[Quest’articolo di WM2, ispirato dalle ricerche per Timira, è uscito sul n. 5 di Letteraria, nella sezione monografica “Paesaggio, colonialismo, letteratura”. Lo proponiamo anche qui, come parte della “nube” di contributi che circonda e accompagna il libro.
Dopo la lettura, consigliamo di dare un’occhiata al board di Timira su Pinterest, tenendo in mente che ci sono tante “Somalie”, colonie che attraversiamo nella vita quotidiana, sulle quali si posa uno sguardo mai innocente.
Approfittiamo per ricordare che stasera, mercoledì 13 giugno, presenteremo Timira a Bologna, alla Biblioteca Casa di Khaoula, in Via Corticella, 104 (bus 27) coi prof. Fulvio Pezzarossa e Giuliana Benvenuti dell’Università di Bologna. H. 21.]
La Somalia negli occhi degli italiani (1903 – 1936)
«Una Colonia, un territorio di dominio, vale non soltanto per quello che è, ma anche per quello che può essere. Nella intuizione della sua funzione, nella visione del suo sviluppo, sta la ragione dello sforzo che essa può richiedere allo stato dominante, dei sacrifici che essa reclama dagli uomini che si sono votati a servirla. Saper vedere è, per i forti, volere, e, per chi abbia intero il senso della responsabilità, appassionatamente volere.»
Comincia così uno dei primi capitoli di Orizzonti d’Impero, resoconto di cinque anni da governatore della Somalia (1923-’27), che Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon pubblicò per Mondadori nel 1936.
Saper vedere è volere. La formula, ripulita del suo afflato prometeico, rivela il ruolo centrale che il paesaggio ha svolto nel compiersi dell’impresa coloniale, dai tempi di Cortés fino ai giorni nostri. Paesaggio inteso non come elemento materiale – sinonimo di ambiente o di territorio – ma come prodotto culturale, percezione collettiva che estrae significati dal suolo e dalle piante. Un paesaggio che non si plasma soltanto con l’ascia e con il cemento, ma ancora prima con le storie e con le idee, piantando paletti concettuali tra selvaggio e addomesticato, bello e brutto, sacro e profano. Un paesaggio che, di rimando, influenza pratiche e pensieri.
Nel mondo anglosassone esiste una vasta tradizione di studi sul rapporto tra landscape e identità nazionale, su come questa si costruisce a partire dallo sguardo che i cittadini gettano sulle montagne e i fiumi della Patria, montagne e fiumi che a loro volta contribuiscono a trasformare in cittadini gli uomini che li guardano, suggerendo l’idea di un “confine naturale”, di una “culla della civiltà Tal dei tali”, di un legame privilegiato tra una certa stirpe d’uomini e un determinato ambiente.
Lo stesso meccanismo si ritrova nella formazione delle identità coloniali: dominatori, dominati, sudditi, assimilati… Secondo Andrew Sluyter la principale materia del contendere tra colonizzati e colonizzatori non fu tanto la terra, ma piuttosto la rappresentazione di essa, in quanto strumento di potere e sorveglianza del territorio. Una battaglia per il controllo del paesaggio che si svolse dentro il paesaggio stesso, e i cui risultati persistono ben oltre l’epoca coloniale.
