posizione anti-Austerity e anti-debito il baricentro della società greca.
Negli USA la sinistra marxista e di movimento s’interroga a partire dai risultati di #Syriza:
What Can American Leftists Learn from the Success of Syriza?
Syriza: Lessons for the Grassroots
Party-Building for the 21st Century
A Response to “Party Building for the 21st Century”
DANKE per lo sbatti all’ OP e a chi è intervenuto
sto cercando in questi giorni di alta pressione e limbo bolognese di riattivare i miei poveri neuroni in vista di future scelte elettorali…
non ci capisco più nulla, ho l’impressione di essere uscito ora da una caverna. Post come questi almeno aiutano a capire da che parte sta il bianco e da che parte sta il nero, sempre che le dicotomie degli ultimi 20 anni abbiano ancora senso tra qualche mese.
ho letto di viral marketing, mi son studiato fondamentali di economia politica (senza ovviamente capirne una fava), mi son trovato per caso a leggere di nuova epica italiana (tutto fa brodo se credi nella Forza, e leggere che Dante non avesse finito l’Odissea mi ha rincuorato), ho incontrato manuali di tattica dialettica da bar (cosa rispondere a X se tira in ballo l’argomento Y), arbitri elegantiarum novissimarum (ma ancora non posseggo tablet, forse sono davvero una scimmia archeologica), ma nessuno che mi aiutasse con una BUSSOLA. Sembra triste, forse lo è, sì, sono un pecorone che se voterà voterà perché avrà assorbito idee altrui, memi politici che mi saranno parsi efficaci, immerso come sono stato nella melma qualunquista… ma forse da queste parti sta il cartello “TUTTE LE DIREZIONI”.
grazie di cuore
In questo post avevo citato la questione della politica dei cambi in Venezuela, come esempio del fatto che un governo di sinistra che entra in contrasto (certo, parziale) col capitalismo non necessariamente favorirà la libera fluttuazione dei cambi, anzi, tipicamente cercherà di imporre una qualche forma di cambio fisso rispetto a una moneta di riserva. Questo è il caso del Venezuela e di Cuba, con tutte le complicazioni della doppia circolazione monetaria che questo comporta vista la difficoltà per quei due Stati a “domare” completamente il dollaro (tenere un cambio fisso *costa* e la burocrazia tende sempre a ricorrere a misure puramente amministrative-repressive per gestire la differenza tra il piano e la realtà).
In questi giorni in Venezuela, con Hugo Chávez incapacitato per note ragioni di salute a tenere le redini del governo, il governo bolivariano ha attuato una svalutazione della moneta pari al 32%. Pare che sul mercato nero i bolívar si scambino coi dollari a un tasso anche peggiore, quindi questo potrebbe non essere sufficiente a placare il mercato monetario parallelo e la speculazione che se ne approfitta.
Siccome la rivoluzione venezuelana ha le sue origini nel Caracazo del 1989, ovvero in un’insurrezione popolare (3000 morti) dovuta a questioni di carovita, la faccenda è estremamente delicata e la controrivoluzione sta già strumentalizzandola. Il rischio che queste misure erodano la base di consenso del chavismo è molto serio. Questo avviene in un contesto molto migliore di quello che si trovano di fronte i lavoratori europei, perché in Venezuela ci sono meccanismi di controllo dei prezzi di molti beni di consumo ed esistono supermercati popolari statali che offrono merci a prezzo calmierato, per non parlare del fatto che i licenziamenti sono molto difficili e che esiste un salario minimo universale indicizzato (per chi ha un lavoro regolare, ma molti lavorano nel “settore informale”). Nonostante queste contromisure messe in piedi dalla rivoluzione bolivariana, la svalutazione minaccia in vari modi il tenore di vita delle classi più deboli.
Il Partito Comunista Venezuelano ha pubblicato un’analisi interessante e approfondita che critica la svalutazione: http://www.pcv-venezuela.org/index.php/en/component/k2/item/1702-la-devaluacion-y-su-incoherencia-con-la-politica-economica-chavista
Anche i miei compagni della tendenza marxista nel PSUV (Lucha de Clases) hanno preso posizione contro questa misura stendendo un comunicato in 14 punti: http://luchadeclases.org.ve/component/content/article/7294-lucha-de-clases
In generale si può dire che l’ala più oltranzista e rivoluzionaria del cosiddetto chavismo, e forse lo stesso Chávez (che si era pronunciato contro questa ipotesi), non condividano questo cedimento alla “mano invisibile”. Ecco il tipo di dibattito che nasce tra rivoluzionari durante un processo rivoluzionario!
Perché ci riguarda questo dibattito in Venezuela? Perché ha molto da dire a chi anche in Italia crede che tornare alla lira e svalutarla sia una panacea, e soprattutto che sia una panacea di sinistra. Un’interessante contributo sul tema da parte di un economista marxista che mi sembra molto acuto e preparato, Guglielmo Carchedi, mostra la complessità della questione ma al tempo stesso anche la necessità (se andate ai tre “punti cardine” finali) di un passaggio a un approccio meno “tecnico” e più di lotta e di buon senso proletario. Ecco il link: http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/1830-guglielmo-carchedi-dalla-crisi-di-plusvalore-alla-crisi-delleuro.html