Gli avventurieri e i fuggiaschi del Vecchio Continente, che popolarono il Nord America nel corso del XVII secolo, avevano in testa un’immagine ben chiara del Paradiso terrestre: un giardino bello e ordinato, dal quale Adamo ed Eva erano stati cacciati verso un mondo caotico e selvaggio. Compito dei loro discendenti era trasformare di nuovo la Terra in quell’Eden perduto. Secondo il principio del “vacuum domicilium“, chiunque si dedicasse a tale sforzo sopra un suolo “vuoto”, lo faceva suo grazie alla cura e alla dedizione (husbandry)
Pertanto, la prima “strategia visiva” messa in campo dai coloni, consisteva nel vedere di fronte a sé uno spazio vuoto e selvaggio. Ma poiché quello spazio era tutt’altro che vuoto, questa strategia ne presupponeva un’altra: includere nel paesaggio anche i nativi, guardarli come se fossero “natura”, di modo che la loro azione sul territorio apparisse come un fenomeno naturale quanto l’alternarsi delle stagioni. Così facendo gli europei si sentivano liberi di occupare quello spazio “vuoto”, con una conseguente contrazione dell’uso della terra da parte dei nativi, dunque un infittirsi delle foreste, che in tal modo potevano essere viste come ancora più selvagge, per appropriarsi così di uno spazio più vasto. Cancellando il paesaggio degli indigeni, negandolo alla vista, era possibile sostituirlo con un ambiente primitivo, un territorio disordinato pronto a farsi possedere da chi lo avrebbe trasformato in un giardino ( e in una tomba).
A distanza di trecento anni, lo sguardo dei coloni italiani sulle terre dei Somali utilizzò una versione riveduta e corretta di quell’originaria strategia del vuoto.
Bernardo Valentino Vecchi, nel 1930, riporta queste impressioni sulla città di Mogadiscio:
«Si è molto fabbricato e su un ottimo piano regolatore, riuscendo così a sottrarre gli europei dal vivere in case arabe, spesso a contatto con indigeni… vera piaga per noi che non dobbiamo mai dipartirci dal concetto di mantenere alto il prestigio del bianco, ad ogni costo.
Fra pochi anni Mogadiscio avrà larghe e dritte strade ombreggiate da cocchi che le daranno il civettuolo e pittoresco aspetto di una vera cittadina equatoriale.
Il coloniale appassionato rimpiange molti aspetti pittoreschi della colonia che la civiltà invade sempre più. Fortuna che basta mezz’ora per giungere fra uomini nudi, placidi e silenziosi, che vivono indifferenti a tutto nelle ombrate accolte di conici tucul sul fiume…»
Quegli stessi indigeni che nel contesto urbano – dove non è possibile assimilarli alla natura – sono considerati vicini imbarazzanti, lungo il fiume sono invece placidi, silenziosi, indifferenti come tronchi d’albero. Elementi di quel paesaggio pittoresco che è motivo di rimpianto per il coloniale appassionato.
Fuori dalla città, infatti, si stendono spazi immensi, infiniti, omogenei e quindi vuoti, in quanto privi di segni riconoscibili.
«L’alba ci trova su l’alta duna di Brava di dove ci soffermiamo ad ammirare uno dei più bei colpi d’occhio della colonia: la cittadina candida, raccolta e protesa sul mare immenso, mentre un altro mare, parimente azzurro, così velato di nebbie mattutine, e sterminato, si stende al di là della duna: l’infinita boscaglia.»
Non diversa – se si esclude la tonalità emotiva – è la descrizione del porto di Chisimaio scritta da Bruno Barilli nel 1931:
«Che squallore – una vera tabula rasa. Non un segno di vita. Kisimaio si nasconde, si difende: piccolina, incolore, sommersa dalla sabbia.»
Quando però dalla tabula rasa emerge una presenza umana innegabile (in quanto deposita sul paesaggio evidenze “agricole” riconosciute anche dagli italiani), essa viene minimizzata come irrilevante. Nello sguardo di Vecchi le rive del Giuba sono talmente feconde e produttive che agli indigeni basta niente per farle fruttificare.
«Il terreno della piana, che all’aspetto esteriore è poco promettente, non appena irrigato, si è tramutato per contro in orti verdissimi e lussureggianti di cui un grandissimo numero è dovuto anche solo a rudimentali lavori irrigui di nessun conto, eseguiti dagli indigeni rivieraschi.»
Appena un anno dopo, quelle stesse opere agricole “di nessun conto” venivano attribuite da Bruno Barilli ai progressi che la valle del Giuba aveva conosciuto dopo essere passata dalla Gran Bretagna all’Italia:
«Verso l’interno invece è tutt’altra cosa [rispetto allo squallore della costa]. Questo estremo lembo di colonia ha subito in pochi anni una trasformazione incredibile. Risalendo il corso del fiume le opere agricole han fatto progressi rapidissimi.»
Da notare che Barilli è al suo primo viaggio in colonia, dunque non può riscontrare quei “progressi rapidissimi” in base alla propria esperienza. Eppure, incapace di attribuirli agli indigeni – di vedere cioè la loro capacità di trasformare il paesaggio – li mette sul conto dei brillanti successi italiani.
Un’altra versione della strategia del vuoto, infatti, è quella che nega l’esistenza di un paesaggio indigeno in quanto i nativi non sarebbero consapevoli di esso, non avrebbero cioè quella capacità di vedere il territorio, descritta da De Vecchi nel testo che ho citato in apertura.
Scrive ad esempio Giuseppe Zucca (1926), nel raccontare la sua visita al Villaggio Agricolo Duca degli Abruzzi, sullo Uebi Scebeli:
«Al nostro giungere, una moltitudine di gente nera e lustra sotto il sole meridiano lavorava, vigilata da pochi bianchi, alla costruzione di un canale terziario. Era un andirivieni affiatato e disciplinato di formiche umane, delle quali ognuna portava il suo piccolo carico di terra per alzare la doppia gobba dell’argine. Quella moltitudine operosa serviva inconsapevolmente a questo alto sogno di bellezza latina.»
Di segno molto simile l’osservazione dell’ingegner Robecchi Bricchetti (1903) in merito alla pratica di incendiare la boscaglia per poi seminare il terreno rimasto sgombro, senza darsi pensiero del suo aspetto finale:
«E’ questo un sistema primitivo di coltura e di contemporanea concimazione. Né, in omaggio alla compassata simmetria ed al sentimento di eleganza proprî delle razze latine, si danno pensiero se dal fuoco s’è salvato qualche grosso ed annoso tronco d’albero e se alcuno ne rimase non si curano di abbatterlo o di sradicarlo, ma, girando l’ostacolo, vi seminano tutto intorno.»
Va da sé che questo annientamento strategico del paesaggio altrui si riversa anche sulla resistenza concettuale e pratica dei nativi di fronte a tale annientamento: essa è sconosciuta oppure non riconosciuta. A latere della sua esperienza nei lavori di canalizzazione, il bellunese Edoardo Costantini si lamenta, nelle lettere alla famiglia, di quanto sia difficile istruire la manodopera locale, poiché i somali, appena imparato il mestiere, se ne vanno così come sono venuti, dopo pochi mesi, “senza che si riesca a capirne il perché”. Secondo Vecchi “indurre a lavorare i somali in modo che rendano è pressocché una utopia”, specie se si tratta di pastori nomadi. Questi, non a caso, vedono un paesaggio molto diverso dagli italiani: per loro la ricchezza non è la terra coltivabile, ma un pascolo in boscaglia dotato di un pozzo d’acqua, quella stessa infinita boscaglia dove Barilli non vede altro che orizzonte:
«Quanto orizzonte. Qui lo spazio non è caro. Non è l’aria preziosa e tassata delle nostre città.
Là, in fondo all’orizzonte, dove finisce il nostro dominio, a tre ore di macchina da qui, accade che si presentino armati gli uomini delle tribù limitrofe. Contestazioni di confine. Diritti di pascolo. Intrighi dei Ras vicinanti.»
Eppure, proprio i “diritti di pascolo” e le “contestazioni di confine” dovrebbero dimostrare che quello spazio è in realtà prezioso, e che il conflitto per conquistarlo è tutt’altro che un semplice intrigo.
Un’altra strategia per trasformare il territorio in paesaggio coloniale consiste nel tradurre in sguardo una qualche versione di determinismo ambientale, cioè la teoria secondo la quale il colonialismo europeo era nella natura delle cose, e la Natura stessa lo invocava con le sue caratteristiche. Una tesi che, in forme più “accettabili”, riesce a trovar spazio ancora oggi, quando ad esempio si sostiene che furono i grandi spazi e la spinta demografica europea a rendere inevitabile l’espansione coloniale in Nord America.
La (presunta) verginità dei luoghi è una caratteristica che ben si presta a questa lettura (dato che, nella mentalità dell’epoca, una vergine altro non è che una ragazza da marito, un corpo in attesa di restare in dolce attesa).
Ecco ancora Vecchi:
«La foresta di Mansùr è quanto di più bello e di più africanamente suggestivo ci si possa attendere. Nessuna descrizione dell’immaginoso e sventurato Salgari supera l’impressione profonda suscitata da questo meraviglioso intrico di vegetazione imponente. Vi è stata tracciata una strada da noi, dopo la cessione del Giubaland da parte degli Inglesi che l’avevano lasciata inesplorata. Noi per primi abbiamo violato la verginità di questa barriera di tronchi […] di cui si ebbe ragione soltanto a colpi di scure.»
Preoccupato da quello stesso determinismo ambientale, Edoardo Costantini confida ai parenti i suoi timori:
«Io spero che prima che il sole tropicale abbia da indigenirmi di scappare in Italia.»
Giuseppe Zucca, invece, per un intero capitolo, descrive le donne somale come prodotti della terra a disposizione della madrepatria:
«Belle, bellissime donne – come già da millenni le montagne e le vallate della Penisola – produce all’Italia, ottima buongustaia, la sterminata pianura della Somalia, voluttuosamente distesa sotto il potente sole dell’Equatore.»
Su questo punto, però, bisogna notare come il maschilismo sopravanzi l’atteggiamento coloniale, dato che pure le donne italiane vengono considerate come prodotti della terra.
Infine, poiché anche la colonia deve entrare a far parte della Patria, il suo paesaggio viene nazionalizzato legandolo al nome e alle imprese di martiri, eroi, soldati, pionieri. Come per le montagne nordorientali d’Italia, consacrate e impreziosite dalle battaglie alpine della Grande guerra, così luoghi altrimenti anonimi, per lo sguardo italiano, diventano baluardi, “nostri di diritto”, e altre espressioni simili che abbondano nei resoconti dei viaggiatori, e in particolare in quello di Vecchi.
Su questo intrecciarsi di strategie visive, dove un territorio si fa colonia con gli stessi meccanismi con cui si fa nazione, chiudo la mia analisi del tutto parziale e d’occasione, basata com’è sulla lettura di sei diari di viaggio e di dominio nella Somalia italiana. Ampliando l’indagine, spero che altri possano trovare fecondo questo approccio all’essenza del colonialismo, colta come rapporto triangolare tra nativi, non-nativi e paesaggio.
Bibliografia essenziale
C. M. De Vecchi, Orizzonti d’Impero, Milano, 1936
B.V. Vecchi, Vecchio Benadir, Milano, 1930
G. Zucca, Il paese di madreperla, Milano, 1926
L. Robecchi Bricchetti, Nel paese degli aromi, Milano, 1903
Un bellunese in Somalia : lettere di Edoardo Costantini alla famiglia, 1934-36, Belluno, 2001
B. Barilli, Il sole in trappola. Diario del periplo dell’Africa (1931), Firenze, 1941
A. Sluyter, Colonialism and Landscape, Lanham, 2002
“Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che Filosofia, Religione e Scienza ne hanno fatto.” – U. Galimberti
Estremamente interessante.
Lo sguardo coloniale italiano in fondo ha le sue radici nella stessa costruzione mitologica della nazione italiana e nei processi socio-economici, politici e culturali su cui si è fondata l’unificazione statale dell’Italia.
Basti pensare all’atteggiamento verso le popolazioni meridionali subito dopo la conquista garibaldina e l’annessione. O – in termini ancor più forti ed espliciti – verso la Sardegna.
Giulio Bechi era un ex ufficiale dell’esercito che aveva partecipato alla spedizione militare sull’Isola, nel 1899. Ne aveva tratto un romanzo intitolato Caccia Grossa (non si trattava di caccia alle fiere, ma agli uomini, sebbene appunto ridotti al rango di elementi naturali, di bestie), dal sapore chiaramente “coloniale”. Per rispondere ad alcune critiche, nella prefazione all’edizione del 1914 Bechi aveva giustificato il suo interesse per la Sardegna definendola “la nostra Patagonia”, ossia un luogo esotico e selvaggio in cui era possibile far rifulgere la grandezza d’animo degli spiriti nobili (italiani) dell’epoca, per di più a portata di piroscafo.
Il che si innestava in un approccio diventato egemonico nel corso della seconda metà dell’Ottocento (sulla base di una consolidata tradizione sabauda). Cancellare la storia e la stessa memoria collettiva. Sottrarre valore intrinseco ai luoghi e a chi li abitava (per poi trattare tutto alla stregua di risorse di cui disporre). Costruire un mito identitario subalterno che sancisse l’inferiorità congenita degli autoctoni. Procedere alla loro acculturazione forzata, per estrarli dal buio della loro storia barbarica grazie alla luce della superiore civiltà italiana (qui sto citando e sto citando un sardo).
Tutto sommato, niente che non sia stato sperimentato più volte in epoca moderna e contemporanea dal civile (e civilizzatore) Occidente.
Ma il discorso sarebbe lungo.
In generale mi sembra evidente che questo tema ha delle chiare connessioni con le condizioni attuali dell’Italia. Con le sue condizioni materiali, oltre che con quelle culturali e politiche.
ciao. quello che scrivi mi pare interessantissimo, e ne ho letto poco e niente. in particolare a proposito dell’ “approccio diventato egemonico nel corso della seconda metà dell’ottocento (sulla base di una consolidata tradizione sabauda)”: potresti espandere (sia sull’approccio egemonico che sulla tradizione sabauda precedente), e darmi qualche referenza, magari classici storici e sociologici tagliati “giusti” ;) ?
Eh, difficile condensare qui una risposta che sia allo stesso tempo articolata e sintetica.
Il discorso è lungo e bisognerebbe avere prima di tutto una base storica sulle vicende sarde.
Citerò solo alcuni titoli, che penso potresti procurarti o in biblioteca o su internet.
A parte Giulio Bechi, Caccia grossa, Nuoro, Ilisso, 1997, una pietra miliare nel processo di “orientalizzazione” dei sardi è Antonio Bresciani, Dei costumi dell’Isola di Sardegna comparati con gli antichissimi popoli orientali, Napoli, 1850.
Poi c’è il famoso saggio di Alfredo Niceforo (scuola lombrosiana) sulla delinquenza in Sardegna, del 1897.
Per venire a qualcosa di più accessibile, direi: Michelangelo Piras, La rivolta dell’oggetto: antropologia della Sardegna, Milano, Giuffrè, 1978.
Ed anche: Franciscu Sedda, La vera storia della bandiera dei sardi, Cagliari, Condaghes, 2007.
Sul periodo sabaudo in Sardegna, prima dell’unificazione italiana, due testi che si possono reperire con relativa facilità sono: Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari, Laterza, 1984. E anche: Federico Francioni, Vespro sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794, Cagliari, Condaghes, 2001.
Molta della riflessione su questi temi comunque è ancora in corso, soprattutto perché c’è da estrarli dalla lettura parziale e tendenziosa generata dal mito tecnicizzato dell’identità sarda, del sardismo, ecc.
In questa sede non riesco ad essere più esaustivo di così. So che è poco. Per evitare di occupare spazio indebitamente qui su Giap posso giusto rimandare al mio blog (chiedo venia, so che non è elegante).
grazie mille!
Qualche settimana fa ho trovato su una bancarella la “Guida all’Africa Orientale Italiana” del 1938, pubblicata dalla Congregazione Turistica Italiana. Sto aspettando che smetta di puzzare di fogna (non è una battuta, deve essere uscita da una cantina allagata) per leggerla, perché sono curioso di vedere come si interseca lo sguardo coloniale con quello del turismo dell’epoca.
Su ebay la vendono a prezzi che mi sembrano un po’ esagerati (io ho pagato 12 euro); è stata comunque scannerizzata e si trova qui
splendido post. e a leggerlo mi è tornata in mente la splendida ‘intervista impossibile’ calvino-montezuma (il montezuma di carmelo bene):
http://www.youtube.com/watch?v=jYrcNjN_J0M
Per chi è interessato a queste tematiche, segnalo che è uscito il primo numero di “Orientalismi Italiani”, rivista/libro curata da Gabriele Proglio, con l’intento di studiare “le rappresentazioni, gli immaginari, i tempi e gli spazi delle forme italiane assunte dall’orientalismo”.
Qui trovate l’introduzione al volume dello stesso Proglio:
http://bit.ly/NevmNz
E qui una scheda di presentazione:
http://bit.ly/M433SA
Interessante, veramente. Merci.
Intanto mi è capitata sotto gli occhi una foto incredibile, che mi sembra molto adatta a questo post…sul paesaggio coloniale.
Si trova nella terza pagina di questo pdf :
http://www.unige.ch/ses/geo/publications/leglobe/volumes/Globe2008_Article6_.pdf
Scusate se metto il link a tutto il papiello, non so se e come si può estrapolare la singola pagina.
Post interessantissimo. Ho comprato Timira oggi, quindi non posso commentare il libro, ma le riflessioni di Wu Ming 2 sul paesaggio sono una miniera di stimoli. Provo a coglierne qualcuno, in maniera un po’ disordinata.
Scrive Due: “Un’altra versione della strategia del vuoto, infatti, è quella che nega l’esistenza di un paesaggio indigeno in quanto i nativi non sarebbero consapevoli di esso, non avrebbero cioè quella capacità di vedere il territorio”
Sarebbe oltremodo interessante sapere quali erano, invece, le rappresentazioni che i nativi avevano del proprio territorio, come cioè essi se lo figuravano in quanto, appunto, ‘paesaggio’. Nel testo c’è un accenno a questo aspetto quando si dice che i pastori nomadi “vedono un paesaggio molto diverso dagli italiani: per loro la ricchezza non è la terra coltivabile, ma un pascolo in boscaglia dotato di un pozzo d’acqua, quella stessa infinita boscaglia dove Barilli non vede altro che orizzonte”.
Mi rendo conto che probabilmente su questo ci sono meno fonti e la ricostruzione è più difficile, mi chiedo se Wu Ming 2 abbia trovato qualcosa a riguardo.
Ricordo che anche la lettura di Manituana aveva suscitato riflessioni analoghe, sulla diversa percezione del territorio da parte di nativi e coloni.
In generale, credo che il ‘paesaggio’ inteso come esito delle relazioni mutuamente costitutive fra uomo e ambiente, sia una categoria concettuale complessa, densa di significati e utile nella ‘ricerca di senso’ anche in relazione alle condizioni attuali dell’Italia come giustamente sottolinea Omar Onnis. Più volte, su Giap, si è parlato ad esempio della dimensione “territoriale” delle più recenti e significative esperienze di lotta nel nostro paese.
Un filone di pensiero molto interessante (la “scuola territorialista”) esamina i processi ciclici del capitale come processi di territorializzazione-deterritorializzazione, intesi rispettivamente come l’esito della coevoluzione dei rapporti di lunga durata fra uomo e ambiente che plasmano il territorio creando paesaggio e i molto più rapidi processi tipici della fase della globalizzazione che riducono il territorio a mero supporto tecnico dei processi di produzione.
Ciascun territorio si fa paesaggio in quanto è il portato di un’accumulazione di atti ‘territorializzanti’: costruzione di insediamenti, strade, messa a coltura di terreni (e successivo abbandono), bonifiche, opere idrauliche, ma anche l’insieme delle relazioni umane che fanno da contorno a questi processi. Ne consegue che un ‘territorio’ è ‘paesaggio’ in quanto esito di un processo che gli conferisce una ‘profondità storica’.
E’ proprio la rimozione di tale profondità storica che accompagna sempre i processi di deterritorializzazione o anche quelli di territorializzazione forzata, come quelli descritti da Wu Ming 2 e, in generale, tutti quelli attuati nell’ambito di imprese coloniali. Questo è il presupposto per poter poi considerare un territorio come ‘vergine’ come sottolineato nel post. Per questo (mi) chiedevo se era possibile ricostruire il ‘paesaggio dei nativi’.
Ma la stesso vale anche per i processi di ‘territorializzazione forzata’ che avvengono al di fuori dell’ambito del colonialismo. Se, ipoteticamente, decidessi di costruire una pesante infrastruttura ferroviaria in una stretta valle di montagna, nella logica deterritorializzante del capitale considererei la valle semplicemente come lo ‘spazio’ nel quale l’opera si inserisce, mero supporto tecnico o al più fattore produttivo, al pari del capitale e lavoro, al dispiegamento del processo di produzione/costruzione. Da questa prospettiva, mi sarebbe impossibile capire ed analizzare eventuali resistenze da parte della popolazione alla realizzazione dell’opera.
Potrei farlo solo se tenessi conto della profondità storica che conferisce a quello spazio identità storico-culturale, che lo trasforma in ‘luogo’ e che fa dell’insieme dei luoghi un paesaggio.
Ma si rischia di divagare e non vorrei andare OT. Quindi per adesso chiudo e cerco di ritagliarmi un po’ di tempo per leggere Timira. Ma visto che le connessioni e i rimandi non sono mai casuali, segnalo per chi volesse approfondire il pensiero territorialista questo libro:
http://www.anobii.com/books/Il_progetto_locale/9788833921501/012c6e5e8bc1865381/
Qualcuno fra i più ‘anziani’, o magari qualcuno che ha appena finito di leggere l’Aspra Stagione sarà attratto dal nome dell’autore….
Cari Wu Ming,
mi chiamo Paolo Rosi e sono un giovane laureando in Storia all’università di Bologna. Sto scrivendo la tesi sul ruolo di Sylvia Pankhurst e delle donne in genere nella resistenza etiope. A questo proposito vi chiedo se siete in possesso di informazioni e/o materiale che potrebbe aiutarmi nelle ricerche.
So bene che siete estremamente impegnati e altrettanto bene ho letto le istruzioni per scrivervi, ma ho deciso di tentar lo stesso il colpo (anche su Giap!)
Vi seguo da moltissimo e vi stimo altrettanto, quindi nessun rancore se non avrò risposta.
Cordiali Saluti,
Paolo Rosi
Temo che tu sappia già più di quanto sappiamo noi. Richard Pankhurst, il figlio di Sylvia, è uno dei massimi storici della guerra d’Etiopia, della resistenza etiope al dominio italiano e della storia post-coloniale di quel paese. Nel 2003 ha scritto un libro sull’attivismo di sua madre, questo, ma certamente lo conosci già:
http://www.libreriauniversitaria.it/sylvia-pankhurst-counsel-for-ethiopia/book/9780972317238
Si, sto giusto aspettando che mi arrivi, grazie comuque!
[…] Ming 2, on the other hand, has recently published an article on the Italian review Letteraria – “La Somalia negli occhi degli Italiani (1909-1936)” (2012) – which focuses on the symbolic connections between the physical land to be conquered by […]